Autorizzazione all'uso dei cookies

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È PAOLO DI TARSO ORGOGLIOSO, SOPRATTUTTO, DI ESSERE UNO “SCRIVANO” …

Lezione N.: 
30

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza poetica ellenistica         26-27-28  maggio  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È  PAOLO DI TARSO ORGOGLIOSO, SOPRATTUTTO, DI ESSERE UNO “SCRIVANO”

     Strada facendo siamo giunte e siamo giunti anche all’ultimo itinerario di questo viaggio di studio, di questo Percorso di alfabetizzazione culturale in funzione della didattica della lettura e della scrittura, che si è svolto all’interno del vasto territorio dell’Ellenismo: del primo ellenismo greco e latino, dell’indo-ellenismo, del periodo delle Cento scuole cinesi e degli albori della Letteratura dei Vangeli. L’Ellenismo è un complesso movimento di carattere sapienziale e poeticoche nasce nel vasto spazio euro-asiatico compreso tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico e che si sviluppa fino al V secolo d.C. (poi, convenzionalmente, ha inizio quella che si chiama l’Età di mezzo) e noi, nel Percorso del prossimo anno scolastico, questo sviluppo cercheremo di seguirlo.

     Da sei settimane – come ben sapete – stiamo viaggiando in compagnia di un importante scrittore dell’ellenismo greco, Paolo di Tarso, che è l’autore di uno dei più celebri Epistolari della Storia del Pensiero Umano che si colloca agli albori della Letteratura dei Vangeli. Sappiamo che lo studio degli argomenti contenuti nelle Lettere di Paolo di Tarso è anche propedeutico, preparatorio, alla lettura dei romanzi dell’età moderna e contemporanea perché i temi trattati da questo scrittore danno origine ad una riflessione dalla quale scaturisce un glossario (un catalogo di parole-chiave) che ha inciso profondamente sulla storia della Letteratura. E noi ci stiamo occupando – e ce ne occuperemo ancora in autunno – dell’Epistolario di Paolo di Tarso in funzione della didattica della lettura e della scrittura secondo il mandato istituzionale che tre gruppi di cittadine e cittadini (circa 300 persone) ha dato alla Scuola pubblica degli Adulti che opera su questo territorio (chiantigiano e fiorentino).

     Per questo motivo, legato all’alfabetizzazione culturale e funzionale, abbiamo puntato, in queste ultime settimane, la nostra attenzione sul celebre brano che s’intitola Il Grande Inquisitore. Voi sapete che Il Grande Inquisitore è il titolo di un capitolo che si trova nel cuore del romanzo di Fëdor Dostoevskij intitolato I fratelli Karamazov (mi auguro che siate entrate, siate entrati in contatto con questo romanzo perché ora è il momento adatto per avvicinarsi a un testo che contiene tutte le principali parole-chiave e i concetti-cardine che stiamo incontrando in quest’ultima parte del nostro Percorso e che incontreremo ancora nel Percorso del prossimo anno scolastico).

     Questo celebre brano – il capitolo de Il Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij – rappresenta uno dei vertici della Letteratura universale. I protagonisti di questa parte del romanzo – come ben sapete – sono i due fratelli Karamazov che rappresentano meglio il pensiero dello scrittore: Aleksej (Alëša) e Ivan. Sappiamo anche che il personaggio di Ivan Karamazov (e studiose e gli studiosi parlano di enigma Ivan) è quello che interpreta meglio la rabbia e i pensieri di Dostoevskij: è, infatti, a Ivan Karamazov – lo scettico, il negatore di Dio ma la persona veramente assetata di fede – che lo scrittore fa trattare con rigore, in chiave evangelica, i temi (i temi paolini) dell’Amore del prossimo, della Libertà che si materializza solo con il rispetto delle regole condivise, della Sofferenza umana e del Male assoluto.

     Il testo de Il Grande Inquisitore non è di agevole lettura, ci vuole pazienza per seguire la stringente, incalzante e rigorosa riflessione di Dostoevskij condotta per bocca di Ivan Karamazov. Non è, però, difficile – abbiamo già detto – entrare in contatto con Il Grande Inquisitore perché noi (anche se, spesso, in modo disordinato) siamo imbevuti di cultura evangelica mediata, soprattutto per sentito dire, attraverso l’Epistolario di Paolo di Tarso.

     Dostoevskij, come conoscitore della Letteratura dei Vangeli, si domanda – e poi questa sua riflessione, in età contemporanea, è stata ripresa in varie forme dalla Letteratura, dal Teatro, dal Cinema, dall’Arte – che cosa succederebbe se Gesù Cristo decidesse di comparire anche solo per un momento sulla terra: non per attuare la parusìa (una parola-chiave di cui conosciamo il significato e di cui stiamo verificando l’incidenza letteraria), bensì per una fugace apparizione. Sono i credenti – si domanda ironicamente Dostoevskij – a rifiutare in cuor loro la parusìa, a far finta di desiderare il ritorno del Signore perché, in realtà, non si vogliono staccare dagli affari di questo mondo?

     Il testo del capitolo intitolato Il Grande Inquisitore racconta che Ivan ha composto un poema (e lo recita al fratello Alëša) nel quale immagina che, dopo quindici secoli, nel 1500, Gesù ritorni sulla terra per una fugace apparizione, e immagina si presenti nella Spagna dove, ovunque, stanno bruciando i roghi accesi in suo nome dalla Santa Inquisizione. Il Grande Inquisitore – un vecchio monaco novantenne, intelligente, perspicace, acuto, lucido – appena lo vede, mentre sulla scalinata della Cattedrale di Siviglia sta facendo dei miracoli in mezzo al popolo che lo ha subito riconosciuto, lo fa arrestare e imprigionare con l’intenzione di bruciarlo come eretico, e il popolo non batte ciglio. Naturalmente l’Inquisitore è fortemente turbato da questa presenza e, nella notte, va a trovare il prigioniero e lo interroga a lungo sul valore della libertà: un tema che Paolo di Tarso affronta con passione nel suo Epistolario.

     Il Grande Inquisitore – e la sua analisi è, provocatoriamente, sostenuta da un grande realismo – accusa Gesù dicendo: «Tu hai scelto tutto ciò che era superiore alla sorte degli esseri umani, hai agito come se tu non li amassi affatto perché le persone, prima della libertà, vogliono il pane e, in cambio del pane, sono subito disposti a rinunciare alla libertà, quindi, hai fatto male (e glielo dimostra) a non cedere alle tentazioni». L’Inquisitore vorrebbe che Gesù rispondesse, che dicesse qualcosa, ma Lui non parla e, alla fine, fa solamente un gesto emblematico: questo gesto è la sua risposta, e allora il vecchio spalanca la porta e dice: «Vattene, e non venire più, non venire mai più». Mentre con la bocca preghiamo che il Signore ritorni a giudicare i vivi e i morti – afferma ironicamente Dostoevskij – in cuor nostro rifiutiamo che la parusìa si compia.

     In questo grande romanzo Dostoevskij pone, in modo inquietante, i temi – presenti nell’Epistolario di Paolo di Tarso – dell’Amore, della Speranza, della Fede, della Sofferenza, della Libertà. Questi temi sollevano, da sempre, problemi di carattere esistenziale e richiedono da parte di tutti una continua riflessione e, a questo proposito, ci siamo più volte domandate e domandati: si fa questa riflessione? E dov’è, oggi, – nell’epoca dello spudorato guardonismo televisivo – lo spazio per poter riflettere? Oggi, più che mai, lo spettacolo mediatico, televisivo in particolare, in modo enfatico e sotto varie forme (o per mezzo dell’intervista confidenziale o con la segregazione forzata atta a scatenare istinti), lo spettacolo mediatico utilizza soprattutto i racconti personali incentrati su esperienze intime di vita e rappresentati attraverso una ininterrotta messa in scena. Questo modo di fare, intanto, allontana irreparabilmente sempre di più la stragrande maggioranza delle persone dall’esercizio quotidiano della lettura, dalla riflessione coscienziosa sul testo e dall’uso giornaliero della scrittura. La narrazione del racconto personale incentrato su esperienze intime di vitacomprende, oggi, circa la metà del palinsesto della produzione televisiva e costituisce un modello basato sull’esibizione blaterante, senza pudori, di scampoli di vissuto di natura patetica (questo è l’elemento che alza di più l’indice di ascolto, per la vendita di pubblicità, ed è anche il procedimento più efficace per addestrare a sentimenti indotti e per creare teste ben pienedi luoghi comuni, l’esatto contrario dell’obiettivo didattico che si propone un Percorso di alfabetizzazione culturale e funzionale: predisporre teste ben fatte, corredate di forme adatte ad ordinare i saperi) e l’esperienza dell’esibizione blaterante, senza pudori, di scampoli di vissuto di natura patetica viene motivata, da parte di chi la fa, dalla convinzione di procacciarsi una, seppur fugace, apparizione (l’essere visti da molti) che possa dare l’illusione di esistere – ebbene, questa esperienza ormai generalizzata rappresenta l’esatto contrario della coscienziosa riflessione proposta dalla Letteratura.

