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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA PAROLA-CHIAVE “PARUSÌA” …

Lezione N.: 
27

Prof. Giuseppe Nibbi           Lo sapienza poetica ellenistica           5-6-7  maggio  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È LA PAROLA-CHIAVE “PARUSÌA”

     In chiusura dell’itinerario della scorsa settimana abbiamo letto una pagina da uno dei romanzi più significativi della Storia della Letteratura: questo romanzo s’intitola I fratelli Karamazov ed è stato scritto da Fëdor Dostoevskij dall’aprile del 1878 al gennaio del 1879. Abbiamo detto che lo stesso arco di tempo (circa nove mesi), in cui le mille pagine di questo romanzo sono state scritte, può essere utilizzato per la lettura di questo libro con il metodo didattico del LEGERE MULTUM, al ritmo di quattro pagine al giorno prendendo la buona abitudine di dedicarsi alla lettura per dieci minuti al giorno.

     Della struttura di questo romanzo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – abbiamo già parlato la scorsa settimana, ma è tuttavia doveroso ricordare che il primo approccio con il testo del romanzo intitolato I fratelli Karamazov è utile lo si abbia con l’Indice di questo libro che rivela un rigoroso progetto intellettuale atto a favorire, prima di tutto, l’esercizio della lettura. La scorsa settimana abbiamo letto un brano che si trova, se così si può dire, nel cuore del romanzo: abbiamo letto la prima pagina del capitolo intitolato “Ribellione” (in alcune traduzioni questo titolo viene tradotto in “La rivolta”).

     In questo testo i protagonisti sono Ivan e Alëša, i due fratelli Karamazov in cui lo scrittore s’identifica maggiormente. Questo capitolo – “Ribellione” o “La rivolta” – ne anticipa un altro che rappresenta uno dei vertici della Letteratura universale e che s’intitola “Il Grande Inquisitore”. Anche se lo scrittore in una breve lettera iniziale – con la quale presenta il suo romanzo alle lettrici e ai lettori – nomina come suo eroe la figura di Aleksej (Alëša) sappiamo però che il personaggio di Ivan Karamazov (le studiose e gli studiosi parlano di enigma Ivan) è quello che rappresenta meglio la rabbia e i pensieri di Dostoevskij: difatti è a Ivan Karamazov – il fratello scettico, negatore di Dio ma assetato di fede – che lo scrittore fa trattare, in chiave evangelica e antireligiosa (perché la Letteratura dei Vangeli, e l’Epistolario di Paolo in particolare, propone una netta distinzione tra la religione alienante e la fede liberante) i temi dell’Amore del prossimo, della Libertà, del Male assoluto. Dostoevskij – soprattutto negli anni della prigionia e dell’esilio in Siberia – ha letto e conosce bene il testo dell’Epistolario di Paolo di Tarso e ce lo fa sapere facendone, provocatoriamente, l’esegesi. Noi continueremo a leggere le pagine del capitolo intitolato “Ribellione” perché nel brano che abbiamo letto la scorsa settimana la riflessione di Ivan Karamazov è appena iniziata; Ivan riflette a proposito di una provocatoria considerazione che due settimane fa abbiamo trovato nel testo della Lettera ai Romani: «È più facile amare Dio che non abbiamo mai visto in faccia – sostiene Ivan – piuttosto che amare il prossimo che ci sta attorno».

     Ma prima di procedere con la lettura dobbiamo riprendere il passo sul sentiero che costeggia il vasto paesaggio intellettuale dell’Epistolario di Paolo di Tarso. Sappiamo che Le lettere di Paolo di Tarso sono una delle opere più importanti della Letteratura ellenistica ed è per questo motivo – in funzione della didattica della lettura  e della scrittura – che noi le incontriamo: di che cosa parlano, a chi sono state inviate, quando sono state inviate, quante sono e, soprattutto, sono state scritte tutte da Paolo le Lettere di Paolo di Tarso? Cominciamo ad occuparci degli ultimi due interrogativi.

     Prima di tutto dobbiamo conoscere il catalogo de Le lettere di Paolo di Tarso: dobbiamo conoscere l’indice cronologico dell’Epistolario secondo i risultati a cui è giunta la ricerca filologica, l’indagine letteraria e l’analisi storica. Le studiose e gli studiosi ci dicono che “Le quattordici Lettere” di Paolo di Tarso si possono dividere in tre serie, in ragione del periodo in cui sono state scritte e in ragione della loro autenticità, e allora scorriamo, per curiosità, questo catalogo.

     Tra gli anni 50 e 60 vengono scritte sette Lettere: queste sette Lettere sono state attribuite a Paolo. I testi considerati autentici dell’Epistolario di Paolo di Tarso sono la “Prima Lettera ai Tessalonicesi” che, come abbiamo già detto, rappresenta lo scritto cristiano più antico giunto fino a noi, ed è stata redatta a Corinto, tra il 50 e il 52, per incoraggiare una comunità appena fondata e per precisare alcuni significativi punti di dottrina. Anche la Seconda Lettera ai Tessalonicesi viene, per Tradizione, considerata autentica però, in effetti, questo documento presenta problemi di datazione e di attribuzione a Paolo (le idee sono di Paolo ma lo scrivano non è lui). Sono considerate autentiche la Prima” e la Seconda Lettera ai Corinzi, scritte nel 56 da Efeso, le quali contengono interventi piuttosto vivaci in occasione di disordini, di liti, di divisioni nella comunità. È considerata autentica la Lettera ai Filippesi che contiene un testo di tono particolarmente cordiale, è il primo scritto dal carcere (non sappiamo se da quello di Efeso o da quello di Cesarea) e potrebbe essere stata scritta nel 56, ma molte studiose e molti studiosi la pongono con le Lettere della prigionia romana e, in questo caso, questo documento sarebbe stato scritto tra il 61 e il 63. È considerata autentica la Lettera ai Galati, un testo rovente, indirizzato ad una comunità in piena crisi: è uno scritto, molto probabilmente, del 56 o del 57. È considerata autentica la Lettera ai Romani che è un grande scritto teologico nel quale Paolo sviluppa gli stessi temi della Lettera ai Galati però in tono più calmo e più sereno: il testo della Lettera ai Romani può essere stato scritto nel 57 o nel 58.

     La seconda serie è quella formata dalle cosiddette Lettere deuteropaoline, una serie composta di testi più tardivi che comprende il gruppo di quelle che vengono chiamate Lettere dal carcere o della prigionia romana. Come abbiamo detto poc’anzi tra queste Lettere – secondo molte studiose e molti studiosi – ci potrebbe anche essere la Lettera ai Filippesi. Le Lettere dal carcere – scritte, dal 61 al 63, a Roma – secondo la Tradizione vengono attribuite a Paolo ma è molto probabile che siano state riscritte da qualcuno dei suoi discepoli senza alterarne il pensiero. Fanno parte delle Lettere dal carcerela Lettera ai Colossesi nella quale l’autore prende posizione sulla fede e sulla vita cristiana di fronte ai molti altri culti, soprattutto orientali, e alle innumerevoli idee filosofiche (epicuree, stoiche, scettiche) che circolano a Roma in questo momento. Fa parte delle Lettere dal carcere la Lettera a Filemone, che è una breve raccomandazione rivolta ad uno schiavo fuggiasco. Fa parte delle Lettere dal carcerela Lettera agli Efesini che è una vera e propria circolare di grande ispirazione teologica e mistica.

     La terza serie di Lettere contenute nell’Epistolario di Paolo di Tarso è indirizzata non più a comunità ma a persone singole per dare loro delle raccomandazioni e delle direttive perché si responsabilizzino nell’esercizio della loro attività pastorale. Questi documenti, infatti, vengono chiamati Lettere pastorali e la loro datazione sta nell’arco che va dagli anni 66-67 fin verso gli anni 80: Paolo è già morto e questi testi sono stati redatti da discepoli di Paolo che vogliono dare una continuità alla Tradizione del suo pensiero. Questa serie delle Lettere pastorali comprende le due Lettere a Timoteo, la Lettera a Tito e la Lettera gli Ebrei. La Lettera gli Ebrei è uno scritto che entra in circolazione alla fine del II secolo e che, secondo la Tradizione (perché non c’è una certezza storica), viene attribuito a Clemente Romano.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il primo esercizio da fare è quello di individuare sull’Indice di un testo biblico – che tutte e tutti noi abbiamo nella nostra biblioteca domestica – le Lettere di Paolo di Tarso in modo da circoscriverle e, in seguito, poterne consultare i testi

     Per tirare le somme, l’Epistolario di Paolo di Tarso si compone di una serie di sette Lettere considerate autentiche, più una serie di tre Lettere dal carcere, più una serie di quattro Lettere pastorali: per un totale di quattordici Lettere.

