Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica 21-22-23 aprile 2010
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA
C’È LA PAROLA-CHIAVE “EUAGGELÌA, LA BUONA NOTIZIA, IL VANGELO” …
Abbiamo concluso l’itinerario della scorsa settimana affermando che tutte le pensatrici e tutti i pensatori che, dal III secolo a.C. al IV secolo d.C., riflettono su questo vasto territorio – su cui stiamo viaggiando – che va dalle Colonne d’Ercole al mar Cinese (dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico sul territorio euro-asiatico) si pongono quattro domande significative ed inquietanti: come mai nel mondo c’è tutto questo male? È possibile trovare una via di salvezza dal male? Il bene ha una sua forza propulsiva? I monarchi assoluti vengono considerati, per ignoranza, come se fossero delle divinità, ma in che cosa consiste quel concetto che è stato denominato “Regno di Dio” o “Regno della Giustizia”?
Chi scrive durante questa età – esprimendosi in greco, in latino, in sanscrito, in ebraico, in cinese – riflette soprattutto su queste importanti domande di carattere esistenziale e da questa riflessione, come stiamo constatando strada facendo, nascono significative opere che dimostrano come sia stato fatto un grande sforzo creativo per investire in intelligenza.
Sui temi che derivano dai quattro interrogativi che abbiamo enunciato poco fa c’è un’opera greco-ellenistica, scritta in forma epistolare nel I secolo d.C., che dà forma ad un itinerario culturale che inciderà, e incide tuttora profondamente, sulla Storia del Pensiero Umano. Il personaggio che ha composto – nella sua parte fondamentale – quest’opera, formata da “Lettere”, si chiama (e non c’è persona che non l’abbia sentito nominare) Paolo di Tarso. Con questo personaggio noi (molte e molti di noi) abbiamo già viaggiato insieme, in giro per il bacino del Mediterraneo, una decina di anni fa in occasione della fine del secondo e dell’inizio del terzo millennio.
La scorsa settimana abbiamo detto che le “Lezioni” prodotte allora (nel 1999-2000-2001) – sebbene strutturate dal punto di vista didattico – erano appuntate sotto forma di canovaccio e il fascicolo del REPERTORIO E TRAMA … era ridotto al minimo indispensabile. Ora si presenta l’opportunità di comporre delle Lezioni e dei Repertori formati da testi scritti in maniera più organica in modo da poter essere collocati sui nostri siti – www.inantibagno.it e www.scuolantibagno.net – così ben predisposti dai mastri di rete Franco e Luigi.
L’autore di quello che viene considerato l’Epistolario più famoso della Storia del Pensiero Umano compare quindi sulla scena in età ellenistica, nel cuore dell’ellenismo greco e, quindi, come si fa a non incontrarlo?
Chi è Paolo di Tarso? Come interpreta la cultura dell’Ellenismo? Come usa, soprattutto per scrivere, la lingua greca della koiné? Quali viaggi intraprende? E qual è la “buona notizia” (in greco “eu-aggelìa”), che vuole caparbiamente portare in giro sul territorio dell’Ecumene fino a Roma che, nel frattempo, è diventata la capitale di un nuovo vasto impero? Paolo di Tarso è convinto che questa “buona notizia” (“eu-aggelìa”) possa essere una risposta nei confronti del molto male che lui vede intorno a sé e che possa dare una spinta alla costruzione del bene. Quante domande interessanti ci si pongono di fronte!
Per cominciare a dare una risposta a questi interrogativi dobbiamo, in partenza, osservare uno degli oggetti, una delle Lettere, che fa parte dell’Epistolario di Paolo di Tarso. Il testo di questa Lettera, indirizzata “ai Romani”, è stato sottoposto nei secoli, e tuttora viene sottoposto, a continui “commenti” e studi. Il catalogo delle opere di commento e di studio della Lettera ai Romani di Paolo di Tarso è lungo migliaia di pagine: quanti viaggi di studio potremmo fare solo su questo testo cardine della cultura dell’Ellenismo! Di conseguenza, avviciniamoci a questa materia con la dovuta umiltà.
Perché citiamo come punto di partenza di quest’ultima parte del nostro Percorso sul territorio della “sapienza poetica ellenistica” alcuni frammenti del testo della Lettera ai Romani? Perché questi frammenti (della Lettera ai Romani ce ne occuperemo in modo organico nel prossimo Percorso) sono direttamente collegati con gli interrogativi che si sono poste tutte le persone le quali – durante il periodo dell’ellenismo greco e latino, dell’indo-ellenismo e delle Cento scuole cinesi – hanno riflettuto sui temi dell’esistenza umana chiedendosi: è possibile trovare una via di salvezza dal male e il bene ha una sua forza propulsiva? Tutte le studiose e gli studiosi di esegesi indicano il testo della Lettera ai Romani con l’aggettivo “turbolento” anche se l’inizio, il proemio, si presenta come un momento di calma e di tranquillità.
Intanto cominciamo col dire che tutte le Lettere dell’Epistolario di Paolo di Tarso iniziano con un “proemio (con un’introduzione)” nel quale lo scrittore si presenta, dice a chi scrive, perché scrive e che cosa si propone di dire. In tutte le Lettere di Paolo di Tarso il “proemio” è piuttosto breve (poche righe) tranne che nella Lettera di Romani. Nella Lettera ai Romani il “proemio” è molto ampio perché Paolo vuole, con delicatezza, sfiorare in anticipo una serie di temi che poi tratterà con asprezza. Nel testo del “proemio” della Lettera ai Romani ci sono tutti gli ingredienti necessari – chi è l’autore, che cosa vuole scrivere, a chi scrive e perché scrive – ma Paolo, in questo caso, utilizza questi ingredienti con sfumature fuori dal comune. Il testo del “proemio” della Lettera ai Romani è compreso nei primi 17 versetti del primo capitolo ma col versetto 15 finisce la delicatezza e col versetto 16 compare l’asprezza, fortemente condizionata dall’emozione, dello scrivano.
E ora leggiamo il “proemio” della Lettera ai Romani di Paolo di Tarso. Ma prima dobbiamo fare alcune considerazioni e credo sia superfluo ricordare che ci troviamo di fronte ad un magistrale esempio di Letteratura ellenistica: le parole fondamentali dell’Ellenismo condizionano il testo a cominciare dal termine “ecumenico” che entra a far parte della cultura della Cristianità e sarà proprio la cultura della Cristianità che, ufficialmente, continuerà ad utilizzarlo. Ancora oggi quando pensiamo al termine “ecumenico” noi pensiamo a qualcosa che riguarda la Chiesa e non pensiamo alla “sapienza poetica ellenistica” che ha coniato il termine, d’altra parte la Chiesa sviluppa la sua dottrina in seno alla cultura della “sapienza poetica ellenistica”.
Queste considerazioni ci devono far riflettere, così come hanno fatto riflettere i Padri conciliari nel 1965. Noi ci siamo completamente assuefatte ed assuefatti: per ignoranza, per pigrizia, per disattenzione, per mancanza di strumenti di alfabetizzazione non predisposti dalle Istituzioni (questo elenco è stato fatto dai Padri conciliari). Noi ci siamo completamente assuefatte ed assuefatti alle parole della Letteratura dei Vangeli – di cui le Lettere di Paolo fanno parte e ne costituiscono il primo importante segmento – tanto che la valenza culturale e la carica intellettuale di queste parole quasi sempre (ma non vogliamo generalizzare) ci sfugge.
Bisogna dire con molta chiarezza – anche perché è scritto nei Documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II (che un bel dì studieremo) – che quasi sempre queste parole (e cito parafrasando gli Atti del Concilio Ecumenico, 1962-1965), anche per il valore sacrale che hanno assunto (e questo, naturalmente – ribadiscono i Padri conciliari –, non è un fatto negativo), finiscono per “scivolare addosso” a chi le sta a sentire, e perciò non vengono ascoltate con la dovuta “cognizione di causa” e con la necessaria “attenzione culturale” o per un eccesso di reverenza o per un profondo diniego, e (in questo caso) tanto la reverenza quanto il diniego sono un ostacolo alla comprensione del testo e all’esercizio dell’investimento in intelligenza.
