Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica 19-20-21 maggio 2010
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA
C’È LA FIGURA DI UN FARISEO DELLA DIASPORA EBRAICA CHE SI ESPRIME IN GRECO …
Da cinque settimane stiamo viaggiando in compagnia di un importante scrittore dell’ellenismo greco, Paolo di Tarso, che – come sappiamo – è l’autore di uno dei più celebri Epistolari della Storia del Pensiero Umano. Sappiamo che lo studio degli argomenti contenuti nelle Lettere di Paolo di Tarso è anche propedeutico (preparatorio) alla lettura dei romanzi dell’età moderna e contemporanea perché i temi che questo scrittore tratta danno origine ad una riflessione dalla quale scaturisce un glossario (un catalogo di parole-chiave) che ha inciso profondamente sulla storia della Letteratura. E noi ci occupiamo dell’Epistolario di Paolo di Tarso, prima di tutto, in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché questo è il mandato istituzionale che ha ricevuto un Percorso di alfabetizzazione culturale e funzionale che, come il nostro, si svolge nell’ambito della Scuola pubblica degli Adulti.
Per questo motivo abbiamo puntato – già dalla scorsa settimana – la nostra attenzione sul celebre brano che s’intitola Il Grande Inquisitore. Voi sapete che Il Grande Inquisitore è il titolo di un capitolo che si trova nel cuore del romanzo di Fëdor Dostoevskij intitolato I fratelli Karamazov (mi auguro che siate entrate, siate entrati in contatto con questo romanzo perché ora è il momento adatto per avvicinarsi a un testo che contiene tutte le principali parole-chiave e i concetti-cardine che stiamo incontrando in quest’ultima parte del nostro Percorso e che incontreremo ancora nel Percorso del prossimo anno scolastico e che continuerà a svolgersi sul territorio della “sapienza poetica ellenistica”).
Questo celebre brano – il capitolo de Il Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij – rappresenta uno dei vertici della Letteratura universale. I protagonisti di questa parte del romanzo, come ben sapete, sono i due fratelli Karamazov che rappresentano meglio il pensiero dello scrittore: Aleksej (Alëša) e Ivan. Sappiamo anche che il personaggio di Ivan Karamazov – e lo incontrerete se leggerete o rileggerete questo romanzo (le studiose e gli studiosi parlano di “enigma Ivan”) – è quello che interpreta meglio la rabbia e i pensieri di Dostoevskij: è, infatti, a Ivan Karamazov – lo scettico (un termine, come sappiamo, di carattere ellenistico), il negatore di Dio ma la persona veramente assetata di fede – che lo scrittore fa trattare con rigore, in chiave evangelica, i temi dell’Amore del prossimo, della Libertà che si materializza solo con il rispetto delle regole condivise, della Sofferenza umana e del Male assoluto.
Il testo de Il Grande Inquisitore non è di agevole lettura, ci vuole pazienza per seguire la stringente, incalzante e rigorosa riflessione di Dostoevskij condotta per bocca di Ivan Karamazov. Non è però difficile, abbiamo già detto la scorsa settimana, entrare in contatto con “Il Grande Inquisitore” perché noi (anche se, spesso, in modo disordinato) siamo imbevuti di cultura evangelica mediata (per sentito dire) attraverso l’Epistolario di Paolo di Tarso. In quanto profondo conoscitore della Letteratura dei Vangeli, Dostoevskij si domanda – e poi questa sua riflessione, in età contemporanea, è stata ripresa in varie forme dalla Letteratura, dal Teatro, dal Cinema, dall’Arte – che cosa succederebbe se Gesù Cristo decidesse di comparire anche solo per un momento sulla terra: non per attuare la “parusìa” (una parola-chiave di cui conosciamo il significato e di cui stiamo verificando l’incidenza letteraria), bensì per una fugace apparizione. Sono i credenti – si domanda ironicamente Dostoevskij – a rifiutare in cuor loro la parusìa, a far finta di desiderare il ritorno del Signore?
Sappiamo che nel capitolo intitolato Il Grande Inquisitore Ivan ha composto un poema (e lo recita al fratello Alëša) nel quale immagina che, dopo quindici secoli, nel 1500, Gesù ritorni sulla terra per una fugace apparizione, e immagina si presenti nella Spagna dove, ovunque, stanno bruciando i roghi accesi in suo nome dalla Santa Inquisizione. Il Grande Inquisitore – un vecchio monaco novantenne che è anche cardinale – appena lo vede, mentre sulla scalinata della Cattedrale di Siviglia sta facendo dei miracoli in mezzo al popolo che lo ha subito riconosciuto, lo fa imprigionare con l’intenzione di bruciarlo come eretico. Naturalmente l’Inquisitore è fortemente turbato da questa presenza e, nella notte, va a trovarlo in prigione e lo interroga a lungo sul “valore della libertà”: un tema che Paolo di Tarso affronta con passione nel suo Epistolario. Il Grande Inquisitore – dando prova di grande concretezza (la sua analisi è, provocatoriamente, sostenuta da un grande realismo) – accusa Gesù dicendo: «Tu hai scelto tutto ciò che era superiore alla sorte degli esseri umani, hai agito come se tu non li amassi affatto perché le persone, prima della libertà, vogliono il pane e, in cambio del pane, sono subito disposti a rinunciare alla libertà». L’Inquisitore vorrebbe che Gesù rispondesse, che dicesse qualcosa, ma Lui non parla e, alla fine, fa solamente un gesto emblematico: questo gesto è la sua risposta, e allora il vecchio spalanca la porta e dice: «Vattene, e non venire più, non venire mai più». “Mentre con la bocca preghiamo che il Signore ritorni a giudicare i vivi e i morti – afferma ironicamente Dostoevskij – in cuor nostro rifiutiamo che la parusìa si compia (siamo troppo presi dai nostri interessi terreni)”.
In questo grande romanzo Dostoevskij pone, in modo inquietante, i temi – presenti nell’Epistolario di Paolo di Tarso – dell’Amore, della Speranza, della Fede, della Sofferenza, della Libertà. Questi temi sollevano, da sempre, enormi problemi di carattere esistenziale e richiedono da parte di tutti una continua riflessione: si fa – ci siamo più volte domandate e domandati – questa riflessione? Oggi assistiamo, più che altro, alla spettacolarizzazione in funzione mediatica di questi temi, e questa ininterrotta messa in scena rimuove ogni possibilità di “coscienziosa riflessione”: questa è la dicitura che definisce l’elemento filosofico che Dostoevskij sviluppa nei suoi romanzi perché tutti i suoi personaggi sono alle prese con il tema del cambiamento del loro stile di vita e, di solito, s’interrogano spassionatamente sul perché rinunciano a cambiare stile di vita pur sapendo che quello che conducono è negativo. E allora – a beneficio della coscienziosa riflessione – continuiamo a leggere il capitolo intitolato «Il Grande Inquisitore»: la Scuola non ha altra risposta da dare.
Che cosa rinfaccia l’Inquisitore, in modo inesorabile, a Gesù? Gli rinfaccia, innanzitutto, di non aver ceduto alle “tentazioni”. Tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca), con poche variazioni, narrano l’episodio in cui lo Spirito di Dio fa andare Gesù nel deserto per essere tentato dal diavolo. Per quaranta giorni e quaranta notti Gesù rimane là senza mangiare né bere e, alla fine, ha fame e allora il diavolo tentatore si avvicina a lui. L’Inquisitore, con grande acume, commenta e critica il comportamento di Gesù e noi, la scorsa settimana, abbiamo già letto un certo numero di pagine in proposito e ora continuiamo la lettura, non faremo fatica ad orientarci: diamo la parola a Dostoevskij il quale dà la parola al Grande Inquisitore:
LEGERE MULTUM….
Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov
Il Grande Inquisitore
In tal modo, Tu stesso hai posto i fondamenti per la distruzione del Tuo regno, e non puoi darne la colpa a nessun altro. Ma ben altro era ciò che Ti veniva proposto! Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienza di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima e la seconda e la terza, e sei stato il primo a darne l’esempio. Allorché il tremendo e sapientissimo spirito Ti collocò sul pinnacolo del tempio e Ti disse: «Se vuoi sapere se sei il Figlio di Dio, gettati giù, poiché di Lui sta scritto che gli angeli lo afferreranno e lo sorreggeranno e non cadrà e non si farà alcun male, e così verrai a sapere se Tu sei il Figlio di Dio, e così darai a vedere qual è la Tua fede nel padre Tuo»; Tu, ascoltate queste parole, rifiutasti la proposta e non Ti lanciasti giù. Oh, certamente, Tu in quel frangente agisti in modo superbo e splendido, degno di un Dio: ma gli umani, questa debole schiatta sediziosa, sono essi forse degli dèi? Oh, Tu comprendesti in quel momento che, facendo anche semplicemente finta di lanciarti giù, immediatamente Tu avresti tentato il Signore, e avresti perduto tutta la fede che avevi in Lui, e ti saresti sfracellato contro quella terra che eri venuto a salvare, con gioia dell’ingegnoso spirito che Ti aveva tentato.