     E ora riprendiamo la lettura del capitolo dei I fratelli Karamazov intitolato Ribellione: continua, con grande veemenza (la stessa veemenza che troviamo in molte delle Lettere di Paolo di Tarso), la requisitoria di Ivan rivolta al fratello Alëša sul tema della sofferenza umana, del male generalizzato. Sappiamo che nell’Epistolario di Paolo di Tarso, spesso, chi scrive si meraviglia pensando a quanto male ci sia al mondo e a quanta ingiustizia vi sia nel fatto che questo male colpisca i più deboli, i più indifesi, i bambini per esempio.

LEGERE MULTUM….

Fëdor Dostoevskij,  I fratelli Karamazov

Ribellione

Avevo bisogno, soltanto [Alëša] di condurti al mio punto di vista. Volevo, ora, venir a parlare delle sofferenze umane in generale, ma sarà meglio che ci limitiamo alle sofferenze dei bambini. Tanto di perduto a favore della mia tesi, s’intende. Ma, prima di tutto, i bambini si possono amare anche da vicino, anche quelli sudici, anche quelli brutti di viso (a me sembra, però, che i bambini non siano mai brutti di viso). Secondariamente, se dei grandi non dirò nulla, c’è anche un’altra ragione: oltre che sono repellenti e che non sanno guadagnarsi l’amore, con loro entra in giuoco anche la retribuzione: loro hanno mangiato il pomo, hanno conosciuto il bene e il male sono diventati «sicut dei». E continuano ancora a mangiarlo. Ma i piccoli bambini non hanno mangiato nulla, e ancora non hanno nessuna colpa. Tu vuoi bene ai bambini, Alëša? Lo so che gli vuoi bene, e a te riuscirà chiaro perché di loro soli voglio parlare ora. Se anche loro, su questa terra, sono soggetti a sofferenze tremende, dev’essere, necessariamente, a causa dei padri loro: vengono puniti per i padri loro, che mangiarono il pomo. Ma vedi, questo è un ragionamento che non è di questo mondo: al cuore umano, qui sulla terra, riesce incomprensibile. Non è possibile che un innocente debba soffrire per le colpe d’un altro: e di quali innocenti si tratta! E nota bene, Alëša: i feroci, i passionali, i lussuriosi, gli uomini tipo Karamazov, non di rado amano teneramente i bambini. Nei bambini, finché sono bambini, fino ai sette anni, che enorme differenza dagli adulti: è proprio come se si trattasse d’un tutt’altro essere, dotato d’un’altra natura. Io ho conosciuto un brigante in carcere: gli era successo, nella sua carriera, di far strage d’intere famiglie, per le case dove di notte s’introduceva a far bottino, e aveva trucidato fra gli altri anche qualche bambino. Ma, stando in carcere, aveva per questi un amore incredibile. Dalla finestra della cella non faceva altro che guardare i bambini che giocavano nel cortile del carcere. C’era un maschiettino che aveva abituato a venirgli sotto la finestra, e quello gli s’era fatto grande amico Tu non sai perché ti dico tutto questo, Alèša? Chissà, ho la testa che mi duole, e mi sento triste.  - Tu, mentre parli, hai un aspetto strano, agitato, - notò Alëša, - sembri quasi fuori di te. - A proposito, mi parlava di recente un bulgaro a Mosca, - continuò Ivan Fëdoroviç, come se non udisse neppure il fratello, - di tutti i misfatti che turchi e circassi compiono comunemente là da loro in Bulgaria, per timore d’un’insurrezione in massa degli ortodossi: incendiano, sgozzano, violentano donne e bambini, inchiodano agli arrestati le orecchie contro lo steccato e così li lasciano fino al mattino, e poi al mattino li impiccano, e via di questo passo, che a certe cose non ci si può nemmeno pensare. In realtà, si qualifica spesso come «efferata» la crudeltà degli esseri umani, ma è una cosa straordinariamente ingiusta e offensiva per le fiere: la fiera non può mai essere crudele con gli umani, così raffinatamente, così artisticamente crudele. La tigre azzanna, sbrana e più di questo non sa fare. Non le passerebbe neanche per la testa di tenere degli umani, tutta una nottata, inchiodati per le orecchie a uno steccato, seppure avesse la possibilità di agire così. Questi soldati turchi, oltre quel che t’ho detto, tormentano con gran voluttà anche i bambini, cominciando dall’estirparli col pugnale fuor dall’utero materno, e terminando col gettare in aria i lattanti e infilzarli alle baionette sotto gli occhi delle madri. Appunto sotto gli occhi delle madri: qui sta il meglio della voluttà! Ma eccoti una scenetta che m’ha destato un interesse particolare. Immagina: un bambinello da latte fra le braccia della madre trepidante, e intorno i soldati che le sono entrati in casa. Costoro ne hanno pensata una fina: fanno vezzi al bambinello, gli ridono perché stia allegro, e ci riescono: il bambino comincia a ridere. In quell’istante, un soldato gli punta la pistola a un palmo di distanza dal viso. Il bambino tutto giulivo, scoppia nelle sue risatelle, tende i braccini per acchiappar la pistola, e a bruciapelo l’artista gli fa scattare il colpo dritto nel viso e gli sfracella la testolina Arte vera e propria non e vero? A proposito, si dice che ai turchi piacciano assai i dolciumi. … - Fratello mio, a che miri con tutto questo? - domandò Alëša. - Io credo che se il diavolo non esiste, e quindi è stato creato dall’uomo, questi lo ha creato a sua immagine e somiglianza.  - Né più né meno, allora, che Dio.  - Ma sai che hai un modo meraviglioso di rigirare le parolette come dice Polonio nell’Amleto? - scoppiò a ridere Ivan. - Hai colto al volo la mia parola: benissimo, ne son contento. Buono davvero il tuo Dio, se lo ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Tu mi domandavi, poco fa, a che cosa io mirassi: io vedi sono un appassionato e un collezionista di certi fatterelli, e me li appunto e ne faccio raccolta dai giornali e dalla viva voce tutte le volte che mi capita l’occasione, cosicché d’un certo genere di piccoli aneddoti posseggo ormai una buona collezione. I turchi s’intende, sono entrati a far parte della collezione, ma si tratta pur sempre di stranieri e gli stranieri li abbiamo sempre in odio e ne diciamo sempre male. Io però vanto anche dei pezzi nazionali, e perfino superiori a quelli turcheschi. Sai, il nostro forte sono le percosse sono le verghe e la frusta, e questo è un tratto nazionale: da noi le orecchie inchiodate a parete sono inconcepibili, noi siamo pur sempre europei; ma le verghe, ma la frusta, questo è proprio qualcosa di nostro, e nulla ce lo può strappare. All’estero, adesso, sembra che le percosse siano del tutto cadute in disuso, sia perché i costumi si sono ingentiliti sia perché sono state fatte delle leggi per cui una persona non ardisce più battere un’altra persona, però se ne sono rifatti sotto altra forma: io posseggo una graziosissima relazione, tradotta dal francese, sulla esecuzione capitale che a Ginevra, assai recentemente (sono in tutto cinque anni) fu fatta d’un delinquente e omicida, certo Richard, un giovane, se ben ricordo, di ventitré anni, pentitosi e convertitosi alla fede cristiana proprio all’ombra del patibolo. Codesto Richard era un figlio illegittimo, che ancora bambino, di sei anni, i genitori avevano regalato a certi pastori della montagna svizzera, e questi lo avevano allevato per farlo poi lavorare. Era cresciuto presso di loro come una bestiola selvaggia: non gli avevano insegnato nulla, e a sette anni lo mandavano già a pasturare il bestiame, alla pioggia e al freddo, quasi nudo e quasi senza mangiare. Né, ben s’intende, agendo a questo modo, quei pastori provavano il minimo dubbio o pentimento: anzi si ritenevano nel loro pieno diritto, giacché Richard era stato regalato loro come una cosa, ed essi non si sentivano obbligati neppure a dargli da mangiare. Lo stesso Richard testimonia che in quegli anni, a somiglianza del figliuol prodigo del Vangelo, aveva una terribile voglia di trangugiar magari quel pastone, che davano ai porci da ingrassar per la fiera, ma a lui non davano neanche di quella roba, e lo picchiavano quando ne toglieva ai porci: e così aveva passato l’infanzia e l’adolescenza, finché s’era fatto adulto, e, divenuto forte abbastanza, se n’era andato via di là, a pigliar da sé quel che gli occorreva. Questo selvaggio s’era messo a guadagnarsi la vita lavorando a giornata in Ginevra: il guadagno gli andava tutto in bere, viveva come un mostro, e aveva finito con l’ammazzare un vecchio e depredarlo. Lo avevano catturato, processato e condannato a morte. Là, sai, non ci son mica tanti sentimentalismi. Ed ecco che in prigione, senza perder tempo, gli s’accalcano intorno pastori protestanti e mèmbri delle varie fratellanze cristiane, dame di beneficenza e via discorrendo. Gl’insegnarono, lì in prigione, a leggere e a scrivere, si adoprarono a spiegargli il Vangelo, e dàgli a fargli prediche, a persuaderlo, a pressarlo, a cincischiarlo, a togliergli il fiato, fin tanto che lui stesso, solennemente, si riconobbe colpevole del suo delitto. Si convertì, scrisse al giudice, di sua mano, ch’era un mostro, ma che finalmente, nonostante tutto, aveva meritato d’esser illuminato da Dio, e d’esser toccato dalla Sua grazia. Tutta Ginevra fu sossopra, tutta la Ginevra benefica e pia. Il fior fiore della società si precipitò là da lui in prigione: Richard fu baciato, abbracciato: «Tu sei un nostro fratello, su te è discesa la grazia!»  