Quindi il compito della Scuola pubblica non è quello di “affermare” né di “negare” la sacralità delle parole dell’Epistolario paolino ma di porsi con “spirito di alfabetizzazione” nei confronti di questa materia. Che cosa significa “con spirito di alfabetizzazione”? Significa che la Scuola pubblica, con il dovuto rigore didattico, deve occuparsi di questa Letteratura in ragione della valenza positiva (formale e contenutistica) che possiede all’interno del vasto territorio della “sapienza poetica ellenistica” in modo da essere a servizio di chi crede alla sacralità delle parole contenute nella Letteratura dei Vangeli perché la persona possa rafforzare la propria competenza in modo da credere meglio (multum), in modo da dare “qualità” alla propria fede; contemporaneamente, la Scuola pubblica deve essere a servizio di chi pensa alle parole contenute nella Letteratura dei Vangeli in termini non sacrali perché la persona possa rafforzare la propria competenza su temi che devono essere ritenuti determinanti per l’acquisizione di sempre più ampie conoscenze. La Scuola pubblica non deve dire (imporre) a che cosa la persona debba credere – ognuno deve autonomamente aderire alla propria fede –, ma la Scuola pubblica deve operare perché la persona possa acquisire strumenti (competenze) che possano dare più “qualità” alle proprie scelte ideali, orientandole (per quanto è possibile) verso il Bene.
E ora leggiamo il testo del “proemio” della Lettera ai Romani di Paolo di Tarso:
LEGERE MULTUM….
Paolo di Tarso, Lettera ai Romani 1, 1-17
Salve! Vi scrive Paolo, servo di Gesù Cristo. Dio mi ha scelto e mi ha fatto apostolo perché porti la buona notizia [il vangelo]. Dio, nella Bibbia per mezzo dei suoi profeti aveva già promesso questo messaggio di salvezza. Esso riguarda il Figlio di Dio Gesù Cristo, nostro Signore. Sul piano umano egli è discendente da Davide, ma sul piano dello Spirito che santifica, Dio lo ha costituito Figlio suo, con potenza, quando lo ha risuscitato dai morti.
Da Gesù Cristo io ho ricevuto il dono di essere apostolo: perché lui abbia gloria, devo portare tutti i popoli [tutta l’Ecumene] a credere in Dio e a ubbidirgli nella fede.
Tra questi siete anche voi tutti che vivete a Roma. Dio vi ha amati e chiamati per appartenere a Gesù Cristo ed essere il suo popolo. Dio nostro padre e Gesù Cristo nostro Signore diano a voi tutti grazia e pace.
Prima di tutto, per mezzo di Gesù Cristo, io ringrazio il mio Dio: perché in ogni parte del mondo [nell’Ecumene] si parla della vostra fede. Dio che io servo con tutto me stesso annunziando il Figlio suo, sa che dico la verità e che vi ricordo sempre, instancabilmente, nelle mie preghiere. Sempre io chiedo a Dio di poter finalmente trovare il modo di venire da voi: perché io ho il desiderio ardente di vedervi e di fare anche voi partecipi dei doni dello Spirito, che vi rendano ancora più forti. Ma soprattutto io desidero vedervi, perché in mezzo a voi anch’io possa sentirmi confortato da quella che è la vostra e la mia fede.
Voglio che voi sappiate questo, fratelli e sorelle: già molte volte avevo deciso di venire a raccogliere anche tra voi qualche buon frutto, come l’ho ottenuto tra altri popoli, ma fino a ora non mi è stato possibile. Il mio compito è di rivolgermi a tutti: ai popoli di civiltà greca e agli altri, alla gente istruita e agli ignoranti, e, per quanto dipende da me, sono pronto ad annunziare il messaggio di Cristo anche a voi che siete in Roma.
Io non mi vergogno di dare la buona notizia [il messaggio del vangelo], perché è potenza di Dio per salvare chiunque ha fede, prima l’Ebreo e poi il Greco e tutti gli altri. Questo messaggio rivela come Dio, mediante la fede, riabilita le persone davanti a sé. Lo afferma la Bibbia: La persona giusta per fede vivrà. …
Abbiamo detto che noi siamo assuefatte e assuefatti, ci siamo abituati, per tradizione, a sentire queste parole e non ci stiamo troppo a riflettere sopra. Invece qualche riflessione va fatta e, per prima cosa, dobbiamo dire che il linguaggio usato da Paolo di Tarso, il modo in cui utilizza la lingua greca, la lingua comune della koiné ellenistica, è davvero sorprendente: per nessun motivo questo testo, nel I secolo d.C., può essere considerato di carattere “religioso” . Non è facile per noi rendercene conto direttamente ma il linguaggio di Paolo di Tarso è veramente laico, popolare, diretto, aperto, esplicito, spontaneo: nella sua scrittura non c’è proprio nulla di “sacrale” e l’Epistolario di Paolo di Tarso risulta essere l’opera più laica di tutta la Letteratura dell’Ellenismo nel momento in cui il pensiero dell’Epicureismo, dello Stoicismo e persino delle Scetticismo tende (come abbiamo studiato) ad assumere caratteristiche religiose espresse in termini ridondanti.
Paolo, quando scrive la Lettera ai Romani, si trova, probabilmente, a Corinto: ha già viaggiato molto sul territorio dell’Ellade e su quello mediorientale (dove è nato) e ora vorrebbe andare verso Occidente, vorrebbe arrivare, come scrive, fino nella penisola Iberica. Siamo, probabilmente, nella primavera dell’anno 57 e Paolo sta pensando di andare a Roma dove non è mai stato. Paolo sa che intorno alla Sinagoga di Roma, già dal III secolo a.C., si riunisce una fiorente comunità ebraica nella quale c’è (si presume ci sia) un nucleo di persone che ha ricevuto e accolto la “buona notizia”, il messaggio della risurrezione di Gesù.
La “buona notizia” della risurrezione di Gesù – secondo lo stile con cui scrive Paolo – non si presenta come un avvenimento “mitico e sacrale” che stimola atteggiamenti di carattere “religioso” ma, con parole semplici, a cominciare dalla dicitura “buona notizia”, viene annunciata come un fatto profondamente “umano e materiale (Dio ha ridato vita alla carne violentata di Gesù)” e questo fatto materiale di natura esistenziale stimola il sentimento più popolare e laico che ci sia, già caro ad Esiodo: la speranza, la speranza che, con la fede (sulla fiducia), ci si possa opporre al male, alla sofferenza, all’ingiustizia.
Paolo accompagna il nome di Gesù Cristo (ricordiamoci che “Cristos”, in greco, significa “Unto” ed è il termine che porta sul terreno dell’Ellenismo il concetto ebraico del “re scelto da Dio per guidare il suo popolo”, l’Unto del Signore). Paolo accompagna il nome di Gesù Cristo con l’appellativo di “Kyrios, il Signore, l’autorevole Signore” come dire “questa persona è proprio un gran Signore: per come si comporta moralmente, per la sua cultura e per la sua saggezza dovrebbe governare”. La parola ellenistica “Kyrios, il Signore” ha fondamentalmente un significato di carattere morale e intellettuale e difatti le Massime capitali di Epicuro – che nel I secolo d.C. stanno avendo uno straordinario successo, come catechismo, in tutta l’Ecumene – s’intitolano, in lingua originale, Kyriae Doxai, come dire Le signore sentenze sul piano della morale governata dalla ragione. La scelta che Paolo fa di mettere accanto al nome di Gesù di Nazareth il termine “Kyrios, il Signore autorevole” è significativa e naturalmente scarta la dicitura più altisonante che viene usata per esaltare la divinità dei monarchi assoluti dell’epoca: per magnificare la signoria del sovrano divinizzato si utilizza il titolo di “Despotes (il supremo Signore)” che, col tempo, assumerà una valenza negativa.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete conosciuto una persona che potete definire con il termine di “despota”?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Le espressioni “il Signore, oh Signore, mio buon Signore!”, derivanti dal termine ellenistico “Kyrios”, diventano determinanti nel “glossario paolino” sul quale si sviluppa la letteratura, la dottrina, la liturgia cristiana.