Ma tu hai voluto rifiutare il miracolo! E, Tu sapevi che il Tuo gesto sarebbe stato conservato nelle scritture, avrebbe raggiunto le profondità dei tempi e gli estremi limiti della terra, e hai concepito la speranza che, imitando Te, anche le persone sarebbero rimaste con Dio, senza aver bisogno del miracolo. Ma Tu non sapevi che, non appena l’essere umano rifiuta il miracolo, subito dopo rifiuta anche Dio, giacché gli umani vanno in cerca, non tanto di Dio, quanto dei miracoli. E quindi, dato che non possono rimane senza miracoli, essi si fabbricheranno dei miracoli nuovi, a modo loro stavolta, e finiranno col genuflettersi dinanzi al miracolo del ciarlatano, dinanzi al sortilegio dell’imbonitore, fosse pure mille volte corrotto. Tu non sei disceso dalla croce quando Ti gridavano, pigliandosi beffe di Te: «Scendi dalla croce, e crederemo che sei Tu». Tu non sei disceso perché, ancora una volta, non hai voluto asservire l’essere umano col miracolo, e desideravi una fede libera, e non una fede vincolata al miracolo. Desideravi un libero amore, e non già le servili effusioni dello schiavo al cospetto del potente, che una volta per sempre lo ha terrorizzato. Ma, anche qui, Tu hai giudicato troppo altamente gli umani, giacché, in fin dei conti, costoro sono degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle. Guardati attorno e giudica: ecco, sono passati quindici secoli: va’, e osservali: chi hai sollevato fino a Te? In fede mia, l’essere umano è costituzionalmente più debole e più vile di quanto Tu non lo ritenessi! È mai possibile, è mai possibile che egli adempia ai Tuoi voleri? E allora anche Tu perché hai agito così? Avendo tanta stima in lui, Tu ti sei comportato come se cessassi di averne pietà, perché troppo, di conseguenza, hai preteso da lui: egli è debole e vile. Che cosa si nasconde in tutto questo tumultuare che fa ora un po’ dovunque contro la nostra potestà, e in questo menar vanto del suo ribellarvisi? Si tratta di un orgoglio da bambino e da scolaretto. Sono dei piccoli ragazzi, che fanno rivoluzione in classe e cacciano fuori il maestro. Ma verrà la fine anche per l’ebbrezza dei ragazzetti, e questa costerà loro salata. Essi rovesceranno i templi e bagneranno di sangue la terra. Ma arriveranno a capire, alla fine, questi sciocchi bambini, che sono dei ribelli di fiato corto, incapaci di sostenere il peso della loro stessa ribellione. Grondanti delle proprie stupide lacrime, si confesseranno alla fine, e lo faranno con disperazione, e le loro parole saranno una bestemmia, per cui diverranno ancora più infelici perché la natura umana non tollera la bestemmia e, presto o tardi, si vendica. Cosicché, irrequietezza, rivolta e infelicità: ecco qual è ora il destino degli esseri umani, dopo che Tu hai affrontato tanta sofferenza per dar loro la libertà! Il grande profeta Tuo, in visione e in allegorìa, dice di aver veduto tutti i compartecipi della prima resurrezione, e che ce n’erano in ragione di dodicimila per ciascuna generazione. Ma non sono poi tanti costoro che hanno sopportato la Tua croce, hanno sopportato decine d’anni di affamato e nudo deserto, nutrendosi di locuste e di radici e sì, certamente, Tu puoi con orgoglio additarci questi figli della libertà, del libero amore, del libero e splendido sacrificio di se stessi in nome Tuo. Ma tieni a mente che costoro erano in tutto qualche migliaio ed erano dèi: ma tutti gli altri? E che colpa hanno tutti gli altri, i deboli, se non sono stati capaci di sopportare quel che hanno sopportato i forti? Che colpa ha un’anima debole, se non è in grado di accogliere in sé doni tanto tremendi? E allora, dunque, Tu sei venuto per gli eletti? Ma se è così, qui c’è un mistero che non possiamo comprendere. E se un mistero c’è, allora anche noi abbiamo il diritto di predicare il mistero e di insegnare agli umani che non la libera decisione dei loro cuori è ciò che importa, e non l’amore, ma il mistero, al quale essi hanno l’obbligo di assoggettarsi ciecamente, e addirittura indipendentemente dalla loro coscienza. E appunto così abbiamo fatto noi. Noi abbiamo corretto le Tua gesta, e le abbiamo dato per andamento il miracolo, il mistero e l’autorità. E gli esseri umani si sono rallegrati che di nuovo li conducessero come un gregge, e che dai loro cuori fosse stato tolto, finalmente, un dono tanto tremendo, che aveva arrecato loro tanto tormento. Abbiamo avuto ragione di insegnare e di agire così, parla? Non abbiamo forse amato, noi, l’umanità, riconoscendo tanto umilmente la sua impotenza, alleggerendo con tanto amore il suo fardello, e permettendo alla debole sua natura anche di peccare, ma col nostro permesso? Perché ora sei venuto qui a darci impaccio? E che vuoi Tu, che in silenzio e intensamente mi guardi coi dolci occhi Tuoi? Adirati pure: ma io non lo voglio l’amor Tuo perché, dal canto mio, non lo amo. E che ragione avrei di nasconder qualcosa a Te? Credi forse che io non sappia con chi sto parlando? Ciò che ho da dirTi, a Te è già tutto noto: io lo leggo nei Tuoi occhi. E come potrei nasconderTi il nostro segreto? Probabilmente, Tu vuoi appunto sentirlo dalle mie labbra! Ascoltalo dunque: noi non siamo con Te, siamo con lui: ecco il nostro segreto! Già da gran tempo noi non siamo con Te, ma con lui: sono ormai otto secoli. Sono precisamente atto secoli che noi abbiamo preso da lui ciò che Tu sdegnosamente hai rifiutato, quell’ultimo dono che lui Ti ha offerto mostrandoTi tutti i regni della terra: noi abbiamo preso da lui Roma e la spada di Cesare, e abbiamo proclamato di esser noi soli i sovrani della terra, i sovrani unici, seppure, finora, non siamo ancora riusciti a raggiungere in pieno il nostro obiettivo. Ma di chi è la colpa? Oh, il nostro programma è ancora soltanto agl’inizi: ma l’inizio c’è stato. Ancora a lungo se ne dovrà aspettare il compimento, e ancora molte sofferenze patirà la terra: ma noi raggiungeremo la meta e diverremo Cesari, e allora sì che provvederemo all’universale felicità degli esseri umani. Ma pensare che Tu avresti potuto fin d’allora prendere la spada di Cesare! Perché Tu rifiutasti quest’ultimo dono? Accettando questo terzo consiglio del possente spirito, Tu avresti realizzato in pieno tutto ciò che l’essere umano cerca su questa terra, e cioè: dinanzi a chi genuflettersi, a chi affidare la propria coscienza, e in che modo, infine, riunirsi tutti in un indiscusso, comune e concorde formicaio, giacché l’esigenza d’una unione universale è il terzo e ultimo assillo degli umani. …Accettando il mondo e la porpora di Cesare, Tu avresti fondato un reame universale, e avresti dato a tutto il mondo la pace. Giacché, chi mai può avere il dominio sulle persone se non coloro che hanno il dominio della loro coscienza, e che hanno in mano il pane loro? E noi abbiamo appunto preso la spada di Cesare, e senza dubbio, prendendola, abbiamo rifiutato Te e ci siamo messi al seguito di lui. Oh, ne passeranno ancora dei secoli nel bailamme della libera intelligenza, della scienza umana e dell’antropofagia, poiché, avendo cominciato a edificare la loro torre di Babele senza di noi, finiranno col mangiarsi a vicenda! Ma verrà pure un giorno che la fiera s’avvicinerà a noi, e si metterà a leccare i nostri piedi, e ad annaffiarli con le lacrime sanguinolente dei suoi occhi. E noi monteremo sulla fiera e innalzeremo la coppa e su