E Richard, dal canto suo, giù a piangere di commozione: «Sì, la grazia è scesa su me! Prima, per tutta l’infanzia e la giovinezza, ero contento del cibo dei porci, ma ora anche su me è scesa la grazia, e muoio nel Signore». «Sì, sì, Richard, muori nel Signore: tu hai sparso del sangue, e devi morire nel Signore. Ammettiamo che tu non abbia colpa se non conoscevi affatto il Signore quando invidiavi il cibo ai porci e ti picchiavano perché rubavi loro il cibo (cosa malissimo fatta, giacché rubare è proibito): ma tu hai versato del sangue, e devi morire». Ed ecco che arriva l’ultimo giorno. Accasciato, Richard piange e non fa che ripetere ogni momento: «Questo è il più bello dei miei giorni, io vado dal Signore». «», strillano in coro pastori, giudici e dame di beneficenza, «questo è il più felice dei tuoi giorni, giacché tu vai dal Signore!» E tutto il branco s’avvia verso il patibolo, al seguito dell’infame carretta che porta Richard: chi in carrozza, chi a piedi. Ecco che raggiungono il palco. «Muori, fratello nostro», strillano a Richard, «muori nel Signore, giacché anche su te è scesa la grazia!» E così, coperto dai baci dei fratelli, il fratello Richard fu trascinato sul palco, accomodato sotto la ghigliottina e troncato, fraternamente, del capo, in cambio della grazia ch’era scesa anche su lui No, è proprio un caso caratteristico! Questa relazione è stata tradotta in russo, e da certi luteraneggianti filantropi russi della migliore società, diffusa per l’elevazione del popolo russo presso giornali e case editrici gratuitamente. Il giochetto tirato a Richard ha di buono ch’è nazionale. Da noi, benché sarebbe stravagante tagliar la testa a un fratello per la semplice ragione ch’è diventato fratello nostro, e che su lui è scesa la grazia, da noi però non manca, ripeto, quel che ci appartiene in proprio, e direi che non è niente da meno. Noi abbiamo, senza tante complicazioni, e sempre a portata di mano, lo storico piacere di torturare a forza di percosse. In Nekrasov [Nikolaj Nekrasov, 1821-1877, poeta e pubblicista] ci son quei versi sul mužik che scudiscia il cavallo con lo knut [frustino di nervi  di bue] sugli occhi, sui miti occhi. E chi non ha visto di queste cose: è russismo, questo! Nekrasov descrive come la debole cavallina, a cui è stato imposto un carico eccessivo, s’è incagliata col suo traino, e non riesce più a spostarlo. Il mužik la percuote, la percuote con accanimento, la percuote senza saper neppure perché fa così: nell’ebbrezza del percuotere, sferza giù a far male, a non finirla più: «Seppure non ce la fai, tira lo stesso: crepa, ma tira!» La povera ingenua s’arrabatta inutilmente, ed ecco che l’uomo comincia a scudisciarla, indifesa com’è, sui lacrimosi, sui «miti occhi». Fuori di sé, essa dà un ultimo strattone e trascina via il carico, e se ne va là là tutta tremante, senza rifiatare, mezzo a sghimbescio, con una sorta di passetto saltellante, con un’aria innaturale e piena d’onta: tutte cose che hanno, in Nekrasov, un rilievo tremendo. Ma qui si tratta pur sempre d’un cavallo, e i cavalli, Dio stesso li ha dati all’uomo perché li sferzi. Così i tartari ci hanno insegnato, e ci han regalato lo knut per buona memoria. Ma è possibile, non è vero?, prendere a sferzate anche le persone. Ed ecco che un evoluto e distinto signore, e la dama sua consorte, battono con le verghe la propria figlioletta, una piccina di sette anni: posseggo in proposito una relazione circostanziata. Il papà è tutto contento che le verghette siano nodose, - scotteranno di più, - dice, ed ecco che s’accinge a «piazzare» la sua figliola. Posso dire con sicurezza che ci son certuni che quando picchiano si eccitano di colpo in colpo fino alla voluttà carnale, letteralmente fino alla voluttà carnale, e ad ogni colpo che aggiungono, via via di più, in un progresso sempre crescente. Picchiano per lo spazio d’un minuto, seguitano a picchiare per cinque minuti, per dieci: più innanzi vanno, più pestano forte, più fitto, più crudelmente. La bambina da principio grida, poi la bambina non può più gridare, resta soffocata: «papà, papà, papino mio, papino!» La faccenda, per non so quale maledetto incidente, perviene all’autorità giudiziaria. Si ricorre a un avvocato. Il popolo russo ha bollato, ormai, l’avvocato: «avvocato - coscienza a nolo». L’avvocato strepita in difesa del suo cliente. «La cosa, (come a dire) è tanto semplice, familiare e comune: un padre che ha battuto la sua figliuola: ed ecco che una cosa simile, a vergogna dei nostri tempi, si porta dinanzi ai giudici!» Persuasi, i giurati si ritirano e pronunciano sentenza d’assoluzione. Il pubblico ulula, felice che abbiano assolto il torturatore Eheh, io non c’ero là, altrimenti avrei gridato la proposta di fondare una borsa di studio per onorare il nome di quel carnefice! Quadretti veramente attraenti. Ma, a proposito di bambini, io sono in possesso di roba anche migliore: ho una vasta, vastissima raccolta, Alëša, a proposito dei bambini russi. Dev’essere appunto l’incapacità di difendersi di queste creature, che seduce i tormentatori; e l’angelica fiduciosità del bambinetto, che non sa dove ricorrere e da chi andare, è appunto essa che attizza l’abominevole sangue dell’aguzzino. In ogni essere umano, non c’è dubbio, si cela una fiera: la fiera dell’irascibilità, la fiera dell’eccitazione carnale ai gridi della vittima torturata, la fiera dell’incontinenza senza freni, la fiera dei morbi contratti nella dissolutezza, gotta, mal di fegato e via dicendo. Una povera bambina di cinque anni veniva sottoposta dai suoi distinti genitori a tutte le torture immaginabili. La picchiavano, la frustavano, la prendevano a calci, senza sapere neanche loro perché, fino a ridur tutto il corpo un livido solo; poi si spinsero a un grado d’ancor maggiore raffinatezza: in tempo di freddi, di geli, la rinchiudevano per tutta la nottata nel cesso, e per punirla che di notte non avvisava dei suoi bisogni (come se un piccino di cinque anni, dormendo del suo profondo sonno d’angelo, potesse, già a quell’età, avvezzarsi ad avvisare in tempo), per punirla le impiastricciavano tutto il viso coi suoi stessi escrementi, e la costringevano a mangiar quegli escrementi: ed era la madre, era la madre che ce la costringeva! E questa madre poteva dormire mentre, tutta la notte, risuonavano i lamenti della povera piccina, chiusa in quel lercio stambugio! Questa creaturina, che ancora incapace perfino di rendersi conto di ciò che le accade, si batte in quel lercio stambugio, al buio e al freddo, col suo minuscolo pugno, il piccolo petto straziato, e invoca colle sue lacrime senza rancore, mansuete, «il buon Gesù», che le venga in aiuto: mi sai spiegare tu questa razza di controsenso, amico mio e fratello mio, caro il mio servo di Dio umilissimo, mi sai spiegare tu perché mai un controsenso simile sia necessario, e sia stato creato? Senza questo, dicono, non sarebbe neppure stata possibile la sopravvivenza dell’uomo sulla terra, giacché non avrebbe avuto la nozione del bene e del male. O perché avere questa diabolica nozione del bene e del male, se dev’essere a un prezzo tanto alto? Ma se poi tutto il mondo della conoscenza non vale le piccole lacrime di quella creaturina al «buon Gesù»! Io non parlo delle sofferenze dei grandi: quelli hanno mangiato il pomo e se ne vadano al diavolo, che il diavolo se li prenda tutti quanti: ma quest’altri, quest’altri! Io ti faccio soffrire, Alëša: mi sembri come stravolto. Posso smettere, se vuoi.   Non è niente, anzi io voglio soffrire, - mormorò Alëša.