Molto probabilmente Paolo, da Corinto, nella primavera dell’anno 57, sta pensando di andare a Roma dove non è mai stato. Paolo sa – abbiamo detto – che intorno alla Sinagoga di Roma, già dal III secolo a.C., si riunisce una fiorente comunità ebraica nella quale c’è (si presume ci sia) un nucleo di persone che ha ricevuto e accolto la “buona notizia”, il messaggio della risurrezione di Gesù, ed è a questo piccolo nucleo, presso la Sinagoga, che Paolo si rivolge; ma, probabilmente, a questo piccolo gruppo appartengono anche persone – cittadine e cittadini romani – che non sono Ebrei, e questo fatto costituisce un problema, ed è uno dei temi dominanti della polemica (la prima consistente polemica culturale: la “buona notizia” è da dare solo agli Ebrei o a tutti i popoli dell’Ecumene?) che Paolo di Tarso affronta nelle sue Lettere: lui ha già fatto una scelta che fa molto discutere (e non solo discutere) ed è un argomento che affronteremo strada facendo. D’altra parte, sul territorio dell’Ecumene, i punti di riferimento dell’ebreo-fariseo (studieremo anche, strada facendo, che cosa significa essere “fariseo”) Paolo di Tarso sono le Sinagoghe presenti in tutte le città, grandi e piccole, dell’Ellenismo.
Paolo di Tarso porta, prima di tutto, la “buona notizia” in Sinagoga perché – e su questo concetto concordano tutte le studiose e gli studiosi – non vuole propriamente fondare una nuova religione ma vuole “riformare profondamente l’Ebraismo alla luce della cultura ellenistica” e difatti predica, nella lingua e secondo gli schemi della koiné greca, la risurrezione di Gesù di Nazareth in quanto “rabbi ebraico”. Secondo la visione di Paolo di Tarso – che non ha conosciuto direttamente Gesù di Nazareth – un “rabbi ebraico” può far dilatare (per “grazia” di Dio), attraverso gli strumenti dati dall’Ellenismo, la predicazione di un messaggio di salvezza che vada al di là dei confini ristretti della terra di Canaan dando una nuova linfa vitale ai valori dell’Ebraismo: Paolo pensa che la “buona notizia” possa svecchiare e dar nuovo significato al patrimonio del pensiero ebraico già portatore di elementi significativi che la predicazione di Gesù di Nazareth (su Gesù di Nazareth, per quello che lui ha potuto sapere) ha messo in evidenza.
E a questo proposito Paolo scrive, sotto forma di mittente, nel testo del “proemio” che abbiamo letto: «Dio, nella Bibbia per mezzo dei suoi profeti, aveva già promesso questo messaggio di salvezza. … Sul piano umano – prosegue Paolo – Gesù di Nazareth è discendente da Davide [è il Cristos, l’Unto del Signore]». E abbiamo già ricordato come il concetto ebraico di “Unto del Signore” entra nel territorio dell’Ellenismo attraverso il termine greco “Cristos”: che, per mezzo del “glossario paolino”, diventa una delle parole-chiave della dottrina, della liturgia e della letteratura cristiana.
Paolo ha delle notizie ma non conosce nessuno nella comunità ebraica di Roma e, quindi, deve presentarsi: deve definire bene se stesso e anche in che cosa consiste la sua “fede”, e questa operazione (di carattere autobiografico e intellettuale) Paolo la compie solo nel “proemio” della Lettera ai Romani. Per presentarsi a Roma – dove nessuno lo conosce – ha bisogno di una specie di “biglietto da visita” per poter dire: «Ecco chi sono ed ecco ciò in cui credo». Cerca, quindi, di esprimere l’idea della “fede” in modo consono al linguaggio dell’Ellenismo perché possa essere ben capita da coloro a cui scrive, e lega, di conseguenza, il concetto della “fede” a quello della “speranza”: un concetto che aveva elaborato da tempo facendo anche tesoro delle sue conoscenze di Letteratura greca e di cultura derivante dalla “sapienza poetica orfica”, in particolare dai poemetti di Esiodo [Le Opere e i Giorni, Teogonia] nei quali, come ben sappiamo, la parola “speranza”, “elpis” in greco, ha un ruolo centrale.
Come si esprime Paolo per dire “a chi scrive” nella Lettera ai Romani? Paolo scrive: « … a voi tutti che vivete a Roma. Dio vi ha amati e chiamati per appartenere a Gesù Cristo ed essere il suo popolo.».
Nella Lettera ai Romani – e non a caso si parla del testo più ellenistico di Paolo di Tarso – c’è una curiosità da notare perché, in genere, Paolo scrive alla Chiesa (all’Assemblea dei fedeli, in greco “Ekklesìa”) che è in Efeso, in Colossi, in Corinto (diventano poi, anni dopo, le tradizionali sette Chiese presentate, in modo un po’ mitico, dal testo degli Atti degli Apostoli): ebbene, nella Lettera ai Romani non c’è menzione del termine “Chiesa, dell’Assemblea dei fedeli, dell’Ekklesìa”. Le studiose e gli studiosi di esegesi discutono tuttora su questo fatto: forse Paolo pensa che l’esperienza di gruppi chiusi, come era andata formandosi sullo stile delle comunità della diaspora ebraica, non sia poi così valida per divulgare la “buona notizia”? Strada facendo, difatti, studieremo a quali scontri – nei quali Paolo è coinvolto in prima persona – faccia da palcoscenico la struttura auto-referenziale delle Chiese (delle Ekklesìe).
Paolo, nel “proemio” della Lettera ai Romani, vuole mettere le premesse per un incontro, e anche questa idea non è presente nelle altre Lettere dove scrive a comunità con le quali è stato a diretto contatto e dalle quali, quasi sempre, si è allontanato in polemica. L’incontro con i Romani a cui Paolo scrive, da che cosa è motivato? Paolo scrive nel “proemio” della Lettera: «…io ho il desiderio ardente di vedervi e di fare partecipi anche voi dei doni dello Spirito». Quindi Paolo dichiara di avere una missione da compiere di carattere “universale”, o per meglio dire, in termini ellenistici, di carattere “ecumenico”. Difatti non c’è nulla di più ellenistico del catalogo dei “doni dello Spirito Santo”, perché voi sapete che i “doni dello Spirito Santo” corrispondono a sette “virtù” che sono state (nel corso dei secoli) già ben elaborate dalla cultura greca: la sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà, il timor di Dio. Queste virtù – come sappiamo – sono obiettivi da raggiungere già presenti in tutti i “catechismi” prodotti dalle nuove Scuole ellenistiche.
Qual è la novità che Paolo di Tarso mette in evidenza nel presentare i “doni dello Spirito Santo”? La novità è che il percorso di acquisizione di queste “virtù” può non solo migliorare la qualità della vita – secondo la proposta delle nuove Scuole ellenistiche – ma può, per “grazia di Dio”, farci risorgere dalla morte: questa è la “buona notizia” che non facile da far circolare.
