Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica 12-13-14 maggio 2010
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA CI SONO LE OMISSIONI
DI PAOLO SUL SUO NOME, SULLA SUA FAMIGLIA E SULLA SUA CITTÀ …
Alla fine dell’itinerario della scorsa settimana abbiamo preannunciato che avremmo incontrato “Il Grande Inquisitore”. Voi sapete che Il Grande Inquisitore è il titolo di un capitolo che si trova nel cuore del romanzo di Fëdor Dostoevskij intitolato I fratelli Karamazov (siete entrate, siete entrati in contatto con questo romanzo? Questo è il momento adatto per avvicinarsi a un testo che contiene tutte le principali parole-chiave e i concetti-cardine che stiamo incontrando in quest’ultima parte del nostro Percorso e che incontreremo ancora nel Percorso del prossimo anno scolastico). Questo celebre brano – il capitolo de Il Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij – rappresenta uno dei vertici della Letteratura universale ed è preceduto da un capitolo che s’intitola Ribellione o La rivolta e che noi abbiamo letto interamente: è un testo inquietante.
I protagonisti di questa parte del romanzo sono i due fratelli Karamazov che rappresentano meglio il pensiero dell’autore: Aleksej (Alëša) e Ivan. Dostoevskij nella sua lettera iniziale rivolta alla lettrice e al lettore (una letterina che funge da prefazione al suo libro: l’avete letta? Non perdete l’occasione di leggerla!) nomina come suo “eroe” la figura di Aleksej (Alëša) ma noi sappiamo però che il personaggio di Ivan Karamazov (le studiose e gli studiosi parlano di “enigma Ivan”) è quello che interpreta meglio (anche lo scrittore lo sa) la rabbia e i pensieri di Dostoevskij: è, infatti, a Ivan Karamazov – il fratello scettico, negatore di Dio ma assetato di fede – che lo scrittore fa trattare con rigore, in chiave evangelica, i temi dell’Amore del prossimo, della Libertà che si realizza solo con il rispetto delle regole condivise, della Sofferenza umana e del Male assoluto.
Avviciniamoci ora al testo de Il Grande Inquisitore anche se non è un incontro agevole, ci vuole pazienza per seguire la stringente, incalzante e rigorosa riflessione di Dostoevskij per bocca di Ivan Karamazov. Non è, però, difficile entrare in contatto con Il Grande Inquisitore perché noi siamo imbevuti di cultura evangelica mediata attraverso l’Epistolario di Paolo di Tarso (anche se non ce ne rendiamo bene conto perché la stragrande maggioranza delle persone ha in testa una gran confusione dovuta al fatto – come scrive don Milani – che è stata attuata un’opera di indottrinamento più che di alfabetizzazione e senza alfabetizzazione – sostiene il priore di Barbiana – non c’è evangelizzazione) ed è per questo che Il Grande Inquisitore tiene desta la nostra attenzione mentre lui, l’Inquisitore, tiene d’occhio, senza citarlo, San Paolo che – a suo dire – ha esaltato troppo il concetto della “libertà”.
Dostoevskij, in quanto profondo conoscitore della Letteratura evangelica, si domanda – e poi la sua riflessione, in età contemporanea, è stata ripresa in varie forme dalla Letteratura, dal Teatro, dal Cinema, dall’Arte – che cosa succederebbe se Gesù Cristo decidesse di comparire per un momento sulla terra: solo per un momento, quindi, non ancora per attuare la “parusìa” (una parola-chiave di cui conosciamo il significato), bensì per una fugace apparizione.
Ivan Karamazov, il fratello scettico, il senza Dio ma assetato di fede (e lo abbiamo letto la scorsa settimana), – dopo essersi chiesto drammaticamente: perché Dio non estirpa il Male dal mondo, perché permette anche le sofferenze dei bambini, che cosa ne possono i bambini? – risponde a suo fratello Alèša che lui non si è dimenticato di Gesù Cristo, dell’«Unico senza peccato che, col sangue Suo, ha riscattato l’Umanità»!
Leggiamo (le prime righe del brano le abbiamo già lette la scorsa settimana ma dobbiamo riprendere il filo del discorso) che cosa dice Ivan a suo fratello Alèša al termine del capitolo intitolato Ribellione che introduce quello de Il Grande Inquisitore:
LEGERE MULTUM….
Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov
Ribellione
- No, non mi sono scordato di Lui: e mi meravigliavo, anzi, mentre si discuteva, come mai tu tardassi tanto a venirmi fuori con Lui, giacché comunemente, nelle discussioni, tutti quelli della parte vostra mettono innanzi Lui prima d’ogni altra cosa. Sai, Alèša (ma tu non ridere): una volta, io ho composto un poema, sarà un anno. Se avessi da perdere con me altri dieci minuti, io potrei raccontartelo …
- Tu hai scritto un poema?
- Oh no, non l’ho scritto, - si mise a ridere Ivan, - e mai in vita mia non ho scritto neppure due versi. Ma questo poema l’ho immaginato e l’ho tenuto a mente. Con entusiasmo l’ho immaginato. Tu sarai il mio primo lettore, o meglio uditore. Perché, infatti, un autore dovrebbe perdere l’occasione sia pure d’un unico uditore? - ridacchiò Ivan. - Dunque debbo raccontartelo, o no?
- Io sono tutt’orecchi, - disse Alèša.
- Il mio poema s’intitola: «Il Grande Inquisitore»: è una cosa strampalata, ma ho piacere di farla sentire a te. …
Nel capitolo intitolato Il Grande Inquisitore Ivan immagina che, dopo quindici secoli, nel 1500, Gesù ritorni sulla terra per una fugace apparizione, e immagina si presenti nella Spagna dove, ovunque, stanno bruciando i roghi accesi in suo nome dalla Santa Inquisizione. Il Grande Inquisitore – un vecchio monaco novantenne che è anche cardinale – appena lo vede, mentre sulla scalinata della Cattedrale di Siviglia sta facendo dei miracoli in mezzo al popolo che lo ha subito riconosciuto, lo fa imprigionare con l’intenzione di bruciarlo come eretico. Naturalmente l’Inquisitore è fortemente turbato da questa presenza e, nella notte, va a trovarlo nella prigione dove è detenuto e lo interroga a lungo sul “valore della libertà”: questa questione è un argomento fondamentale che troviamo nell’Epistolario di Paolo di Tarso, e il pensiero di Gesù di Nazareth sul tema della “libertà” lo ha formulato per primo Paolo di Tarso nelle sue Lettere.
Il Grande Inquisitore dice a Gesù: «Tu vuoi andare nel mondo e ci vai a mani vuote, con la promessa di una libertà di cui gli esseri umani, nella loro semplicità e nel loro disordine innato, hanno terrore, perché nulla è stato mai più intollerabile per la persona e per la società umana della libertà! Tu hai scelto quello che c’è di più insolito, di più problematico, hai scelto tutto ciò che era superiore alla sorte degli esseri umani, hai agito come se tu non li amassi affatto perché le persone, prima della libertà, vogliono il pane e, in cambio del pane, sono subito disposti a rinunciare alla libertà». L’Inquisitore vorrebbe che Gesù rispondesse, che dicesse qualcosa, ma Lui non parla e fa solamente un gesto emblematico: questo gesto è la sua risposta, e allora il vecchio spalanca la porta e dice: «Vattene, e non venire più, non venire mai più».
In questo grande romanzo Dostoevskij pone, in modo inquietante, i temi – presenti nell’Epistolario di Paolo di Tarso – dell’Amore, della Speranza, della Fede, della Sofferenza, della Libertà. Questi temi sollevano, da sempre, enormi problemi di carattere esistenziale e richiedono da parte di tutti una continua riflessione: si fa questa riflessione?
Oggi il sistema mediatico globalizzato tratta questi temi sotto forma di spettacolarizzazione e questa ininterrotta messa in scena rimuove ogni possibilità di coscienziosa riflessione. E allora – a beneficio della coscienziosa riflessione – si può accettare di non leggere (e di non rileggere periodicamente) il capitolo intitolato Il Grande Inquisitore? Su questo quesito la risposta che viene dalla Scuola è certa: non si può!
Cominciamo a leggere questo capitolo dalla terza pagina. Saltiamo le prime due pagine del capitolo intitolato Il Grande Inquisitore solo per ragioni di tempo ma voi potete colmare questa lacuna senza difficoltà, anche perché queste prime due pagine meritano di essere lette soprattutto per prendere atto della vasta cultura letteraria di Dostoevskij: queste due prime pagine sono proprio una “prefazione” di carattere “letterario” in cui l’autore spiega da quali opere abbia tratto spunto per scrivere il “poema” che Ivan sta per declamare ad Alèša. Dice Ivan scoppiando a ridere: «Ecco, anche qui un po’ di prefazione è necessaria; voglio dire proprio una di quelle prefazioni letterarie …pfu!». Ivan si schernisce ma, tuttavia, vuole giustificare lo “stile poetico” che utilizza. In realtà Dostoevskij vuole chiarire, nel momento in cui sta per scrivere qualcosa di terribile e di molto provocatorio, che sta utilizzando, secondo la tradizione, il genere allegorico del “portare sulla terra le potenze celesti” e, a questo proposito, cita subito Dante Alighieri alludendo alla Divina Commedia, di cui è un cultore.
