Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica giugno 2010
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA
C'È IL TRADIZIONALE CONVIVIO DI FINE PERCORSO …
Con che cosa e con chi concludiamo questo viaggio di studio? Concludiamo questo Percorso di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura con un oggetto e con un personaggio che fa da tramite tra il nostro punto di arrivo (siamo a Corinto) e il prossimo punto di partenza che, in questi mesi di vacanza, andrà determinandosi.
L’oggetto in questione è un breve romanzo (o un poemetto in prosa) che s’intitola Il procuratore della Giudea e che è stato composto da uno scrittore che più volte abbiamo incontrato e che si chiama Anatole France (è uno pseudonimo). Ora non diciamo nulla di questo autore perché Anatole France (1844-1924) lo incontreremo, in partenza, ad ottobre; adesso ricordiamo solo che noi avremmo molte pagine da leggere di questo autore perché ha sempre avuto, come la maggior parte delle scrittrici e degli scrittori dell’800 e del ‘900, un’attenzione particolare per la “sapienza poetica ellenistica”; citiamo soltanto i titoli di alcune sue opere: Il giardino di Epicuro (è una riflessione sulle Massime capitali di Epicuro), Gli dei hanno sete (un romanzo storico ambientato nel corso della Rivoluzione francese), Baldassarre (è il nome di uno dei re magi, e dà il titolo ad una raccolta di racconti), Il delitto di Silvestre Bonnard (un romanzo che ha come protagonista un filologo che assomiglia ai grammatici alessandrini).
Questa sera vogliamo, brevemente, puntare la nostra attenzione sul racconto intitolato Il procuratore della Giudea che è stato pubblicato nel 1902, per celebrare, in modo critico, l’inizio del nuovo secolo e, per raggiungere questo obiettivo, Anatole France utilizza il pensiero – di cui è un cultore – delle nuove Scuole filosofiche del triangolo ellenistico (epicuree, stoiche e scettiche): questo è uno dei temi su cui noi abbiamo maturato delle competenze durante il Percorso di quest’anno scolastico.
Il racconto intitolato Il procuratore della Giudea è diventato, nel corso degli anni, per le intellettuali e gli intellettuali europei, un vero e proprio oggetto di culto, un’opera emblematica: “un apologo – scrive Leonardo Sciascia che ha tradotto quest’opera – di Scuola scettica particolarmente salutare in un momento in cui muoiono le certezza nello stesso tempo in cui di certezze si muore”.
I protagonisti di questo racconto sono due: il procuratore della Giudea Ponzio Pilato – il quale diventa un’interessante figura letteraria, insieme a sua moglie Procla, nell’ambito della “sapienza poetica ellenistica” (c’è anche un cosiddetto “Ciclo di Pilato” nella Letteratura dei Vangeli apocrifi) – e Lucio Elio Lamia, il rampollo di una facoltosa famiglia romana. Il testo di quest’opera è un dialogo tra questi due personaggi. Lucio Elio Lamia è un giovane piuttosto scapestrato che viene esiliato dall’imperatore Tiberio perché è coinvolto in uno scandalo a Roma: ha sedotto la moglie di un alto funzionario, Sulpicio Quirino. Elio Lamia, quindi, è costretto, per un certo periodo della sua vita, a soggiornare nei luoghi meno ospitali dell’Impero, quelli riservati agli esiliati: che si trovano vicino ai confini e che sono sprovvisti di quei conforti così cari a chi è abituato a vivere nei lussi della capitali. In Palestina (posto veramente poco ospitale) Elio Lamia conosce Ponzio Pilato che è il procuratore della Giudea: i due diventano amici e, a Gerusalemme, si frequentano assiduamente. Poi Elio Lamia, dopo la morte di Tiberio, viene graziato e torna a Roma e lui e Pilato si perdono di vista. Lamia, dall’esilio sul territorio dell’Ellenismo, ne ha tratto dei vantaggi, non materiali ma culturali e intellettuali e difatti, a Roma, cambia stile di vita: si mette a leggere le opere di Epicuro, studia il pensiero stoico e scrive considerazioni di carattere esistenziale secondo i concetti della Scuola scettica. Intanto passano gli anni, i dolori reumatici aumentano, la vecchiaia incombe ed Elio Lamia decide di curarsi e di andare – come gli ha prescritto il suo medico – a fare i fanghi nella bella stazione termale di Baia da dove si vede svettare il Vesuvio. In un caldo pomeriggio, nel corso di una passeggiata, vede passare una lettiga e riconosce Ponzio Pilato. Elio Lamia lo chiama perché Pilato non lo ha riconosciuto: sono un po’ cambiati, sono diventati vecchi entrambi. I due vecchi amici si abbracciano, si salutano cordialmente, e decidono di incontrarsi la sera, a cena. È una cena (sono molto parchi nel mangiare) di ricordi e di memorie durante la quale i due commensali passano in rassegna tutti gli avvenimenti di quegli anni (siamo in età ellenistica, anche se loro non lo sanno ancora) trascorsi in Palestina, rievocano: le guerre, le rivolte sanguinose degli zeloti, gli intrallazzi politici, gli usi i costumi mediorientali, i personaggi, le donne. Pilato ricorda tutto nei minimi particolari ma solo di un avvenimento – nonostante Elio Lamia, stupito, lo incalzi ripetutamente – non si ricorda più.