Paolo sente di dover migrare verso Occidente (per giunta il baricentro del potere imperiale si è spostato verso Occidente, la capitale del potere è Roma) per conoscere gente diversa, e sente la tensione di uscire dall’ambito di quelle Ekklesìe che, in Oriente, tendono un po’ troppo a chiudersi in se stesse e a lamentarsi. Sarà per questo motivo che nel “proemio” della Lettera ai Romani Paolo rende grazie a Dio mettendo in evidenza che bisogna sempre prima di tutto “ringraziare”. Come se nelle Ekklesìe che lui conosce, e con cui è in comunicazione, abbia sentito troppo spesso dire: «Purtroppo siamo pochi, siamo sempre gli stessi, non riusciamo a fare quello che ci proponiamo, ci mancano le risorse». E Paolo difatti, in diverse delle sue Lettere, inviate a comunità che lui conosce bene e che si lamentano in continuazione, scrive: «Ma possibile che non abbiate proprio nulla per cui ringraziare Dio? Non capite che il solo fatto di vivere la fede in un contesto così pagano è un dono di Dio?». Nel “proemio” della Lettera ai Romani Paolo sembra mettere le mani avanti: «Io ringrazio Dio perché ci siete, ringrazio Dio per la vostra fede, pazienza, perseveranza», e scrive ancora: «Io ringrazio il mio Dio: perché in ogni parte del mondo [nell’Ecumene] si parla della vostra fede». Probabilmente a Roma non è sorta una Ekklesìa vera e propria ma ci sono individui e piccoli gruppi che, forse, condividono le idee di Paolo. Per questo Paolo fa presente il fatto che lui ha cercato più volte di andare a Roma da loro, ma non gli è stato possibile e così afferma di sentirsi debitore verso tutti.
A questo punto però, repentinamente, il tono confidenziale finisce: «Io non mi vergogno – scrive Paolo (e c’immaginiamo che alzi anche la voce mentre detta la sua Lettera) – di dare la buona notizia [di annunciare il messaggio del vangelo]». Con questa perentoria affermazione il tono delicato e confidenziale lascia il posto al tono aspro.
Prima di proseguire sulla scia del “tono aspro”, con cui Paolo di Tarso scrive il primo capitolo della Lettera ai Romani, dobbiamo tirare le fila su ciò che ci ha consentito di dire il testo del “proemio” (i primi 17 versetti del capitolo primo) di questa Lettera: dobbiamo quindi ribadire una fondamentale considerazione utile per capire, per conoscere e per applicarci.
Perché lo “scrivano” Paolo di Tarso ha un ruolo culturale così importante nella Storia del Pensiero Umano e anche in funzione della didattica della lettura e della scrittura? Lo “scrivano” Paolo di Tarso ha un importante ruolo culturale perché è il principale “filologo ellenista” che prepara con la sua scrittura esemplare – di carattere laico, popolare, diretto, aperto, esplicito, spontaneo – il “glossario di base” con cui divulgare la “buona notizia”: Paolo di Tarso mette a punto il “dizionario ellenistico” dell’evangelo. L’inventario delle parole, la lista delle espressioni, il catalogo delle idee-cardine che Paolo di Tarso conia diventano gli strumenti utili per la formazione, nei decenni a venire, della Letteratura dei Vangeli (canonica e apocrifa): una Letteratura che, dal I secolo d.C., s’inserisce come una travolgente novità intellettuale sul territorio dell’Ellenismo. Attraverso il significativo e variegato movimento intellettuale ellenistico che porta alla redazione della “Letteratura dei Vangeli” – a cominciare dalle Lettere di Paolo di Tarso che ne costituiscono il primo segmento fondamentale – si sviluppa la “dottrina”, la “liturgia” e il “pensiero filosofico” del Cristianesimo. La chiave di volta per la diffusione del Cristianesimo è la “sapienza poetica ellenistica”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Una delle esperienze della nostra infanzia è stata quella di “andare a dottrina”, di “andare al catechismo”: scrivete, in quattro righe, un ricordo di questa esperienza…
Ma ora – dopo aver riflettuto sul testo del “proemio” – proseguiamo sulla scia dal “tono aspro” con cui Paolo di Tarso scrive il primo capitolo della Lettera ai Romani.
Ritorniamo sull’interrogativo che ci siamo poste e posti in partenza: perché stiamo citando il testo della Lettera ai Romani che è un documento più adatto a chiudere piuttosto che ad aprire un discorso su Paolo di Tarso? Perché le parti di testo della Lettera ai Romani su cui abbiamo riflettuto, e su cui stiamo per riflettere ancora, sono direttamente collegate con le domande che si sono poste tutte le persone le quali – durante il periodo dell’ellenismo greco e latino, dell’indo-ellenismo e delle Cento scuole cinesi – hanno riflettuto sui temi dell’esistenza umana, chiedendosi: è possibile trovare una via di salvezza dal male, da tutto questo male che c’è nel mondo? E il bene ha una sua forza propulsiva capace di modificare la situazione?
Tutte le pensatrici e i pensatori del periodo dell’ellenismo greco e latino, dell’indo-ellenismo e delle Cento scuole cinesi, sono consapevoli del fatto che attorno a loro sembra dominare il male. Anche Paolo di Tarso fa questa considerazione (anche noi continuiamo a fare questa considerazione e fra un po’ ascolteremo anche un nostro autorevole contemporaneo che riflette, che compie un “esercizio” di riflessione, su questi temi) e Paolo di Tarso è proprio lo “scrivano ellenista” che – meglio di chiunque altro – cerca di catalogare (di documentare) una situazione in cui il male la fa da padrone nel mondo, su tutto il territorio dell’Ecumene.
Nel primo capitolo della Lettera ai Romani Paolo constata che nel mondo vi sono grandi mali. Il primo capitolo della Lettera ai Romani può essere diviso in quattro parti. La prima parte è quella del “proemio” – che abbiamo studiato – e che va dal versetto 1 al versetto 17. La seconda parte va dal versetto 18 al 23 in cui Paolo parla dei pagani adoratori di idoli che diventano oggetto dell’ira di Dio.
La terza parte va dal versetto 24 al 28 in cui Paolo attesta l’abbandono di Dio nei confronti di coloro che sono in preda alla sessuofobia e conducono una vita dissipata, sregolata: questa potente immagine – di donne e di uomini che si accoppiano “contro natura” per esaltare le “passioni” e per gloriarsi del proprio “traviamento” (nell’Epistolario di Paolo di Tarso non mancano certo le parole-chiave dell’Ellenismo e nel “glossario paolino” il termine “passioni” e il termine “traviamento” sono in evidenza) – è un significativo esempio portato da Paolo per dire che il mondo va male, che il mondo va alla rovescia quando è in preda alle “passioni”, quando si compiace del “traviamento” e non cerca l’amore solidale: non è corretto pensare – ci spiegano le studiose e gli studiosi di esegesi (anche la maggior parte di quelli in linea con l’ortodossia cattolica) – pensare che Paolo condanni le omosessuali e gli omosessuali dichiarati (capaci di amore solidale come tutti gli altri); Paolo condanna, in primo luogo, l’esibizione sguaiata e triviale della sessualità intesa come pervertimento vissuto come un vanto, come una ostentazione di potere.
La quarta parte va dal versetto 29 al versetto 32 e si presenta come una sorta di conclusione che presenta un catalogo in cui Paolo utilizza una ventina di termini negativi, fra sostantivi e aggettivi, per sintetizzare il tutto. E questa è la più lunga lista negativa che troviamo nella Letteratura dei Vangeli (del Nuovo Testamento): «Colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni di invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia». Si tratta di un giudizio negativo sulla società ellenistica, un giudizio simile a quello che – sulla società del tempo – stanno dando le scrittrici e gli scrittori (e ce ne siamo accorti, incontrandone un buon numero, strada facendo) ellenistici greci e latini, indo-ellenistici e delle Cento scuole cinesi.
Questo giudizio negativo viene subito applicato – nei capitoli successivi – anche al comportamento degli Ebrei che, secondo Paolo, dovrebbero dare un esempio diverso da quel che danno: Paolo non fa un’operazione antisemita (come vorrebbe farci credere la propaganda nazista e razzista in genere) ma fa una severa predica ai suoi con tutto l’orgoglio che ha di essere un ebreo-fariseo che vuole riformare il pensiero dell’Ebraismo: questa idea di Paolo non è una novità perché – come molte e molti di voi sanno – da tre secoli nelle comunità della diaspora ebraica, soprattutto ad Alessandria, era attivo un movimento riformatore, il cosiddetto “movimento filotraduzionista” (lo abbiamo studiato a suo tempo) che realizza la traduzione dei testi della Bibbia nella lingua greca dell’Ellenismo.