Ora noi cominciamo a leggere dal punto in cui termina la “prefazione letteraria” e da dove Ivan comincia a declamare il suo “poema in prosa”. Il capitolo intitolato Il Grande Inquisitore contiene soprattutto una coscienziosa riflessione sul tema della “libertà” (una parola, oggi, inflazionata), una coscienziosa riflessione che – secondo lo scrittore – deve far pensare a quanti credono di essere liberi facendosi servitori proprio di chi fa saltare (in cambio del pane!) il principio di libertà: il rispetto delle regole di convivenza civile.
LEGERE MULTUM….
Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov
Il Grande Inquisitore
… - Ed ecco: da tanti secoli ormai l’umanità pregava con fede e con passione: «Signore Iddio, manifestati a noi»; da tanti secoli alzava a Lui il suo grido, che Egli, nella Sua pietà infinita, fu colto dal desiderio di scendere ai supplicanti. Anche prima era avvenuto che Egli scendesse e facesse visita a qualcuno dei giusti, dei martiri o dei santi eremiti sulla terra, secondo quanto sta scritto nelle loro vite. Fra noi Tjutčev, che aveva una fede profonda nella verità delle sue parole, proclamò che
Sotto la grave sua croce gemendo, in lungo e in largo, o mia terra natale,
il Re dei Cieli, a rozzo schiavo eguale, è passato su te, benedicendo.
- Che davvero così sia avvenuto, è quel che ti dirò. Ed ecco dunque che Egli fu colto dal desiderio di manifestarsi almeno per un istante al popolo, al popolo angariato, sofferente, pieno di turpi peccati, ma insieme di fanciullesco amore per Lui. L’azione del mio poema si svolge in Spagna, a Siviglia, all’epoca più tremenda dell’Inquisizione allorché in gloria di Dio s’accendevano quotidianamente, in quel paese, i roghi, e
in autodafé grandiosissimi gli eretici ardevan vilissimi.
- Oh, non fu questa, s’intende, la parusìa, quella discesa in cui Egli si manifesterà secondo la Sua promessa, alla fine dei tempi, in tutta la gloria celeste, e avverrà di repente «come il lampo, che risplende da oriente fino a occidente». No, Lo aveva preso il desiderio di visitare almeno per un istante i figli Suoi, e proprio là dove stavano crepitando i roghi degli eretici. Grazie alla Sua pietà infinita Egli passa ancora una volta fra le persone in quella stessa forma umana in cui s’era aggirato fra loro per trentatre anni quindici secoli prima. Egli scende alle «piazze infocate» della città del Sud, nella quale al più tardi il giorno prima, in un «grandioso autodafé» a cui assistevano il re, la corte, cavalieri, cardinali e seducentissime dame del seguito, ed era presente, in una folla innumerevole, l’intera Siviglia, era stato arso in blocco dal cardinale «grande inquisitore» un buon centinaio d’eretici ad maiorem gloriam Dei. Egli appare in sordina, inavvertitamente, ed ecco che tutti (cosa strana!) Lo riconoscono. Questo potrebbe essere uno dei luoghi migliori del poema: dove si vedesse, cioè, in che modo propriamente Lo riconoscano. Spinto da una forza irresistibile, il popolo si protende a Lui, Lo circonda, Gli s’addensa intorno. Lo segue. In silenzio, Egli passa in mezzo a loro con un lieve sorriso d’infinita pietà. Un sole d’amore arde nel Suo cuore, e raggi di Luce, di Sapienza, di Potenza fluiscono dai Suoi occhi, e riversandosi sulle persone, fanno fremere d’amore, di rimando, i loro cuori. Egli tende a loro le braccia, li benedice, e dal contatto di Lui, anche appena dai Suoi vestimenti, emana una forza risanatrice. Dalla folla ecco gridare un vecchio, cieco fin dall’infanzia; «Signore, guariscimi, così anch’io Ti vedrò»; ed ecco che una specie di squama scivola giù dai suoi occhi, e il cieco Lo vede. La gente piange e bacia la terra su cui Egli cammina. I bambini Gli gettano innanzi dei fiori, cantano e inneggiano a Lui: Osanna! «È Lui, è proprio Lui», ripetono tutti, «dev’essere Lui, non può essere altri che Lui». Egli si ferma all’ingresso della cattedrale di Siviglia nel preciso momento in cui recano al tempio, fra i pianti, una bianca, aperta cassettina di bimbo: c’è dentro una bambinetta di sette anni, unica figlia d’un maggiorente della città. Il cadaverino è tutto ricoperto di fiori. «Egli resusciterà la tua creatura», gridano di tra la folla alla madre piangente. Uscito incontro al morto, il titolare della cattedrale guarda attonito e aggrotta le ciglia. Ma ecco prorompere il pianto della madre della morticina. Essa s’è gettata ai piedi di Lui: «Se sei Tu, resuscita la mia creatura!» grida, tendendo a Lui le braccia. La processione si ferma, la piccola cassa viene deposta sulla scalinata ai Suoi piedi. Egli la guarda con pietà, e le Sue labbra, piano, pronunciano ancora una volta: Talitha kumi, fanciullina svegliati. La bambinetta si solleva nella cassa, si mette a sedere e si guarda intorno, sorridendo stupita cogli occhietti spalancati giro giro. Fra le mani ha il mazzo di rose bianche, con cui stava adagiata nella cassa. La folla tumultua: gridi, singhiozzi; quand’ecco, proprio in quell’istante, passar d’improvviso presso la cattedrale, per la piazza, il cardinale in persona, il grande inquisitore. È un vecchio di quasi novant’anni, alto e diritto, col viso scarno e gli occhi incavati, dai quali tuttavia brilla ancora, come una favilla, lo sfolgorìo dello sguardo. Oh, non ha indosso i sontuosi paramenti cardinalizi in cui si pavoneggiava ieri dinanzi al popolo, mentre bruciavano i nemici della fede di Roma: no, in questo momento ha soltanto la sua vecchia, rozza tonaca di frate. Dietro, a una certa distanza, lo seguono i foschi coadiutori e servi suoi, e la «sacra» guardia. Egli si ferma di fronte alla folla, e osserva a distanza. Ha tutto veduto: ha veduto come hanno deposto la cassa ai piedi di Lui, ha veduto com’è resuscitata la fanciullina, e il viso gli s’è rabbuiato. Aggrotta le canute, folte sopracciglia, e il suo sguardo s’accende d’un fuoco pieno di rancore. Fa cenno col dito, e ordina alle guardie che Lo prendano. Ed ecco, tanta è la sua potenza e a tal segno il popolo è ormai assuefatto, sottomesso e pronto a obbedirgli, che immediatamente la folla si apre a far passare le guardie, e queste, nel mortale silenzio sopravvenuto di colpo, pongono le mani su Lui e Lo conducono via. La folla istantaneamente, come un sol uomo, si curva colle teste fino a terra dinanzi al venerando inquisitore: questi, in silenzio, benedice il popolo e passa oltre. Le guardie conducono il prigioniero all’angusta, buia prigione a volte dell’antico edificio del Sacro Tribunale, e Lo rinchiudono lì. La giornata volge alla fine, sopravviene la cupa, calda, «sivigliana notte senza respiro». L’aria «di lauro e di limone odora». Nel profondo tenebrore s’apre d’improvviso la porta di ferro della prigione, e in persona il vecchio grande inquisitore, con una lampada nella mano, lentamente entra nel carcere. È solo: la porta, dietro a lui, si richiude subito. Si ferma presso la soglia e a lungo, per un minuto o due, fissa lo sguardo nel viso di Lui. Alla fine, adagio, s’appressa, posa la lampada sul tavolo e Gli dice: «Sei Tu? sei Tu?» Ma, non ricevendo risposta, s’affretta a soggiungere: «Non rispondere, taci. E che cosa mai potresti dire Tu? So fin troppo bene, che cosa diresti. Ma Tu non hai neppure il diritto di aggiunger qualcosa a quello che già è stato detto da Te in precedenza. Perché dunque sei venuto a darci impaccio? Giacché Tu sei venuto a darci impaccio, e sei il primo a saperlo. Ma sai, di’, che cosa avverrà domani? Io non so chi Tu sia, e non voglio sapere se sei Tu o soltanto un simulacro di Lui: ma domani stesso, io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi, domani, a un mio semplice cenno, si precipiterà ad accostare le braci al rogo Tuo: sai Tu questo? Già: Tu, forse, lo sai», soggiunge il vecchio in una intensa riflessione, senza staccare un istante lo sguardo dal suo Prigioniero.
- Io non capisco bene, Ivan, di che cosa si tratti, - sorrise Alèša, che aveva ascoltato fin qui senza far parola. - È semplicemente una fantasia sbrigliata, o si tratta d’un errore del vecchio, di non so quale inaudito qui pro quo?
- Intendila un po’ in quest’ultimo modo, - scoppiò a ridere Ivan, - se già ti ha viziato tanto il realismo contemporaneo, che non puoi tollerare nulla di fantastico: sia per il qui pro quo, se così preferisci. È un fatto, - tornò a ridere, - che il vecchio aveva novant’anni, e da un pezzo poteva dare in ciampanelle con quella sua idea fissa. Il prigioniero, dal canto suo, poteva avere un aspetto atto a colpirlo. E potrebbe anch’essere, in fondo, un delirio puro e semplice, un’allucinazione d’un vecchio novantenne prossimo alla morte, e più che mai esaltato dall’autodafé della vigilia, coi suoi cento eretici arsi vivi. Ma questa è una questione che a noi due importa poco: qui pro quo? fantasia sbrigliata? Quel che importa, qui, è che il vecchio ha bisogno di esprimere ciò che gli sta nell’anima, e finalmente viene ad esprimere tutto ciò che in novant’anni gli s’è accumulato dentro, e dice ad alta voce ciò che nel corso di novant’anni ha sempre taciuto.