questa sarà scritto: «Mistero!» Ma allora e soltanto allora sopravverrà per gli esseri umani il regno della pace e della felicità. Tu sei orgoglioso dei Tuoi eletti, ma con Te ci sono solo gli eletti, mentre noi diamo la pace a tutti. E non basta: quanti di questi eletti, quanti dei forti, che sarebbero potuti divenire eletti, si sono stancati, alla fine, di aspettarTi, e hanno portato e continuano a portare le loro forze in altri campi, e finiscono col levare proprio contro di Te la loro libera bandiera! Ma sei stato Tu che hai innalzato questa bandiera. Con noialtri, invece, tutti saranno felici, e non continueranno più né a ribellarsi né a sterminarsi l’un l’altro, come nella libertà Tua, per tutta la terra. Oh, noi li convinceremo che soltanto allora diventeranno liberi, quando rinunceranno alla loro libertà e si sottometteranno a noi. Loro stessi si convinceranno che noi abbiamo ragione perché si ricorderanno a quali orrori di schiavitù e di convulsioni sociali li aveva condotti la libertà Tua …e inneggeranno a noi: «Sì, voi soli siete in possesso del mistero di Lui, e noi facciamo ritorno a voi: salvateci da noi stessi». … Chi è stato il principale artefice di questa incomprensione: parla? Chi ha scompigliato il gregge e lo ha sparpagliato per vie sconosciute? Ma il gregge di nuovo si radunerà, e di nuovo si sottometterà e, stavolta, per sempre. Allora noi gli daremo una quieta, umile felicità, una felicità da esseri deboli, quali costituzionalmente essi sono. Oh, noi li persuaderemo, alla fine, a non essere orgogliosi, perché Tu li hai sollevati in alto, e così hai insegnato loro a inorgoglirsi: dimostreremo loro che sono deboli, che non sono altro che dei poveri bambini, ma che in compenso la felicità bambinesca è la più soave di tutte. Essi si faranno timidi e s’abitueranno a girare gli occhi verso di noi e a stringersi a noi tutti spaventati, come pulcini alla chioccia. Ad ogni movimento che faranno, proveranno un terrore di noi e insieme un orgoglio della potenza e dell’intelligenza nostre, tanto grandi da aver saputo ammansire un così indocile gregge di migliaia di milioni. Le loro intelligenze s’intimidiranno, i loro occhi diverranno facili alle lacrime, come quelli dei bambini: ma con altrettanta facilità, a un nostro cenno, passeranno all’allegria e al riso, alla più limpida gioia, e alle beate canzoncine infantili. Sì, noi li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro daremo alla loro vita un assetto come di giuoco infantile. Oh, noi permetteremo loro anche il peccato: sono così fragili e impotenti; e loro ci vorranno bene come bambini, per il fatto che noi permetteremo loro di peccare. Noi diremo loro che ogni peccato sarà rimesso, se compiuto col permesso nostro: e il permesso di peccare noi glielo concederemo perché li amiamo, e il castigo di questi peccati, ebbene, lo assumeremo a carico nostro e loro ci adoreranno come benefattori che si sono accollati i peccati loro di fronte a Dio. Ed essi non ci terranno nascosto assolutamente nulla di loro stessi. Noi permetteremo loro, o proibiremo, di vivere con le loro mogli e amanti, di avere o non avere figli, sempre regolandoci sul loro grado di docilità, ed essi si sottometteranno a noi lietamente e con gioia. Perfino i più torturanti segreti della loro coscienza porranno in mano a noi, e noi tutto risolveremo, ed essi si affideranno con gioia alla decisione nostra, perché questa li avrà liberati dal grave affanno e dai tremendi tormenti che accompagnano ora la decisione libera e personale. E tutti saranno felici, tutti gli esseri a milioni, eccettuate le migliaia di quelli che ne avranno il governo. Giacché noi soli, noi che dovremo custodire il segreto, saremo infelici. Ci saranno migliaia di milioni di fanciulli felici, e centomila martiri su cui peserà la maledizione della conoscenza del bene e del male. In silenzio essi morranno, in silenzio si estingueranno nel nome Tuo e oltre tomba non troveranno che la morte. Ma noi manterremo il segreto, e per la loro stessa felicità li culleremo nell’illusione d’una ricompensa celeste ed eterna. Infatti, seppure ci fosse qualcosa nel mondo di là, non sarebbe davvero per della gente simile a loro.
Dicono e profetizzano che Tu verrai e di nuovo sarai vittorioso: verrai con i Tuoi eletti, ma noi diremo che essi hanno salvato soltanto se stessi, mentre noi abbiamo salvato tutti quanti. Dicono che sarà ricoperta d’obbrobrio la meretrice assisa sulla fiera, che regge fra le mani la coppa del mistero; che di nuovo si leveranno a tumulto i deboli, lacereranno la porpora di lei e denuderanno il suo «sordido» corpo. Ma allora io mi leverò, e Ti additerò le migliaia di milioni di fanciulli felici, ignari del peccato. E noi, che ci saremo accollati i peccati loro per farli felici, noi ci pianteremo dinanzi a Te e diremo: «Condannaci se puoi e se osi». Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch’io sono stato nel deserto, anch’io mi sono nutrito di locuste e di radici, anch’io ho benedetto la libertà con la quale Tu avevi benedetto gli esseri umani, e anch’io mi ero preparato a entrar nel numero degli eletti Tuoi, nel numero dei capaci e dei forti, bramando di «compiere il numero». Ma io ho aperto gli occhi, e non ho voluto servire la follia. Ho virato di bordo, e mi sono aggregato alla schiera di quelli che hanno corretto la Tua gesta. Ho girato le spalle agli orgogliosi e mi sono rivolto agli umili. Ciò che io sto dicendo a Te si avvererà, e il regno nostro sarà fondato. Ti ripeto: domani stesso Tu vedrai come, questo docile gregge, al mio primo cenno si lancerà ad ammassare le braci ardenti al Tuo rogo, al rogo sul quale Ti farò bruciare per esser venuto qui ad intralciarci. Perché, se mai c’è stato uno che più d’ogni altro ha meritato il nostro rogo, questi sei Tu. Domani Ti farò bruciare. Dixi, ho detto.
Ivan tacque. S’era accalorato parlando, e aveva parlato con trasporto: ma, quando ebbe finito, di colpo sorrise.
Alëša, che lo aveva sempre ascoltato in silenzio e che, verso la fine, in un’insolita agitazione, aveva più volte accennato, poi frenandosi, a interrompere il discorso del fratello, d’improvviso cominciò a parlare, come gli fosse scattata dentro una molla. …
Che cosa dice Alëša, un po’ sconvolto dal racconto di Ivan? Lo vedremo nel prossimo itinerario.
L’ispirazione proveniente dall’Epistolario di Paolo di Tarso – considerato uno dei testi più significativi della “sapienza poetica ellenistica in lingua greca” – è presente non solo nelle opere di Dostoevskij ma in molti significativi romanzi di età moderna e contemporanea e, quindi, torniamo ad occuparci del nostro compagno di viaggio.
La scorsa settimana abbiamo fatto visita a Tarso e abbiamo potuto constatare che in questa città l’ufficio anagrafe del I secolo non esiste più: non è più consultabile e, quindi, la data di nascita di Shaul-Paolo (ammesso che sia nato a Tarso) noi non la conosciamo. È probabile che la data di nascita di Shaul-Paolo coincida approssimativamente con quella della nascita di Gesù di Nazareth: Gesù è nato intorno al 7 a.C., Shaul è nato circa 2000 anni fa. Gli anni in cui Paolo di Tarso ha realizzato la sua opera, per cui è rimasto nella storia, sono all’incirca compresi tra il 36 e il 60 d.C.. La maggior parte delle studiose e degli studiosi colloca la sua morte a Roma tra il 62 e il 64.