La conclusione che Paolo trae da tutta la sua riflessione è che nessuno ha in sé la forza per salvarsi, nessuno ha in sé l’energia per ribellarsi al male. Paolo si domanda anche come si possa, comunque, far tesoro di questo giudizio negativo, come si possa e si debba reagire per tentare di modificare la situazione.
Che cosa aiuta – si domanda Paolo – a fare un’analisi più puntuale e a giudicare in modo più equilibrato e obiettivo? Paolo comincia (da buon sociologo e psicologo, rifacendosi alla “sapienza poetica ellenistica”) ad analizzare la situazione distinguendo tre tipologie di peccato perché ci si possa meglio render conto del male che c’è nel mondo.
Paolo dichiara che vi sono anzitutto i “peccati sociali”, poi ci sono i “peccati collettivi” e, infine, i “peccati personali”. Questi ultimi – allude Paolo di Tarso – sono spesso gli unici che noi consideriamo mentre invece gran parte della peccaminosità – afferma Paolo – si deve ai peccati sociali e ai peccati collettivi.
Che cosa s’intende Paolo per peccati sociali e collettivi? Intende quei peccati – derivanti dallo squilibrio economico, culturale e sociale – che uno non può dire di non commettere, in quanto fa parte, di fatto, di un “sistema ingiusto”. Un esempio molto semplice (che mi è rimasto impresso) è quello che ha portato il teologo Karl Rahner nel dibattito conciliare commentando proprio la Lettera ai Romani: «Se compro una banana e la pago poco – sostiene Rahner (siamo nel 1963) – so che questo avviene perché sono stati pagati poco i raccoglitori …ebbene, questo sistema sfugge al singolo individuo che non riesce a sottrarvisi. È una forma di ingiustizia del mondo che risulta difficile riparare. In certi paesi, soprattutto del terzo mondo, c’è una corruzione endemica dei poteri sostenuta dalla grandi imprese economiche che serve a mantenere il sistema dell’ingiustizia. Ciò non vuol dire che anche da noi, in Europa, non ci siano degli abusi gravi: ecco la natura del peccato sociale e collettivo a cui allude Paolo nell’Epistola ai Romani». Questo diceva il teologo Karl Rahner nel dibattito conciliare commentando proprio la Lettera ai Romani e la sua riflessione rimane di grande attualità ed è da poco che si è cominciato a parlare di “Economia equa e solidale”, di “Finanza etica”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Tutte e tutti voi possedete di sicuro, nella vostra biblioteca domestica, il volume della Bibbia che contiene anche la Letteratura dei Vangeli comprese le Lettere di Paolo di Tarso e quindi leggete il primo capitolo della “Lettera ai Romani”…
Se un versetto, o due, attirano maggiormente la vostra attenzione: ricopiateli in modo da arricchire la biblioteca itinerante…
E ora, in proposito, facciamo un altro esercizio di lettura e ascoltiamo un altro autorevole commentatore della Lettera ai Romani. Questo commentatore non ha bisogno di presentazioni perché tutte e tutti voi conoscete il cardinale Carlo Maria Martini, avrete letto le sue opere che nascono tutte – il cardinale Martini è un gesuita – dalla conduzione degli “esercizi spirituali” secondo la regola [Diario spirituale. Tutti i modi per intercettare la volontà di Dio] di Sant’Ignazio di Lodola. Leggiamo che cosa scrive Carlo Maria Martini commentando il primo capitolo della Lettera ai Romani:
LEGERE MULTUM….
Carlo Maria Martini, Le ali della libertà
Ma in certi paesi non ci sono alternative: o uno si tira fuori dalla vita sociale o accetta di convivere con il sistema e, in qualche modo, di compromettersi un po’ con esso. Quindi questo è un gravissimo male del mondo.
Voglio evidenziare ancor più i peccati collettivi, cioè quelli che nessuno è obbligato a compiere per sua natura, ma che sono indotti dalla moda, dal trend e dalla mentalità corrente, nel modo di parlare e di vivere. Perciò si commettono con estrema facilità. Come distinguere questi peccati collettivi e come identificarli? Io sono stato aiutato da una distinzione illuminante. Occorre distinguere gli idola fori [gli idoli della piazza], gli idola tribus [gli idoli della tribù], gli idola specus [gli idoli della caverna] e gli idola teathri [gli idoli dello spettacolo].
... continua la lettura ...
Il testo del primo capitolo della Lettera ai Romani di Paolo di Tarso descrive – così come fanno tutte le persone più riflessive del suo tempo – la condizione del mondo in età ellenistica oppresso dalle forze del male, e questa descrizione è tuttora valida anche per riflettere (come abbiamo letto nelle pagine di Carlo Maria Martini) sui malanni che attanagliano l’epoca contemporanea.
Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani si domanda se sia possibile trovare una via di salvezza dal male e se il bene abbia una sua forza propulsiva.
Chi è Paolo di Tarso? Come interpreta la cultura dell’Ellenismo? Come usa, soprattutto per scrivere, la lingua greca della koiné? Quali viaggi intraprende? E qual è la “buona notizia” (in greco “eu-aggelìa”), che vuole caparbiamente portare in giro sul territorio dell’Ecumene – fino a Roma che, nel frattempo, è diventata la capitale di un nuovo vasto impero – convinto che questa “buona notizia” (“eu-aggelìa”) possa essere una risposta nei confronti del molto male che lui vede intorno a sé e che possa dare una spinta alla costruzione del bene?
Alla domanda “chi è Paolo di Tarso?” (questa è una domanda che ci faremo molte volte ed è chiaro che non si può rispondere a questo interrogativo solo con delle battute) la prima risposta che possiamo dare, secondo la natura del nostro Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura, corrisponde alla definizione che di lui danno le studiose e gli studiosi di filologia: Paolo di Tarso è uno dei più significativi scrittori del movimento della “sapienza poetica ellenistica”. Questa risposta presuppone un secondo interrogativo, suppone che ci si domandi immediatamente: perché Paolo di Tarso è da considerarsi uno dei più significativi scrittori del movimento della “sapienza poetica ellenistica”? Questo interrogativo, insieme a tutte le altre domande che ci siamo poste e che ci siamo posti in proposito, richiede che si proceda con ordine.
E, proprio per iniziare a fare ordine, ci si presenta di fronte un interessante paesaggio intellettuale verso il quale dobbiamo orientare il nostro sguardo e la nostra mente. Questo primo paesaggio intellettuale, su cui puntiamo la nostra attenzione, contiene una parola-chiave che, questa sera, abbiamo già più volte citato. Questa parola viene utilizzata persino in modo inflazionato ed è la parola greca “eu-aggelìa”, che letteralmente significa “una buona notizia” e che corrisponde al termine “vangelo”. La parola “vangelo, la buona notizia” è una delle più pregnanti parole-chiave della nostra cultura e viene sistematicamente tirata in ballo nella Storia dell’Arte, nella Letteratura, nella Politica, nella Religione, nella Filosofia e soprattutto nei “modi di dire” dove assume un ruolo ancor più determinante.
Come si avvicina la maggior parte delle persone a questa parola? Le ricerche fatte dalle studiose e dagli studiosi di Sociologia della religione dicono che la maggior parte delle persone si avvicina a questa parola in modo piuttosto banale! La maggior parte delle persone, nell’uso del linguaggio orale, dà la preferenza al senso metaforico che è stato dato a questa parola per definire il concetto di “verità inequivocabile”: questa affermazione (indipendentemente dalla sua qualità) “è vangelo, è la verità assoluta” e questo tipo di interpretazione fa perdere valore al significato culturale contenuto nel termine ellenistico “vangelo”. Difatti, dal punto di vista intellettuale, la parola “vangelo”, usata al plurale, “i vangeli”, è servita per indicare un “catalogo” di testi scritti, una Letteratura, il frutto del lavoro intellettuale di una corrente letteraria (c’è chi sostiene che sia la più importante) del vasto movimento della “sapienza poetica ellenistica”. Questi testi corrispondono ai quattro “Vangeli canonici”, di cui conosciamo a memoria i titoli (secondo Marco, Matteo, Luca e Giovanni), e ai trentaquattro cosiddetti “Vangeli apocrifi” (che in greco significa “riservati”).