- E il Prigioniero anch’Egli tace sempre? Guarda all’altro, e non pronuncia parola?
- Ma appunto così dev’essere, per ogni buona evenienza, - di nuovo si mise a ridere Ivan. - È stato il vecchio stesso a rinfacciarGli che Egli non ha diritto d’aggiunger nulla a ciò che già a suo tempo fu detto. Se tu badi bene, è proprio qui la caratteristica del cattolicesimo romano, almeno per quanto sembra a me: «Tutto (come a dire) è stato trasmesso da Te al papa, e tutto quindi si trova ora nelle mani del papa: Tu dunque, adesso, puoi anche far a meno di venire, o intralciarci finché non è tempo, se non altro». In tal senso non solo essi parlano, ma anche scrivono, almeno i gesuiti. Ho letto io coi miei occhi di questa roba nei loro libri di teologia. «Hai Tu forse il diritto di annunziarci foss’anche uno solo dei misteri di quel mondo, dal quale Tu sei tornato?» gli domanda il mio vecchione, e lui stesso risponde per Lui: «No, non ne hai il diritto, affinché nulla si aggiunga a ciò che già a suo tempo è stato detto, e non venga tolta agli esseri umani quella libertà, sulla quale Tu hai tanto insistito, quand’eri su questa terra. Qualsiasi cosa Tu annunciassi di nuovo, inciderebbe sulla libertà di fede delle persone, giacché prenderebbe l’aspetto d’un miracolo, mentre la libertà della loro fede era cara a Te sopra ogni altra cosa fin d’allora, un migliaio e mezzo d’anni or sono. Non eri Tu che tanto spesso, allora, dicevi: voglio rendervi liberi? Ma ecco, Tu hai veduto ora, codesti uomini liberi!» commenta bruscamente il vecchio con pensosa ironia.
- Già, questa è stata una cosa che ci è costata assai, - continua, e guarda a Lui con severità, - ma l’abbiamo condotta in porto, finalmente, nel nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma ora è finita, è finita al fondo. Tu non ci credi, che sia finita in fondo? Tu mi guardi con dolcezza, e non mi degni neppure del Tuo risentimento? …
L’afflato dell’Epistolario, l’ispirazione proveniente dalle Lettere di Paolo di Tarso è presente, con grande evidenza, non solo nelle opere di Dostoevskij ma in quasi tutti i più significativi romanzi di età moderna e contemporanea e questa affermazione – che ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia – significa che lo studio (la comprensione e la conoscenza delle parole-chiave e delle idee-cardine) delle Lettere di San Paolo è propedeutico alla lettura dei grandi romanzi, ed è soprattutto in questa prospettiva che un Percorso di alfabetizzazione culturale e funzionale se ne deve occupare.
Colui che conosciamo come San Paolo è un ebreo che si chiama Shaul. Il primo significativo tema culturale che ci troviamo ad affrontare, incontrando questo personaggio – avvicinandoci a questo scrittore ellenistico di cui vogliamo imparare a leggere l’Epistolario – è quello che riguarda i suoi nomi: Shaul-Saulo e Paulus-Paolo. Quali interrogativi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – suscitano questi nomi? Dobbiamo premettere che tutti i dati che possediamo su questo personaggio, a cominciare dai suoi due nomi, Shaul (quello ebraico) e Paulus (quello latino), portano con loro numerosi interrogativi irrisolti, che non è facile risolvere, ma che costituiscono un importante stimolo allo studio, alla riflessione e all’investimento in intelligenza (ecco che cosa vuol dire don Milani quando, nel 1956, scrive in Esperienze pastorali che per evangelizzare bisogna alfabetizzare).
Le notizie che possediamo su Paolo di Tarso sono tante ma non sono sufficienti ad inquadrare storicamente un personaggio così complesso. Questa situazione un po’ misteriosa ha contribuito e contribuisce ad aumentare il fascino del personaggio e anche questa situazione è di stimolo all’apprendimento.
Prima di porre l’attenzione sul problema dei nomi, dobbiamo occuparci dell’aspetto fisico del nostro compagno di viaggio. Che aspetto aveva Shaul-Paulo? Questo problema è di facile soluzione perché possediamo solo una citazione sull’aspetto esteriore di Shaul-Paolo, e questa citazione è contenuta in un libro che abbiamo già citato due settimane fa: un libro molto originale, come tutti i testi apocrifi, che s’intitola Atti di Paolo e Tecla. Negli Atti di Paolo e Tecla – un libro apocrifo della fine del II secolo – leggiamo che Shaul-Paolo: «…era un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità; a volte aveva le sembianze di un uomo, a volte di un angelo». Noi ci domandiamo – insieme alle studiose e agli studiosi – quale attendibilità possa avere questa citazione dal punto di vista storico tenendo conto che questo testo è stato scritto centotrenta, centoquarant’anni dopo la morte di Shaul-Paolo. È difficile dire quale attendibilità possa avere: prendiamo atto che questa citazione esiste e rappresenta un’ipotesi iconografica molto interessante. Sono tante e sono tanti gli artisti (ma anche le persone senza particolari qualità artistiche) che hanno costruito nei secoli un’immagine di Shaul-Paolo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
E voi come ve lo immaginate Shaul, Paolo di Tarso?… Provate – seguendo la vostra immaginazione - a descriverlo con un breve testo, bastano quattro righe, oppure con un disegno… Proviamo anche noi a costruire un’iconografia di Shaul, di Paolo di Tarso ad uso della nostra biblioteca itinerante…
E ora torniamo ad occuparci del tema dei nomi di questo personaggio. Tra le opinioni comuni vi è quella – non meno problematica – che Shaul abbia mutato il suo nome ebraico in quello latino di Paulus dopo la “folgorazione sulla via di Damasco”. Il fatto è che se andiamo a leggere questa pagina degli Atti degli Apostoli, al capitolo 9 versetti 1-19 (e la Scuola ne consiglia la lettura), scopriamo che non ci sono cambiamenti di nome. Negli Atti degli Apostoli il famoso episodio della “conversione” di Shaul viene raccontato altre due volte: al capitolo 22 versetti 4-21 e al capitolo 26 versetti 9-18.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Ebbene, per esercizio, andate a leggere questi tre testi: potrete così notare delle variazioni e delle contraddizioni nel racconto perché, come sappiamo, sono narrazioni di carattere apologetico… Sono narrazioni molto belle dal punto di vista letterario e dottrinale ma è difficile attribuire loro un fondamento storico…
Certamente, dal punto di vista storico, c’è stata la “conversione” di Shaul e questo è un fatto molto importante nella sua vita che ha delle notevoli implicazioni di carattere psicologico e sociologico, è però realistico pensare che nella sua effettiva “conversione” non ci siano componenti mitiche (visioni soprannaturali) ma bensì elementi di natura esistenziale molto più consoni sul piano della fede e della libertà di scelta. È comprensibile il fatto che il testo degli Atti degli Apostoli – essendo, come sappiamo, un “catechismo” – traduca l’avvenimento in chiave allegorica con una straordinaria pagina apologetica.
La pagina che descrive la conversione di Shaul-Paolo ha ispirato molte artiste e molti artisti. Uno di questi artisti – che non possiamo non ricordare – è Michelangelo Merisi detto Caravaggio, dal nome del paese in provincia di Bergamo dove è nato nel 1571. Caravaggio è morto a Porto Ercole nel 1610 e ne stiamo commemorando l’anniversario. Perché non cercate – in biblioteca o sulla rete – un fascicolo su Caravaggio e, con la scusa degli Atti degli Apostoli e di Shaul-Paolo, non prendete contatto con questo personaggio “scomodo” della storia dell’Arte? Un personaggio dal carattere violento, dal comportamento ribelle, con un conto sempre aperto con la giustizia e, quindi, sempre in fuga.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Non è difficile trovare una raffigurazione del celebre dipinto intitolato La conversione di San Paolo di Caravaggio: osservate questo dipinto e scrivete – con poche parole, basta una frase – quale impressione vi fa l’immagine di questo San Paolo…
Ma torniamo al tema dei due nomi. Il nome “Paolo”, accanto al nome “Shaul”, dove e quando compare? I due nomi compaiono appaiati nel testo degli Atti degli Apostoli non in occasione della “caduta sulla via di Damasco” (Atti 9, 1-19) ma più avanti, nel capitolo 13 al versetto 9, dove si legge: «Allora Saulo detto anche Paolo …». Ebbene, siate diligenti e, per esercizio, leggete dal capitolo 13 i versetti dal 4 al 12 degli Atti degli Apostoli: qui troviamo Shaul che parte da Antiochia (è di lì che comincia il suo viaggio) alla volta dell’isola di Cipro, lo vediamo sbarcare nella città di Salamina e poi raggiungere la città di Pafo, insieme a Barnaba e a Giovanni Marco. A Pafo “Saulo detto anche Paolo” incontra un Ebreo che si fa chiamare Bar Jesus (in greco Elìmas), che pratica le arti magiche e che è amico di Sergio Paolo il (presunto) governatore romano dell’isola di Cipro. Questo Bar Jesus si oppone alla predicazione di Shaul, ma Shaul lo sfida e annienta i suoi poteri: andate a leggere questa mezza pagina degli Atti (capitolo 13 versetti 4-12) per sapere come va a finire questo scontro.