     La coscienziosa riflessione – e questo concetto lo abbiamo imparato dalle grandi e dai grandi romanzieri, soprattutto dell’800 – è la capacità, che la persona deve acquisire, di guardare senza patetiche ipocrisie nella propria interiorità e, per questo, è l’esatto contrario de l’esibizione blaterante. La coscienziosa riflessione è un’attitudine che si apprende ed è il frutto di competenze cognitive e questa acquisizione si realizza soltanto (leggete I fratelli Karamazov e ve ne renderete conto) con l’alfabetizzazione propedeutica alla lettura e con la maturazione dello spirito autobiografico che si manifesta nell’esercizio della scrittura. La coscienziosa riflessioneporta verso un’epifania intellettuale (epifania significa manifestazione. L’epifania intellettuale è una manifestazione dell’apprendimento e non è un’apparizione esibizionistica, è un’espressione diretta di competenza e non è una comparsa in diretta con supponenza, l’epifania intellettuale è parola riflettuta, pensata, meditata, valutata, ragionata e non la chiacchiera esibita semplicisticamente in nome di una presunta autenticità. La coscienziosa riflessione dei personaggi è uno degli elementi fondamentali e costitutivi di quella struttura letteraria che chiamiamo il romanzo(in questo viaggio abbiamo anche fatto luce sugli albori di questo genere letterario). Questa digressione vuole mettere in evidenza l’importanza del patrimonio di scrittura che persone come Dostoevskij – maestre nell’uso della coscienziosa riflessione dei personaggi– ci hanno lasciato in eredità.

     E allora – a beneficio della coscienziosa riflessione – terminiamo di leggere il capitolo intitolato «Il Grande Inquisitore»: la Scuola non ha altra risposta da dare se non quella più difficile, quella che rappresenta una sfida alla dittatura dell’ignoranza che attanaglia la mente e non promuove la coscienziosa riflessione delle persone, un’attitudine che s’impara soprattutto acquisendo l’abitudine all’esercizio quotidiano della lettura. La vacanza è tempo di acquisizione di buone abitudini, approfittatene, e ora leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Fëdor Dostoevskij,  I fratelli Karamazov

Il Grande Inquisitore

Ivan tacque. S’era accalorato parlando, e aveva parlato con trasporto: ma, quando ebbe finito, di colpo sorrise.

Alëša, che lo aveva sempre ascoltato in silenzio, e verso la fine, in un’insolita agitazione, aveva più volte accennato a interrompere il discorso del fratello, ma s’era visibilmente frenato, d’improvviso cominciò a parlare, come gli scattasse dentro una molla.

- Ma è una cosa che non regge! - esclamò, arrossendo. - Il tuo poema è un’esaltazione di Gesù, e non già una detrazione come tu avresti voluto. E chi persuaderai? Questa non è la concezione della Chiesa ortodossa È Roma questa, e non tutto di Roma: sono gli esponenti peggiori del cattolicesimo, gl’inquisitori E poi non può assolutamente esistere un personaggio fantastico della risma del tuo inquisitore! Che roba sono questi peccati degli esseri umani presi su di sé? Che cos’è questa specie di maledizione, presa su di sé, per la felicità degli umani? Quando mai si sono visti? Non sono davvero così gl’inquisitori, sono tutt’altra cosa Sono, semplicemente, l’esercito che deve conquistare a Roma il futuro impero su tutta la terra, col romano pontefice alla testa ecco il loro ideale, ma senza tanti segreti né nobili tristezze hanno un semplice desiderio di potenza, di grossolani beni terreni, di asservimento e vogliono una fattispecie di nuova servitù della gleba, in cui essi avrebbero il posto dei proprietari terrieri ecco tutto quello che vogliono loro. Non credono neppure in Dio, probabilmente. Il tuo inquisitore-martire è una fantasia e nient’altro

- Ma aspetta, aspetta un momento, - rise Ivan, - come ti sei riscaldato! Una fantasia, dici tu: e sia pure! Innegabilmente, è una fantasia. Ma davvero tu credi che tutto questo movimento ecclesiastico degli ultimi secoli possa realmente ridursi a nient’altro che a un desiderio di potenza, mirante unicamente ai beni materiali?  Io ti domando, semplicemente, per quale ragione tra gli inquisitori non potrebbe trovarsi neppure un martire, assillato da una nobile afflizione e pieno d’amore per gli esseri umani? Vedi: supponi che ce ne sia almeno uno, fra tutti quelli che bramano esclusivamente beni materiali e fangosi, ce ne sia almeno uno come il mio vecchio inquisitore, che abbia mangiato anche lui le radici nel deserto, e si sia accanito a domare la propria carne per farsi libero e perfetto, ma intanto non abbia cessato un istante di amare gli esseri umani e, d’improvviso, abbia capito che non è gran cosa la beatitudine morale che si prova per aver raggiunto la perfezione se, nello stesso tempo, ci si rende conto che milioni di altre creature di Dio non rimangono al mondo che per esser beffate, che mai saranno all’altezza della loro libertà e che da simili miserevoli ribelli non usciranno mai i giganti necessari al compimento della torre e che non era per questa razza di oche che il grande idealista aveva sognato la sua armonia. Una volta compreso questo, il nostro uomo ha fatto dietro-fronte e s’è schierato con le persone intelligenti. Forse che questo non è potuto accadere?

- Con chi s’è schierato, con quali persone intelligenti? - proruppe Alëša quasi con rabbia. - Non c’è neppure l’ombra, in quelli là, di questa grande intelligenza, e neppure l’ombra di tutti questi misteri e segreti Ci sarà, piuttosto, della miscredenza: ecco in che consiste tutto il loro segreto. Il tuo inquisitore non crede in Dio: ecco in che consiste tutto il suo segreto!

- Fosse pure così! Finalmente, ci hai indovinato. E infatti, così è, sta qui tutto il segreto: non è forse questa una sofferenza, almeno per un uomo come questo che ha immolato tutta la sua vita in una prova eroica nel deserto, e non è guarito dell’amore per l’umanità? Al tramonto dei suoi giorni egli acquista la chiara persuasione che soltanto i consigli del grande e tremendo spirito potrebbero alla meno peggio sistemare in un assetto decente i deboli rivoltosi, «incompiute creature sperimentali, create per beffa». Ed ecco che convintosi di questo, egli vede ch’è necessario andare nel senso indicato dal penetrante spirito, dal tremendo spirito della morte e della distruzione, e quindi accettare la menzogna e l’inganno, e condurre gli esseri umani scientemente alla morte e all’annientamento, e di pari passo ingannarli per tutto il cammino, di modo che essi non si accorgano affatto dove vengono condotti, e, per lo meno, mentre sono in cammino, questi miseri ottenebrati si considerino felici. E tieni ben presente che l’inganno è fatto in nome di Colui, nell’ideale del quale il vecchio ha così appassionatamente creduto per tutta la vita! E questa, forse, non è infelicità?

- Tu non credi in Dio, - sfuggì d’improvviso ad Alëša con un tono d’infinita amarezza, e aveva, oltre tutto, l’impressione che il fratello lo guardasse con sarcasmo. - E in che modo finisce, il tuo poema? - domandò a un tratto, con lo sguardo a terra. - O forse è già finito così?

- Io volevo finirlo in questo modo: quando l’inquisitore ha terminato, rimane per un tratto di tempo in attesa che il Prigioniero gli risponda. Il silenzio di Lui gli riesce gravoso. Ha osservato come finora l’Incatenato sia rimasto in ascolto, col penetrante e pacato sguardo fisso negli occhi suoi, senza desiderare evidentemente di ribattergli nulla. Al vecchio piacerebbe che quello gli dicesse qualche cosa, anche qualche cosa di amaro, di tremendo. Ma Egli, di colpo, in silenzio, si appressa al vecchio e lievemente lo bacia sulle esangui labbra di novantenne. Ecco tutta la risposta. Il vecchio sussulta.  Un fremito contrae gli angoli delle sue labbra: si dirige alla porta, l’apre e Gli dice: «Va’, e non venire più non venire più a nessun costo mai, mai più!» E lo fa scivolare verso gli «oscuri meandri della città». Il Prigioniero si dilegua.

- E il vecchio?

- Quel bacio gli brucia in cuore, ma il vecchio rimane fisso nell’idea di prima.

- E tu con lui, tu ugualmente? - con un accento di dolore esclamò Alëša. Ivan si mise a ridere.

- Ma sai, Alëša mio, non si tratta che dell’insulso poema di un insulso studente, che non ha mai messo sulla carta due versi! Perché tu la prendi tanto sul serio? Non penserai mica che adesso io voglia andarmene diritto diritto là dai gesuiti inquisitori, per mettermi nella congrega di quelli intenti a correggere la gesta di Lui? Oh, Signore, che me ne importa. Ti ho già detto, mi pare, che m’accontento di arrivare ai trent’anni, e poi

- E le gemmette vischiose, e i cari sepolcri, e l’azzurro del cielo, e la donna amata? Come farai a vivere, che cosa ti darà la forza di amarli? -, dolorosamente proruppe Alëša. - Con un simile inferno nel cuore e nel cervello, ti pare una cosa possibile? No, senza dubbio tu parti per andare ad aggregarti a quelli e se così non fosse, tu ti ucciderai, perché non potrai resistere dal farlo!

- C’è una forza che resisterà a tutto! - esclamò Ivan freddamente beffardo.

- Quale forza?

- Quella dei Karamazov la forza della bassezza karamazoviana. Ossia, affogare nella dissolutezza, soffocar l’anima nella corruzione: è questo? Magari anche questo soltanto che, fino ai trent’anni, forse riuscirò a sfuggirvi, e quando poi sarò a quel punto

- Ma come, riuscirai a sfuggirvi? Che cosa ti darà la forza di sfuggirvi? È una cosa impossibile, coi pensieri che hai.