Per la prima metà della sua vita Shaul è stato un osservante ebreo della diaspora in territorio ellenistico: un ebreo osservante che appartiene al gruppo sociale e religioso dei Farisei. La parola “fariseo”, in ebraico “perushim”, significa “separato (che non vuole contaminarsi con altri)”. Noi abbiamo sentito parlare dei Farisei attraverso la Letteratura dei Vangeli: Gesù accusa spesso i Farisei di svuotare di senso la parola di Dio con i loro cavilli legali. Gesù poi consiglia ai suoi discepoli di fare quello che i Farisei insegnano senza però imitarli nei loro comportamenti.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
A questo proposito potete consultare il testo del Vangelo secondo Marco al capitolo 7 dal versetto 1 al 13, e il testo del Vangelo secondo Matteo al capitolo 23 dal versetto 1 al 36…
Leggete questi brevi testi tenendo conto che oggi prendono di mira non tanto i Farisei ma gli ipocriti contemporanei…
C’è una forma di ipocrisia – di falsità, di finzione, di impostura, di infingardaggine – che volete mettere in evidenza?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Ma chi sono i Farisei, e Gesù – si domandano le studiose e gli studiosi – è appartenuto, almeno per un periodo della sua vita, a questo gruppo sociale: anche Gesù di Nazareth è stato un fariseo? I Farisei formano un gruppo, all’interno dell’ebraismo, composto da laici: sono artigiani, commercianti, operai e, se potessimo usare un termine contemporaneo, potremmo dire che provengono dalla piccola borghesia. Tra i Farisei esiste una categoria particolare che è quella dei rabbi. Il “rabbinato laico” è una forma di “artigianato religioso-legale”: i rabbi sono maestri specializzati nella lettura della Torah, nell’interpretazione della Legge contenuta nei libri del Pentateuco, i primi cinque libri dell’Antico Testamento: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. Come sappiamo i tre quarti del testo del Pentateuco è composto da Leggi. Il rispetto della “Legge uguale per tutti (questo è il significato del termine Torah)” ha un valore fondamentale nell’ebraismo e la vita quotidiana è regolata da trecento norme che bisogna rispettare e, per rispettarle bene, spesso c’è bisogno di un consiglio, di una consulenza. I rabbi sostano fuori dalle mura del Tempio e aspettano i clienti, cioè coloro che hanno bisogno di una consulenza perché le Leggi sono tante, sono complicate e non bisogna sbagliare nel rispettarle. I rabbi, per le loro prestazioni, usufruiscono di un piccolo compenso spesso in natura ed è inequivocabile il fatto che anche Gesù di Nazareth viene chiamato “rabbi”.
I Farisei sono un gruppo religioso molto serio e insegnano una profonda e amorosa ubbidienza alla Legge di Jahvé: conservano le antiche interpretazioni della parola dell’Antico Testamento e ne studiano sempre di nuove. La parola “fariseo”, in ebraico “perushim”, significa “separato (che non vuole contaminarsi con altri)”: ma da chi sono separati i Farisei nel mondo ebraico?
Nel mondo ebraico ci sono altri gruppi sociali da cui i Farisei vogliono stare “separati”. Altro importante gruppo sociale è quello dei Sadducei che prendono il nome dal leggendario sacerdote Sadoc. I Sadducei formano il gruppo dell’aristocrazia conservatrice e sono le famiglie dei Sadducei che esprimono il Sommo Sacerdote e i membri del Sinedrio: il consiglio dei sacerdoti. I Sadducei riescono a mantenere i loro privilegi venendo a patti e collaborando con i Romani, con gli occupanti.
Per molti aspetti, quindi, Farisei e Sadducei sono profondamente diversi (i Farisei non sono collaborazionisti), ma l’elemento ideologico che li divide in modo fondamentale – del quale dobbiamo essere consapevoli in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è il fatto che i Farisei credono alla resurrezione dei morti (fanno riferimento al Libro di Daniele e al Secondo Libro dei Maccabei), mentre i Sadducei non credono alla resurrezione dei morti e gli scontri, su questo punto, sono notevoli.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Per rendersene conto è utile fare un esercizio: è opportuno leggere il testo degli Atti degli Apostoli al capitolo 23 dal versetto 1 all’11 – e ci si può anche un po’ allargare nella lettura intorno a questo frammento [che costituisce l’unità di apprendimento] – dove si racconta che Paolo, in situazione di difficoltà a Gerusalemme, approfitta della rivalità ideologica tra Farisei e Sadducei …
Il fatto che Shaul-Paolo sia un fariseo e che i Farisei credano nella resurrezione dei morti è un elemento significativo che serve a capire meglio il perché della sua militanza come apostolo di Gesù “risorto”: il concetto della “risurrezione” (Anastasia) fa già parte della sua formazione culturale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
A questo proposito potete informarvi leggendo un’altra significativa unità di apprendimento: il capitolo 12, l’ultimo capitolo – sono 13 versetti – del Libro di Daniele [uno dei testi su cui si forma Gesù di Nazareth] e che, tradotto in greco, viene studiato con interesse nelle comunità della diaspora ebraico-ellenistica…
Ora diamo un’occhiata, rapidamente, anche agli altri gruppi sociali di cui si compone l’ebraismo al tempo dell’Ellenismo.
Nell’ebraismo, oltre ai Farisei e ai Sadducei, ci sono altri significativi gruppi sociali: c’è il gruppo dei Pubblicani che erano laici e rappresentanti di una borghesia attiva che non ha particolare interesse per la tradizione religiosa. I Pubblicani erano attivi collaborazionisti con gli invasori Romani con i quali facevano affari. “Pubblicanus” significa “appaltatore”, e ai Pubblicani i Romani avevano dato l’appalto per la riscossione delle imposte: riscuotevano le tasse per conto dell’Impero perché gli Ebrei ritenevano una cosa impura pagare i tributi direttamente ai Romani. I Pubblicani versavano un canone ai Romani (si addossavano l’impurità) e i Romani davano loro la facoltà di trasformare questo canone in una tassa che loro poi riscuotevano con un consistente tornaconto. Naturalmente i Pubblicani erano molto invisi ai Farisei, mentre erano più tollerati dai Sadducei perché anch’essi erano piuttosto compromessi con gli invasori.
Altro gruppo sociale era quello degli Zeloti: il partito degli integralisti, degli estremisti che sostenevano la resistenza armata contro i Romani con il sistema del terrorismo urbano. Quasi quotidianamente, a piccoli gruppi, assalivano i soldati romani o gli ebrei collaborazionisti armati di “zelot” (da qui il nome di Zelati), un pugnale corto, a spirale, che feriva mortalmente; molto spesso venivano a loro volta uccisi o catturati e settimanalmente, a piccoli gruppi, venivano giustiziati, o con la crocifissione o infilzati dalle lance per evitare loro di fare propaganda urlando dalla croce. Sappiamo che anche Gesù di Nazareth muore in un “affare zelota” perché tra coloro che lo seguono ci sono molti appartenenti a questo gruppo sociale.
Dobbiamo poi ricordare, tra i gruppi sociali, anche quello degli Esseni. Anche gli Esseni sono in profondo dissenso con la società e con gli invasori e, quindi, si separano dalla società stessa: escono dalle città, dai villaggi e vanno a vivere nelle grotte attorno alle coste deserte del mar Morto. Conducono una vita monastica e, a suo tempo, abbiamo studiato i famosi Manoscritti scoperti a Qumran contenenti brani dell’Antico Testamento conservati dalla comunità degli Esseni: su questo specifico argomento torneremo in futuro quando ci occuperemo in modo più preciso dei testi dei Vangeli.
Dopo aver messo a fuoco le caratteristiche dei gruppi sociali più importanti del mondo ebraico e dopo aver puntualizzato il fatto che Shaul-Paolo è un “fariseo” dobbiamo domandarci che cosa significa essere “farisei” fuori dalla terra di Canaan, fuori dalla Palestina, fuori da Gersusalemme.
Tarso è una città dove gli ebrei della diaspora, che ci sono emigrati da anni, parlano il greco e tengono comportamenti secondo lo stile di vita “ellenistico”. Shaul-Paolo è un “fariseo” della diaspora ebraica in territorio ellenistico e che cosa poteva fare in Asia Minore un ebreo fariseo di lingua greca? Qualcosa sappiamo su che cosa potesse fare ma, prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo occuparci di un’altra questione.
Quattro e due settimane fa abbiamo studiato alcuni aspetti significativi della Prima Lettera ai Tessalonicesi, vi ricordate? Abbiamo potuto constatare che nella Prima Lettera ai Tessalonicesi – che è il primo scritto di Paolo di Tarso e il primo testo della Storia del Cristianesimo – emerge un importante catalogo di termini comuni – parusìa, anastasis, elpis, pistis, agape – mutuati dal glossario dell’Ellenismo e trasformati in eloquenti parole-chiave a servizio di una nuova Letteratura: la Letteratura dei Vangeli.