Ora, se nel testo degli Atti degli Apostoli si legge «Allora Saulo detto anche Paolo», questo significa che esiste una tradizione per cui i due nomi li portava già, li portava già prima della sua visita a Cipro; però non si sa se il nome “Paulus” corrisponda ad un “nome” o ad un “cognome” o ad un “soprannome”. Questo fatto – avere un nome giudaico e un nome latino – succede ad altri intellettuali ebrei, e l’esempio più significativo è quello dello storico Giuseppe Flavio, che ha un nome “sacro-ebraico” (Giuseppe) e uno “profano-romano” (Flavio) perché il suo “patronus” (protettore) è l’imperatore in persona, appartenente alla gens Flavia.
Nel testo degli Atti degli Apostoli il nome Shaul si trova ben 15 volte e allora che cosa dobbiamo pensare? Dobbiamo pensare che l’espressione “Saulo detto anche Paolo” sia un’interpolazione, sia un’aggiunta successiva? Dobbiamo pensare che Saulo si è sempre chiamato “Shaul” e che “Paolo” sia stato chiamato dopo, in un secondo momento, giocando su una assonanza tra i due nomi: Saulo-Paolo? Le domande in proposito sono tante e le risposte costituiscono tutte delle ipotesi interessanti. Per giunta, chi ha studiato questo problema, ci dice che il nome “Paulus” è rarissimo tra i romani dell’Oriente-greco ed è sconosciuto tra i giudei.
E adesso prendiamo in considerazione questo “presunto” governatore romano dell’isola di Cipro di cui ci parla il capitolo 13 degli Atti degli Apostoli e che si chiama Sergius Paulus. Chi è costui? Che cosa ci dicono le studiose e gli studiosi di storia che lo hanno cercato? Intanto ci dicono che non c’è mai stato un governatore romano di Cipro con questo nome, ma sappiamo bene che gli Atti degli Apostoli non è un’opera di storia: gli Atti degli Apostoli propongono una “verità” di tipo apologetico, dottrinale, non storico. Però le studiose e gli studiosi di storia ci fanno anche sapere che un “Sergio-Paolo”, vissuto nell’area-orientale in questo periodo, c’è, ed è un esponente politico romano: è un senatore che abita ad Antiochia di Pisidia, la capitale della Frigia. Ebbene, il senatore Sergio-Paolo – si domandano le studiose e gli studiosi – è stato “patronus” della famiglia di Shaul? In proposito non ci sono indizi e questa affermazione si presenta solo come un’ipotesi di studio, ma è, comunque, un’ipotesi interessante perché Antiochia di Pisidia (dove abita il senatore Sergio Paolo) e Tarso (dove abita la famiglia di Shaul-Paolo (?)) sono in collegamento e, prima di fare una visita a Tarso, vediamo di ricapitolare sul tema dei nomi del nostro compagno di viaggio.
La chiave di volta “letteraria” di questo tema si trova nel testo degli Atti degli Apostoli nel capitolo 13, versetti 9-14, di cui si consiglia la lettura, dove il nostro personaggio arriva sull’isola di Cipro chiamandosi “Saulo detto anche Paolo” e riparte da Cipro, dopo la sfida con Bar-Jesus, chiamandosi, da quel momento, solo Paolo. Il versetto 9 del capitolo 13 degli Atti degli Apostoli contiene quella che si chiama la “linea discriminante del nome”: una “linea letteraria” per cui prima di questo punto c’è Saulo, dopo c’è Paolo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
A voi è successo di essere chiamate o chiamati con nomi diversi – con variazioni (soprannomi) sul vostro nome – nel corso del tempo o a seconda degli ambienti frequentati?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Nelle Lettere lo scrittore ha il nome di Paolo e il nome Shaul non compare mai, o mai più, e questo fatto è davvero strano: possibile che, nei testi delle Lettere, Paolo non ricordi di essersi chiamato anche Shaul, prima di tutto Shaul? Secondo una tradizione ormai consolidata, che trova la sua autorevolezza negli Atti degli Apostoli – ma sappiamo che l’autorevolezza di quest’opera è apologetica e dottrinaria più che storica – il nome di Shaul viene completato con quello di Tarso. Ma questo personaggio che, da secoli, chiamiamo Shaul Tarsensis e Paolo di Tarso: è nato davvero con certezza a Tarso?
Ma prima di affrontare questo altro tema andiamo avanti nella lettura del capitolo intitolato Il Grande Inquisitore. Che cosa rinfaccia l’Inquisitore, in modo inesorabile a Gesù? Gli rinfaccia, innanzitutto, di non aver ceduto alle “tentazioni”. Questa parola-chiave – il termine “tentazione” – l’abbiamo vista e sentita utilizzare da Paolo la scorsa settimana nel testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi: «Avevo paura – scrive Paolo – che il demonio avesse potuto prendervi nella tentazione, e che tutto il mio lavoro tra voi fosse diventato inutile». Tutte e tutti noi conosciamo bene l’episodio – raccontato dai Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) con poche variazioni – delle “tentazioni” di Gesù da parte del demonio: questa conoscenza è un prerequisito per poter leggere il capitolo de Il Grande Inquisitore. A scanso di equivoci – non vorrei che qualcuno non se lo ricordasse – rinfreschiamoci la memoria a proposito di questo celebre episodio evangelico.
Il testo del Vangelo secondo Matteo (4, 1-11) narra che lo Spirito di Dio fa andare Gesù nel deserto, per essere tentato dal diavolo. «Per quaranta giorni e quaranta notti Gesù rimane là senza mangiare né bere e, alla fine, ha fame. Allora il diavolo tentatore si avvicina a lui e gli dice: - Se tu sei il Figlio di Dio, comanda a queste pietre di diventare pane! Ma Gesù risponde: - Nella Bibbia è scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che viene da Dio. Allora il diavolo lo porta a Gerusalemme sul punto più alto del tempio e gli dice: - Se tu sei il Figlio di Dio, buttati giù perché nella Bibbia è scritto: Dio comanderà ai suoi angeli. Essi ti sorreggeranno con le loro mani, e così tu non inciamperai contro alcuna pietra. Gesù gli risponde: - Nella Bibbia c’è scritto anche: Non sfidare il Signore, tuo Dio. Il diavolo lo porta ancora su una montagna molto alta, gli fa vedere tutti i regni del mondo e il loro splendore, poi gli dice: - Io ti darò tutto questo, se in ginocchio mi adorerai. Ma Gesù dice: - Vattene via, Satana! Perché nella Bibbia è scritto: Adora il Signore tuo Dio; a lui solo rivolgi la tua preghiera. Allora il diavolo si allontana da lui» …
La coscienziosa riflessione di Dostoevskij comprende un’affermazione significativa: “S’impossessa della libertà delle persone colui che rende tranquille le loro coscienze!”. Come dire: “Hai violato le regole del vivere civile? Tranquillo, chi se ne frega: viva la libertà! La nostra mentalità è di fare affari liberamente: è male? Se è male lo è a nostra insaputa! La colpa è di chi si sente in colpa: che non apprezza la libertà e invidia quelli che si sentono liberi!”.
E ora leggiamo Dostoevskij:
LEGERE MULTUM….
Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov
Il Grande Inquisitore
… Ma sappi che ora, e specialmente in questi momenti, questa gente è persuasa, come non mai, d’essere libera in pieno, mentre con le loro mani essi hanno offerto a noi la loro libertà e l’hanno umilmente deposta ai nostri piedi. Ma questo l’abbiamo fatto noi: era forse questo che Tu desideravi, questa la Tua libertà?
- Io di nuovo non capisco, - interruppe Alëša. - Il vecchio ironizza, si fa beffe?
- Nemmeno per sogno. Non fa che attribuire al proprio e al merito dei suoi d’esser riusciti, una buona volta, a soggiogare la libertà e di aver agito così al fine di render felici gli esseri umani. «Giacché ora soltanto (e qui, beninteso, egli si riferisce all’Inquisizione) è divenuto possibile provvedere per la prima volta alla felicità umana. L’essere umano è, costituzionalmente, un ribelle: e i ribelli possono mai esser felici? Tu fosti preavvisato», dice il vecchio a Lui, «a Te non sono davvero mancati i preavvisi e gli ammonimenti, ma Tu non hai dato ascolto ai preavvisi, Tu hai respinto l’unica via per cui era possibile dare alle persone la felicità: ma per fortuna, quando sei ripartito, hai affidato ogni cosa a noi. Tu ci hai promesso, Tu ci hai riconosciuto con la tua parola, Tu ci hai concesso il diritto di legare e di sciogliere, e, certamente, non puoi neppure pensare di venire a toglierci questo diritto ora. Perché dunque sei venuto a darci fastidio?»
- Ma che cosa vuol dire quando afferma: a Te non sono mancati i preavvisi e gli ammonimenti? - domandò Alëša.
- La cosa più importante che il vecchio ha bisogno di esprimere è proprio questa.