- Daccapo, alla maniera dei Karamazov! Nel senso, che «tutto è permesso»? Tutto è permesso, è questo che intendi?

Ivan s’accigliò, e d’improvviso, in modo un po’ strano, impallidì.

- Ah, tu vieni a ribadirmi la frasetta di ieri, che tanto ingenuamente nostro fratello Dmitrij è saltato su a commentare? - contrasse le labbra in un risolino. - Sì, vada pure: «Tutto è permesso», giacché ormai la parola è stata detta. Non la ritratto. E anche la redazione del nostro Mitja non è mica male.

Alëša, in silenzio, lo fissava.

- Io, fratello, accingendomi a partire, pensavo che in tutto il mondo avessi almeno te, - esclamò a bruciapelo Ivan con inattesa passione, - ma ora m’accorgo che anche nel tuo cuore per me non c’è posto, caro il mio anacoreta. La formula «Tutto è permesso» io non la rifiuto, e perciò ecco che tu rifiuti me; non è forse vero che è così?

Alëša s’alzò, gli s’accostò, e senza dir nulla, lievemente lo baciò sulle labbra.

- Plagio letterario! - insorse Ivan, passando di colpo a una specie di esultanza. - È un furto, questo, che tu hai fatto al mio poema! Grazie, in ogni modo. Alzati, Alëša, andiamo: è tempo per me e per  te.

Uscirono, ma si soffermarono presso l’entrata della trattoria.

- Sai, Alëša, - disse Ivan con voce ferma, - se avrò veramente la forza di guardare alle gemmette vischiose, potrò amarle soltanto ricordandomi di te. Mi sarà sufficiente che ecco, in un angolo del mondo, ci sia tu, e il vivere non riuscirà a venirmi a nausea. È sufficiente questo per te? Se ti pare, prendila pure per una dichiarazione d’amore. Ma adesso, tu a destra, io a sinistra, e basta così, m’intendi?, basta così. Voglio dire che seppure domani io non partissi (credo però che partirò senz’altro), e noi di nuovo avessimo in qualche modo a rincontrarci, ormai, di tutti questi argomenti, tu non mi farai più parola. Te ne prego vivamente. E sul conto di Dmitrij egualmente, te ne prego in modo particolare, non farmi mai più il minimo cenno! - incalzò bruscamente, esasperato. - Tutto, ormai, è esaurito, tutto è stato detto e ridetto, non è vero? E a te, dal canto mio, io pure farò in compenso una promessa: quando, a trent’anni, mi assalirà la voglia di «frantumar la coppa al suolo», allora, dovunque tu ti trovassi, io verrò ancora una volta a discorrere con te dovessi anche venir dall’America, sappilo bene. Proprio apposta, verrò! Sarà assai interessante vedere un po’ anche di te, come sarai diventato a quell’epoca! Come vedi, è una promessa abbastanza solenne. E realmente, chissà, è per sette anni, per dieci, che noi ora ci stiamo accomiatando. Bah, adesso avviati dal tuo Pater Seraphicus, giacché quello sta per morire: morrà mentre tu non ci sei, e allora peggio che mai, caro mio: te la prenderai con me, che t’ho trattenuto qui. Arrivederci, baciami ancora una volta, ecco, così: e va’

Bruscamente Ivan voltò le spalle e se n’andò per la strada sua senza rigirarsi più. Fu qualche cosa di simile a quando Dmitrij ieri sera aveva lasciato Alëša, benché ieri sera le circostanze fossero molto diverse. Questo strano accostamento passò come una freccia nella mente afflitta di Alëša, afflitta e dolorante in quegli istanti. Un pochino si attardò lì, seguendo con lo sguardo il fratello. E a un tratto gli venne fatto d’accorgersi che Ivan camminava con un’andatura ondeggiante, e che la spalla destra di lui, a guardarla così di dietro, sembrava più bassa della sinistra. Mai, prima d’oggi s’era accorto d’una cosa simile. Ma, di colpo, voltò anche lui le spalle e quasi di corsa s’avviò al convento. Il crepuscolo era già inoltrato e lui sentiva una specie di terrore: qualcosa gli cresceva nell’intimo, diverso dal solito, di cui non avrebbe saputo rendersi conto. S’era levato di nuovo, come ieri sera, il vento, e i pini centenari cupamente gli stormivano intorno, quando entrò nel boschetto dell’asceterio. Andava quasi di corsa. «Pater Seraphicus»: è un nome che ha preso da qualche libro: di dove mai? - pensò Alëša.

- Ivan, povero Ivan, e quando, ora, ti rivedrò? Ecco l’eremo Signore. Sì, sì, c’è egli qui, c’è il Pater Seraphicus, ed egli mi salverà da lui, e per sempre!

In seguito Alëša ebbe a ripensare più volte, con grande stupore, come avesse potuto tutt’a un tratto, dopo essersi separato da Ivan, dimenticare così totalmente il fratello Dmitrij, che pure al mattino, poche ore fa, s’era proposto di trovare a ogni costo a rischio magari di non tornare per stanotte al convento.

     Con questo brano abbiamo letto per intero il capitolo de Il Grande Inquisitore che si trova nel cuore del romanzo di Dostoevskij intitolato I fratelli Karamazov. È evidente che il senso di questo capitolo lo si può capire bene solo leggendo, o rileggendo, tutto il romanzo e ora la sfida è nelle vostre mani e la Scuola non può che riproporla: che senso ha saper leggere e non aver letto I fratelli Karamazov? Questo interrogativo vale per tutti i grandi testi che la Storia della Letteratura ci ha lasciato in eredità, vale per Guerra e pace – che molte persone hanno letto proprio frequentando questa Scuola – così come vale per quest’altro grande romanzo, quindi, non perdete l’occasione di leggere I fratelli Karamazov e fatelo con moderazione al ritmo di quattro pagine al giorno: bisogna leggere poco e costantemente (legere multum, con qualità) per poter leggere molto (legere multa, in quantità).

     Dall’Epistolario di Paolo di Tarso emerge la voce di una persona orgogliosa di essere uno scrivano e grazie a queste Lettere noi possiamo conoscere uno straordinario testimone della sapienza poetica ellenistica. «Paolo di Tarso è una persona ricca di luce e di fuoco, di passione e di vigore, di spirito e di fascino, di orgoglio e di umiltà e, allo stesso tempo, è una persona sicura di sé ma apprensiva, gioiosa ma perennemente angosciata»: questa è la definizione che di Paolo di Tarso ha dato Leone Tolstòj (vi ricordo che questo, 2010, è un anno tolstojano, se ne riparla in autunno) il quale, come la maggior parte delle scrittrici e degli scrittori dell’800 e del ‘900, ha fatto tesoro della Letteratura paolina, delle sue parole-chiave e anche delle sue mirabili contraddizioni. Leggere le Lettere di Paolo è anche come leggere un romanzo.

     Ma che tipo di lingua usa questo scrivano? Che tipo di greco è, il greco delle Lettere? Che fisionomia hanno i 2446 vocaboli (verbi, sostantivi e aggettivi) che costituiscono il testo delle Lettere? L’Epistolario di Paolo di Tarso rivela anche la costruzione di una particolare linea ideologica destinata a diventare il filo conduttore della dottrina della Chiesa di Roma: leggere le Lettere di Paolo è anche come leggere un saggio, come leggere un trattato filosofico-teologico in cui il Gesù della storia diventa il Cristo della fede.

     Le parole dette da Gesù di Nazareth noi non le conosciamo direttamente: quanta aderenza c’è nelle parole di Paolo alle parole di Gesù? Paolo di Tarso non ha conosciuto Gesù di Nazareth e il primo incontro con gli Apostoli più influenti è avvenuto soltanto a distanza di circa tre anni dalla sua conversione. Le differenze tra Paolo di Tarso e Gesù di Nazareth e Pietro e Giacomo e gli altri galilei, sono differenze molto marcate.

     Gesù di Nazareth proviene dalla cultura dei villaggi, è carpentiere e figlio di carpentiere: è quindi, probabilmente, un fariseo che culturalmente si avvicina ai contadini e ai pescatori per cui lavora piuttosto che ai mercanti che viaggiano lungo le rotte del Mediterraneo. Sappiamo che Gesù di Nazareth non ha viaggiato e che si è mosso solo all’interno del suo mondo: la Galilea e la Giudea; sappiamo che Gesù di Nazareth si esprime esclusivamente in un dialetto regionale, l’aramaico, e che non ha avuto l’occasione di confrontarsi con culture diverse e di fare esperienza di società e di valori differenti.

     Paolo di Tarso, al contrario, possiede la cultura della città-polis, e si muove molto a suo agio nel mondo greco-romano e sul territorio culturale dell’Ellenismo. Sicuramente Paolo di Tarso parla l’aramaico, che è il dialetto ebraico più diffuso, ma lo conosce come un dialetto estraneo, quindi, non c’è da meravigliarsi che con quelli di Giudea abbia avuto problemi di comprensione linguistica; poi, sicuramente conosce bene l’ebraico antico, una lingua che è ormai cristallizzata, in cui sono scritti i Libri del Pentateuco. Di sicuro conosce anche il latino ma la lingua propria di Paolo di Tarso è una delle più grandi lingue di tutti i tempi: la koiné.