     E allora – ci domandiamo – non c’è proprio speranza che il Bene si possa realizzare a questo mondo? Sulla parola-chiave speranza, elpis in greco, che, viaggiando nel territorio della sapienza poetica orfica, abbiamo incontrato nelle opere di Esiodo (ricordate?) dove la speranzaviene collocata, con profondo pessimismo, insieme a tutti i mali del mondo all’interno del Vaso di Pandora; ebbene, sulla parola-chiave speranzadobbiamo puntare ancora la nostra attenzione perché nel periodo dell’Ellenismo il concetto della speranza viene sottoposto ad una profonda trasformazione e Paolo di Tarso è uno dei protagonisti nell’attuare questa metamorfosi.

     Intanto il tema della speranza c’invita, prima di tutto – in funzione della didattica della lettura e della scrittura –, a far conoscenza con il poeta che Fëdor Dostoevskij cita nelle pagine che abbiamo appena letto: Nikolaj Nekrasov. Nikolaj Nekrasov (1821-1877) è un importante poeta russo, è uno scrittore sensibile soprattutto ai problemi sociali che toccano le grandi masse di diseredati che soffrono a causa di un sistema (il sistema feudale) che, in modo fortemente contraddittorio, si proclama cristiano ma che è basato su una profonda ingiustizia. Il diciottenne Nekrasov nel 1839, seguendo la sua vocazione di poeta, abbandona la carriera militare che gli era stata imposta dal padre, il quale lo disereda, e Nekrasov, senza l’aiuto economico della famiglia, è costretto, anche quando riuscirà a trovare un impiego da giornalista, ad esercitare vari mestieri e a condurre una vita difficile e tormentata; ma nonostante queste difficoltà si dedica con impegno alla Letteratura e la sua produzione è considerata la più alta espressione poetica della Letteratura russa di ispirazione sociale dell’Ottocento, una produzione che influisce notevolmente sulla formazione di tutti gli scrittori russi, compreso Dostoevskij che spesso lo cita nei suoi romanzi.

     L’opera più significativa di Nikolaj Nekrasov è il poema intitolato Chi vive bene in Russia? in cui lo scrittore presenta un ampio ed efficace quadro della vita e del lavoro del popolo russo. Nekrasov in questo poema alterna toni fortemente pessimistici ad espressioni nelle quali emerge la speranza(ed ecco il tema della speranza trattato in chiave ellenistica) che vi possa essere un avvenire migliore per chi soffre a causa dell’ingiustizia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Provate a cercare in biblioteca e collegandovi alla rete il poema di Nikolaj Nekrasov intitolato Chi vive bene in Russia?, in modo da poterne leggere qualche pagina…

     Nel periodo dell’Ellenismo di fronte a tutto il male che c’è nel mondo, Paolo di Tarso, nel suo Epistolario, trova il coraggio per parlare di speranzain termini fiduciosi. Questa affermazione ci rimanda al testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi: di questa Lettera ce ne siamo già occupate e occupati due settimane fa e ne abbiamo letto i primi due capitoli.

     Come sappiamo la Prima Lettera ai Tessalonicesi è considerato lo scritto più antico della Letteratura del Cristianesimo, ed è il testo dove compare per la prima volta la parola vangelo - euaggelìa, e due settimane fa abbiamo studiato questo argomento. La Prima Lettera ai Tessalonicesi è stata scritta molto probabilmente nell’anno 51, ed è stata inviata ad un gruppo di persone che si riconoscono nel Pensiero di Paolo e che vivono nella città di Tessalonica.

     La città di Tessalonica, attualmente più nota col nome di Salonicco, oggi, in Grecia, contende ad Atene il primato sul piano della vivacità culturale. Tessalonica (Salonicco) – e dobbiamo andare ad osservarla sulla carta geografica – si stende sulle prime pendici di una serie di basse colline, al centro del golfo omonimo: è una città di mare con un porto grande e ben attrezzato. Tessalonica (Salonicco) è formata da una città-bassa intorno al porto e da una città-alta collocata sulla collina. Tessalonica (Salonicco) è la capitale della Macedonia greca, la terra di Alessandro Magno, e difatti, a ovest della città, ci sono gli scavi di Vergìna, con le tombe dei re macedoni, la tomba di Filippo II, il padre di Alessandro, e i ritrovamenti che sono stati fatti: lo scheletro e il ricco corredo funebre, con tante armi e tanto vasellame, oggi li possiamo vedere nel Museo Archeologico di Salonicco, un museo molto ricco e molto interessante. A nord-ovest c’è il sito archeologico di Pella, l’antica capitale macedone di Filippo II.

     Tessalonica (Salonicco), tuttavia, è situata un po’ ai margini delle rotte turistiche tradizionali nonostante sia un luogo d’arte e di cultura con una notevole Università e con pregevoli monumenti, testimonianza del ruolo prestigioso che questa città ha avuto nel corso dei secoli. Tessalonica (Salonicco) è una città che mostra significative contaminazioni culturali: è stata fondata nel 315 a.C. dal generale macedone Cassandro, e noi abbiamo già citato questo personaggio nell’autunno scorso perché è stato un protagonista della lunga e terribile guerra di successione scatenatasi subito dopo la morte di Alessandro Magno. Cassandro si ritiene il successore naturale di Alessandro perché ha sposato la figlia del re Filippo II, la sorella minore di Alessandro, che si chiama Tessalonica. Cassandro fonda questa città dandole il nome della moglie, Tessalonica, per ricordare a tutti – prima ancora che Alessandro morisse – che lui ha acquisito un ruolo nella famiglia reale macedone. Tessalonica viene fondata su un sito che contiene le rovine dell’antica polis greca di Terme.

     Nel II secolo a.C. la città viene conquistata dai Romani e diventa la capitale della provincia di Macedonia: l’importanza di Tessalonica aumenta notevolmente perché di lì passa la Via Egnatia che unisce Roma con l’Oriente, passando da Brindisi, e ricordiamo che Paolo viaggia proprio su questa via per andare verso Roma. Tessalonica nel 300 d.C. diventa la residenza dell’imperatore Galerio e, nel 380, l’imperatore Teodosio, dopo aver diviso in due parti l’Impero Romano (d’Occidente e d’Oriente o Bizantino), vi si stabilisce e pubblica l’Editto (l’Editto di Tessalonica) che dà carattere ufficiale al Credo cristiano. Quindi le stratificazioni della città di Tessalonica sono davvero significative: da polis greca, a città ellenistica, a città romana, a città paleocristiana dell’impero romano d’Oriente o Bizantino.

     Nel VI secolo Giustiniano, l’imperatore bizantino più famoso, fa crescere Tessalonica tanto economicamente che culturalmente favorendo lo sviluppo di un grande mercato, la fondazione di molte Scuole e la costruzione di molti monumenti. All’epoca delle Crociate, durante la IV Crociata (siamo nel 1204), Tessalonica diventa la capitale del cosiddetto Regno latino fondato da un feudatario che si chiama Bonifacio del Monferrato. Bonifacio del Monferrato conquista la città di Tessalonica con il fondamentale contributo navale dei Veneziani ai quali (crociati più del mercato che della religione) interessa questo porto: il Regno latino-crociato d’Oriente dura dal 1205 al 1227. Il fatto è che, praticamente, questi Crociati (piemontesi e veneziani) si disinteressano completamente della liberazione del Santo Sepolcro: trattano con il sultano la possibilità di far visitare pacificamente i Luoghi Santi ai pellegrini cristiani che ne facciano richiesta e trovano molto più conveniente fare affari con gli Infedeli piuttosto che la guerra. Il papa Innocenzo III, Lotario del Conti di Segni (1198-1216), lancia numerose scomuniche contro questi Crociati che avevano intascato le ingenti risorse che erano state raccolte nella Cristianità per finanziare la Guerra Santa e poi le hanno investite in attività mercantili in accordo con il nemico; ebbene, le scomuniche del papa hanno avuto poco successo: le scomuniche non intaccano (non hanno mai intaccato) gli affari.

     Nel 1430 Tessalonica viene conquistata dai Turchi e, nel 1492 la città raddoppia quasi le sue dimensioni perché il sultano deve accogliere più di ventimila ebrei (c’era da secoli una comunità ebraica e una bella Sinagoga a Tessalonica) cacciati dalla cristianissima regina Isabella di Spagna, questi migranti si integrano e costituiscono la comunità etnica più attiva della città (gli Ebrei intraprendono attività artigianali, sono esperti nel far girare il denaro) e, quindi, coltivando i vantaggi di una cultura multietnica, Tessalonica diventa una delle città più ricche dell’Oriente.

     Nel 1912, nella disgregazione dell’impero Ottomano, gli abitanti di Tessalonica si ribellano e lottano con dedizione e sacrificio per l’annessione alla Grecia, che dal 1830 si era resa indipendente. Nel 1917 c’è stato l’evento più tragico che la città abbia mai vissuto: un tremendo incendio la devasta e la distrugge: per fortuna tutti i monumenti più importanti sono stati ricostruiti usando le stesse pietre, gli stessi mattoni, non lo stesso legno, ma un legno simile.

     Tessalonica – polis ellenica, città ellenistica, romana, paleo-cristiana, bizantina, crociato-latina, turca ottomana, della diaspora ebraica, della Grecia indipendente – è una città veramente multiforme.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate una visita a Tessalonica [Salonicco] utilizzando la guida della Grecia e collegandosi alla rete per osservare anche delle immagini: dell’Acropoli, delle Mura, delle Chiese paleocristiane del IV secolo e delle Chiese bizantine del VII secolo, della Torre bianca, dei Bagni turchi e delle Moschee del XV secolo, dei Mercati dei commercianti ebrei, delle Piazze del XX secolo, dei Musei etnici e del ricco Museo Archeologico… Quante cose interessanti da vedere, da capire, da conoscere: buon viaggio!…

     E ora ritorniamo al testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi. Se Paolo di Tarso invia una Lettera a Tessalonica questo significa che ha avuto un rapporto con questa città e che lì conosce qualcuno, e allora procediamo con ordine sul nostro itinerario.