Questa sera ci occupiamo del testo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Le studiose e gli studiosi di questo testo ci danno dei ragguagli in proposito: ci fanno notare che lì per lì sembra una Lettera scritta come continuazione della Prima ma ci fanno anche osservare che, in realtà, non c’è un rapporto diretto tra le due Lettere. Trae in inganno il fatto che lo scrittore della Seconda Lettera ai Tessalonicesi usi frasi simili e parole uguali ma, complessivamente, lo stile è diverso e risulta che tra il testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi, scritto nell’anno 51, e il testo della Seconda, scritto alla metà degli anni 60, ci sono più di dieci anni di distanza e, in tal caso, Paolo, quando la Seconda Lettera ai Tessalonicesi è stata scritta, era, presumibilmente, già morto.
Abbiamo detto che lo stile delle due Lettere è diverso e allora chi può aver scritto il testo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi? Il testo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi è certamente opera di uno scrivano che ha fatto parte del gruppo di Paolo e che, molto probabilmente, scrive da Roma. C’è una mentalità molto “concreta” nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi e soprattutto c’è un elemento fondamentale su cui noi dobbiamo puntare la nostra attenzione perché nel testo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi si modifica il concetto della “parusìa”: l’idea della “venuta gloriosa del Signore” prende una forma diversa rispetto alla stessa idea contenuta nel testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi. Lo scrivano della Seconda Lettera ai Tessalonicesi non compone un testo senza tener conto – a maggior ragione se è già morto – del pensiero di Paolo e, quindi, dobbiamo ritenere che anche Paolo di Tarso (anzi, proprio lui) abbia cambiato idea sulla “parusia”, sulla “venuta gloriosa del Signore”, rispetto alla Prima Lettera ai Tessalonicesi.
Rispetto alla Prima Lettera ai Tessalonicesi la Seconda Lettera ci fa capire che l’atmosfera a Tessalonica è molto cambiata rispetto al decennio precedente. Nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi assistiamo a quella che è stata chiamata, dalle studiose e dagli studiosi di filologia ellenistica, la “crisi della speranza”. E se c’è una parola-chiave che emerge nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi questa è la parola “realismo”. E il concetto di “realismo” è molto significativo perché, attorno ad esso, si sviluppa la mentalità che ha rapidamente assunto la Chiesa di Roma: una Chiesa “accomodante” (come la chiameranno gli gnostici in senso denigratorio, ma questa è un’altra storia…) che partorisce una dottrina molto “concreta” e una linea ideologica che si inserisce e si adatta con grande flessibilità nella “realtà delle cose di quaggiù”.
E non è casuale il fatto che stiamo leggendo il capitolo intitolato “Il Grande Inquisitore” che ha per tema il concetto della “parusìa” e la sua evoluzione. Nel brano che ora leggeremo dalla Seconda Lettera ai Tessalonicesi troviamo un insegnamento sulla “parusìa” molto diverso da quello della Prima Lettera. Soprattutto è sparito il concetto di “anastasia”, l’idea della “risurrezione”. Nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi emerge il pensiero che, per non perdere la “speranza” è necessario “essere realisti e non apocalittici”.
Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica ci fanno notare che l’autore della Lettera ha utilizzato uno stile – che è stato creato proprio nel periodo dell’Ellenismo – chiamato di carattere “omeopatico”: che cosa significa? Si sa che l’omeopatia cura la malattia con la somministrazione, a dosi piccolissime, di farmaci che provocano un sintomo analogo. Ebbene, qui, per essere “realisti” e per contrastare una mentalità “apocalittica”, lo scrittore usa – in dosi moderate, ben calibrate – un genere letterario “apocalittico”.
L’autore dalla Seconda Lettera ai Tessalonicesi è uno scrittore che conosce bene questo genere letterario, conosce bene i Libri dei Profeti, il Libro di Daniele, quelli di Isaia e di Ezechiele. L’autore dalla Seconda Lettera ai Tessalonicesi è uno scrivano che insegna chiaramente a non considerare prossima la “parusìa”, a non pensare che il giorno della venuta gloriosa del Signore sia molto vicino. Infatti prima ci dovrà essere la “ribellione finale” ma, prima ancora, si manifesterà l’uomo malvagio che tenterà di opporsi a Dio.
Siccome – ricorda l’autore ai suoi lettori – la misteriosa potenza del male è già in atto anche se, per ora, è come frenata e impedita, non bisogna lasciarsi prendere da “fanatismi religiosi” e non bisogna, con la scusa che prossimamente arriva la “parusìa”, trascurare i propri impegni: il lavoro, lo studio, la famiglia. Questo comportamento porta ad una vita disordinata, sregolata, mentre è necessario costruire l’avvenire mettendosi in cammino nella società insieme alle altre persone, con molta “concretezza” e molto “realismo”.
Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica ritengono che la Seconda Lettera ai Tessalonicesi non sia stata scritta da Paolo ma ritengono che le idee in essa contenute, sebbene diverse dalle idee dalla Prima Lettera, siano comunque idee di Paolo. Tutte le studiose e tutti gli studiosi sono d’accordo nel dire che, tra gli anni 50 e gli anni 60, Paolo di Tarso abbia dovuto cambiare idea, cambiare strategia sulla “parusìa” perché la venuta del Signore era in ritardo: il mondo cambia e anche la strategia della storia della salvezza deve cambiare prospettiva.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quando e per quale motivo avete pensato che fosse necessario “essere realiste, essere realisti”?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora leggiamo due frammenti tratti dalla Seconda Lettera ai Tessalonicesi, attribuita a Paolo di Tarso ma considerata Deuteropaolina, scritta dopo gli anni 60 del primo secolo:
LEGERE MULTUM….
Paolo di Tarso, Seconda Lettera ai Tessalonicesi 2. 3,6-15.
(Deuteropaolina, dopo gli anni 60 del primo secolo)
Fratelli e sorelle, per quanto riguarda il ritorno [parusìa] del nostro Signore Gesù Cristo e il nostro incontro con lui, vi raccomando una cosa: non lasciatevi confondere le idee, tanto facilmente. Non mettetevi in agitazione se qualcuno dice che il giorno del Signore è ormai presente, o afferma di averlo saputo per mezzo di una rivelazione [apokalipsos], o da qualche discorso, oppure da una lettera che fanno passare come mia. Non lasciatevi imbrogliare da nessuno in alcun modo [non fate gli apocalittici]! Perché il giorno del Signore non verrà prima che ci sia stata la ribellione finale e si sia manifestato l’uomo malvagio destinato alla distruzione. Come dice la Bibbia, costui verrà a mettersi contro tutto ciò che gli umani adorano e chiamano Dio, si metterà in trono con la pretesa di essere Dio. Non ricordate che vi ho già detto queste cose quando ero tra voi? Ora sapete perché quel malvagio non riesce a manifestarsi: c’è qualcosa che lo trattiene, fino a quando non sarà venuto il suo momento. La forza misteriosa del male è già in azione, ma perché si manifesti pienamente, è necessario che sia tolto di mezzo chi la impedisce. Soltanto allora quel malvagio si manifesterà, ma il Signore Gesù, come dice la Bibbia, lo ucciderà con il soffio [pneuma] della sua bocca, lo distruggerà con lo splendore del suo ritorno. Il malvagio verrà con la potenza di Satana, con tutta la forza di falsi miracoli e di falsi prodigi. Userà ogni genere di inganno maligno per fare del male a quelli che andranno in rovina. Questi si perderanno perché non hanno accolto e non hanno amato la verità, quella verità che li avrebbe salvati. Perciò, dunque, Dio manda a questa gente una forza di inganno, in modo che essi credano alla menzogna. Così tutti quelli che non hanno creduto alla verità ma hanno trovato gusto nel male, saranno condannati. Fratelli e sorelle, in nome del Signore Gesù Cristo, vi do un comando: state lontani da quei fratelli che vivono una vita disordinata e vanno contro le istruzioni che hanno ricevuto da me. Voi sapete bene come dovete fare per seguire il mio esempio. Quando sono stato in mezzo a voi, io non sono rimasto in ozio: non mi sono fatto mantenere da nessuno, ma ho lavorato giorno e notte con grande fatica, perché non volevo essere un peso per nessuno. Certamente avevo qualche diritto; ma ho fatto così, per darvi un esempio da imitare. Infatti, quando ero con voi, vi ho dato questa regola: chi non vuol lavorare non deve neanche mangiare. Ora sento dire che alcuni di voi vivono in maniera sregolata: non fanno niente, anzi fanno continue sciocchezze. In nome del Signore Gesù Cristo io ordino e raccomando a questi fratelli di lavorare tranquilli e di guadagnarsi da vivere. Voi altri, fratelli e sorelle, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se qualcuno non ubbidisce a queste istruzioni che mando per lettera, prendete nota e interrompete i rapporti con lui, in modo che abbia vergogna. Però non trattatelo come un nemico, rimproveratelo come fratello. …
Nel contesto della “sapienza poetica ellenistica” e nell’ottica della didattica della lettura e della scrittura, la Prima e la Seconda Lettera ai Tessalonicesi dell’Epistolario di Paolo di Tarso mettono in evidenza un tema che nella Storia della Letteratura di tutti i tempi – in particolare nel genere letterario del romanzo – ha sempre avuto un grande rilievo: il tema de “l’attesa”, considerato nel suo passaggio da momento di “sterile passività” a “tempo della creatività quotidiana” (l’ellenismo latino dice “otium”).