Ebbene, come abbiamo detto tante altre volte (visto che questa materia l’abbiamo già studiata in molte occasioni…), i Vangeli, canonici e apocrifi, non sono i primi testi, per data di composizione, della Letteratura dei Vangeli. C’è una Letteratura “cristiana” – che fa parte della Letteratura del Vangeli – che è più antica dei testi dei Vangeli propriamente detti e, quindi, risulta evidente che la parola “vangelo” entra in circolazione prima dei testi scritti che prenderanno il nome di Vangeli.
La parola “eu-aggelìa”, che corrisponde al termine “vangelo”, assume – alla luce della cultura dell’Ellenismo (come abbiamo potuto notare nel testo del primo capitolo della Lettera ai Romani con cui abbiamo introdotto) – un significato programmatico: “questa è la buona notizia che contiene il messaggio di salvezza”. E il “messaggio di salvezza” – secondo lo stile della “sapienza poetica beritica” (secondo la tradizione dell’Antico Testamento) in cui è profondamente radicato – si esplicita attraverso una “scrittura”, attraverso un eterogeneo e fecondo movimento letterario di stampo ellenista. Quindi la parola greca “eu-aggelìa” esprime tanto la sostanza, cioè la “buona notizia” in se stessa (con l’uso del singolare, il “vangelo”), quanto la forma, cioè il modo in cui il messaggio di salvezza viene espresso (con l’uso del plurale, i “vangeli”). Questo modo di fare – ed è un argomento che abbiamo studiato a suo tempo frequentando la Scuola epicurea e le Scuole stoiche (a metà viaggio, a metà del mese di febbraio) – deriva da un tipico concetto della filosofia (e della teologia) ellenistica: “l’Essere deve Essere” e, di conseguenza, il vangelo (l’Uno, la “singolare buona notizia”) si esprime nei vangeli (nella plurale eterogeneità dei “messaggi di salvezza”).
E, per quanto riguarda i tempi, a proposito di “Letteratura dei Vangeli” dobbiamo dire che, tra le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica, si è creata una convergenza sulle datazioni: il testo del Vangelo secondo Marco è pronto alla fine degli anni 70, quello secondo Matteo alla fine degli anni 80, quello secondo Luca e gli Atti degli Apostoli alla fine degli anni 90 e quello secondo Giovanni e dell’Apocalisse nella prima metà del II secolo. E dobbiamo tener conto del fatto che i Codici più antichi dei testi dei Vangeli che possediamo sono della fine del II secolo (il II secolo va dall’anno 100 al 199).
E poi, come abbiamo detto, ci sono degli “scritti”, i quali rientrano nella Letteratura dei Vangeli, che sono stati composti prima dei testi dei Vangeli propriamente detti. Difatti – come sappiamo – già dall’anno 50 o 51 alcune comunità sorte sul territorio dell’Ecumene e che fanno riferimento alla “buona notizia” della resurrezione di Gesù di Nazareth, ricevono delle “Lettere”: Queste “Lettere” sono i “testi strutturati” più antichi della Letteratura dei Vangeli.
E l’autore di quello che viene considerato l’Epistolario più significativo della Storia del Pensiero Umano è uno che non è un “Apostolo”, nel senso che non è appartenuto al gruppo dei Dodici Apostoli, e non è neppure appartenuto all’ambiente di Gesù di Nazareth (non lo ha mai conosciuto), eppure è colui che conia la parola “vangelo”.
E dove compare per la prima volta la parola “vangelo”? La parola “vangelo” compare per la prima volta dentro al testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi scritta nell’anno 51 da Paolo di Tarso. Il testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi è da considerarsi lo scritto più antico della Letteratura del Cristianesimo. Quindi la Prima Lettera ai Tessalonicesi di Paolo di Tarso può essere considerata – se vogliano usare un’allegoria – la “culla” di una delle parole più significative della nostra cultura: la parola “vangelo”.
Paolo di Tarso si presenta già nella Prima Lettera ai Tessalonicesi come uno “scrivano” dalla spiccata personalità che è stato capace di compie una significativa operazione culturale: quella di trasformare il “Gesù della storia” nel “Cristo della fede”. Paolo di Tarso è stato capace di far diventare il “passa parola” che segnalava la vicenda di un uomo (quel Gesù) crocifisso, sfigurato dalle percosse e sconfitto dalla morte, in una notizia, in una “buona notizia” contenente un messaggio di salvezza: un vangelo. Paolo di Tarso utilizza la parola “vangelo, la buona notizia” per raffigurare una sensazionale “provocazione”: una forca, una croce (secondo la prassi giuridica dei Romani) diventa il mezzo per “salvarsi”. E tutte le studiose e gli studiosi riconoscono che la “provocazione” ideata da questo “scrivano” ha sortito l’effetto di gettare le basi per la nascita del Cristianesimo ma è stato un “incidente” perché l’obiettivo dello scrivano non è quello di fondare una nuova religione ma bensì quello di riformare profondamente il pensiero dell’Ebraismo (e un movimento di riforma, in senso ellenistico, nelle comunità della diaspora ebraica era già in atto da tempo).
L’intraprendente operazione culturale avviata da Paolo di Tarso prende “forma” intorno alla parola “vangelo”, e la “forma” consiste nell’avere dato delle risposte scritte, in modo appassionato, ad una domanda fondamentale: che cosa vuol dire “credere”? Cioè: che cosa vuol dire credere in un’idea di salvezza? E, di conseguenza, è possibile trasformare qualitativamente la propria vita? Ed è possibile dare un senso alla morte? E si può assaporare il gusto della vita (quante frasi la pubblicità ha rubato alla sapienza poetica ellenistica!) come se l’esistenza fosse un dono che abbiamo ricevuto? Le scrittrici e gli scrittori che, nei secoli, hanno cercato di dare delle risposte a queste domande hanno favorito lo sviluppo della Storia della Letteratura e, in particolare, del genere letterario del “romanzo”: a questo punto ci sarebbero molti esempi da fare in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
L’operazione culturale intrapresa e descritta da Paolo di Tarso nel suo Epistolario non è avvenuta “a tavolino” e non è stata indolore. La “scrittura” di Paolo di Tarso parte da situazioni molto concrete, e chi legge le sue “Lettere” non si sente dentro ad un mondo idilliaco: non esiste, nella Storia, un “romantico” mondo delle origini del Cristianesimo. Chi legge le “Lettere” di Paolo di Tarso è portato a riflettere su temi esistenziali importanti: questi temi vengono presentati attraverso il peso delle speranze, spesso deluse, questi temi vengono presentati alla luce dei successi temporanei e sempre effimeri, questi temi vengono presentati nel contesto di confronti sfibranti e di conflitti accesi, drammatici, insanabili, laceranti. E, nonostante le indubbie difficoltà che incontra, lo “scrivano” tenta sempre di dare risposte esaustive e meditate ai problemi emergenti dai temi esistenziali con cui fa personalmente i conti.