     Nella parte più alta della città di Tessalonica (Ano Poli), sotto l’Acropoli, c’è il monastero di Vlàtadon che è stato fondato nel XIV secolo (nel 1300): intanto dobbiamo dire che dal verone del giardino di questo monastero si vede un bel panorama sulla città e sul porto, e poi dobbiamo dire che nella chiesa del monastero, costruita nel 1360, c’è anche una cappella dedicata ai Santi Pietro e Paolo, ebbene, qui, in questo luogo, secondo la Tradizione, avrebbe predicato Paolo di Tarso.

     Ma quando e come Paolo di Tarso è arrivato a Tessalonica? Con esattezza non lo si sa (non ci sono documenti che possano avvalorare la certezza storica di questi avvenimenti) ma il testo degli Atti degli Apostoli ci dà la sua versione, ed è un’ipotesi di tipo letterario: gli Atti, lo sappiamo, non è un libro di storia, è un catechismo tuttavia noi dobbiamo prendere in considerazione questa versione tenendo conto del fatto che nel racconto ci sono sicuramente degli elementi reali amalgamati con altri elementi di carattere allegorico e romanzesco (le studiose e gli studiosi di filologia considerano gli Atti degli Apostoli un pregevole esempio di romanzo degli albori e questo è un tema che abbiamo studiato nel corso di questo viaggio e di cui ci occuperemo ancora nel prossimo).

     Paolo si trova a Filippi (l’odierna Kavàla, andate ad osservarla sulla carta geografica) e da Filippi deve scappare in fretta. Quando Paolo arriva a Tessalonica porta sul corpo i segni dell’avventura che ha vissuto a Filippi e questo episodio avventuroso lo si può leggere nel testo degli Atti degli Apostoli al capitolo 16 di cui la Scuola consiglia la lettura insieme anche al capitolo 17 e al capitolo 18 che contengono i riferimenti a ciò che stiamo per raccontare.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se abbiamo la costanza di eseguire il compito, di seguire, strada facendo, le indicazioni di lettura che la Scuola ci dà, possiamo – con un investimento di pochi minuti al giorno [i capitoli 16, 17 e 18 degli Atti degli Apostoli occupano lo spazio di due pagine e mezza] – allargare le nostre conoscenze sui Libri che compongono quel significativo apparato ellenistico che chiamiamo la Letteratura dei Vangeli con particolare riferimento all’Epistolario di Paolo di Tarso…

     Paolo di Tarso, molto probabilmente, arriva a Tessalonica nell’anno 50. Tessalonica è una metropoli romana, è una grande città ellenistica, una città portuale in cui il volume degli scambi commerciali tra Oriente e Occidente, per l’epoca è da considerarsi enorme Tessalonica è una città che dovrebbe mettere in circolazione le idee ed è la sede di molte Scuole che appartengono al triangolo del pensiero ellenistico: ci sono Scuole epicuree, Scuole stoiche, Scuole scettiche che presentano, però, in modo ripetitivo e poco produttivo i loro programmi.

     A Tessalonica c’è una nutrita comunità ebraica con una bella Sinagoga: gli ebrei sono ben integrati in città e partecipano alle attività commerciali ma, dal punto di vista religioso, secondo la Tradizione, sono chiusi in se stessi.

     Tessalonica è una città dove la maggioranza degli abitanti vive e si comporta secondo uno stile di vita consumistico, i valori etici sono in crisi (come su tutto il territorio dell’Ellenismo) e quindi meraviglia il fatto che, in questo contesto saturo di disattenzione per gli ideali e per le fedi autenticamente vissute, il messaggio del vangelo predicato da Paolo abbia successo. Il vangelo, la buona notizia viene accolta a cominciare dalla Sinagoga – è lì che Paolo, da buon ebreo, va ad esprimere il suo Pensiero – e nasce un gruppo di consenso formato da un certo numero di fratelli ebrei (probabilmente qualche decina di persone che coltiva uno spirito riformista) che aderisce al messaggio di salvezza proposto da Paolo.

     Naturalmente i capi della Sinagoga (l’ala sadducea: nel prossimo itinerario analizzeremo le varie correnti dell’ebraismo) non ci stanno e disapprovano il comportamento di Paolo e lo denunciano alle autorità imperiali romane per intromissione negli affari interni di una comunità religiosa e così Paolo, ancora una volta (ma questa diventa una consuetudine), è costretto a fuggire di corsa anche da Tessalonica, poi deve fuggire da Berèa e poi si deve allontanare da Atene: a questo proposito, abbiamo già suggerito di leggere il capitolo 17 degli Atti degli Apostoli dove si narrano – ed è come leggere un romanzo – queste avventure (qui c’è anche il famoso episodio dell’Areopago che conosciamo bene).

     Poi Paolo arriva a Corinto e, appena può tirare il fiato, entra in ansia: è molto preoccupato perché pensa di aver abbandonato un bel gruppo di persone che si era aggregato a Tessalonica intorno a lui e aveva lasciato in sospeso tutta una serie di questioni da chiarire a proposito del messaggio si salvezza che va annunciando. A Corinto (altra grande città ellenistica) Paolo incontra molte persone tra le quali Timoteo e Sila, due attivisti del movimento a cui appartiene, il movimento dei cosiddetti cristiani ellenistici che – come sappiamo – si è formato ad Antiochia. Timoteo e Sila sono passati anche da Tessalonica (Paolo – come scrive nella sua Lettera, facendo capire di avere una certa autorità – li aveva messi al corrente dell’esperienza positiva che lui aveva vissuto in questa comunità) e da loro Paolo riceve buone notizie: Timoteo e Sila lo informano che la comunità di Tessalonica non solo resiste ma si sviluppa nella speranza (elpis), nella carità (agape) e nella fede (pistìs). Paolo, al sentire questa notizia, è commosso e anche sorpreso perché sono già quindici anni che predica e non ha mai ottenuto un successo: questo fatto suscita in lui la speranza e allora dal porto di Corinto s’imbarca, attraversa l’Egeo, e raggiunge Efeso (un’altra grande città ellenistica) e da Efeso, pieno di speranza, scrive ai Tessalonicesi.

     Il testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi è scritto davvero con sentimento: in questa Lettera abbondano i tratti delicati ed emerge la commozione per i ricordi. La Prima Lettera ai Tessalonicesi è composta da un testo che contiene l’incoraggiamento, la gratitudine, l’affetto, e poi emergono anche delle preoccupazioni perché una serie di temi riguardanti il messaggio di salvezza proposto da Paolo sono rimasti in sospeso e andrebbero chiariti per evitare malintesi; infatti Timoteo e Sila riferiscono a Paolo che alcuni aspetti del messaggio sono stati capiti male dai Tessalonicesi anche perché questi argomenti non sono stati ancora ben elaborati né da Paolo né da altri. E, quindi, Paolo, da Efeso, comincia subito a scrivere soprattutto con l’intento di chiarire le idee a se stesso.

     La Prima Lettera ai Tessalonicesi contiene un tema centrale di grandissima importanza nella Storia del Pensiero Umano, un tema assai noto che è entrato nel pensare comune delle persone e che ha avuto sempre un forte peso nella storia della Letteratura. Paolo presenta e sviluppa questo tema mettendo in evidenza due significative parole-chiave tratte dal linguaggio popolare della koiné ellenistica. La prima è la parola parusìa che, letteralmente, significa: la processione, la parata trionfale con cui un re, un monarca assoluto, attraversa la città per mostrarsi al popolo in tutta la sua gloria. Paolo usa questa parola comune per rappresentare la venuta gloriosa del Signore: Paolo pensava – e aveva dato ad intendere ai Tessalonicesi – che il ritorno trionfale del Signore fosse un avvenimento imminente.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Voi avete assistito, o preso parte, ad una processione, ad una parata, ad un corteo      ? [Questi avvenimenti corrispondono alla parola “parusìa”]… 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Dopo aver ascoltato l’annuncio della buona notizia, comunicato loro da Paolo, i membri della comunità di Tessalonica cominciano a preoccuparsi e si domandano con una certa angoscia: «Paolo ha detto che quando, a breve, il Signore tornerà nella gloria riconoscerà i suoi, ed essi vivranno in eterno con lui, ma coloro che sono morti, e che saranno assenti durante la parusìa, che fine fanno?». I Tessalonicesi si domandano preoccupati se tutti coloro i quali sono morti prima del ritorno del Signore siano tagliati fuori dai benefici della parusìa, e si domandano se la vita eterna tocchi solo a quelli che sono ancora vivi, si domandano se, alla venuta del Signore, solo i vivi comincino insieme a Lui un’esistenza immortale. «Possibile – si domandano i Tessalonicesi, usando una terminologia popolare – che quelli che muoiono nell’attesa, a pochi giorni dalla parusìa, la prendono in tasca e siano perduti per sempre?». Questi sono gli interrogativi che si pongono preoccupati i Tessalonicesi ai quali Paolo ha sbrigativamente comunicato (poi è dovuto scappare) che, a breve, il Signore viene nella gloria. Perché Paolo è commosso ed è piacevolmente sorpreso quando sente raccontare da Timoteo e da Sila che i membri della comunità di Tessalonica si stanno facendo queste domande?