     Che cosa sia la koiné lo abbiamo detto più volte: la koiné è il greco parlato durante l’Ellenismo, in particolare, nel bacino del Mediterraneo. Non il greco antico di Omero, di Esiodo, delle Tragedie, ma il greco-ellenistico, contaminato dalle diversità, che si sovrappone alle singole comunità linguistiche e che fa da tramite, a vasto raggio, per i commerci, il mercato, la cultura. La lingua della koiné è la lingua di Paolo di Tarso, è la lingua con cui scrive le sue Lettere.

     Ed ecco che emerge l’importanza di questo scrivanosul piano culturale: la lingua della koiné è una lingua parlata che si sarebbe perduta nel processo di trasformazione che tutte le lingue subiscono e Paolo di Tarso è il primo scrittore dell’Ellenismo che la trasforma in idioma letterario dando inizio ad un movimento intellettuale di vaste proporzioni che, convenzionalmente, viene chiamato la Letteratura del Vangeli.   Se il vangelo (la eu-aggelìa, la buona notizia che contiene un messaggio di salvezza) non fosse stata tramandata attraverso la lingua scritta della koinè se ne sarebbero perse le tracce. Shaul, prima ancora di diventare Paolo, conosce bene la lingua della koiné da buon ebreo che è nato e cresciuto nell’ambito delle Sinagoghe sorte sul territorio dell’Ellenismo nel corso della diaspora ebraica.

     La capitale della koiné – come sappiamo – è Alessandria d’Egitto, la grande città portuale situata nella parte occidentale (sul ramo Canonico) del delta del Nilo che ci ha ospitate ed ospitati per molte settimane nell’autunno scorso. Sappiamo che ad Alessandria – abbiamo dedicato un intero Percorso a questo tema nell’anno 2007-2008 – avviene l’ellenizzazione dell’Ebraismo per merito di un grande intellettuale, del filosofo ebreo Filone Alessandrino, che ha tirato le fila di quel significativo movimento culturale che, nel corso di tre secoli, ha curato la traduzione e la redazione dei Libri dell’Antico Testamento in greco (la cosiddetta traduzione dei Settanta) e nelle Sinagoghe della diaspora ebraica sul territorio dell’Ellenismo si usava questa traduzione (gli Ebrei della diaspora l’ebraico antico non lo capivano più, lo recitavano meccanicamente a memoria in funzione liturgica) e con questa traduzione Shaul-Paolo entra sicuramente in contatto fin da bambino.

     Questa significativa operazione intellettuale di ellenizzazione (che nell’anno 2007-2008 abbiamo studiato nelle sue grandi linee) porta l’Ebraismo a sprovincializzarsi, porta la cultura ebraica, col suo patrimonio di Scritture, a collocarsi sul piano internazionale e questa operazione – la traduzione dell’Antico Testamento e la redazione di nuove opere bibliche direttamente scritte in greco – gioverà non poco a quel gruppo di persone, di cui fa parte anche Shaul-Paolo, che, partendo da Antiochia, comincerà a portare in giro sul territorio dell’Ecumene, da una Sinagoga all’altra, la buona notizia della resurrezione di Gesù di Nazareth. Il pensiero di Filone Alessandrino – come ci comunicano le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica – ha certamente condizionato la formazione culturale di Shaul-Paolo favorendone la sua vocazione: chi è Filone Alessandrino?

     Filone Alessandrino è nato  tra il 20 e il 10 a.C. ed è morto intorno 41 d.C. (i suoi dati anagrafici non li conosciamo in modo preciso), quindi, è vissuto una generazione prima di Paolo di Tarso. Filone appartiene ad una ricca famiglia ebrea sadducea della diaspora inserita da molto tempo nella vivace comunità di Alessandria: anche le famiglie sadducee (dell’aristocrazia sacerdotale) più colte sono emigrate e non vogliono collaborare con gli invasori romani che, nel frattempo, hanno distrutto il Tempio. Per le famiglie sadducee della diaspora – così come per quelle farisee – sono i testi della Bibbia che prendono il posto del Tempio e questa grande biblioteca va diffusa, va fatta leggere e va fatta interpretare sul territorio dell’Ellenismo.

     Filone – un ebreo nato da famiglia sadducea ad Alessandria – riceve un’educazione classica e umanistica molto solida, ha anche un nome di tradizione ellenistica: il termine Filone (che per noi suona in modo un po’ ambiguo) contiene le parole filòs, amico e òn òntos, il participio presente del verbo essere e quindi significa colui che è alla ricerca dell’Essere. Filone, oltre ad aver studiato nelle Sinagoghe di Alessandria la cultura dell’Ebraismo, attraverso i Libri della Bibbia tradotti in greco, ha completato anche la sua formazione nelle Scuole filologiche alessandrine studiando la filosofia greca, in particolare, il pensiero contenuto nei Dialoghi di Platone e nelle Opere (la Fisica, la Metafisica, l’Etica) di Aristotele.

     Filone frequenta le due strutture culturali più importanti della città di Alessandria, la Biblioteca e il Museo, e la frequentazione di queste due istituzioni, prima come studente e poi come insegnante, favorisce la sua crescita intellettuale: diventa uno studioso e uno scrittore che si dedica a interpretare, a ordinare, a catalogare e a diffondere la cultura dell’Ebraismo (la produzione letteraria del ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della sapienza poetica beritica è – come sapete – un argomento che abbiamo studiato nell’anno 2007-2008), che è, da circa tre secoli, parte integrante della vita intellettuale della città di Alessandria.

     Il catalogo delle opere di Filone Alessandrino è lungo: è un autore prolifico e la sua prosa è molto elegante, secondo i canoni classici della sapienza poetica ellenistica, perché la lingua greca in cui scrive è colta, è eloquente, è aristocratica (non facile da leggere senza chiavi interpretative) e, per questo motivo, Filone Alessandrino occupa un posto di rilievo nella Storia della Letteratura greca del periodo ellenistico.

     Filone è l’esponente più autorevole della Scuola filosofica ebreo-alessandrina che va annoverata tra le nuove Scuole filosofiche dell’Ellenismo greco ed è la fucina di quel movimento culturale che, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., porta a compimento il processo di integrazione tra la Letteratura dell’Antico Testamento e la filosofia greca, tra i testi biblici e la cultura dell’Ellenismo: questa complessa operazione intellettuale fa da battistrada alla nascita della Letteratura dei Vangeli.

     Di Filone Alessandrino ci restano per intero, o in ampi frammenti, 36 opere in 42 libri che ci sono pervenuti in quattro lingue diverse: in greco, in armeno, in latino, e, per un certo numero di frammenti, anche in lingua araba e questo per dire che il pensiero di Filone Alessandrino ha avuto una vasta diffusione.

     L’opera più ampia di Filone Alessandrino è un volume che raccoglie diversi trattati e che s’intitola Spiegazione allegorica del Pentateuco e quest’opera è stata studiata e ha molto influenzato il pensiero degli Ebrei della diaspora: Shaul-Paolo è sicuramente tra coloro i quali hanno studiato e hanno tratto vantaggio da quest’opera. A Filone Alessandrino si deve la prima formulazione del concetto di lettura allegorica dei Libri della Bibbia: la Scrittura, il testo biblico, è il racconto allegorico del rapporto che Dio ha avuto con l’Umanità e questa straordinaria narrazione allegorica (alla quale fa spesso riferimento Paolo di Tarso nei testi delle sue Lettere) è stata prodotta, in un lungo periodo di tempo, da un variegato movimento poetico-sapienziale di cui Filone comincia a studiare e a interpretare l’opera.

     Filone Alessandrino dà inizio alla sua riflessione intellettuale commentando il testo del Libro della Sapienza secondo i canoni della filosofia di Platone. Filone Alessandrino studia i Dialoghi di Platone e ne deduce che i famosi miti (i celebri racconti allegorici: del demiurgo, della biga alata, degli esseri sferici, della caverna) narrati da Platone servono per imbastire una riflessione che conduce sulla via attraverso la quale ci si avvicina alla verità.

     Dio dona la sapienza (la sophìa) alle persone che sono in possesso di uno spirito erotico (che sentono il desiderio di conoscere) e che coltivano la sapienzapreferendola ad altre cose attraenti come il denaro, il potere, il successo. Il concetto platonico dell’Eros – come sapete – corrisponde a l’ardente desiderioche spinge l’essere umano verso la conoscenza e la contemplazione delle Idee, in particolare dell’Idea del Bene che l’autore del Libro della Sapienza fa corrispondere al concetto di Dio (del Dio d’Israele). Bisogna subito ricordare come non sia casuale il fatto che l’idea di sapienza seguita dall’idea di intelletto corrispondano, nella Pentecoste, ai primi due doni dello Spirito Santo secondo la dottrina cristiana che si va formando nel testo delle Lettere di Paolo di Tarso e nel testo degli Atti degli Apostoli.