A quale tipologia letteraria si rifanno le Lettere di Paolo di Tarso? A detta delle studiose e degli studiosi le Lettere di Paolo di Tarso sono contemporaneamente: un “saggio” di Storia del Pensiero Umano di carattere metafisico ed esistenzialista, sono una “biografia” di carattere tragico con venature comiche e sentimentali, sono un “romanzo” di carattere storico (di un periodo che va dagli anni 30 agli anni 60 d.C.), sono un “diario”, il resoconto di alcuni lunghi e faticosi viaggi nella geografia del I secolo del primo millennio, e sono anche una “raccolta” di frammenti di sapienza poetica che avranno un seguito in chiave liturgica.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Le Lettere di Paolo di Tarso sono dal punto di vista letterario contemporaneamente: un saggio, una biografia, un romanzo, un diario, una raccolta poetica…
Secondo il vostro interesse come lettrici e come lettori: mettete in ordine di importanza questi generi di scrittura…
E ora continuiamo a domandarci: chi è lo “scrivano” con il quale stiamo, poco per volta, facendo conoscenza? Lo “scrivano” che noi conosciamo come Paolo di Tarso, o San Paolo, in origine ha un nome da ebreo della diaspora ellenistica: si chiama Shaul Tarsensis. E dalla sua corrispondenza capiamo che Shaul Tarsensis è una persona dalla forte personalità capace di vivere i sentimenti, la passione e le lotte con grande impegno. Shaul Tarsensis – ad un certo punto della sua esistenza – s’impegna in una causa per la quale decide di spendere la sua vita. Con il suo Epistolario – senza esserne consapevole – dà inizio al genere letterario della Letteratura dei Vangeli, ed entrerà – come sappiamo – anche a farne parte di questa Letteratura come personaggio.
Sappiamo che il ritratto “apologetico” che abbiamo di lui e il racconto “trasfigurato” della sua azione si trovano nell’opera – un’opera ellenistica per eccellenza – intitolata Atti degli Apostoli. Atti degli Apostoli, come ben sapete, è il proto-catechismo cristiano predisposto da papa Clemente Romano, il primo papa storico che dirige la Chiesa di Roma dal 92 al 101. Sappiamo che gli Atti degli Apostoli – il primo catechismo cristiano – è un’apologia della Chiesa primitiva, e tende a raffigurare un quadro edificante del cristianesimo delle origini: un’apologia non è un’opera di carattere storico, non è una “cronaca-reale” ma è un “racconto-ideale” in funzione pedagogica. Il libro degli Atti degli Apostoli dedica metà delle sue pagine al personaggio di Shaul che, strada facendo, di trasforma in Paolo di Tarso. Atti degli Apostoli è un’opera della fine degli anni 90 ed è la continuazione del testo del Vangelo secondo Luca. Gli Atti degli Apostoli, quindi, non è un’opera biografica, né storica e allude soltanto a tutti i “problemi conflittuali” che ci sono alle origini dell’esperienza cristiana.
Gli Atti sono un’opera che trasfigura il Cristianesimo delle origini in chiave “mitica, favolosa, gloriosa, eroica, epica” per poter dettare i princìpi della “dottrina” e per esortare la persona a seguire il “buon esempio” di chi questi princìpi li ha ricevuti direttamente da Gesù Cristo. Gli Atti sono un’opera di catechesi che si rivolge ad un pubblico che deve assorbire una visione del Cristianesimo che ha assunto ormai un carattere religioso, dottrinale e misterico.
Il testo degli Atti degli Apostoli presenta Paolo di Tarso come una figura “eroica”. Paolo è morto da circa trent’anni e Clemente Romano ha raccolto le sue Lettere, che stanno circolando in sordina, perché ne ha capito l’importanza dottrinale e ne condivide pienamente il pensiero.
Tuttavia il testo degli Atti non cita neppure una parola delle Lettere di Paolo! Perché, come mai? Questo fatto è facilmente comprensibile e dipende da una prudente scelta strategica: gli scontri, i conflitti, le sfide che vengono raccontate, senza peli sulla lingua, nelle Lettere di Paolo, sono elementi che mettono realmente in evidenza il carattere esistenziale della “fede” ma che possono anche far confondere persone già piene di dubbi, spesso disorientate, quasi sempre impaurite perché la legislazione romana, fino al IV secolo, non è mai stata tenera con le comunità dei primi credenti in Cristo. Quindi, alla fine del I secolo, papa Clemente Romano (con grande acume) ritiene sia necessario “ricucire, rammendare, accomodare”, e pensa che i grandi temi dottrinali, proposti da Paolo debbano essere considerati fondamentali ma, per la loro problematicità e durezza, debbano essere presentati con le dovute precauzioni; difatti Clemente Romano scrive una serie di Lettere (le “Lettere clementine”) in cui tratta temi proposti da Paolo, con lo stile di Paolo ma usando un tono che non è quello polemico dello scontro ma bensì quello del pastore conciliante e la stessa cosa faranno anche gli altri due Padri Apostolici, Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne che incontreremo strada facendo.
Si comincia, nella Storia letteraria del Cristianesimo, a citare le Lettere di Paolo a frammenti – col contagocce – prima di divulgarlo integralmente. Di conseguenza il testo degli Atti non riporta la cronaca degli avvenimenti che riguardano la ipotetica Chiesa delle origini visti attraverso il racconto, troppo realistico, di Paolo di Tarso, ma l’indice degli Atti riporta – sotto forma di racconto allegorico – argomenti di carattere “dottrinale” e “liturgico”.
Se facciamo una riflessione ci accorgiamo che lo conosciamo a memoria l’indice degli Atti degli Apostoli: l’Ascensione, la Pentecoste, i Dodici Apostoli, il primato di Pietro, la comunione del beni, i Miracoli e i fallimenti, la persecuzione, i Diaconi, il martirio di Stefano, le avventure di Shaul Tarsensis che, sulla via di Damasco, diventa Paolo di Tarso. Quanta “Storia dell’Arte” e quanta “Letteratura di ogni genere” ha prodotto il testo degli Atti degli Apostoli! E questo è un motivo in più – che riguarda la didattica della lettura e della scrittura – per leggere, o per rileggere, quest’opera.
E, a proposito di Storia dell’Arte, mentre ci avviamo a concludere questo itinerario la Scuola non può fare a meno di consigliare una visita che senz’altro avrete già fatto. Siamo a Firenze e abbiamo la fortuna di poter visitare, nella chiesa di Santa Maria del Carmine, la Cappella Brancacci.
Ebbene, come sapete, sulle pareti della Cappella Brancacci c’è un ciclo di affreschi straordinario, commissionato al pittore Masolino da Panicale (Tommaso di Cristoforo Fini, 1383-1440/47) il quale, nel 1425, si è avvalso della collaborazione di un giovane pittore, nato a San Giovanni Valdarno nel 1401, che si chiama: Tommaso Cassai, detto Masaccio. Sapete anche, probabilmente, che Masaccio è morto a Roma nel 1428 a soli 27 anni, ma è opportuno fare una piccola ricerca su Masaccio, per rinfrescarsi la memoria, utilizzando l’enciclopedia, e cercando un fascicolo in biblioteca a lui dedicato, e collegandosi alla rete.
Ma, attenzione, non si può visitare la Cappella Brancacci senza prima aver letto i testi che Masaccio ha attentamente studiato per compiere il suo straordinario lavoro perché l’opera della Cappella Brancacci – secondo la maggior parte delle studiose e degli studiosi – ha fama di essere il miglior ciclo di affreschi che mai sia stato realizzato.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Per visitare la Cappella Brancacci è necessario leggere, come ha fatto Masaccio, il capitolo 3, 4, 5 e 9 dal versetto 32 al 43 degli Atti degli Apostoli… Degli avvenimenti che vengono raccontati in questi capitoli: quale vi colpisce di più…
Scrivetelo, basta una riga in proposito…
Strada facendo, studieremo ancora e citeremo più volte il testo degli Atti degli Apostoli perché ci fornisce molti spunti di riflessione.