     La prima cosa importante che Paolo capisce è che, a Tessalonica, il suo messaggio ha suscitato una speranzae, quindi, comincia a pensare che questo concetto abbia un valore provvidenziale: la speranza, che nella cultura orfica è sinonimo di illusione, può diventare sul terreno della sapienza poetica ellenistica sinonimo di fiducia. Paolo, di fronte a un tema così scottante, decide di scrivere ai Tessalonicesi proprio per cercare di dare stabilità ed equilibrio ad un pensiero, un pensiero che, quando è scritto, diventa fermo, diventa punto di riferimento: ed è proprio con un punto dopo l’altro che si costruisce la linea.

      Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi spiega e chiarisce che: la parusìa (il ritorno del Signore) definisce il termine della Storia umana, quando tutti, i vivi e i morti, saranno riuniti con il Signore risorto per vivere per sempre con lui. Ma Paolo – visto che il Signore era risorto ed era salito al cielo da più di un quindicennio, e la parusìa era un po’ in ritardo sulla tabella di marcia – aggiunge che la decisione ultima spetta al Signore, e la decisione del Signore può essere condizionata dalla capacità che abbiamo di coltivare la speranza con fiducia. Il Signore viene nella gloria se noi siamo capaci di sperare sinceramente in questo avvenimento: la fede si fonda non sulla certezza ma sulla speranza.

     E allora Paolo sembra voler affermare che, prima di tutto, c’è la speranza: è su questa parola-chiave che si fonda il messaggio della salvezza, sulla speranza? Perché usiamo il punto interrogativo? Tutti quelli – scrive Paolo – che hanno coltivato la speranza nella parusìa (nella venuta gloriosa del Signore) parteciperanno al suo trionfo sul male e sulla morte, quindi – scrive Paolo ai Tessalonicesi – il senso della vita cristiana è dato dalla speranza nella parusìa (nella venuta gloriosa del Signore) ma – aggiunge Paolo – la speranza (che cosa significa sperare?) deve essere alimentata quotidianamente con la carità (con l’amore solidale) perché è con gli atti di solidarietà che si manifesta la fede. Ma, allora, Paolo sembra voler affermare che prima di tutto c’è la carità: è su questa parola-chiave che si fonda il messaggio della salvezza, sulla carità (agape)? Perché dobbiamo usare i punti interrogativi? Perché, per fortuna, Paolo, con le sue aporie (contraddizioni intellettuali), c’invita a riflettere: lui, dal modo in cui è costruito il testo, non decide che cosa viene prima perché concepisce speranza, fede, carità come componenti sinergiche. Purtroppo, qualche secolo dopo, sul primato dell’una sull’altra – a seconda dell’esegesi che sul testo verrà fatta – si misurerà l’ortodossia: ma questa è un’altra storia.

     Nella Prima Lettera ai Tessalonicesi Paolo sviluppa un tema significativo mettendo in evidenza due parole-chiave tratte dal linguaggio popolare della koiné ellenistica, la prima – come abbiamo studiato – è la parola parusìa e la seconda è la parola anastasis (Anastasia). Sappiamo tutti che il termine anastasissignifica riportare in vita e, quindi, la parola anastasia significa risurrezione (in senso traslato). Questa parola, sotto forma di nome proprio, la troviamo spesso nella Letteratura, in particolare nei romanzi russi dove i personaggi femminili di nome Anastasia non portano mai questo nome a caso ma c’è spesso una precisa ragione allegorica che vuole raffigurare soprattutto la rinascita(una vita che sia qualitativamente nuova).

     Le parole parusìa e anastasia, presenti nel testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi – della quale, fra poco, leggeremo alcuni brani inerenti alla riflessione che stiamo facendo – supportano il concetto della speranza, e allora, prima di tutto c’è la speranza che alimenta la fede e la carità? Ma l’anastasia (l’idea della risurrezione) è anche un ideale che richiama la fede(la fede è un ideale): e allora, prima di tutto c’è la fede che alimenta la speranza e la carità? Il pensiero cristiano – così come emerge dall’Epistolario di Paolo di Tarso – è plurale: presenta una pluralità di soluzioni.

     C’è poi un altro punto nodale nel testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi di cui, fra poco, leggeremo alcuni brani inerenti alla riflessione che stiamo facendo. Nel versetto 14 del capitolo 4 della Prima Lettera ai Tessalonicesi troviamo una parola proveniente (dalla koiné) dal lessico popolare del greco ellenistico: la parola ktastai. La parola ktastaiè un termine comune che ha più di un significato: ci soffermiamo su questa parola per mettere, prima di tutto, in evidenza la capacità che ha Paolo di Tarso nell’avvalersi del glossario (del dizionario) ellenistico.

     La parola ktastai, letteralmente, significa vaso, ma significa anche corpo e significa anche moglie. Voi capite che – in relazione a molti termini del significativo vocabolario ellenistico creato da Paolo di Tarso – si è determinato, nel corso dei secoli, uno scontro esegetico e un forte dibattito di natura interpretativa. Prima del Concilio Ecumenico Vaticano II, nella traduzione del termine ktastai, veniva privilegiava la parola corpo(che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo…”) e questa scelta presuppone una visione più individualistica della vita cristiana. La traduzione in lingua corrente della Letteratura dei Vangeli, che è stata fatta dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, ha privilegiato, nella traduzione del termine ktastai, la parola moglie(ognuno sappia vivere con la propria moglie…”). Anche se c’è chi fa notare giustamente che la moglievista in modo allegorico come un vasofa pur sempre pensare ad un elemento subalterno; tuttavia questa traduzione presuppone una visione più solidale della vita cristiana, orientata verso le relazioni umane, con un ammonimento per la realizzazione dell’amore solidale e con un riferimento al rispetto della dignità della donna.

     La scelta e l’uso – da intellettuale ellenista – che Paolo di Tarso, nel suo Epistolario, fa delle paroleè molto significativo. La parola ktastai(che per noi, ora, funge da esempio emblematico, potremmo farne decine, e altri ne faremo) nel suo significato di vaso sembra voler evocare la speranza [elpis]” che alimenta la fede e carità, mentre nel suo significato di corpo sembra voler richiamare la fede [pistis]” che alimenta la speranza e la carità, e poi nel suo significato di mogliesembra fare riferimento all’amore solidale (agape), alla carità che alimenta la speranza e la fede. Il testo dell’Epistolario di Paolo di Tarso presenta una pluralità di soluzioni.

     E ora leggiamo una serie di brani dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi per constatare come emerga, già dal primo scritto di Paolo di Tarso, un significativo catalogo di termini comuni – parusìa, anastasis, elpis, pistis, agape – mutuati dal glossario dell’Ellenismo e trasformati in eloquenti parole-chiave a servizio di una nuova Letteratura capace, nel giro di qualche secolo, di spaccare la Storia in due. Queste parole – parusìa, anastasis, elpis, pistis, agape –, quasi mai studiate all’interno del loro contesto culturale, quello ellenistico, hanno finito per non dire quasi più nulla nonostante la loro carica valoriale e, a questo proposito, tornano alla mente le parole scritte da don Lorenzo Milani nel suo primo libro intitolato Esperienze pastorali (1956): «Per evangelizzare occorre alfabetizzare».

LEGERE MULTUM….

Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Tessalonicesi  2, 17-20  3   4   5, 1-11  (51 d.C.)