     Filone Alessandrino – e questo è un punto fondamentale in cui il suo pensiero entra nella formazione di Shaul-Paolo – utilizza il testo del Libro della Sapienza per definire la figura dello scrivano che è il vero depositario della sapienza poetica: lo strumento attraverso il quale Dio fa sentire la sua voce. In principio – nella composizione del racconto delle Origini, dell’antica storia d’Israele e dell’Umanità, afferma Filone Alessandrino – c’è lo scrivano e questo concetto è stato di sicuro interiorizzato profondamente da Shaul-Paolo. Lo scrivano è un saggio che ha meritato la sapienza, che ha desiderato incontrare per strada la sapienza ed è, quindi, capace ad ispirarsi e a dare forma (una forma poetica) alla scrittura allegorica con la quale produce le grandi narrazioni mitiche e leggendarie che contengono i pensieri di Dio: Paolo di Tarso cerca questa competenza. Lo scrivano– allude Filone – è colui che sa cercare l’ispirazione per poter tradurre in metafore, in immagini mitiche, in simboli, in parabole l’imperscrutabile, misterioso, enigmatico intervento di Dio nella storia dell’Umanità.

     Secondo Filone Alessandrino il concetto della sapienza (he è dono di Dio) e de l’ispirazione(che è frutto della sapienza) s’identificano nella figura dello scrivano, e gli scrivani d’Israele– afferma Filone – hanno saputo, in forma allegorica, trasmettere i pensieri di Dio all’Umanità attraverso la complessa attività di stesura dei testi dei Libri della Bibbia.

     Filone ha il pregio di aver codificato la figura dello scrivanoe lo scrivano è una persona in possesso di determinate caratteristiche: è saggia, è sapiente, è ispirata, è animata dal desiderio di conoscenza (l’eros). Filone Alessandrino, mentre codifica (guardando al passato) la figura dello scrivano d’Israele, disegna anche (guardando al presente) il ritratto dell’intellettuale, del filosofo ebreo ellenistico-alessandrino che deve essere, soprattutto, una persona ispirata, una persona che coltiva il desiderio di conoscenza (l’eros platonico).

     Al pensiero di Filone si è sicuramente ispirato Shaul-Paolo quando ha deciso di cominciare a scrivere. Shaul-Paolo quando comincia a scrivere, quando assume il ruolo di scrivano così come lo ha codificato Filone di Alessandria, sente di aver assunto anche il ruolo dell’Apostolo e lo rivendica con energia e con orgoglio: non è Apostolo – sostiene Paolo – solo chi ha conosciuto il Gesù della storia ed è testimone diretto della sua resurrezione, ma è anche Apostolo (e di più, secondo la tradizione) chi, con la scrittura ispirata, da scrivano, ne documenta la missione in quanto Cristo della fede, perché è con la scritturache quel Gesùassume pienamente la qualità di risorto.

     Una delle opere più significative di Filone Alessandrino s’intitola L’Erede delle cose divine. Ne L’Erede delle cose divine lo scrittore mette in evidenza la figura mitica di Abramo che sente l’irrefrenabile desiderio (l’Eros) di mettersi in cammino (di curare la propria anima) e Filone ripercorre (rilegge allegoricamente) la vicenda biblica del primo patriarca e del suo viaggio verso la terra promessa. Naturalmente Filone applica gli schemi del suo pensiero (il modello della spiegazione allegorica) e paragona il viaggio di Abramo da Ur in Caldea alla terra di Canaan con il percorso di ogni anima verso Dio (dalla sapienza all’eros, dall’eros alla saggezza, dalla saggezza all’ispirazione, dall’ispirazione alla conoscenza delle cose divine che ogni anima ha ricevuto in eredità. La storia di Abramo assurge, dunque, a modello: è la metafora di ogni esperienza spirituale e, per questo motivo, L’Erede delle cose divine è uno degli scritti più avvincenti e più profondi della Storia della Letteratura greca ellenistico-alessandrina: Paolo di Tarso aderisce pienamente a questo modo di pensare e nelle Lettere parla di Abramo – e anche di se stesso – in questi termini, e questo fatto non è casuale ma deriva dalla formazione culturale che ha avuto.

     In che cosa si distingue Paolo di Tarso da Filone Alessandrino? La distinzione fondamentale è sul piano linguistico. La lingua con cui Filone compone la sua prosa non è l’idioma parlato della koiné ma è un linguaggio molto elegante, colto, eloquente, aristocratico come quello usato dagli intellettuali delle nuove Scuole filosofiche del primo Ellenismo, mentre la lingua che Paolo utilizza per scrivere si distingue perché è popolare, perché è la traduzione diretta del linguaggio orale. Quindi Shaul-Paolo – rispetto a Filone, che appartiene alla generazione precedente e che, come intellettuale ebreo alessandrino è più legato ai caratteri classicidel primo Ellenismo – risulta essere un altro tipo di ebreo: che tipo di ebreo alessandrino è Shaul-Paolo?

     Le Lettere di Paolo di Tarso ci mostrano una persona appartenente a quello che oggi definiremmo ceto medio. Le classi sociali dell’antichità non corrispondono a quelle odierne, tuttavia l’espressione ceto medioè quella che ci permette di definire meglio il personaggio. La lingua greca della koinè usata da Paolo di Tarso non è elegante, non è colta come quella di Filone Alessandrino, ma risulta più chiara, più efficace, più penetrante perché è la lingua del lavoro e delle relazioni commerciali.

     Ci siamo chieste e ci siamo chiesti: che cosa fa in Asia Minore un ebreo di lingua greca, cioè, come si guadagna da vivere? E, in particolare, come si guadagna da vivere Shaul-Paolo dopo il suo cambiamento di rotta?

     Prima della conversione si pensa che Shaul-Paolo svolgesse un ruolo istituzionale per le Sinagoghe, esercitasse una magistratura, un rabbinato come appartenente al gruppo dei Farisei (abbiamo studiato il tema controverso del suo ruolo di persecutore di quegli ebrei della diaspora che non rispettavano più l’ortodossia dettata dal Sinedrio sadduceo di Gerusalemme). Dopo la rottura con i vertici delle Sinogoghe Shaul-Paolo deve guadagnarsi da vivere in altro modo e quindi impara un mestiere e, a questo proposito, c’informa il testo degli Atti degli Apostoli. Il testo degli Atti degli Apostoli dice che Paolo impara un mestiere che viene definito, in greco, kataskevasos skinis cioè fabbricante di tende da campeggio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Paolo impara un mestiere: andate a leggere la citazione dal capitolo 18 versetto 3 degli Atti degli Apostoli…    E voi quando avete cominciato a mantenervi con il vostro lavoro?

Scrivete quattro righe in proposito

     In quel tempo chi poteva permettersi di viaggiare con la propria tenda era un privilegiato perché poteva evitare le locande che erano sempre infestate dagli insetti e, a causa della promiscuità, erano focolai di malattie. Quindi per i fabbricanti di tende il lavoro non manca e sul territorio dell’Ellenismo ci sono molti laboratori che svolgono questa attività e Paolo – che è sempre in viaggio (e, viaggiando, ha, probabilmente, acquisito sempre delle nuove competenze sul lavoro) – viene assunto con una certa facilità come operaio con contratti a termine in questi numerosi laboratori. La tenda è un articolo che si vende perché è un oggetto tipico della cultura del nomadismo delle popolazioni medio-orientali e mediterranee, quindi chi viaggia lo fa con la propria tenda, ed è un arredo molto diffuso (ci sono tende di varie taglie e di vari prezzi, più economiche e più lussuose): si pensa che a Paolo il lavoro non sia mai mancato.

     Ma, soprattutto, e lo abbiamo letto nella Prima Lettera ai Tessalonicesi, Paolo si vanta sempre di potersi mantenere, pur facendo il missionario, con il lavoro delle proprie mani: Paolo rivendica con orgoglio di essere un lavoratore. Questa considerazione – ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia e di psicologia – rivela la sua condizione sociale: i poveri, di solito, non considerano il lavoro manuale qualcosa di cui vantarsi ma Paolo, provenendo da un ambiente di benestanti, vuole rimarcare questo fatto.

     Paolo s’impegna nel lavoro dipendente anche se è stato educato al possesso e al comando ed è in grado di utilizzare un segretario al quale è solito dettare le sue Lettere: andate a leggere la Lettera ai Galati al capitolo 6 versetto 11 in cui l’autore ci fa notare che sta scrivendo di suo pugno, e poi leggete nella Lettera ai Romani al capitolo 16 versetto 22 dove si può constatare che si avvale di un amanuense il quale non è subalterno a Paolo bensì è affratellato perché manda i propri saluti alle persone a cui scrive. Paolo nel suo lavoro da operaio è un dipendente subalterno mentre nell’attività missionaria è un organizzatore e un pianificatore e svolge un ruolo direttivo: dirige con spirito fraterno e non gerarchico un gruppo di persone (un piccolo gruppo) che Paolo invia da una parte e dall’altra quando lui è occupato nel lavoro manuale. Inoltre Paolo, come Apostolo, ci tiene ad affermare che non gode delle condizioni privilegiate del ceto medioe che sa vivere nelle ristrettezze (accettando l’aiuto degli altri) e sa anche gestire i momenti di abbondanza (dando aiuto agli altri), ma l’impegno per la causa lo porta spesso a disporre di poco.

     Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica parlano di tratti letterari di carattere bohémien nell’Epistolario di Paolo Tarso. Questi elementi letterari di carattere bohémien hanno sempre affascinato chi coltiva uno spirito anticonformista (soprattutto molte scrittrici e molti scrittori di romanzi dell’800 e del ‘900). Molti sono gli studi, molta è la saggistica contemporanea sulle Lettere di Paolo di Tarso che si occupa con insistenza (anche troppa) di questo tema accattivante. Non è difficile vedere nel personaggio dello scrivano delle Lettere di Paolo di Tarso le caratteristiche, ante litteram, del bohémien.