Ora sappiamo – come ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia – che le notizie su quella Chiesa delle origini (l’ipotetica Chiesa di Gerusalemme), su Pietro (che parla facendo discorsi come se fosse un oratore ellenistico per sostenere le idee di Paolo che disapprova) e le notizie su Paolo, così come ce le fornisce il testo degli Atti (spesso in contrapposizione con quello che Paolo scrive nelle sue Lettere), sono delle “ipotesi” proprio perché devono essere uno stimolo alla riflessione sui princìpi e un invito a metterli in pratica. L’autore del testo degli Atti non è interessato a raccontare come si sono svolti realmente i fatti, né ad informarci sulla vita o sulla sorte delle persone. L’intenzione dell’autore degli Atti è quella di dirci che: la Chiesa è opera di Dio e il progetto degli umani, per quanto siano capaci, è secondario. L’intenzione dell’autore degli Atti è quella di affermare che la Storia della salvezza è opera di un “disegno di Dio” e le persone che, con cuore sincero, lo stanno realizzando sono guidate direttamente dalla volontà divina. A questo proposito, se il pensiero dell’autore degli Atti è questo, si capisce perché non cita mai direttamente le Lettere di Paolo: nell’Epistolario di Paolo di Tarso più che un “disegno di Dio” che si realizza nell’attività dell’apostolo, c’è un “disegno dell’apostolo” che si trasforma in opere di Dio.
E adesso, per concludere, prendiamo contatto con la più “antica” Lettera che Paolo ha scritto, con il testo più antico della Letteratura del Cristianesimo. Con il testo dove compare per la prima volta la parola “vangelo”: quello della Prima Lettera ai Tessalonicesi. Questo testo è stato scritto nel 51 e Gesù di Nazareth è morto da appena una quindicina d’anni ma è già diventato, nei testi di Paolo, il “Cristo della fede”, il Signore, il Kyrios. Un processo di mitizzazione così rapido ha lasciato sempre perplesse e perplessi gli esperti di antropologia culturale, che si sono chiesti: questo dipende dalla “provvidenza”, oppure dall’intraprendenza di Paolo, o da tutte due le cose?
Nei primi due capitoli della Prima Lettera ai Tessalonicesi Paolo ci parla del suo impegno, descrive i suoi sentimenti e, in modo molto deciso, risponde agli attacchi dei suoi avversari: si capisce che c’è una violenta campagna denigratoria contro di lui e contro la sua opera di evangelizzazione. Leggendo le Lettere di Paolo svanisce l’idea di una “purezza primitiva”. C’è chi lo accusa di raccontare frottole, di essere un imbroglione, di fare i suoi interessi, di aver trovato un sistema per farsi mantenere. Se questa è la prima pagina del Cristianesimo non sono state rose e fiori ma la Storia della salvezza – affermeranno tutti Padri della Chiesa – avviene nelle contraddizioni della storia e nell’ambito della fragilità umana!
E ora leggiamo i primi due capitoli della Prima Lettera ai Tessalonicesi:
LEGERE MULTUM….
Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Tessalonicesi Cap. 1 e 2 (51 d.C.)
Paolo, Silvano e Timoteo scrivono alla Chiesa di Tessalonica. A voi, che siete di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo, noi auguriamo grazia e pace. Ringraziamo sempre Dio per tutti voi e vi ricordiamo nelle nostre preghiere. Quando siamo di fronte a Dio, nostro Padre, pensiamo continuamente alla vostra fede molto attiva, al vostro amore molto impegnato, alla vostra speranza fermamente rivolta verso Gesù Cristo, nostro Signore. Sappiamo fratelli, che Dio vi vuole bene e vi ha scelti per farvi essere suoi. Infatti quando vi abbiamo annunciato il messaggio del vangelo [della buona notizia], ciò non è avvenuto solo a parole, ma anche con la forza e l’aiuto dello Spirito Santo. Come ben sapete, abbiamo agito tra voi con profonda convinzione, e per il vostro bene. E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore. Anche in mezzo a molte difficoltà avete accolta la parola di Dio con la gioia che viene dallo Spirito Santo. Così siete diventati un esempio i per i cristiani che vivono in Macedonia e in tutta la Grecia, tanto che la parola del Signore si diffonde dalla vostra comunità in tutte queste regioni. Anzi la notizia della vostra fede in Dio va anche oltre, si diffonde dappertutto, in modo che noi non abbiamo più bisogno di parlarne. Sono gli altri a parlare di noi: raccontano come ci avete accolti quando siamo venuti in mezzo a voi, come vi siete allontanati dai falsi dèi per servire il Dio vivo e vero, e per aspettare che il Figlio di Dio venga dal cielo. Questo Figlio è Gesù; Dio lo ha resuscitato dalla morte. Egli è colui che ci libera dalla condanna di Dio ormai vicina.
Voi stessi, fratelli, sapete bene che non sono venuto da voi inutilmente. Sapete che poco prima, nella città di Filippi, ero stato offeso e avevo sofferto. Eppure, anche in mezzo a molte difficoltà, Dio mi ha dato la forza di annunziarvi il messaggio del suo vangelo. Nella mia predicazione non c’era nessuna intenzione di dire il falso, di imbrogliare, di parlare con astuzia. Anzi, io parlo sempre come Dio vuole, perché egli mi ha giudicato degno e ha affidato a me il messaggio del vangelo. Non cerco l’approvazione delle persone ma quella di Dio, che giudica anche le nostre intenzioni nascoste. Sapete bene che mai ho detto parole per far piacere a qualcuno o per mio interesse: Dio mi è testimone. E mai ho cercato i complimenti, né da voi né dagli altri, anche se potevo far valere la mia autorità di apostolo di Cristo. Invece mi sono comportato tra voi con dolcezza, come una madre che ha cura dei suoi bambini. Mi sono affezionato a voi, e vi ho voluto bene fino al punto che vi avrei dato non solo il messaggio di salvezza che viene da Dio, ma anche la mia vita. Infatti, fratelli, voi ricordate la dura fatica che ho affrontato: ho lavorato notte e giorno per potervi annunziare la parola di Dio, senza essere di peso a nessuno. Voi siete, con Dio, testimoni del mio comportamento. Potete dire quanto è stato giusto, santo e corretto il mio modo di agire verso tutti i credenti. Sapete che ho agito verso ciascuno di voi, come fa un padre con i suoi figli. Vi ho esortati e incoraggiati, vi ho scongiurati di comportarvi in maniera degna di Dio, perché Dio vi chiami al suo regno e alla sua gloria. …
Emergono da questo brano molti temi interessanti e di questo testo ce ne occuperemo ancora, prossimamente: si sente che c’è una forte tensione! Chi sono i denigratori e gli accaniti avversari di Paolo? E chi sono i suoi discepoli, quelli che ascoltano e leggono con attenzione queste sue parole? Da chi e come vengono conservate e divulgate queste Lettere? E in che modo hanno acquistato autorevolezza? E quante sono le Lettere di Paolo? E le ha scritte tutte lui? E quali sono i temi di cui parlano? E poi che cosa sappiamo di Paolo di Tarso (di lui non abbiamo ancora detto niente)? E perché questo “scrivano” viene considerato uno dei più significativi scrittori del movimento della “sapienza poetica ellenista”? Le domande a cui rispondere sono tante e noi abbiamo appena introdotto l’argomento!
Il viaggio continua e, in compagnia di Paolo di Tarso, il Percorso di studio assume davvero le caratteristiche di un viaggio che continuerà in autunno.
Domenica è il 25 aprile ed è festa nazionale! Molte persone si sono sacrificate per il ritorno all’unità della Nazione e perché il popolo italiano avesse una Costituzione democratica. La Costituzione all’art. 34 sancisce che: “La Scuola è aperta a tutti.”. Dichiara che l’Apprendimento Permanente è un diritto e un dovere di tutte le cittadine e i cittadini. Dobbiamo avvalerci di questo articolo per costruire un sistema di Educazione degli Adulti: è un’impresa ardua che comporta una resistenza!
Animare con la propria presenza la Scuola pubblica degli Adulti significa partecipare, investendo in intelligenza, ad una lotta di liberazione contro la “dittatura dell’ignoranza” che – come sapete –, inesorabilmente, sta attanagliando il nostro Paese…
Viva il 25 aprile!