Quanto a me, fratelli, da poco ero stato costretto a separarmi da voi, e già avevo un gran desiderio di rivedervi. Ero lontano materialmente ma non col cuore. Ero impaziente di rivedervi. Così più di una volta ho pensato di venire personalmente, ma Satana me lo ha impedito. Comunque voi, proprio voi siete la mia speranza, la mia gioia, il segno di vittoria che potrò presentare con orgoglio davanti al Signore nostro Gesù, quando verrà. Sì la mia gloria e la mia gioia siete voi. Non riuscivo a sopportare quella situazione. Allora decisi di rimanere io solo ad Atene e di mandare da voi Timòteo, nostro fratello nella fede. Egli lavora al servizio di Dio, per diffondere il vangelo [la buona notizia]. Ve l’ho mandato per fortificarvi e incoraggiarvi nella vostra fede, perché nessuno si lasci spaventare dalle persecuzioni che deve affrontare. Sapete bene che per noi le persecuzioni sono una cosa normale. Già quand’ero tra voi, vi avevo detto che avremmo dovuto essere perseguitati. E, come sapete, quel che vi ho detto è realmente accaduto. Dunque io non riuscivo più ad aspettare, e così vi ho mandato Timòteo, per avere notizie della vostra fede. Avevo paura che il demonio avesse potuto prendervi nella tentazione, e che tutto il mio lavoro tra voi fosse diventato inutile. Ma ora Timòteo è tornato e mi ha portato buone notizie della vostra fede e del vostro amore [agape]. Egli mi ha detto che avete sempre un buon ricordo di me, e che desiderate rivedermi come io desidero vedere voi. Così, fratelli, con la vostra fede, mi avete consolato, mi avete liberato dalla angoscia e dalla sofferenza che provavo pensando a voi. Ora, io mi sento rivivere, sapendo che voi rimanete fermamente uniti al Signore. E non so come ringraziare Dio, e chiedo con insistenza di poter rivedere i vostri volti e di potervi dare ciò che ancora manca alla vostra fede. Dio stesso, che è nostro Padre, e Gesù nostro Signore, mi aprano una strada per venire fino a voi. E il Signore faccia crescere tutti voi con abbondanza, nell’amore tra voi e nell’amore verso tutti, così come anch’io vi amo. I vostri cuori siano forti, in modo che possiate essere santi e perfetti davanti a Dio nostro Padre, quando il nostro Signore Gesù verrà con tutti i suoi santi. Per il resto, fratelli, voi avete imparato da noi come dovete comportarvi per piacere a Dio. E già vi comportate così. Ma ora, in nome del Signore Gesù, io vi prego e vi supplico di migliorare ancora. Perché voi sapete quali sono le istruzioni che vi ho dato da parte del Signore Gesù. Questa è la sua volontà: vivete in modo degno di Dio! E quindi siate lontani da ogni immoralità. Ognuno sappia vivere con la propria moglie [ktastai] con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare da indegne passioni, come fanno invece i pagani che non conoscono Dio. In queste cose nessuno deve offendere o ingannare gli altri. Ve l’ho già detto e vi ho già avvertiti seriamente: il Signore punisce chi commette questi peccati. Dio non ci ha chiamati a vivere nella immoralità, ma nella santità. Perciò, chi disprezza queste istruzioni, non disprezza l’essere umano ma Dio che vi ha dato il suo Spirito Santo. Per quanto riguarda l’amore fraterno, non avete bisogno che io vi scriva nulla. Voi stessi, infatti, avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri e manifestate questo amore verso tutti i nostri fratelli che abitano nell’intera Macedonia. Ma io vi incoraggio a fare sempre meglio. Fate il possibile per vivere in pace; curate i vostri impegni e guadagnatevi da vivere con il vostro lavoro, come vi ho insegnato. Così, quelli che non sono cristiani, avranno rispetto del vostro modo di vivere, e voi non sarete di peso a nessuno. Fratelli, voglio che siate ben istruiti su ciò che riguarda i morti: non dovete continuare a essere tristi come gli altri, come quelli che non hanno nessuna speranza. Noi crediamo che Gesù è morto e poi è risuscitato. Allo stesso modo, crediamo che Dio riporterà alla vita [anastasis], insieme con Gesù, quelli che sono morti credendo in lui. Come ci ha insegnato il Signore, io vi dico questo: noi che siamo vivi e che saremo ancora in vita per la venuta del Signore [parusìa] non avremo alcun vantaggio su quelli che saranno già morti. Infatti in quel giorno sentiremo un ordine, la voce dell’arcangelo e il suono della tromba di Dio. Il Signore scenderà dal cielo, e allora quelli che sono morti credendo in lui risorgeranno per primi. Noi, che saremo ancora vivi, saremo portati in alto, tra le nubi, insieme con loro, per incontrare il Signore. E da quel momento saremo sempre con il Signore. Dunque, consolatevi a vicenda, con questi insegnamenti. Non è il caso, fratelli e sorelle, che io vi dica quando questo accadrà. Voi stessi sapete bene che il giorno del Signore verrà improvvisamente, come un ladro di notte. Quando la gente dirà: «Ora è tutto tranquillo e sicuro», proprio allora il disastro li colpirà, improvviso, come i dolori del parto. E nessuno potrà sfuggire. Ma voi, fratelli, non vivete nelle tenebre, e quindi quel momento non vi prenderà di sorpresa, come un ladro: tutti, infatti, siete dalla parte della luce e del giorno. Noi non siamo dalla parte delle tenebre e della notte. Di conseguenza, non dobbiamo rimanere addormentati, come gli altri; dobbiamo rimanere svegli e pronti. Quelli che dormono, è di notte che dormono. Quelli che si ubriacano, lo fanno di notte. Ma noi che siamo dalla parte del giorno, dobbiamo essere pronti: la fede [pistis] e l’amore [agape] siano la nostra corazza, e la speranza [elpis] della salvezza sia il nostro elmo. Perché Dio non ci ha destinati a subire la sua condanna, ma piuttosto a possedere la salvezza, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. Egli è morto per farci vivere con lui, sia che siamo morti o vivi, quando egli verrà. Perciò incoraggiatevi e aiutatevi a vicenda, come già fate.

     Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi parla di gioia, parla di amore fraterno e solidale, parla di speranza nella salvezza, evoca la luce del giorno.

     Dostoevskij – parafrasando nelle forme e nei contenuti la Letteratura dei Vangeli – si domanda drammaticamente dove sia finita, dopo duemila anni di Cristianesimo, la forza propulsiva delle parole salvifiche contenute ne l’Epistolario di Paolo di Tarso.

     E allora, per concludere, continuiamo a leggere il capitolo intitolato Ribellione da I fratelli Karamazov:

LEGERE MULTUM….

Fëdor Dostoevskij,  I fratelli Karamazov

Ribellione

- Ti racconto - disse Ivan - solo un’altra scenetta: c’era allora, agl’inizi l’Ottocento, un generale, un generale di vaste aderenze e ricchissimo latifondista, ma sai, di quelli che ritirandosi dal servizio a riposo, avevano quasi quasi la convinzione d’essersi guadagnati diritto di vita e di morte sui loro sudditi. Orbene, se ne stava questo generale nel suo possedimento di duemila anime, e faceva il padreterno, trattando i modesti vicini come suoi parassiti e buffoni. Ai canili, centinaia di bestie e un centinaio di canottieri, tutti in divisa, tutti a cavallo. Quand’ecco che un ragazzo della servitù, un ragazzetto di otto anni al massimo, tira, così giocando, un sasso, e rovina la zampa al levriero preferito del generale. «Come mai il cane mio preferito s’è azzoppato?»  Gli vanno a riportare che ecco, proprio quel ragazzo là gli ha tirato un sasso e gli ha rovinata la zampa.  «Ah, sei stato tu?» lo squadrò il generale. «Pigliatelo!»  Lo pigliarono d’in braccio alla madre, e tutta notte lo lasciarono chiuso nel canile: al mattino, appena giorno, esce fuori il generale, parato di tutto punto per la caccia, e monta a cavallo, circondato dai parassiti, dai cani, dai canottieri, dai cacciatori, tutti a cavallo. Intorno era stata radunata, per assistere all’esempio, la servitù, e innanzi a tutti la madre del ragazzo colpevole. Portano fuori dalla gabbia il ragazzo. Era una fosca, fredda, nebbiosa giornata d’autunno, di quelle famose per la caccia. Il generale ordina che il ragazzo sia spogliato, e il bambino viene spogliato nudo: trema tutto, è fuori di sé dal terrore, non osa mandare un lamento «Cacciatelo innanzi!» comanda il generale. «Corri, corri!» gli gridano i canottieri: e il ragazzo si mette a correre «Atú, acchiappalo!» grida il generale, e gli lancia dietro tutto lo squadrone dei cani da presa. Lo fece raggiungere sotto gli occhi della madre, e i cani sbranarono il bambino a pezzi Pare che il generale sia stato interdetto. Ebbene che si sarebbe dovuto farne? Fucilarlo? Per soddisfare il senso morale, si sarebbe dovuto fucilarlo? Parla, piccolo Alèša!

- Fucilarlo! - disse Alèša a mezza voce alzando lo sguardo al fratello. 

- Bravo! - stridette Ivan come esultando. - Ma bene, il mio asceta! Dunque guarda un po’ che diavoletto ti s’annida in cuore, Alèša Karamazov! 

- Ho detto una balordaggine, ma

- E questo è l’importante, che c’è un ma- gridò Ivan. - Sappi, novizio mio, che le balordaggini sono più che necessarie su questa terra. Sulle balordaggini poggia il mondo. Noi sappiamo quel che sappiamo!

- Che cosa sai, tu? 

- Io non comprendo nulla, - continuò Ivan, come se delirasse -  io voglio attenermi al dato di fatto. È gran tempo che ho deciso di non comprendere perché traviserei i fatti: e invece io ho deciso di attenermi al dato di fatto.  

- A che scopo tu mi stai tentando? - esclamò Alèša lancinato dal dolore. - Me lo dirai, una buona volta?  