- Il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, - continua il vecchio, - il grande spirito parlò con Te nel deserto, e ci è stato tramandato nelle scritture che egli Ti avrebbe «tentato». Fu proprio così? Ed era forse possibile dire qualche cosa di più veritiero di ciò che egli Ti annunciò nelle tre domande, e che Tu rifiutasti, e che nelle scritture passa col nome di «tentazioni»? E pensare che se mai è avvenuto su questa terra un autentico, formidabile miracolo, fu proprio quel giorno, il giorno delle tre tentazioni! E il miracolo sta appunto nel fatto che potessero aver luogo quelle tre domande. Se ci si potesse immaginare, semplicemente per ipotesi e a mo’ d’esempio, che queste tre domande del terribile spirito potessero essere cancellate dai testi, e che bisognasse di nuovo escogitarle e formularle, in modo da inserirle ancora una volta nelle scritture, e per questo si radunassero tutti i sapienti della terra, i reggitori di Stati, i sommi sacerdoti, gli eruditi, i filosofi, i poeti, e si dicesse loro: escogitate, formulate tre domande, ma tali che non solo corrispondano alla grandezza dell’evento, ma soprattutto esprimano, in tre parole, in tre sole frasi umane, tutta la storia avvenire del mondo e dell’umanità: che cosa pensi Tu, che tutta la sapienza della terra, riunita insieme, riuscirebbe a escogitare qualcosa di paragonabile, per forza e per profondità, a quelle tre domande che realmente furono proposte a Te, quel giorno, dal possente e penetrante spirito nel deserto? Già a queste stesse domande, già al miracolo stesso del loro manifestarsi, si può intendere che ci si trova di fronte, non già ad una labile intelligenza umana, ma a un’intelligenza eterna e assoluta. Giacché, in queste tre domande, è come riassunta in blocco e predetta tutta la futura storia umana, e sono rivelate le tre forme tipiche in cui verranno a calarsi tutte le irriducibili contraddizioni storiche della natura umana sulla terra intera. Allora questo non poteva riuscire così evidente perché l’avvenire era ignoto; ma ora, che quindici secoli sono passati, noi vediamo che tutto, in queste tre domande, è stato indovinato e predetto e s’è avverato e, quindi, aggiungervi e togliervi alcunché non è più possibile.
- Giudica dunque Tu stesso chi fosse nel giusto: Tu, o colui che allora Ti interrogò. Rammenta la prima domanda: seppure non proprio alla lettera, il suo significato è questo: «Tu vuoi andare nel mondo, e ci vai con le mani vuote, con non so quale promessa di libertà, che quelli, nella loro semplicità e nella loro ingenita sregolatezza, non possono neppure concepire, e ne hanno timore e spavento - giacché nulla mai fu per l’essere umano e per la società umana più insopportabile della libertà! Ma vedi queste pietre, per questo nudo e rovente deserto? Convertile in pani, e dietro a Te l’umanità correrà come un branco di pecore, dignitosa e obbediente, se anche in continua trepidazione che Tu ritragga la Tua mano e vengano tolti loro i Tuoi pani». Ma Tu non hai voluto privare le persone della libertà, e hai rifiutato la proposta: giacché, dove sarebbe la libertà (hai ragionato Tu), se il consenso fosse comperato col pane? Tu hai ribattuto che non di solo pane vive l’essere umano: ma sai che in nome di questo pane terreno insorgerà contro di Te lo spirito della terra, e Ti dichiarerà guerra, e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno, gridando: «Chi può paragonarsi a questa fiera: essa ci ha dato il fuoco rapito al cielo!» Sai Tu che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà, per bocca della sua sapienza e della sua scienza, che le male azioni non esistono, e quindi non esiste peccato, ma ci sono affamati e basta? «Prima sfamateli, e poi chiedete loro la virtù»: ecco che cosa ci sarà scritto sulla bandiera che brandiranno contro di Te, e alla cui ombra sarà distrutto il Tuo tempio. Al posto del tempio Tuo sarà innalzato un nuovo edificio, sarà innalzata di nuovo una tremenda torre di Babele e sebbene anche questa non verrà condotta a termine, come quella di allora, tuttavia Tu avresti potuto evitare questa nuova torre, e abbreviare di mille anni le sofferenze degli esseri umani giacché a noi per l’appunto torneranno costoro, quando si saranno tormentati per mille anni intorno alla loro torre! Allora essi ci ricercheranno sotto terra, nelle catacombe dove ci saremo nascosti (giacché noi saremo di nuovo perseguitati e posti a tortura) ci ritroveranno e alzeranno a noi l’invocazione: «Dateci da mangiare perché coloro che ci hanno promesso il fuoco del cielo, non ce l’hanno dato». E allora saremo noi che condurremo a termine la loro torre, giacché a termine la condurrà chi darà da mangiare e da mangiare lo daremo noi soli, in nome Tuo, e mentiremo dicendo di darlo in Tuo nome. E giammai essi, senza di noi, riusciranno a sfamarsi! Nessuna scienza potrà dar loro il pane finché rimarranno liberi; ma finirà che essi metteranno la loro libertà ai nostri piedi, e diranno a noi: «Magari fateci schiavi ma dateci da mangiare». Capiranno, alla fine, loro stessi, che libertà e pane terreno a sufficienza per ciascuno non sono concepibili insieme, perché mai sapranno fare le giuste parti tra loro. Si persuaderanno pure che non potranno mai essere liberi, perché sono deboli, pieni di vizi, inconsistenti e sediziosi. Tu hai promesso loro il pane del cielo, ma ripeto ancora, che paragone può esserci mai, agli occhi della debole, eternamente viziosa, eternamente ignobile schiatta degli umani, fra quello e il pane della terra? E se dietro a Te, in nome del pane celeste, verranno le migliaia e le decine di migliaia, che ne sarà dei milioni e delle decine di milioni di esseri, che non saranno capaci di trascurare il pane terreno per quello celeste? O forse Ti sono care soltanto le decine di migliaia dei grandi e dei forti, e i rimanenti milioni, innumerevoli come la sabbia del mare, di quelli che sono deboli ma Ti amano, debbono servire solo di materiale pei grandi e pei forti? No, noi abbiamo cari anche i deboli. Essi sono viziosi e sediziosi, ma alla fine saranno proprio loro che diverranno obbedienti. Essi si stupiranno di noi, e ci considereranno come dèi in compenso del fatto che trovandoci alla loro testa, noi avremo acconsentito ad abolire la libertà, che faceva loro paura, e a porli sotto il dominio nostro: tanto tremendo finirà col sembrar loro essere liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te, e che dominiamo nel nome Tuo. Noi li inganneremo di nuovo, giacché a Te non permetteremo più di accostarti a noi. E in questo inganno consisterà la sofferenza nostra, giacché noi saremo costretti a mentire. Ecco che significava quella prima domanda nel deserto, ed ecco che cosa hai rifiutato Tu in nome di una libertà, che ponesti al di sopra di tutto. Ma intanto, in quella domanda, stava racchiuso un grande segreto di questo mondo. Accettando i «pani», Tu avresti risposto a quella universale e perpetua angoscia umana, sia d’ogni persona in particolare, sia dell’umanità nel suo insieme, che si esprime nella domanda: «A chi genufletterci?» Non c’è preoccupazione più assillante e più tormentosa per l’essere umano, non appena rimanga libero, che quella di cercarsi al più presto qualcuno innanzi al quale genuflettersi, in modo indiscutibile. Giacché la preoccupazione di queste misere creature non consiste solo nel cercar qualche cosa di fronte alla quale io o un altro qualunque possiamo genufletterci, ma nel cercare una cosa nella quale anche tutti gli altri credano e vi si genuflettano dinnanzi tutti quanti insieme. Appunto questa esigenza d’una genuflessione in comune è il più gran tormento d’ogni persona presa di per sé e dell’umanità nel suo insieme fin dal principio dei secoli. Per bisogno di questa generale genuflessione gli esseri umani si sono massacrati l’un l’altro a colpi di spada. Si sono creati degli dèi e si sono sfidati l’un l’altro: «Abbandonate i vostri dèi e venite a genuflettervi dinanzi ai nostri: altrimenti, morte a voi e agli dèi vostri!» E così avverrà fino alla fine del mondo, anche quando saranno scomparsi dal mondo gli stessi dèi: non importa, cadranno in ginocchio dinanzi agl’idoli. E Tu sapevi, Tu non potevi ignorare questo fondamentale segreto della natura umana: ma Tu hai rigettato l’unica, assoluta bandiera, che ti veniva proposta per costringere tutti a genuflettersi dinanzi a Te concordemente: la bandiera del pane terreno; e l’hai rigettata in nome della libertà e del pane celeste. Guarda ora, che altro hai fatto Tu. E sempre, di nuovo, in nome della libertà! Ti ripeto che non c’è per l’essere umano preoccupazione più ansiosa che di trovar qualcuno a cui affidare al più presto quel dono della libertà, col quale quest’essere infelice viene al mondo. Ma s’impossessa della libertà delle persone solo colui che rende tranquille le loro coscienze. Col pane, Ti veniva offerta una bandiera superiore a ogni discordia: dagli il pane, e l’essere umano s’inginocchia perché non c’è nulla di più incontestabile del pane: ma se, nello stesso tempo, uno s’impadronisce della sua coscienza indipendentemente da Te, allora egli sarà pronto perfino a gettar via il Tuo pane, e andrà dietro a colui che seduce la sua coscienza. Qui Tu vedevi giusto. Infatti, il segreto dell’esistenza umana non sta nel vivere per vivere, ma nell’avere un fine per cui vivere. Se non si prospetta in modo sicuro un fine per cui debba vivere, l’essere umano non si rassegnerà a vivere e preferirà annientarsi piuttosto che rimanere sulla terra, anche se tutt’intorno ci fossero pani a perdita d’occhio. Questo è vero, ma che conseguenza n’è stata tratta! Invece di prender possesso della libertà delle persone, Tu gliel’hai resa ancora più grande! O dunque hai dimenticato che la pace e magari la morte sono per la persona più care della libera scelta nella conoscenza del bene e del male? Non c’è nulla di più ammaliante per gli esseri umani che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso. Ed ecco che invece di solidi fondamenti capaci di tranquillizzare la coscienza dell’essere umano una volta per sempre, Tu hai scelto tutto ciò che v’è di più difforme, di più misterioso e di più indefinito: hai scelto tutto ciò che è superiore alla forza delle persone: e perciò hai finito per agire come se addirittura non li amassi affatto: e questo, chi! Colui ch’è venuto a dare per essi la vita Sua! Invece di prendere possesso della libertà umana, Tu l’hai accresciuta, e hai aggravato coi suoi tormenti il regno spirituale dell’essere umano, per l’eternità. Tu hai voluto il libero amore, hai voluto che la persona liberamente Ti seguisse, attratta e soggiogata da Te. Al posto della solida vecchia legge, con libero cuore l’essere umano doveva d’ora innanzi decidere lui stesso che cosa fosse bene e che cosa male, senz’avere innanzi a sé altra guida che la Tua immagine: ma possibile mai che Tu non abbia pensato che egli avrebbe rigettato infine e addirittura contestato sia la Tua immagine sia la Tua verità, se si fosse trovato oppresso da un peso così tremendo, come il libero arbitrio? Essi avrebbero finito col proclamare che la verità non è in Te, giacché non sarebbe stato possibile abbandonarli a uno scompiglio e a un tormento peggiori di come hai fatto Tu, lasciando loro in retaggio tanti affanni e tanti insolubili problemi. In tal modo, Tu stesso hai posto i fondamenti per la distruzione del Tuo proprio regno, e non puoi darne la colpa a nessun altro. Ma ben altro che questo era ciò che Ti veniva proposto! Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienza di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima e la seconda e la terza, e sei stato il primo a darne l’esempio. Allorché il tremendo e sapientissimo spirito Ti collocò sul pinnacolo del tempio e Ti disse …
E ora torniamo al tema che abbiamo lasciato in sospeso: il personaggio con cui stiamo viaggiando, da secoli lo chiamiamo Shaul Tarsensis e Paolo di Tarso, ma questa persona è nata davvero con certezza a Tarso?