Noi adesso, per concludere, leggiamo solo l’incipit di questo brevissimo romanzo:
LEGERE MULTUM….
Anatole France, Il procuratore della Giudea (1902)
Lucio Elio Lamia, nato in Italia da famiglia illustre, era appena adolescente quando andò a studiare filosofia nelle scuole di Atene. Poi si stabilì a Roma e condusse, nella sua casa dell’Esquilino, circondato da giovani un po’ depravati, una vita voluttuosa. Un giorno venne accusato d’intrattenere un’illecita relazione con Lepida, la moglie di Sulpicio Quirino, politico in vista della cerchia consolare: fu riconosciuto colpevole e fu mandato in esilio dall’imperatore Tiberio in persona. Elio Lamia aveva allora ventiquattro anni e, nei diciotto anni che durò il suo esilio, egli viaggiò in Siria, in Palestina, in Cappadocia, in Armenia e soggiornò a lungo ad Antiochia, a Cesarea, a Gerusalemme.
Quando Tiberio morì Lamia ottenne di tornare a Roma, e riuscì anche a recuperare una parte dei suoi beni ma, più che altro, le sventure lo avevano reso saggio per cui evitò di frequentare donne poco raccomandabili, non volle avere nessun impiego pubblico, si tenne lontano da tutti gli onori. Si chiuse nella sua casa dell’Esquilino e cominciò a scrivere quel che aveva visto di interessante nei suoi lontani viaggi: con la scrittura traduceva – come usava dire – le sue pene passate in divertimento delle ore presenti. Mentre passava il suo tempo impegnandosi in questo piacevole lavoro e anche nell’assidua meditazione sui libri di Epicuro, ad un certo punto si accorse, con un po’ di stupore e un qualche rimpianto, che la vecchiaia incombeva.
A sessantadue anni cominciò ad essere tormentato da un dolore reumatico assai incomodo e decise di andare ai bagni di Baia. Questo lido, un tempo caro solo ai gabbiani, era allora frequentato dai romani più ricchi e più avidi di piaceri.
Già da una settimana Lamia viveva solo e senza amici dentro quella folla brillante, quando un giorno, dopo il pranzo, fu preso dalla fantasia e si sentì disposto di salire su per le colline che, coperte di pampini come baccanti, si affacciavano al mare.
Arrivato in alto su un punto panoramico si sedette sul muretto di un sentiero sotto un terebinto, e lasciò che lo sguardo vagasse su quel bel vasto paesaggio. Alla sua sinistra si dispiegavano lividi e nudi i Campi Flegrei fino alle rovine di Cuma. Alla sua destra Capo Miseno spingeva il suo acuto sperone dentro il Tirreno. Ai suoi piedi, verso occidente, poté osservare la ricca Baia che, seguendo la graziosa curva del lido, apriva i suoi giardini, le sue ville popolate di statue, i suoi portici, le sue terrazze di marmo sull’orlo di un mare blu da cui affiorava il gioco dei delfini. Davanti a lui, dall’altra parte del golfo, sulla costa della Campania Felix dorata dal sole che stava per tramontare, splendevano i templi che facevano corona lontana ai lauri di Posillipo e, nella profondità dell’orizzonte, svettava ridente il Vesuvio.
Da una tasca della toga Lamia tirò fuori un rotolo che conteneva il Trattato sulla natura, si distese comodamente per terra e cominciò a leggerlo. Ma le grida di uno schiavo lo avvertirono che doveva alzarsi per far passare una lettiga che saliva per lo stretto sentiero tra le vigne. Come la lettiga, tutta aperta, si avvicinò, Lamia vide, disteso sui cuscini, un vecchio assai corpulento che, la mano sulla fronte, guardava con occhio cupo e sprezzante. Il suo naso aquilino scendeva sulle labbra che erano serrate su un mento prominente e tra possenti mandibole. Di colpo Lamia si accorse di conoscere quel volto. Esitò un momento sul nome. Poi, lanciandosi verso la lettiga con un movimento di sorpresa e di gioia: «Ponzio Pilato!» gridò. «Siano ringraziati gli dèi che mi hanno concesso di rivederti!».
Il vecchio, facendo segno agli schiavi di fermarsi, fissò con sguardo attento ma interrogativo l’uomo che lo salutava.
«Caro Ponzio», continuò Lamia «sono passati vent’anni e devo essere proprio invecchiato se tu non riconosci più il tuo amico Elio Lamia».
A questo nome Ponzio Pilato scese dalla lettiga con un certa difficoltà, data dal peso degli anni e dalla gravità del portamento, e con trasporto abbracciò più volte Elio Lamia.
«Che piacere rivederti» disse «anche se il rivederti mi porta a ricordare i giorni in cui ero procuratore della Giudea, nella provincia della Siria. Ti ricordi? Trent’anni fa ci siamo incontrati per la prima volta, a Cesarea, dove con noia tu sopportavi l’esilio. Io fui assai felice di sostenerti un po’ e tu, per amicizia, mi hai seguito a Gerusalemme, dove gli ebrei erano molto esperti nel procurarmi un’infinita amarezza e un profondo disgusto. Per più di dieci anni, parlando di Roma, ci siamo a vicenda consolati: tu delle tue disgrazie, io della mia carriera … [ma, dimmi, che cosa fai tu qui?]». …
Ad ottobre, in partenza, riprenderemo anche questo dialogo: non mancate…