- Certo che te lo dirò. Ivan restò in silenzio un momento col viso pieno di tristezza. Stammi a sentire: ho preso i bambini soli, perché la cosa riuscisse più evidente. Dell’altre lacrime umane, di cui è imbevuta la terra intera, dalla scorza fino al centro non dirò nulla: io sono una cimice, e lo riconosco con la massima umiltà che non posso intendere un bel nulla delle ragioni per cui il mondo è composto così. Si vede che gli stessi esseri umani ne avranno colpa: gli era stato dato il paradiso, loro hanno voluto la libertà e hanno rapito il fuoco al cielo, pur sapendo che sarebbero stati infelici: non è dunque il caso di averne pietà. Io so, con la mia miserabile, terrestre intelligenza euclidea, che la sofferenza c’è, che tutto scorre via e viene a controbilanciarsi: quel che occorre, a me, è una sanzione suprema che sia non già nell’infinito, indeterminata nel luogo e nel tempo, ma proprio qui, su questa terra, e che la veda io coi miei occhi. Io ho avuto fede, e io voglio vedere cogli occhi miei: e se a quel tempo sarò morto, ebbene, che mi si faccia risuscitare perché se tutto si svolgesse senza che io fossi presente, sarebbe un’offesa troppo grossa. Io voglio vedere cogli occhi miei il cerbiatto giacere a fianco del leone, e il trucidato alzarsi e abbracciare colui che lo ha ucciso. Io voglio trovarmi lì, quando tutti, d’improvviso, verranno a capire perché il mondo sia stato tale qual’è. È questo il desiderio su cui si fondano tutte le religioni della terra, e io, dal canto mio, ho fede e posto che tutti si debba soffrire, per comperare a prezzo di sofferenza la futura armonia, che c’entrano però i bambini, me lo dici tu, per favore? È assolutamente incomprensibile perché debbano soffrire anch’essi. La solidarietà nel peccato, fra gli umani, io la comprendo ma non già la solidarietà, nel peccato, con i bambini: debbo rispondere che una verità come questa non è di questo mondo, e io non la posso comprendere. Un burlone potrebbe dire che già, prima o poi, il bambino si farà grande e avrà campo di peccare: ma qui abbiamo innanzi il caso che non s’è fatto grande: d’otto anni lo hanno fatto sbranare dai cani! Oh, Alèša, non è ch’io bestemmi! Comprendo bene quale dovrà essere il fremito della creazione quando ogni cosa nei cieli e sotto terra fonderà insieme in un unico grido di osanna, e tutto ciò che vive e che ha vissuto proromperà: «Giusto sei Tu, o Signore, dacché si sono svelate le Tue vie!» Certo, quando la madre s’abbraccerà con l’aguzzino che ha fatto sbranar dai cani il figlio suo, e tutt’e tre inneggeranno fra le lacrime: «Giusto sei Tu, o Signore», allora senza dubbio si toccherà l’apice della conoscenza, e tutto sarà chiarito. Ma appunto qui è l’inciampo, appunto questo non posso accettare. Vedi, Alèša, può anche darsi che effettivamente vada così, e se resusciterò per vederlo, allora anch’io, magari, proromperò con tutti gli altri, alla vista di quella madre abbracciata al carnefice del suo piccino: «Giusto sei Tu, o Signore»; ma io non voglio prorompere a questo modoa questa suprema armonia, oppongo un netto rifiuto. Non vale, essa, le povere lacrime foss’anche di quel solo bambino straziato. Non vale, perché queste piccole lacrime rimarranno irriscattate. Dovrebbero essere riscattate, altrimenti non potrebbe sussistere l’armonia. Ma in che nodo, in che modo vorresti mai riscattarle? Ti pare una cosa possibile? Forse col dire che saranno vendicate? Ma che me ne faccio della vendetta, che me ne faccio dell’inferno per i tormentatori: cosa può rimediare, qui, l’inferno, se quelli, ormai, li hanno patiti i tormenti? E poi, che bella armonia, se ci sarà l’inferno! Perdonare voglio io, abbracciare voglio: non voglio già che si soffra dell’altro. E se le sofferenze dei bambini fossero destinate a completare quella somma di sofferenza, che era il prezzo necessario per l’acquisto della verità, in tal caso io dichiaro fin d’ora che tutta la verità non vale un tal prezzo. Io non voglio che la madre s’abbracci col carnefice che ha fatto sbranare suo figlio dai cani! Essa non deve osare di perdonargli! Se le pare perdoni pure al carnefice la propria immensa sofferenza materna: ma le sofferenze del suo bambino essa non ha il diritto di perdonarle seppure il bambino stesso le perdonasse a costui! Non voglio l’armonia: per amore stesso dell’umanità, non la voglio. Voglio che si rimanga, piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato d’invendicata sofferenza e d’implacato scontento, dovessi pure non essere nel giusto. Troppo caro, in conclusione, hanno valutato l’armonia: non è davvero per le tasche nostre, pagar tanto d’ingresso. Quindi, il mio biglietto d’ingresso, io m’affretto a restituirlo. E se appena appena sono una persona onesta, ho l’obbligo di restituirlo il più presto possibile. E così faccio appunto. Non è che non accetti Dio, Alèša: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto.  

- Questo si chiama ribellione, - esclamò Alèša, piano, cogli occhi bassi.  

- Ribellione? Non avrei voluto sentir da te una parola simile, disse Ivan in tono penetrante. - Non si può mica vivere in stato di ribellione, e invece io voglio vivere. Di’ tu sinceramente, sei tu che chiamo in causa, rispondimi: supponi che fossi tu stesso a innalzare l’edificio del destino umano, con la meta suprema di rendere felici tutte le persone, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno una sola minuscola creatura, per esempio proprio quella bambinetta che si batteva col piccolo pugno sul petto, e sulle sue invendicate povere lacrime fondare codesto edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni, parla senza mentire?  

- No, non consentirei, - disse piano Alèša.

- E puoi ammettere l’idea che gli esseri umani, per i quali tu edificassi, consentirebbero dal canto loro ad accettare la felicità propria in cambio del sangue ingiustificato d’un piccino straziato, e accettando il patto, potrebbero rimanersene in eterno felici? 

- No, non posso ammetterlo.  Fratello, - esclamò d’improvviso Alèša, con gli occhi sfavillanti, - tu hai detto un momento fa: esiste in tutto l’universo un Essere che avrebbe la possibilità e il diritto di perdonare? Ma questo Essere esiste, ed Esso può tutto perdonare, tutti quanti e di tutto quanto, perché Lui per primo ha donato l’innocente sangue Suo a favore di tutti e in riparazione di tutto. Tu ti sei scordato di Lui, e invece su Lui per l’appunto sta fondato l’edificio, e sarà a Lui, l’«Unico senza peccato» col sangue Suo!

- No, non mi sono scordato di Lui: e mi meravigliavo, anzi, mentre si discuteva, come mai tu tardassi tanto a venirmi fuori con Lui, giacché comunemente, nelle discussioni, tutti quelli della parte vostra mettono innanzi Lui prima d’ogni altra cosa. Sai, Alèša (ma tu non ridere): una volta, io ho composto un poema, sarà un anno. Se avessi da perdere con me altri dieci minuti, io potrei raccontartelo

- Tu hai scritto un poema?

- Oh no, non l’ho scritto, - si mise a ridere Ivan, - e mai in vita mia non ho scritto neppure due versi. Ma questo poema l’ho immaginato e l’ho tenuto a mente. Con entusiasmo l’ho immaginato. Tu sarai il mio primo lettore, o meglio uditore. Perché, infatti, un autore dovrebbe perdere l’occasione sia pure d’un unico uditore? - ridacchiò Ivan. - Dunque debbo raccontartelo, o no?  

- Io sono tutt’orecchi, - disse Alèša.  

- Il mio poema s’intitola: «Il Grande Inquisitore»: è una cosa strampalata, ma ho piacere di farla sentire a te.

     La prossima settimana – anche se non è facile seguire la sua (di Dostoevskij) stringente, incalzante, rigorosa riflessione – incontreremo il Grande Inquisitore. Non sarà difficile entrare in contatto con lui perché ci tiene d’occhio con molta attenzione e soprattutto tiene d’occhio San Paolo che ha esaltato il concetto della libertà. Non si capisce bene Dostoevskij se non si conosce l’Epistolario di Paolo di Tarso.

     Colui che conosciamo come San Paolo è un ebreo che si chiama Shaul. Il primo significativo tema culturale, che ci si propone, incontrando questo personaggio – questo scrittore ellenistico di cui vogliamo imparare a leggere l’Epistolario – è quello dei suoi nomi: Shaul-Saulo e Paulus-Paolo. Quali interrogativi suscitano questi nomi? E perché i nomi– in funzione della didattica della lettura e della scrittura – sono importanti?

     Di questo e di altri temi ce ne occuperemo la prossima settimana perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere per ogni persona.

     La Scuola è qui e il viaggio continua: il prossimo è il terzultimo itinerario di questo Percorso che comincia ad avviarsi verso la conclusione…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 7, 2010