Tarso è una città che si trova nella parte sud-orientale dell’Asia Minore, e oggi è una città di circa 160.000 abitanti, è una città industriale e commerciale di cui quasi nulla rimane del suo storico passato culturale, purtroppo. Tarso, nel IX secolo a.C., è già una città importante conquistata dagli Assiri, poi nel III secolo a.C., viene conquistata dai Persiani che la chiamano Antiochia di Cidno. Nel I secolo a.C. questa città viene conquistata dai Romani e diventa la capitale della Cilicia. Nell’VIII secolo d.C. è stata a lungo contesa tra i Bizantini e gli Arabi e questa lotta ha determinato la sua decadenza e la sua distruzione.
Di solito si pensa che Tarso sia la città di origine di Shaul-Paolo, ma questa informazione è contenuta solo nel testo degli Atti degli Apostoli e, quindi, è un’ipotesi di carattere letterario e, per giunta, il silenzio dello stesso Shaul-Paolo in proposito alimenta non poche perplessità.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Tarso - come città natale di Shaul-Paolo – la troviamo citata nel testo degli “Atti degli Apostoli” nel capitolo 9 al versetto 11, nel capitolo 21 al versetto 39 e nel capitolo 22 al versetto 3… Cercate e leggete queste citazioni… Il vostro luogo di nascita in che cosa ha inciso, in che cosa ha contato nella vostra vita?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Shaul-Paolo nelle Lettere che ha scritto non ha mai detto nulla né sul luogo dove è nato, né sulle origini della sua famiglia, né sulla sua infanzia, né sulla sua formazione, né – come sappiamo – sul suo nome ebreo, né perché e quando lo abbia cambiato: noi, insieme alle studiose e agli studiosi, ci domandiamo come mai Shaul-Paolo tenga questo comportamento, come mai produca queste omissioni? L’unico dato che possediamo che può essere indicativo è la famosa frase contenuta nella Seconda Lettera ai Corinti (una lettera di cui parleremo a suo tempo) che, nel capitolo 5 al versetto 17, dice: «…le cose vecchie sono passate». Probabilmente Shaul-Paolo, ad un certo punto della sua vita, ha voluto cancellare il passato e lo possiamo capire perché, forse, anche noi cancelleremmo qualcosa del nostro passato: che cosa cancellereste voi del vostro passato?
Nelle sue Lettere Shaul-Paolo non dice mai di essere nato a Tarso, e questo fatto – ci domandiamo – è un caso oppure è una necessità? Noi – seguendo l’indicazione delle studiose e degli studiosi (e visto che un luogo di nascita bisogna darlo a tutti – ci rifacciamo alla Tradizione e, quindi, ci piace pensare che Shaul-Paolo sia nato a Tarso. C’è una motivazione di carattere culturale ben precisa per cui viene fatta questa scelta: quello di Tarso risulta essere l’ambiente che si configura di più a questo personaggio e che rispecchia maggiormente la sua formazione culturale. Se fosse nato in un villaggio della Giudea o della Galilea, come gli Apostoli, come Gesù di Nazareth, quasi certamente non sarebbe diventato “Paolo di Tarso”. Nascendo nella capitale della Cilicia si ritrova ad essere un ebreo della “diaspora”, dell’emigrazione, inserito in un mondo composito, un mondo aperto, aperto a differenti e numerose influenze culturali e religiose.
Duemila anni fa Tarso è una città emporio che possiede un ricco mercato. Si trova ai piedi della catena montuosa del Tauro e domina una vasta pianura: questa conformazione geografica la possiamo vedere ancora oggi così come pensiamo l’abbia potuta vedere Shaul-Paolo. Credo che tutte e tutti voi abbiate già, molte volte, osservato Tarso sulla carta geografica utilizzando l’atlante. Tarso è un punto d’incontro, tra Anatolia e Siria, un punto d’incontro di tutti gli influssi provenienti da settentrione, dall’Asia Minore, con gli influssi provenienti da Oriente, dalle antiche civiltà mesopotamiche. È, quindi, nel I secolo, una città “molto florida”, e così la definisce Senofonte nella sua opera intitolata Anabasi. Tarso è una città che ha anche goduto i favori dell’imperatore Augusto. Perché, che cosa c’entra Augusto?
Il testo degli Atti degli Apostoli c’informa che Shaul-Paolo è un ebreo, che è nato a Tarso e che è anche in possesso della cittadinanza romana. Il testo degli Atti degli Apostoli fa dire a Shaul-Paolo di essere «cittadino romano per nascita» e quindi quest’opera presenta una serie di temi suggestivi riguardo alle due cittadinanze di Shaul-Paolo: quella ebraica e quella romana, e questa questione pone degli interrogativi ai quali però è difficile dare delle risposte. È possibile che a Tarso – in una provincia orientale dell’Impero – un giudeo potesse nascere nella condizione di cittadino romano? La presenza della famiglia di Shaul in città è di vecchia data o è una famiglia di recente emigrazione? Gli avvenimenti e la situazione politica di questo momento possono aver determinato le condizioni per un’acquisizione o per un acquisto di cittadinanza?
Ci siamo domandati: che cosa c’entra Augusto, Cesare Ottaviano (l’appellativo di Augusto se lo darà lui quando avrà accentrato tutto il potere nelle sue mani)? Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo proporre – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – un esercizio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Nel testo degli Atti degli Apostoli Shaul-Paolo si dichiara tre volte “cittadino romano”: nel capitolo 16 al versetto 37, nel capitolo 22 al versetto 25 e nel capitolo 23 al versetto 27…
Cercate queste citazioni e leggetele per constatare in quali circostanze e per quale motivo Shaul-Paolo rivendica di essere “cittadino romano”…
La questione della “cittadinanza romana” – come possiamo leggere nel testo degli Atti degli Apostoli – ha giocato nella vita e nei destini di Shaul-Paolo un ruolo molto importante, ed è per questo che, ancora una volta, ci domandiamo: perché nelle Lettere non ne parla mai di questa questione? E a Roma come c’è arrivato: da libero cittadino o da prigioniero? Possiamo fare delle ipotesi e per formulare delle ipotesi in proposito torniamo a Cesare Ottaviano Augusto.