     La parola bohéme deriva da Boemia, la regione dell’Europa centrale corrispondente al bacino superiore del fiume Elba e del suo affluente Moldava: da questa regione arrivano gli zingari i quali, con i loro carri, giungono, stagionalmente, nelle città dell’Europa occidentale. Nell’800 cominciano ad arrivare fino a Parigi e questi boemi-bohèmesi dedicano all’accattonaggio, ad un accattonaggio qualificato. Attraverso la Letteratura (i romanzo dell’800) sappiamo che sono individui, uomini e donne, poco raccomandabili, ma hanno un grande fascino perché fanno teatro di strada: montano le giostre, leggono la mano, suonano con virtuosismo gli strumenti, fanno esibire cavalli ammaestrati, svolgono lavori artigianali con destrezza.

     A Parigi la parola bohémien prende campo oltre il contesto zingaresco e, con il tempo, definisce una vera e propria categoria di persone. Bohémien è una o un artista che, in attesa di un successo che possa cambiargli la vita, è costretta ed è costretto ad un’esistenza misera e stentata, fatta di espedienti, di lavori saltuari, di frustrazioni, di sogni, ma anche di profonda e sincera solidarietà con coloro che condividono questa sua esperienza: è una volontaria scelta di vita fatta lasciando provocatoriamente situazioni sociali migliori con l’idea che una dura esistenza sia qualitativamente migliore più vera rispetto ad un’esistenza di privilegio e di ipocrisie. La vita bohéme viene vissuta con eccentricità, con originalità, con anticonformismo, con atteggiamenti che passano, psicologicamente, dalla più grande spensieratezza (con atti di grande condivisione) alla più profonda angoscia e depressione (cercando consolazione ed esprimendosi con artistica creatività). Il carattere bohémien dello scrittore delle Lettere – così come lo definiscono le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica e di psicologia – ha sempre affascinato le persone che coltivano uno spirito anticonformista e solidale.

     Per quanto riguarda la durezza della vita, nell’Epistolario di Paolo di Tarso, ci sono due citazioni significative da prendere in considerazione: la prima si trova nella Prima Lettera ai Corinti al capitolo 4 versetto 11 dove si legge: «Fino a questo momento noi soffriamo la sete, la fame, la nudità, veniamo schiaffeggiati e vaghiamo senza stabile dimora». La seconda citazione si trova nella Seconda Lettera ai Corinti al capitolo 11 versetto 27 dove si legge: «(Ho operato in condizioni che avrebbero scoraggiato molti) nella fatica e nel duro lavoro, spesso nelle veglie notturne, nella fame e nella sete, in frequenti digiuni, nel freddo e nella nudità».    Paolo cerca e pratica una povertà volontaria, frutto di una libera scelta e nelle sue Lettere si avverte che Paolo non è appartenuto al ceto più basso della società greco-romana: Paolo non è un proletario ma, liberamente, ha deciso di vivere da proletario e vive questa condizione con orgoglio mentre si va formando la sentenzache dice: «Gli ultimi saranno i primi».

   Poi, soprattutto, troviamo descritta ed auspicata l’esperienza della vita vissuta «in solidarietà (agape, che significa amore solidale)» con la consapevolezza che è necessario mettersi a serviziodella comunità e questo atteggiamento diventa la prima forma di istituzione nelle Ekklesìe: chi s’impegna a svolgere un servizio per la comunità, mettendo a frutto i propri talenti per instaurare un clima di amore solidale (agape), si assume il compito di esercitare una diakonìa, un servizio a vantaggio della comunità.

     E, a questo proposito, è interessante leggere i primi due versetti del capitolo 16 della Lettera ai Romani. Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica c’insegnano che i primi due versetti del capitolo 16 della Lettera ai Romani facevano parte di un’altra Lettera di Paolo (andata perduta) che è stata ricucita in questo testo prima dei saluti finali. Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica c’informano che Paolo ha scritto molte Lettere che, in parte, sono andate perdute, di altre ne sono stati conservati solo dei frammenti perché il resto del contenuto era troppo personale e non riguardava i temi dottrinari dibattuti nelle comunità. Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica c’informano che operazioni di ricucitura e di assemblaggio, con frammenti di testo provenienti da Lettere che sono andate perdute, compiute sui testi delle Lettere di Paolo che possediamo se ne riconoscono facilmente un buon numero e sono da attribuirsi alla revisione (di carattere dottrinale e pastorale) attuata da Clemente Romano.

     I due famosi primi versetti del capitolo 16 della Lettera ai Romani costituiscono un piccolo brano di sei righe che è stato intitolato la Lettera per Febe e che inizia con le significative parole: «Vi raccomando la nostra sorella Febe, la diaconessa che lavora al servizio della Chiesa di Cencre». Paolo presenta Febe perché è una donna molto importante della comunità di Cencre, che è il porto orientale della città di Corinto (noi siamo diretti a Corinto per concludere il nostro viaggio). Paolo definisce Febe come sua protettrice perché questa donna, trovandosi lui in difficoltà, lo ha sostenuto economicamente ed affettivamente: molte scrittrici e molti scrittori hanno trasformato in romanzo, spesso con molto garbo, il capitolo 16 della Lettera ai Romani chiedendosi se tra Paolo e Febe ci sia stato un rapporto sentimentale.

     La cosa più interessante è che Febe è anche una diaconessa (e in greco la parola è molto precisa, nonostante le traduzioni tendano ad attenuare, nel caso specifico di Febe, il significato istituzionale che il termine ha assunto nelle Ekklesìe) e questo fatto esplicito pone un tema importante sul ruolo delle donne all’interno dell’istituzione ecclesiastica ed è chiaro che la lettura di questo testo – che contiene un riferimento così preciso, più volte ripreso nel dibattito del Concilio Ecumenico Vaticano II – ci fa riflettere sull’assurdità del fatto che le donne nella Chiesa di  Roma, nella Chiesa paolina per eccellenza, non possano accedere per lo meno al diaconato(il tema del rapporto tra Paolo e le donne è un argomento interessante che studieremo a suo tempo).

     Un esempio che invece mette in relazione Paolo di Tarso con la classe dei benestanti lo troviamo nella Lettera a Filèmone (il testo di questa Lettera è contenuto in un capitolo solo, è un testo di mezza pagina!). Qui Paolo incarica anche – al capitolo 1 versetto 22 – il benestante Filèmone (un ricco cristiano, non ben identificato, noto per il bene che fa a molti) di preparargli la camera degli ospiti (e anche in questo caso spesso le traduzioni hanno attenuato il significato che, in greco, è molto preciso) e questa richiesta, quest’ordine, non combacia con lo stile di vita che Paolo conduce ma sembra che l’Apostolo voglia adattarsi alla condizione del destinatario con il quale deve entrare in sintonia: il fatto è che questa Lettera è deuteropaolina e, quindi, non è stata scritta da Paolo e lo stile non è quello di una Lettera privata ma piuttosto di una omelia.

     L’autore di questo testo affronta, usando l’autorità di Paolo che è già morto da qualche tempo, il (delicato) tema dello schiavismo: uno schiavo di nome Onèsimo è fuggito, si è rifugiato presso Paolo, è diventato cristiano e l’Apostolo lo rimanda dal padrone con questo biglietto nel quale invita Filèmone ad accoglierlo bene non più come schiavo ma come fratello nella fede.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete i primi due versetti del capitolo 16 della Lettera ai Romani e la Lettera a Filèmone che è composta da soli 23 versetti in tutto…

     Le Lettere di Paolo di Tarso presentano un personaggio che, per lo stile di vita, ha sempre affascinato i contestatori del perbenismo, della società dei consumi e del produttivismo senza limiti. Shaul-Paolo, nella contemporaneità, viene visto anche come un borghese che sceglie di uscire dagli schemi della sua classe d’origine per vivere spesso sulla strada.

     Questa espressione fa, inevitabilmente, pensare al titolo di un romanzo (che ora possiamo solo citare) che s’intitola proprio On the road, Sulla strada. Questo famoso romanzo è stato scritto nel 1957, a San Francisco, da Jack Kerouac (1922-1969) ed è uno di quei testi che anticipano la rivolta giovanile contro il perbenismo borghese e aprono la stagione della contestazione studentesca. Kerouac, in questo romanzo, non si limita a descrivere le inquietudini sociali del mondo americano ma analizza anche molto bene l’ansia di fede, di ideali di una generazione alla disperata ricerca di un Dio che, come scrive Paolo di Tarso, finalmente mostri il suo volto. Questo romanzo è incentrato sul mito del viaggio: il viaggio inteso come un peregrinare alla ricerca di spazi (esteriori ed interiori) sempre nuovi nella speranza che, sulla strada (sulla via di Damasco), possa avvenire qualcosa di illuminante.

     Vedete quante tematiche emergono – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dall’Epistolario di Paolo di Tarso, un’opera nella quale lo scrivano costruisce il modello, dà una forma alla figura speciale di Gesù Cristo. L’Epistolario di Paolo di Tarso disegna un’icona che è diventata, nei secoli, una bandiera: il simbolo di chi vuole combattere contro l’autoritarismo e l’ingiustizia.