E ora, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ci avviciniamo a questo tema osservando un classico della Letteratura teatrale. Penso che si potesse anche scegliere qualcosa di più accattivante e di meno difficile, ma siccome è possibile che voi andiate a teatro, ed io – in quanto alfabetizzatore che per un decennio si è prodigato per accompagnare a teatro grandi gruppi di studentesse e di studenti della Scuola pubblica degli Adulti – mi auguro che ci possiate andare a teatro…
E l’esercizio che facciamo può essere utile proprio per questo motivo; difatti, entriamo in contatto con un testo che – ho letto qualche settimana fa – è stato rappresentato in più di novecento teatri in Europa quest’anno: stiamo parlando di un’opera di Samuel Beckett. Chi non ha sentito nominare Samuel Beckett?
Samuel Beckett è nato in Irlanda, nei pressi di Dublino, nel 1906. Di professione ha fatto l’insegnante prima a Dublino e anche quando si è trasferito a Parigi dove ha insegnato Storia della Letteratura francese e italiana. Sempre a Parigi Samuel Beckett, dal 1937, ha cominciato a dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria scrivendo in francese. Samuel Beckett è autore di numerosi saggi, romanzi e soprattutto di testi teatrali. Nel 1953 viene conosciuto a livello internazionale per la rappresentazione a Parigi di una commedia intitolata Aspettando Godot, un testo teatrale che Beckett aveva scritto nel 1948. Sappiamo che all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso Parigi è la capitale culturale di una corrente filosofica che si chiama “esistenzialismo” (in molti Percorsi abbiamo studiato degli aspetti di questa corrente di pensiero e ne studieremo ancora). Dal punto di vista teatrale l’esistenzialismo si esprime con la corrente del così detto “teatro dell’assurdo”, con Arthur Adamov e Eugène Ionesco. Dal punto di vista letterario Samuel Beckett viene considerato l’esponente più autorevole di questa corrente, e tra le sue opere ricordiamo: Finale di partita (1957), Atto senza parole (1957), Giorni felici (1961). Nel 1969 a Beckett è stato assegnato il premio Nobel e nel 1989 è morto a Parigi.
Che cosa esprime Samuel Beckett nella sua opera letteraria? Esprime spesso, con crudele ironia e attraverso una fredda comicità di genere clownesco, la desolata solitudine delle persone nella società contemporanea, sebbene – e questo è l’elemento paradossale – abbiano (o credano di avere) molti mezzi per poter comunicare: il fatto è – mette in rilievo Beckett – che, forse, troppi mezzi (usati spesso per propagandare e per alienare) servono soprattutto per sollevare confusione e per acuire le solitudini. L’impossibilità di comunicare con i propri simili genera una mentalità che non è più capace di avere delle prospettive e di coltivare delle speranze.
I testi di Beckett esprimono un disperato pessimismo sul destino dell’essere umano, ma ci ricordano che c’è qualcosa che, nonostante tutto, anche se è un’illusione, serve per dare una parvenza di senso alla vita, e questo qualcosa è la “condizione dell’attesa”. È “un’attesa vana” ma è l’unica cosa che permette alla persona di non farsi troppo male e di raccontarsi un po’ e di continuare a vivere anche senza speranze riuscendo, a volte, a trasformare questo tempo in uno, sebbene limitato, spazio creativo.
Perché Beckett (che conosce bene l’Epistolario di Paolo di Tarso e ne esaspera i temi) scrive questi testi che possono sembrare “assurdi”? Beckett ritiene che la persona debba rendersi conto del fatto che la vita non ha nessun senso: è la vita ad essere assurda, illogica, irragionevole, contraddittoria, incongruente, ed è ancora più paradossale che ci si alieni con cose apparentemente certe che, invece, sono false come quelle che ci propina la società dei consumi seminando illusioni virtuali che conducono – afferma Beckett – ad uno stato di devastante insoddisfazione con la proposta di finti piaceri e di mendaci presunte seduzioni. E allora – dichiara Beckett – è molto meglio prendere coscienza dell’assurdità della vita e della vanità (“Vanità delle vanità, tutto è vanità” così inizia il Libro del Qoelet): meglio vivere un’attesa vana che alienarci in presunte false certezze.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Qual è stato il momento di attesa che avete vissuto con maggiore intensità nella vostra vita?…
Scrivete quattro righe in proposito…
L’opera più rappresentata di Samuel Beckett s’intitola Aspettando Gogot. Nei due atti della commedia la scena è sempre la stessa (Atto primo: Strada di campagna con albero, è sera. Atto secondo: il giorno dopo, strada di campagna con albero). I personaggi compiono quasi gli stessi gesti e ripetono quasi le stesse parole, e la commedia, quindi, è assolutamente statica, è priva di sviluppi, è priva di un finale che sia in qualche modo risolutivo o esplicativo e questo è, chiaramente, il simbolo dell’inutilità della vita contemporanea: una vita vuota, priva di reale svolgimento e priva di scopi precisi, una vita senz’anima.
A incarnare la condizione umana nella commedia sono due personaggi emblematici, Estragone e Vladimiro, che non hanno alcuna storia alle spalle, ma solo frammenti di ricordi che riaffiorano disordinatamente dalla memoria, e percepiscono di non avere futuro (sarà per questo che è stata rappresentata in così tanti teatri europei questa commedia!), sentono di non avere alcun progetto, e nessuna prospettiva hanno in mente, sono soli e vivono unicamente di un’attesa indefinita: aspettando Godot e, in questo testo, il concetto della “parusìa”, in tutta la sua ambiguità, appare evidente.
Chi sia questo misterioso personaggio da cui i protagonisti attendono un aiuto e una sistemazione e che non arriva mai, ma che manda sempre a dire di aspettarlo l’indomani, ebbene, chi sia, non lo sappiamo ma Samuel Beckett gioca con il nome di Godot, che contiene la parola inglese God-Dio. Godot simboleggia Dio? O la felicità? O la morte? L’autore ha sempre rifiutato ogni spiegazione affermando: «Io sono come quei personaggi …alla fine non viene nessuno e, se sapessi chi è Godot, lo avrei detto nella commedia». Quest’opera vuole comunicare un messaggio di disperazione assoluta che si traduce in una denuncia: il non-senso della condizione umana e il vuoto in cui la persona singola si muove continueranno a esistere finché dominerà la “dittatura dell’ignoranza” (della quale è aumentato il potere perché avanza il “degrado cognitivo”); difatti i discorsi dei personaggi, i loro dialoghi, sono spesso sconnessi e fatti di luoghi comuni continuamente ripetuti. E, oltre al linguaggio, anche l’essenzialità della scena e delle situazioni, che ci fanno sentire il senso del disagio, dell’alienazione e del vuoto, sono allegorie della forza che ha l’ignoranza come strumento di repressione. C’è anche dell’umorismo nei dialoghi, ed è un umorismo tragico che cancella ogni traccia di pietà umana perché l’ignoranza non è una virtù evangelica: non ha niente a che fare con “la purezza di cuore”.
Leggiamo solo un frammento, la scena finale di quest’opera: Estragone ogni tanto si addormenta, si estranea, Vladimiro lo sveglia per non sentirsi solo, abbandonato. Come ogni giorno compare un ragazzo (è un angelo o è un tentatore?) che annuncia, per l’indomani, l’arrivo di Godot ravvivando, tragicamente, l’attesa ma allontanando, per lo meno temporaneamente, l’idea di rinunciare alla vita.