Dobbiamo ricordare che la fase di passaggio tra la Repubblica romana e l’Impero di Cesare Ottaviano avviene tra il 43 e il 31 a.C. e ha come scenario soprattutto l’Oriente conquistato dai Romani: la costa orientale del mar Egeo, il Medio Oriente, l’Egitto. Sulla costa orientale del mar Egeo c’è la città di Filippi, dove nel 42 a.C. i triumviri Antonio, Ottaviano e Lepido sconfiggono l’esercito di Bruto e Cassio che avevano eliminato Giulio Cesare nel 44 a.C. nell’intento di salvare le Istituzioni repubblicane. Sembra che in questa occasione fosse stata concessa la “cittadinanza romana” agli abitanti delle città che si erano schierate con i triumviri e Tarso è una di queste città. Anche la famiglia ebrea di Shaul (lui non è ancora nato) riceve la cittadinanza romana? La famiglia di Shaul era già emigrata a Tarso?
Nel decennio successivo assistiamo all’epocale scontro tra Antonio e Ottaviano. Nel 40 a.C., con il Patto di Brindisi, i triunviri si dividono il territorio di quello che ormai tutti chiamavano dell’Impero. Antonio – che si sente il più forte – pretende la parte più ricca ed ottiene il governo dell’Oriente, con l’Egitto di Cleopatra, mentre Ottaviano – che appare come uno senza aspirazioni – accetta, con finta rassegnazione, l’Occidente. Ottaviano ha un piano perché a Roma – oltre al caos che vi regna – c’è pur sempre il Senato che può ancora avere voce in capitolo. E Lepido, il terzo triunviro? Lepido non vuole rogne e preferisce la carica di Pontefice Massimo che gli procura una serie di vantaggi senza avere troppe grane.
Ottaviano, senza dare nell’occhio, mette in atto il suo piano e da Roma riesce a manovrare il Senato e a far dichiarare la guerra a Cleopatra per inguaiare Antonio il quale cade nella trappola: si schiera a difesa di Cleopatra ed automaticamente diventa nemico di Roma mentre Ottaviano ne diventa il difensore. Lo scontro decisivo si ha con la famosa battaglia navale di Azio, nel mar Ionio, nella Grecia nord-occidentale: è l’anno 31 a.C. e Ottaviano sconfigge Antonio e Cleopatra e rimane padrone dell’Impero.
Cesare Ottaviano ha studiato ad Atene all’Accademia e il suo maestro di filosofia, Atenodoro, è originario di Tarso. Dopo la vittoria di Azio Ottaviano va in visita ad Atene e le cronache narrano che viene accolto da Atenodoro. In queste occasioni il vincitore, per accattivarsi la simpatia dei sudditi, di solito faceva dei favori e l’estensione della “cittadinanza romana” era il regalo più gradito; ora però non sappiamo se Ottaviano, che in questo momento non ha ancora consolidato il suo potere, abbia fatto delle concessioni: non sappiamo se Atenodoro abbia chiesto ad Ottaviano la “cittadinanza romana” per sé e per i suoi concittadini di Tarso. Si fa l’ipotesi che Atenodoro abbia potuto chiedere ad Ottaviano la possibilità di acquisto (le casse dello Stato romano erano quasi vuote) della “cittadinanza romana” da parte dei Tarsensi: sappiamo infatti che in età imperiale il diritto di cittadinanza romana a Tarso era un privilegio di censo che poteva essere acquistato per 500 dracme.
Queste sono tutte ipotesi suggestive ma nelle Lettere di Paolo di Tarso, sebbene siano autobiografiche, non c’è neppure un accenno a questa questione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Voi, oltre a quella che avete, di quale altro Stato vorreste prendere la cittadinanza?…
Basta una riga per rispondere…
Ma torniamo ad occuparci di Tarso. A Tarso domina la cultura ellenistica, una cultura intrisa di sincretismo: cioè c’erano tante religioni, tanti culti, tante scuole filosofiche diverse, che si influenzavano (si contaminavano) vicendevolmente. Questa cultura era capace di creare un’atmosfera intensa, tale da influenzare quelli che vivevano e che passavano di lì, e certamente l’atmosfera culturale di Tarso era ben diversa dal clima chiuso e conservatore che c’era nelle terre di Guidea, a sud.
A Tarso si erano imposte, su tutte le altre, due divinità: la prima è simile a Zeus e si chiama Baal-Tarz, la seconda è suo figlio che si chiama Sandan, simile alla figura ellenica di Eracle (Ercole). Sandan è figlio di Baal-Tarz, come Eracle è figlio di Zeus: Sandan ed Eracle – i due figli delle divinità superiori – hanno una mitologia simile e le studiose e gli studiosi di filologia hanno costruito una sinossi (fare la sinossi significa “mettere in parallelo”), hanno messo in parallelo i racconti mitologici su Sandan ed Eracle con le fonti (Q) della Letteratura dei Vangeli.
A Tarso c’è un particolare clima culturale che può aver inciso sulla formazione di Shaul-Paolo e per capire questo tema, questo intreccio filologico, dobbiamo seguire il racconto del mito di Eracle (Ercole). Eracle è figlio di Zeus e di Alcmena che è la moglie di Anfitrione: quell’instancabile inseminatore di Zeus lo conosciamo bene soprattutto attraverso quello straordinario romanzo in versi che s’intitola le Metamorfosi di Ovidio. Per quanto riguarda l’amore tra Zeus e Alcmena, moglie di Anfitrione, c’è una Metamorfosi apocrifa che ci racconta questo mito popolare: Zeus vede Alcmena e subito se ne invaghisce. Alcmena (è avicultrice) possiede un grande pollaio e tutte le mattine va a raccogliere le uova che le sue galline producono in grande quantità. E Zeus che cosa fa? Si trasforma in gallo, s’introduce nel pollaio e si mimetizza tra le galline e, infatti, quando al mattino Alcmena va nel pollaio non si accorge della presenza del gallo, il quale, appena lei si china per raccogliere le uova, fa un bel salto e la feconda. Dall’incontro tra Zeus sotto forma di “gallo” e Alcmena nasce Eracle che, all’anagrafe, risulta essere figlio di Anfitrione. Ma Hera, la moglie di Zeus, che è gelosissima, capisce tutto e, come al solito, si arrabbia terribilmente e quindi Eracle rischia di essere ucciso da bambino dai serpenti di Hera che però vengono strozzati da lui che è fortissimo già da neonato: anche Gesù rischia di essere ucciso già da neonato. Eracle, da adulto, è sottoposto alle famose dodici fatiche, che affronta con sofferenza e le “dodici fatiche di Eracle” si configurano come una “passione” attraverso la quale Eracle raggiunge la “gloria”: anche Gesù attraverso una “passione” raggiunge la gloria.
Le studiose e gli studiosi di filologia si domandano se queste “sinossi mitologiche”, patrimonio della tradizione religiosa di Tarso, possano aver influenzato la cultura di Shaul? Certamente queste divinità sono l’espressione del rispetto che la popolazione di Tarso nutre per la fecondità della terra, i suoi ritmi, i suoi misteri, i suoi frutti, i suoi riti, le sue cerimonie, le gioie, i dolori, le fatiche; e le statue di queste divinità vengono adornate di fasci di spighe, di tralci di viti, di fiori, e il loro culto culmina ogni anno con la celebrazione della festa del rogo che ha un significato di morte e di resurrezione. C’è una continuità tra la religiosità ellenistica di Tarso e quella dell’Orfismo con i suoi culti misterici primaverili (i falò). Questo fuoco (il falò) raffigura l’apoteosi del dio morente e risorto, e tutto ciò è il simbolo dell’esaurimento del ciclo invernale che prelude al rinnovamento, alla rinascita della natura.
Il dio Sandan di Tarso è simile a Eracle dell’Ellade ed è l’omologo di Adone in Siria, di Attis in Frigia, di Osiride in Egitto, di Tammuz a Babilonia. La storia di questi dèi è un intreccio di vicende umane e divine, che rappresentano un dio “soter (salvatore)”, che a Tarso veniva chiamato Kyrios, il Signore. Questi riti, sulla scia del mito di Orfeo, propongono la rievocazione di un uomo-dio che muore dopo una “passione” e risorge “glorioso” nella natura. Non è casuale il fatto che Shaul, nelle sue Lettere, chiamerà Gesù Cristo con l’appellativo di Kyrios, un termine – come abbiamo già detto – di carattere popolare nella koiné ellenistica: un appellativo, “il Signore”, che definirà per sempre la figura di Gesù-Cristo.
Durante le processioni in onore di Sandan e di Eracle, si usava vestire l’abito bianco, il vestito della divinità, che crea una mistica dell’abito sacrale e non è casuale che Paolo usi, nelle sue Lettere, l’espressione “rivestirsi in Cristo”, un’espressione che ha le sue radici proprio nella cultura religiosa di Tarso.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Per un’occasione particolare ci vuole un abito adatto: quando si è presentata per voi questa occasione?…
Scrivete quattro righe in proposito…
A Tarso, come in tutte le grandi città dell’Ellenismo, si praticano molti “culti misterici” provenienti dalla Frigia, dalla Siria, dalla Fenicia, dall’Egitto. Tutti questi culti hanno come substrato il mito di Dioniso (e noi conosciamo bene questo argomento). La tendenza sincretistica – che consiste nel mescolare e nel combinare insieme le fisionomie e le funzioni di diversi dèi – è tipica dell’Ellenismo. A Roma, in questo momento, nel I secolo, si praticano circa 500 culti diversi: i prevalenti sono quelli di Iside, di Attis, di Adone, di Tammuz, di Mitra. Ci domandiamo: quanto Shaul-Paolo è stato influenzato dal “sincretismo”, dalla contaminazione dei vari culti? In quanto ebreo dovrebbe difendere la propria identità e, quindi, schierarsi contro il sincretismo, contro le mescolanze, però le Sinagoghe della diaspora si sono ormai aperte alla cultura dell’Ellenismo: è in corso la traduzione dei Libri della Bibbia in greco e il pensiero del più importante intellettuale ebreo del I secolo, Filone di Alessandria, è radicato profondamente nella “sapienza poetica ellenistica”.