     Tutte e tutti voi avete senz’altro presente quel poster, o quella maglietta, con sopra l’immagine di un Gesù capellone, barbuto, con corona di spine – è un’iconografia tradizionale di Gesù d’impronta paolina – con sotto scritto wanted, ricercato. Questa è la principale icona della beat generation; conoscete questa espressione anche perché è contemporanea: l’aggettivo beat (e noi abbiamo in mente più l’elemento consumistico di questo termine annacquato dal mercato delle canzonette) significa battuto, sconfitto ma anche beato (che è proprio il modo – e lo studieremo – in cui Paolo di Tarso presenta Gesù di Nazareth che, proprio perché sconfitto e battuto dalla storia, si trasforma nel beato Cristo della fede che indica la via della salvezza). La definizione (culturale e letteraria) di beat generation è stata usata per la prima volta da un giornalista americano nel 1952 per definire non solo un fatto di costume, ma un movimento culturale e letterario che si è formato negli Stati Uniti attorno a un gruppo di scrittori, di poeti dissacranti, di cantori lirici del malessere del loro tempo che utilizzano principalmente il glossario della Letteratura beritica dell’Antico Testamento e dell’Epistolario di Paolo di Tarso (Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, Corso, l’elenco è lungo). Il manifesto di questo movimento intellettuale viene considerato un romanzo, pubblicato nel 1951, dello scrittore D.G. Salinger, morto alcuni mesi fa, che, in italiano, s’intitola Il giovane Holden, di cui molte volte abbiamo parlato. In Italia è stata la scrittrice Fernanda Pivano (nata a Genova nel 1917 e morta lo scorso anno) che ha documentato con una intensa attività di traduzioni, saggi e recensioni questo significativo movimento culturale e letterario. Questa esperienza letteraria ha costituito il punto di riferimento per tutta una generazione di giovani che non si riconosce più nel perbenismo della vita americana e nei discutibili valori proposti dal sistema capitalistico. A partire dagli anni Cinquanta, larghe fasce di giovani americani contestano il produttivismo e la società dei consumi e molti lasciano le città per ricolonizzare i villaggi abbandonati e per vivere in modo rurale sperimentando nuove forme di solidarietà (parola-chiave dell’Epistolario di Paolo di Tarso) e di autosufficienza (parola-chiave delle nuove Scuole filosofiche dell’Ellenismo).

     Tra le varie tematiche letterarie che emergono in questo variegato movimento culturale che, dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso, prende campo anche in Europa, trova posto una riflessione profonda su un argomento che investe la cultura dell’Ellenismo e che risalta, in modo significativo, nell’Epistolario di Paolo di Tarso: il concetto di orgoglio, e la parola orgogliol’abbiamo incontrata diverse volte in questo ultimo itinerario in relazione alle scelte di Paolo di Tarso. Il termine orgoglio è ricco di significati: l’orgoglio è superbia, presunzione, autocompiacimento, vanto, boria, alterigia, ma è anche fierezza, senso di dignità, amor proprio, senso dell’onore.

     Ora in questo Percorso, che volge al termine, non abbiamo più il tempo necessario per mettere in evidenza il pensiero di Paolo di Tarso in proposito: naturalmente ce ne occuperemo (questa sera abbiamo anticipato una serie di temi) nel prossimo viaggio che prende il via in autunno sempre in compagnia di Paolo.

     E ora, per concludere, ci occupiamo del concetto di orgoglio inteso come sopraffazione perché questa idea trova – sempre sulla scia del pensiero di Paolo di Tarso – ancora uno straordinario interprete in Fëdor Dostoevskij con I fratelli Karamazov.

     E, con la lettura di quest’ultimo brano, ci avviamo alla conclusione di questo Percorso. Questa volta il protagonista è Dmitrij (detto Mitja) il quale, a modo suo (il carattere dei vari personaggi va scoperto leggendo il romanzo, un esercizio che la Scuola assegna come compito per la vacanza), ha amato Katerina Ivanovna: e con una «confessione da cuore ardente» decide di svelare al fratello Alëša il motivo di questo suo innamoramento che sta nell’orgoglio della sopraffazione, un sentimento molto diffuso con il quale anche Paolo di Tarso dovrà fare i conti a Corinto, dove stiamo per approdare.

LEGERE MULTUM….

Fëdor Dostoevskij,  I fratelli Karamazov

Quando sono arrivato io al battaglione, in tutta la cittadina correva voce che, fra poco, sarebbe arrivata dalla capitale la seconda figlia del tenente colonnello, arcibella fra le belle, uscita allora allora da un aristocratico collegio della capitale. Questa seconda figlia, è appunto Katerina Ivanovna in persona: sua madre era la seconda moglie del tenente-colonnello. E questa seconda moglie, morta ormai, era figlia di non ricordo qual ricco generale, sebbene (so da fonte degna di fede), danaro, al tenente-colonnello, non gliene avesse portato. Insomma, aveva casato ma, in moneta sonante, aveva portato un bel nulla. Eppure, quando giunse di collegio la ragazza (con l’intenzione di trattenersi un po’), la cittadina intera sembrò rimettersi a nuovo, e le più illustri signore locali, due mogli di eccellenze, se la presero subito a cuore per farla divertire: reginetta dei balli, dei pic-nic. Io zitto, io al solito, a far baldoria: e intanto venivo preparando un tiro, che tutta la città ne andò a soqquadro. Una volta mi aveva lanciato un’occhiata fugace, in casa del comandante di batteria, ma io non la avevo avvicinata, come per dire che non mi curavo di conoscerla. La avvicinai, tempo dopo, in un altro ricevimento, e le rivolsi la parola: mi guardò appena, e sprezzantemente serrò le labbra: aspetta, dico fra me! Sentii subito saltar fuori in me l’ufficialaccio venuto su dalla gavetta: e quel che sentivo soprattutto, era che questa «Katenka» non era, come sembrava, una candida collegiale qualsiasi ma una personalità ben definita, piena d’orgoglio, realmente onesta e - quel che più conta - dotata d’intelligenza e di cultura. Tu credi che io fossi interessato a chiedere la sua mano? Neanche per sogno, volevo semplicemente vendicarmi Per via dei soliti bagordi e delle chiassate il tenente-colonnello mi diede tre giorni di arresti. Ora, proprio in quei giorni, nostro padre mi aveva spedito seimila rubli, avendogli io inviato formale rinuncia ad ogni diritto sul patrimonio sicché noi dovevamo considerarci «pari e patta», e io non avrei più avuto nessuna pretesa. Dopo aver ricevuto questo danaro, fui informato, da una letterina d’un conoscente, d’una cosa interessantissima per me: e cioè, che il nostro tenente-colonnello non riscuoteva la fiducia dei superiori, che era sospettato di ruberie, insomma che i suoi nemici gli stavano preparando una salsa coi fiocchi. E infatti sopraggiunse il comandante di divisione e lo rimproverò con durezza. Quindi, di lì a poco, fu collocato a riposo e, in città, si determinò una straordinaria freddezza verso lui e i suoi di famiglia: tutti, d’improvviso, si squagliarono. E a questo punto m’imbatto in Agafja Ivanovna, con la quale mi mantenevo sempre in buoni rapporti, e le dico: «Dunque, al vostro babbo, quattromilacinquecento rubli del reggimento mancano in cassa!» «Che mi fate sentire: perché dite così? Di recente è venuto il generale e c’erano tutti in perfetta regola». «Allora c’erano, ma adesso non più», dissi. Si spaventò tremendamente. «Non mi spaventate, per carità: da chi l’avete sentito dire?» «Non v’agitate», le faccio io, «non dirò niente a nessuno, e poi voi lo sapete che in questa materia io sono una tomba; ma volevo aggiungere che se chiedessero al babbo codesti quattromila cinquecento rubli, ed egli non ne disponesse, siccome si tratterebbe d’andare sotto processo e poi di subire la degradazione, voi potreste mandare a casa mia, segretamente, la vostra collegiale, perché mi è arrivato proprio ora del danaro: penserò io a consegnarle la somma, e rispetterò la santità del segreto», «Ah», fece lei, «che vigliacco siete» (disse proprio così). «Che razza di vigliacco! Non so come vi permettiate…» Mentre andava via terribilmente indignata io le dissi che il segreto sarebbe stato serbato come una cosa sacra e inviolabile. Ma Agaf’ja e la zia si comportarono veramente da angeli; quella superba della sorella, Katja, era adorata da loro: le si umiliavano ai piedi, erano le sue cameriere. Subito Agaf’ja le disse tutto del colloquio che avevamo avuto. Un maggiore nuovo prende il comando del reggimento. Il vecchio tenente-colonnello cade ammalato: non può più muoversi, per due giorni rimane in casa, e non consegna la somma che deve essere in cassa. Il nostro dottore, Kravcenko, assicurava che la malattia era reale. Ora succedeva che la somma, dopo che i superiori l’avevano controllata, ogni volta (erano ormai quattro anni) spariva per un certo periodo di tempo. La affidava, il tenente-colonnello, a un tale di sua completa fiducia, un commerciante di lì, il vecchio vedovo Trifonov, un barbone cogli occhiali d’oro. Costui se ne partiva per la fiera, investiva quel danaro nelle sue speculazioni, poi restituiva immediatamente al tenente-colonnello l’intera somma con i suoi bravi interessi. Senonché, questa volta Trifonov, ritornando dalla fiera, non aveva portato indietro niente. Il tenente-colonnello s’era precipitato da lui: «Io non ho mai avuto nulla in consegna da voi, e non avrei potuto prender nulla in consegna»: ecco la risposta. Figurati, il nostro povero colonnello si chiude in casa, s’avvoltola la testa in un asciugamano, e tutt’e tre quelle donne, giù a mettergli ghiaccio sul cranio: quando d’improvviso si presenta un soldato con un libro e con l’ordine di versare subito, entro due ore, la somma in cassa. Lui s’era tirato su, aveva detto che andava a indossar la divisa, s’era rinchiuso in camera sua, aveva atterrato il suo fucile da caccia a due canne, ci aveva ficcato una pallottola da moschetto, s’era sfilato dal piede destro la scarpa, s’era puntato il fucile contro il petto e col piede annaspava per trovare il grilletto. Ma Agaf’ja, già insospettita, era riuscita ad adocchiarlo in tempo: di scatto gli s’era slanciata alle spalle, l’aveva stretto fra le braccia, e il colpo era andato in alto, al soffitto: nessuno era rimasto ferito. Erano accorsi gli altri di casa, gli avevano strappato il fucile, lo avevano tenuto fermo per le braccia. Io me ne stavo in casa, s’era fatta sera: m’ero vestito, pettinato, avevo profumato il fazzolettino e avevo appena calzato il berretto, quando a un tratto s’apre la porta, ed eccomi innanzi, in casa mia, Katerina Ivanovna.