LEGERE MULTUM….
Samuel Beckett, Aspettando Godot (1953)
Vladimiro si avvicina a Estragone addormentato, lo guarda per qualche istante, poi lo sveglia.
VLADI Ho forse dormito mentre gli altri soffrivano? Sto forse dormendo in questo momento? Domani, quando mi sembrerà di svegliarmi, che dirò di questa giornata? Che col mio amico Estragone in questo luogo, fino al calar della notte, ho aspettato Godot? … Ma in tutto questo quanto ci sarà di vero? (Estragone si è di nuovo assopito, Vladimiro lo guarda). Lui non saprà niente. A cavallo di una tomba è difficile nascere. Dal fondo della fossa, il becchino maneggia male i suoi ferri. Abbiamo il tempo d’invecchiare. Dorme, non sa niente, lasciamolo dormire. E io che cosa ho detto?
… continua la lettura …
Poco fa ci siamo chieste e ci siamo chiesti: che cosa poteva fare in Asia Minore un “fariseo” di lingua greca? Noi sappiamo assai poco di questo periodo della vita di Shaul-Paolo anche se lui, nelle sue Lettere, fa alcune affermazioni inequivocabili sul suo impegno di “fariseo” della diaspora ebraica che vive sul territorio ellenistico.
Prima di occuparci di questa questione – che cosa poteva fare in Asia Minore un “fariseo” di lingua greca? – dobbiamo domandarci: che cosa poteva “pensare”, qual era la sua formazione culturale, che cosa poteva “avere in testa” un fariseo di lingua greca?
I Farisei, e di conseguenza anche Shaul-Paolo, – abbiamo detto – credono nella “resurrezione” e per capire e per conoscere quali sono i presupposti di questa posizione ideologica dobbiamo fare un semplice esercizio. Sul tema che riguarda il pensiero dei Farisei sulla “resurrezione” è necessario, prima di tutto, leggere un brano che si presenta come il manifesto di questo pensiero e che anche Shaul-Paolo conosce bene; per giunta questo passo lo troviamo inserito in moltissime opere di carattere letterario (tra cui la Divina Commedia di Dante).
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Questo brano è formato dai primi 14 versetti del capitolo 37 del Libro di Ezechiele, questo testo è intitolato La valle delle ossa secche: leggetelo…
Inoltre sappiamo che i Farisei della diaspora ebraica sul territorio dell’ellenismo, osservano le “tradizioni” tanto della Legge scritta (la Toràh) quanto di quella orale. Shaul-Paolo menziona in modo esplicito il “proprio zelo” nel sostenere le tradizioni dei padri e nella Lettera ai Galati al capitolo 1 versetto 14 scrive: «Ero addirittura fanatico quando si trattava di sostenere le tradizioni dei nostri padri». Shaul-Paolo confessa, con un senso di rammarico, di aver ceduto al fanatismo perché questo suo atteggiamento ha creato sofferenza.
Sul termine “fanatismo” e sul suo modo di manifestarsi, è necessario riflettere.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Voi avete fatto esperienza di fanatismo?… La parola “fanatismo” richiama altre parole significative che servono per misurare il grado e la qualità del fanatismo: esaltazione, entusiasmo, ammirazione, fissazione, mania, delirio, invasamento, faziosità…
Scrivete quattro righe in proposito…
Ora, quali fossero, a quel tempo, le “tradizioni ebraiche” da rispettare nelle regioni frequentate da Shaul-Paolo non lo sappiamo con precisione. Il testo degli Atti degli Apostoli al capitolo 22 versetto 3 ci fa sapere che Shaul-Paolo avrebbe studiato alla Scuola di Gerusalemme del più eminente “fariseo” del tempo: il rabbi Gamaliele I. Chi è questo importante personaggio? Gamaliele I era membro del Sinedrio ed era lo spirito più “progressista”, il meno conservatore in questo Consiglio degli anziani che governava (in questo momento sotto il controllo dell’amministrazione romana) l’apparato religioso dell’Ebraismo. Il rabbi Gamaliele, all’interno dell’ebraismo del I secolo, risulta – per le notizie che si hanno di lui e che vengono riprese dagli Atti degli Apostoli – la persona più aperta e più tollerante che faccia parte del Sinedrio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il testo degli Atti degli Apostoli al capitolo 5 versetti 33-39 afferma che il rabbi Gamaliele è contrario alla persecuzione degli Apostoli [Pietro e Giovanni] a Gerusalemme…
Leggete questo episodio molto significativo sul tema della “tolleranza”…
Se seguite le letture proposte dalla Scuola potete costruire una sequenza virtuosa utile per delineare la figura di Shaul-Paolo: fate con diligenza questo esercizio!
Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica ritengono non sia assolutamente certo che Shaul-Paolo abbia studiato a Gerusalemme con Gamaliele e nelle Lettere non c’è alcun riferimento né sulla formazione di Shaul-Paolo, né su Gamaliele. L’avvicinamento della figura di Shaul-Paolo a quella di Gamaliele potrebbe essere soltanto una deduzione azzardata dall’autore degli Atti (da Clemente Romano), dovuta al fatto che Shaul-Paolo è un fariseo e Gamaliele è l’esponente più autorevole di questa corrente di pensierO. Inoltre ci sono degli elementi che possono mettere in dubbio la permanenza di Shaul-Paolo a Gerusalemme nel periodo della sua giovinezza e, anche in questo caso, nelle Lettere lui non parla di una sua permanenza a Gerusalemme per motivi di studio.
E allora, arriviamo al dunque: che cosa poteva fare, in Asia Minore, Shaul-Paolo, come fariseo di lingua greca? Ed ecco che, a questo proposito, troviamo una affermazione nelle Lettere, ripresa poi dal testo degli Atti degli Apostoli con dovizia di particolari apologetici: «Io sono stato – si legge nel testo degli Atti – un persecutore, ho perseguitato il Signore». Quindi noi ci domandiamo se la prima attività che si possa attribuire con certezza a Shaul-Paolo, in qualità di fariseo, sia la persecuzione del movimento cristiano.
Ma, a questo proposito, dobbiamo riflettere sul fatto che la “persecuzione del movimento cristiano” da parte di Shaul-Paolo è da mettere in relazione con “il suo zelo”, con il suo carattere zelante, con il suo carattere inquisitorio e non con il suo fariseismo. I Farisei sono intransigenti nei confronti della Legge, sono brontoloni, sono pettegoli, sono ipocriti ma non risulta che siano dei persecutori. Se Shaul-Paolo è stato allievo di Gamaliele, aperto e tollerante, non ha certamente imparato da lui né la durezza né lo spirito di persecuzione. Non sussistono, quindi, motivi validi per attribuire la persecuzione del movimento cristiano al fariseismo di Shaul-Paolo e, a questo proposito, bisogna rendere giustizia ai Farisei! Il testo degli Atti degli Apostoli, difatti, presenta come nemici del movimento cristiano non i Farisei ma i Sadducei e ciò trova conferma nel fatto che Giacomo, il fratello di Gesù, viene giustiziato per ordine del sommo sacerdote sadduceo Anania e, inoltre, – sempre secondo il testo degli Atti – è un sommo sacerdote sadduceo, ad autorizzare Shaul-Paolo a recarsi presso le sinagoghe di Damasco con il compito di ricondurre a Gerusalemme gli Ebrei che avevano accettato Gesù di Nazareth come “messia”. Ed è proprio nel corso di questo viaggio, secondo il testo degli Atti, che Shaul-Paolo si trasforma da persecutore in apostolo. Le Lettere di Paolo di Tarso confermano la sua attività di persecutore, ma, a differenza degli Atti degli Apostoli, non forniscono alcun dettaglio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Sul tema della “persecuzione” del movimento cristiano [di Pietro e di Giovanni] da parte dei Sadducei e poi da parte di Shaul-Paolo potete leggere sul testo degli Atti degli Apostoli i primi 22 versetti del capitolo 4 e i primi due versetti del capitolo 9…
Fate questo significativo esercizio…
Il testo della Lettera ai Galati lo studieremo in autunno in modo organico, adesso, per concludere l’itinerario di questa sera, prendiamo in considerazione solo un frammento, il primo capitolo, di questa Lettera per riflettere su un tema che emerge di conseguenza a ciò che abbiamo detto finora. Difatti, leggendo il testo del primo capitolo della Lettera ai Galati, sorge qualche dubbio sul fatto che la “chiamata” di Paolo (a questo punto va chiamato Paolo) sia avvenuta, come sostiene il testo degli Atti degli Apostoli, durante il viaggio che lo porta da Gerusalemme a Damasco.