Non c’è dubbio che la figura del Cristo-Kyrios (Signore) messa a punto da Shaul-Paolo assomigli ad una “figura misterica” simile a quella delle divinità ellenistiche. Shaul-Paolo assorbe la cultura del sincretismo ellenistico e l’immagine del “Dio biblico-ebraico” dei Cristiani nasce da una mescolanza, da una contaminazione culturale: è un Dio anti-etnico, non è un “dio-divus”. Il Kyrios, il Dio di Shaul-Paolo è un Signore che ha l’essenza di un Padre, di un Figlio, di una Madre e non possiede la caratteristica di una divinità chiusa nella propria sacralità. Shaul-Paolo propone un Kyrios-Signore che si presenta come un “anti-Dio”: questo sembra un paradosso ma i cristiani nascono “atei”, non adorano “idoli”. La figura del Dio cristiano emerge da una mescolanza di culture teologiche ma non va mescolato con gli dèi delle religioni.
Tutte queste aporie (contraddizioni culturali) sono molto stimolanti, e dove ci sono aporie, c’è vivacità culturale, c’è investimento in intelligenza. A Tarso c’è vivacità culturale, c’è intelligenza attiva e la vivacità culturale, l’intelligenza attiva di Tarso corrisponde alla vivacità culturale e all’intelligenza attiva di Shaul-Paolo. Ce lo conferma un cronista del tempo, Strabone di Amasea (città sul mar Nero), vissuto tra il 67 a.C. e il 20 d.C. e che ha scritto un’opera in 17 libri che s’intitola Geografia (la parola “geografia” da questo momento darà il nome ad una nuova “disciplina” e quest’opera descrive, per la prima volta, le regioni del mondo sino ad allora conosciuto: l’Europa, l’Asia occidentale, l’Africa del nord). Strabone nel Libro XIV della Geografia scrive: «Gli abitanti di Tarso sono talmente appassionati alla filosofia e hanno un tale spirito enciclopedico che la loro città ha finito per eclissare Atene, Alessandria e tutte le altre città che si potrebbero ricordare per aver dato i natali a qualche scuola filosofica. Tarso possiede Scuole per tutte le branche delle arti liberali». Dire quindi, come fa il testo degli Atti degli Apostoli, che Tarso è il luogo natale del futuro “apostolo delle genti”, sembra essere già un segnale preciso del destino missionario di Shaul-Paolo che vive in bilico tra due mondi: quello del Giudaismo e quello dell’Ellenismo.
Quindi ci colpisce sempre di più il fatto che, colui che resterà nella memoria dei posteri come Paolo di Tarso, non abbia mai fatto cenno nelle sue Lettere alla celebre città della Cilicia, eppure ha sempre citato con precisione i luoghi della sua attività missionaria: nelle Lettere, quelle autentiche, cita nove volte Gerusalemme, cita la Giudea, Corinto, Efeso, Damasco, la Siria, la Cilicia, Antiochia, ma Tarso mai!
Per questo sorge spontanea la domanda: è nato davvero a Tarso, Paolo di Tarso? Potrebbe anche essere nato ad Antiochia o a Damasco: sono due altre ipotesi che le studiose e gli studiosi fanno. Ma Shaul-Paolo nelle sue Lettere non ci dà alcun indizio e noi ci affidiamo alla Tradizione che è pur sempre un punto di riferimento culturale se sappiamo distinguere tra logoi (notizie reali) e apologoi (discorsi ideali, allegorici).
Ma Shaul-Paolo non ha avuto solo una formazione ellenistica. Shaul è un ebreo e, in quanto tale, ha avuto la sua formazione: ma che tipo di ebreo è Shaul Tarsensis? Di questo interessante tema ce ne occuperemo prossimamente. Shaul è un ebreo con una personalità tipica degli ebrei della diaspora, con un carattere che si colloca tra il desiderio di sedentarietà e il bisogno di emigrazione, tra la necessità di fuga e la speranza di immobilità. Queste caratteristiche ce le racconta uno scrittore che si chiama André Kaminski in un romanzo di cui abbiamo già consigliato la lettura qualche anno fa (ora è il tempo di rileggerlo). Adesso, per concludere, ne leggiamo una pagina pensando che anche Shaul Tarsensis è stato un ebreo della diaspora, dell’emigrazione e in certe descrizioni si sarebbe riconosciuto.
André Kaminski è uno scrittore, un commediografo, un drammaturgo che è nato a Ginevra nel 1923 e ci racconta le avventure di due famiglie tra cronaca, storia e leggenda: i Rosembach di Stanislav e i Kaminski di Varsavia, due famiglie molto diverse che però s’incontrano e trovano un punto in comune, due famiglie nel cui destino c’è l’emigrazione, la persecuzione, l’esilio. Ma come si fa a sopravvivere a tante piccole e grandi tragedie che Kaminski racconta? Ci si può riuscire – risponde lo scrittore – coltivando l’umorismo, tipico della tradizione ebraica (anche Paolo di Tarso coltiva l’umorismo)! Senza l’umorismo siamo perduti e non siamo capaci di guardare né avanti né indietro. E, difatti, è anche un testo umoristico il romanzo di André Kaminski che s’intitola L’anno prossimo a Gerusalemme. Questa frase rappresenta una forma di saluto che contiene un sottile senso ironico: è un augurio che si fanno gli ebrei della diaspora quando s’incontrano ben sapendo che non ritorneranno né l’anno prossimo né mai a Gerusalemme, ma che, intanto, l’essenza di Gerusalemme è lì, in questo saluto! A leggere, o a rileggere, questo libro ci si diverte riflettendo.
LEGERE MULTUM….
André Kaminski, L’anno prossimo a Gerusalemme (1986)
Quando gli ebrei cambiano luogo di residenza, hanno i loro motivi, e anche urgenti, perché in teoria sono di una sedentarietà addirittura religiosa. È pur vero che sono un popolo nomade. Si dice anche che vadano peregrinando senza tregua per il mondo.
È un noto cliché, ma non ha molto a che fare con la natura d’origine degli ebrei. Emigrano da un luogo all’altro perché sono scacciati, perché si sentono scottare la terra sotto i piedi. Da un lato questa è la loro sfortuna storica, dall’altro un’occasione offerta dal destino. Che lo vogliano o no. Sono costretti a fare dei confronti. Vedono il mondo davanti e da dietro. Prima dalla prospettiva di chi arriva pieno di speranza, poi da quella di chi riparte deluso. Non hanno il tempo di abituarsi a qualche cosa … di diventare mentalmente pigri.
... continua la lettura ...
Che tipo di ebreo è Shaul Tarsensis e come si configura l’ebraismo a contatto con la cultura dell’Ellenismo? Di questi temi ce ne occuperemo la prossima settimana perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere per ogni persona.
La Scuola è qui e il viaggio continua…
Il prossimo è il penultimo itinerario di questo Percorso che comincia ad avviarsi verso la conclusione e, quindi, non mancate alle operazioni del nostro temporaneo approdo. Anche noi da un quarto di secolo siamo in fuga: il movimento è la nostra via, è viaggio di studio, è percorso di apprendimento per investire in intelligenza quindi compilate il “questionario di fine percorso” che serve per definire meglio il prossimo punto di partenza…
PER INVESTIRE IN INTELLIGENZA
parola per parola …
Leggi con attenzione queste parole che - in funzione della didattica della lettura e della scrittura - abbiamo incontrato viaggiando sul territorio della “Sapienza poetica ellenistica” …
Fai la tua scelta per investire in intelligenza, per dare una forma al vasto paesaggio intellettuale che abbiamo osservato e per determinare il punto di partenza del prossimo percorso …
il mondo la strada
la passione il viandante
il burocrate il mercenario
l’eremita la tentazione
la biblioteca l’individualismo
l’adulazione il parassita
il carattere il piacere
l’imperturbabilità il dovere
l’impassibilità l’inquietudine
la fedeltà l’amicizia
la rettitudine il ruolo
il vangelo l’attesa
Scegli non più di tre parole e scrivile qui …
__________________________________________________________________
PER INVESTIRE IN INTELLIGENZA
idea per idea …
Marco Tullio Cicerone nella sua opera intitolata De finibus scrive: «Per Pirrone di Elide sembra non ci sia differenza alcuna tra godere di ottima salute ed essere gravemente malati, e questa può sembrare un’affermazione velleitaria ma in realtà è un’allegoria che ci obbliga a riflettere sul fatto che, prima di tutto, c’è la qualità della vita, prima del giudizio sul valore della vita». Questa affermazione di Cicerone, a commento della Scuola scettica, c’invita a riflettere… Scegli e scrivi tre parole che possano, secondo te, definire il concetto di “qualità della vita” e, a questo proposito, leggi le dieci parole di questa lista proposte da una ricerca condotta dall’ISTAT lo scorso anno…
Leggi con attenzione queste parole…
benessere lavoro salute
divertimento stima cultura
immagine viaggi
solidarietà successo
Scegli non più di tre parole e scrivile qui …
__________________________________________________________________