Nessuno notò che lei fosse entrata in casa mia e, in città, la cosa passò inosservata. Lei venne avanti, e mi guardava fissa: quegli occhi scuri avevano uno sguardo risoluto perfino insolente, ma sulle labbra, ecco, c’è un’irresolutezza. - «Mia sorella m’ha detto che voi avreste dato quattromilacinquecento rubli, se fossi venuta a chiederli io stessa a casa vostra. Io sono venuta datemi il danaro!»  disse e gli angoli delle labbra, e le linee attorno, ebbero un tremito Alëša, m’ascolti o dormi? - Mitja, io so che tu dirai la verità fino in fondo, - proruppe, agitato, Alëša.   - La dirò infatti, ecco come andò Il primo pensiero, fu un pensiero da Karamazov. Una volta, fratello, fui morso da una tarantola, e per due settimane ne stetti a letto con la febbre: ebbene, anche in quel momento, ecco, sentii come se al cuore m’avesse morso una tarantola, m’intendi? Tu l’hai vista? Era una bellezza! Ma la sua bellezza, in quel momento, era data dal fatto che lei stava compiendo un’azione generosa, mentre io ero un mascalzone; lei era sublimata dalla sua grandezza d’animo e dal sacrificio che faceva per il padre, mentre io ero una cimice. Ed ecco che proprio da me, cimice e mascalzone, lei dipendeva tutt’intera, anima e corpo. Potevo agire come una cattiva tarantola, senza compassione di sorta Naturalmente, l’indomani stesso sarei andato a chiedere la sua mano, in modo da porre fine a tutta la faccenda nella più nobile delle maniere, e senza che nessuno, quindi, ne sapesse o potesse mai saperne niente. Perché io sono un uomo di basse cupidigie, sì, ma che ha il senso dell’onore. Quand’ecco d’improvviso, in quello stesso istante, una voce soffiarmi all’orecchio: «Questo è un tipo che domani, quando tu ti presenterai con la proposta di matrimonio, non ti si mostrerà neppure, e ordinerà al cocchiere di scacciarti via. Diffamami pure, penserà, per la città intera: non ti temo!» La guardai e capii che così, senza dubbio, sarebbe avvenuto. Mi ribollì dentro la rabbia, e mi venne voglia di tentare il più vile, il più maialesco e mercantesco dei tiri dicendole in modo beffardo: «Voi mi parlate di quattromila rubli! Ma io ho detto per scherzo, che cosa credete? Troppo alla leggera, signora, ci avete fatto conto. Fino a un paio di cento, magari, ci arrivo ben volentieri, ma quattromila non sono mica una somma, signora mia, da dar via così senza rifletterci. Vi siete voluta scomodare inutilmente». Vedi, io, in questo modo, avrei perduto tutto e lei se ne sarebbe andata, ma in compenso sarebbe riuscita una vendetta infernale, che m’avrebbe ricompensato di tutto. Avrei gemuto poi tutta la vita dal rimorso, ma non importa, purché ora avessi potuto azzeccare questo colpo! Non m’era mai capitato di guardare nessuna donna con tale odio: la guardai con un odio terribile, e mi accorsi che per passare dall’odio all’amore più delirante, non c’è che un capello! M’accostai alla finestra, poggiai la fronte contro il vetro ghiacciato: la fronte mi bruciò come ci fosse il fuoco. Mi voltai, m’avvicinai al tavolo, apersi il cassetto e presi un titolo al portatore di cinquemila rubli al cinque per cento (era infilato nel vocabolario di francese). Quindi in silenzio, glielo mostrai, lo ripiegai, glielo diedi, fui io ad aprirle la porta d’ingresso, e, discostandomi d’un passo, le feci un inchino profondo, pieno di deferenza e di devozione! Lei mi guardò fissa un istante, si fece pallida e, di colpo, senza dire una parola, adagio, si chinò tutta, profondamente, altro che alla collegiale, alla russa! Si sollevò e scappò via. Io sfoderai la sciabola, e mi venne voglia di sgozzarmi lì per lì, sarebbe stata indubbiamente una sciocchezza terribile, ma certo doveva essere per l’entusiasmo. Non so se tu capisca come a volte per l’entusiasmo, sia possibile uccidersi: ma io non mi tagliai la gola: baciai, soltanto, la sciabola, e la riposi un’altra volta nel fodero. L’ho tirata un po’ in lungo per vantarmi orgogliosamente. Ma lascia che vadano al diavolo tutti gli spioni del cuore umano! Ecco, raccontato da cima a fondo, il mio antico «incidente» con Katerina Ivanovna. E così ora, a conoscerlo, siete tu e il fratello Ivan: nessun altro.

     Dostoevskij ci accompagnerà ancora: voi leggete o rileggete I fratelli Karamazov perché questo è il momento adatto.

     Questa sera, in compagnia di Paolo di Tarso (che ha deciso di continuare a viaggiare con noi), sbarchiamo a Corinto, una città che abbiamo già nominato diverse volte, e il nostro viaggio (dell’anno scolastico 2009-2010) si conclude qui. Oggi Corinto è una cittadina di circa trentamila abitanti, situata vicino all’imboccatura nord del famoso canale. Questa è una posizione strategica perché qui si saldano il Peloponneso con l’Attica. Ma l’antica Kòrintos – il sito archeologico della polis ellenica – si trova a sette chilometri a sud-ovest e, ora, abbiamo solo il tempo per dire che quest’area, oltre ad essere situata in una bella posizione, è ricca d’acqua dolce: è ricca di fonti d’acqua dolce.

     E la fonte – anche se si tratta di una fontanella – è, da sempre, simbolo dello studio, allegoria dell’apprendimento permanente così come ha scritto la nostra compagna di scuola Franca Migliorini il 22 giugno 1989 in occasione della conclusione del quinto anno di questa esperienza:

La fontanella

Sull’irta strada della vita nostra spesso sentimmo del saper l’arsura

cercammo fuori tempo, il che dimostra ber solo a gocce, sete a dismisura

Mentre raminghi: - Una fontanella! - senza il pomello lustro o monumento

fra verde muschio, germogliante perla pulita, generosa, controvento

     Sono passati vent’anni e se la Scuola continua a presentarsi così è perché è frequentata da tanta bella gente: pulita, generosa, controvento.

     Sarà per questo motivo che la Legge 133 ha abolito, di fatto, questa esperienza di alfabetizzazione culturale e funzionale? Sembra che tutto ciò che è pulito, generoso, controvento non piaccia a chi comanda e a chi intraprende per imporre la dittatura dell’ignoranza. L’art. 34 della Costituzione proclama che La Scuola è aperta a tutti. quindi la Legge 133 pecca di incostituzionalità perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere della persona e non c’è Legge che lo possa negare a chi lo chiede: la Scuola pubblica degli Adulti è delle cittadine e dei cittadini quindi: prendetevela la Scuola e servitevene! Ciascuna e ciascuno di noi, oggi, è responsabile di ciò che resta della Scuola pubblica degli Adulti in questo Paese dove la stragrande maggioranza della gente non sa investire in intelligenza perché è affetta da mali legati all’analfabetismo. “Imparare ad apprendere” è un diritto da garantire a tutte le persone quindi è nostro dovere (è dovere di tutti coloro che hanno senso dello Stato) promuovere e animare la Scuola degli Adulti, ed è per questa ragione che abbiamo programmato il nostro prossimo viaggio che si svolgerà ancora sul territorio dell’Ellenismo per imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni.

     A tutte e a tutti voi una buona vacanza di studio: una vacanza che sia pulita, generosa, controvento, in attesa della prossima partenza…

 

INDICE DEGLI ITINERARI

La sapienza poetica ellenistica in lingua greca nell’Epistolario di Paolo di Tarso

La sapienza poetica ellenistica in lingua latina durante l’Età imperiale

La sapienza poetica ellenistica in lingua greca nella Letteratura dei Vangeli

La sapienza poetica ellenistica in lingua greca nella Patristica apologetica

Sui siti… www.inantibagno.it e www.scuolantibagno.net

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 28, 2010