Paolo scrive che dopo la “chiamata” si reca in Arabia per poi fare ritorno a Damasco, e se leggiamo il primo capitolo della Lettera ai Galati, dal versetto 17 al 23, ci viene subito da pensare che Paolo si trovasse da sempre a Damasco e che non abbia mai abitato a Gerusalemme e, naturalmente, queste affermazioni alimentano il dubbio intorno alla teoria-apologetica, sostenuta negli Atti degli Apostoli, secondo cui Paolo avrebbe esercitato la sua attività di “persecutore” a Gerusalemme: una città che non ha mai rappresentato la base della sua azione. Nel versetto 22 del primo capitolo della Lettera ai Galati Paolo dichiara che: «non mi conosceva nessuno personalmente nelle comunità della Giudea» e questa affermazione rende abbastanza improbabile che Gerusalemme costituisca – come si racconta nel testo degli Atti degli Apostoli – lo scenario della sua attività di “persecutore”.
Comunque sta di fatto che Paolo insiste sui suoi trascorsi di “attivo persecutore del movimento cristiano” e lo conferma nella Lettera ai Galati al capitolo primo dal versetto 13 al 23 poi anche nella Prima Lettera ai Corinzi e anche nella Lettera ai Filippesi; però di questa sua attività, di cui si auto-accusa, non racconta nulla, neppure un dettaglio, mentre qualcosa, di assai edificante, avrebbe da raccontare se fosse stato il principale “persecutore” dei cristiani in Gerusalemme: perché?
Tutte e tutti noi conosciamo la bellissima storia del martirio di Stefano raccontata nei capitoli 6 e 7 degli Atti degli Apostoli, una storia in cui Shaul-Paolo è protagonista. Come potrebbe Paolo non ricordare un episodio così drammatico e così significativo Eppure nelle Lettere non cita mai questo avvenimento! Voi sapete che, in greco, il termine “stefanos” corrisponde alla parola “corona”, in questo caso è la “corona del martirio”: queste episodio è chiaramente un brano di natura apologetica, di stampo allegorico, è una sentenza di carattere dottrinale.
Allora che tipo di “persecutore” è Shaul-Paolo: è un tremendo “lapidatore”? Non esageriamo! Quali provvedimenti giuridici venivano presi dalle sinagoghe nei confronti di chi predicava un “messia” non riconosciuto? Esisteva da secoli una normativa nella legislazione ebraica a proposito di questo atteggiamento che veniva ritenuto un reato e Shaul-Paolo, come “persecutore”, aveva, molto probabilmente, il compito di convincere i dirigenti delle sinagoghe delle città ellenistiche a infliggere, a coloro che avevano accettato Gesù di Nazareth come “messia”, la punizione più severa che un tribunale ebraico potesse comminare: le trentanove frustate. Una punizione poco piacevole che dava seri fastidi e che Paolo, in seguito, avrebbe subìto a tutto spiano.
Questo passaggio, che Shaul-Paolo vive, da persecutore a perseguitato, da repressore di un “movimento” ad attivista principale di questo stesso “movimento” di cui diventa l’ideologo fondamentale, è molto delicato e molto interessante: l’inversione di ruolo da “persecutore” ad “apostolo” quando è avvenuta? Dove è avvenuta? E (la domanda più difficile) perché è avvenuta?
Prima di riflettere su queste domande la Scuola deve consigliare ancora una volta un esercizio di lettura per capire meglio quello che abbiamo detto…
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Leggete il capitolo 1 della Lettera ai Galati e poi leggete [o rileggete] il bellissimo racconto del "martirio di Stefano" nei capitoli 6 e 7 degli Atti degli Apostoli…
L’esercizio dà la possibilità di cogliere la differenza di stile tra un testo realistico e autobiografico come la Lettera ai Galati e un testo apologetico di carattere dottrinale come gli Atti degli Apostoli…
Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica collocano l’inversione di ruolo da “persecutore” ad “apostolo” di Shaul-Paolo nella seconda metà degli anni 30. Dove è avvenuta la “chiamata” di Paolo? Sul “dove” ci sono dei problemi di interpretazione, di esegesi: secondo gli Atti degli Apostoli è avvenuta sulla via da Gerusalemme a Damasco, mentre secondo la Lettera ai Galati è avvenuta direttamente a Damasco.
Se leggete il primo capitolo della Lettera ai Galati al versetto 17 incontrate la citazione dell’Arabia: «Dopo che il Signore risorto mi si è manifestato sono andato in Arabia». Che cosa intende Paolo per l’Arabia? Intende, forse, il deserto Nabateo intorno al Mar Morto? Lì, nelle grotte attorno al Mar Morto, ci sono le comunità degli Esseni, di cui abbiamo parlato: Shaul-Paolo è andato a fare un’esperienza mistica insieme agli Esseni, come facevano molti giovani “farisei”? Questa – un periodo di formazione di Shaul-Paolo presso gli Esseni – è un’ipotesi credibile.
Perchè Shaul-Paolo fa inversione di marcia, per quale motivo avviene l’inversione di tendenza (la conversione)? Non è facile rispondere a questa domanda: secondo il testo degli Atti degli Apostoli Shaul-Paolo descrive questa rivelazione come “una grande luce che lo rende temporaneamente cieco” e l’autore degli Atti vuole alludere ai primi versetti del Libro della Genesi dove Dio crea dividendo la luce dalle tenebre. Nella Lettera ai Galati, invece, di prima mano, Paolo si limita a dire: «Dio rivelò a me il proprio Figlio». Altrove, nella Prima Lettera ai Corinzi, sempre di prima mano, Paolo afferma di aver visto, non una grande luce ma il Signore-Kyrios in persona e lui ritiene che si tratti di una visione della resurrezione (dell’anastasia). Ma sappiamo che questa sua risposta è una giustificazione contro le critiche che sta ricevendo: Paolo deve dimostrare che anche lui, come quelli di Gerusalemme, è stato “testimone della resurrezione” e, quindi, è chiamato a un compito apostolico.
Da queste contraddizioni (da queste aporie di carattere letterario) quali conclusioni possiamo trarre? La Scuola deve trarre conclusioni di tipo didattico nei confronti della didattica della lettura e della scrittura.
Dall’Epistolario di Paolo di Tarso emerge la voce di un significativo “scrivano” e grazie a queste Lettere noi possiamo conoscere uno straordinario testimone della “sapienza poetica ellenistica”. «Paolo di Tarso è una persona ricca di luce e di fuoco, di passione e di vigore, di spirito e di fascino, di orgoglio e di umiltà e, allo stesso tempo, è una persona sicura di sé ma apprensiva, gioiosa ma perennemente angosciata»: chi ha definito così Paolo di Tarso? Lo ha definito così Leone Tolstòj che, come la maggior parte delle scrittrici e degli scrittori dell’800 e del ‘900, ha fatto tesoro della Letteratura paolina, delle sue parole-chiave e anche delle sue mirabili contraddizioni. Le Lettere rivelano molti tratti della personalità dello “scrivano” e numerose vicende della sua vita, e quindi, leggere l’Epistolario di Paolo di Tarso è anche come leggere un grande e significativo romanzo.
Ma che tipo di lingua usa questo scrivano: che tipo di greco è il greco ellenistico delle Lettere di Paolo di Tarso? Che razza di vocaboli sono i 2446 vocaboli che costituiscono il testo delle Lettere di Paolo di Tarso?
Cominceremo a rispondere la prossima settimana nell’ultimo itinerario di questo Percorso, che in autunno riprenderà il suo cammino, tenendo sempre conto del fatto che le Lettere di Paolo di Tarso sono anche un continuo ed esplicito elogio dell’efficacia che ha la scrittura! L’Epistolario di Paolo di Tarso insegna che la scrittura possiede una potenza morale, intellettuale e culturale, e tutte le persone debbono farne uso perché è lo strumento di salvezza per eccellenza: la scrittura è strumento fondamentale di Apprendimento e ogni persona ha il diritto e ha il dovere di dedicarsi all’Apprendimento permanente.
La Scuola è qui ed è fatta di persone che leggono quattro pagine e scrivono quattro righe al giorno: fate in modo che la Scuola continui ad esistere …