Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale 07-08-09 marzo 2012
NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE
C’È IL VASTO PAESAGGIO INTELLETTUALE DE “L’ETÀ DI CESARE” ...
Abbiamo già percorso circa tre quarti del nostro viaggio sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e questa sera stiamo per raggiungere un paesaggio molto ampio che si trova proprio nel cuore di questa vasta area culturale nella quale, itinerario dopo itinerario, dall’autunno scorso, abbiamo assistito – in un rapporto complesso e articolato di amore e odio – all’incontro tra la cultura greca e la cultura latina.
Tra il II e il I secolo a.C. la cultura latina comincia a trovare spazi di emancipazione e di autonomia nei confronti della cultura greca e questa situazione viene a crearsi con la nascita e lo sviluppo di un genere letterario tipicamente latino: la “satira”, ed incontrando il poeta Gaio Lucilio, la scorsa settimana, abbiamo potuto constatare questo fatto. Lucilio ha legato il suo nome alle origini della “satira latina”: il primo genere poetico che gli intellettuali romani sentono come proprio. Scrive Quintiliano, nel I secolo d.C., nel X libro della sua opera intitolata Istitutionis oratoriae [la formazione dell’oratore]: «Satura quidem tota nostra est».
Da dove viene il nome “satura” poi “satira”? Non lo abbiamo ancora detto. La “satira” latina è una forma letteraria mista, caratterizzata da una grande varietà di temi e di occasioni ed è proprio questo fatto ad essere in accordo con il significato del termine “satura” che viene mutuato da espressioni come “lanx satura” che significa “un vassoio colmo di primizie [frutta, cereali, legumi]” che si offriva ogni anno agli dèi, oppure dall’espressione “per saturam” che significa “alla rinfusa”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Perché non preparate un bel “lanx satura”, un vassoio colmo di primizie: che cosa ci mettereste di buono?... Descrivetelo in quattro righe e poi offritelo a voi stesse o a voi stessi, ché gli dèi possono anche digiunare per una volta [direbbe Lucilio]...
Sappiamo che – sulla scia del genere letterario della “satira” – tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. si manifesta in Roma una nuova tendenza poetica anticonformista, legata ad un fenomeno che dobbiamo mettere in evidenza, e che abbiamo già studiato durante il viaggio di due anni fa sul territorio dell’Ellenismo [nell’anno 2009-2010]: il fenomeno della penetrazione sempre più intensa della poesia alessandrina nel mondo romano.
Roma, all’inizio del processo di integrazione con la cultura greca, si confronta con Atene e con il mondo ellenico ma [sappiamo che] dal III secolo a.C. il baricentro della cultura greca si sposta ad Alessandria che diventa – con la sua Biblioteca e le sue Scuole – la capitale culturale dell’Ellenismo [ci torneremo a suo tempo in questa città: non ne possiamo fare a meno perché è un luogo strategico per effettuare investimenti in intelligenza] e anche Roma entra, inevitabilmente, in sintonia con questa città.
Sappiamo che la “poesia lirica alessandrina” [è stato per noi argomento di studio durante il viaggio dell’anno 2009-2010 e potete leggere o rileggere i testi delle Lezioni di quel Percorso che sono conservate sui nostri siti] rifiuta la letteratura di carattere epico o trattatistico e sperimenta forme poetiche più brevi e leggere, come, per esempio, l’epillio, un breve poemetto epico, o l’epigramma, un breve scritto di carattere erotico, celebrativo o satirico [molte e molti di voi ricorderanno senz’altro – non nei particolari perché quelli si dimenticano e vanno periodicamente ripassati – la famosa polemica alessandrina tra Apollonio Rodio e Callimaco di Cirene sul come comporre poesia]. La civiltà alessandrina, rispetto a quella ateniese, è frutto – come sappiamo – di un complesso lavorìo di integrazione tra culture diverse quindi Roma si sente più affine con Alessandria quando entra in contatto con questa città piuttosto che con Atene. Questa nuova tendenza ellenistico-alessandrina si sviluppa a Roma soprattutto nell’ambito di un nuovo Circolo letterario – che si affianca e supera quello degli Scipioni –, il circolo di Lutazio Catulo al quale [ricordate?] abbiamo fatto visita la scorsa settimana.
Questa sera, come sappiamo, abbiamo raggiunto un paesaggio intellettuale molto ampio che si trova proprio nel cuore del territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”. Devo dire [con soddisfazione, ammesso che in questo caso si possa dire così] che siamo puntuali: siamo arrivate e siamo arrivati in tempo davanti a questo paesaggio intellettuale. Perché dico questo? Perché se ritardavamo di una settimana – visto che la prossima settimana sono “le Idi di marzo”, un termine del calendario romano che indica la metà del mese [dal verbo etrusco “iduare”, dividere], il 15 marzo – il personaggio che dobbiamo incontrare non sarebbe stato presente. Avete già capito che stiamo per incontrare Gaio Giulio Cesare il quale alle Idi di marzo [il 15 marzo] dell’anno 44 a.C., in Senato, è stato aggredito e pugnalato da un gruppo di giovani fedeli [a sentir loro] alla Repubblica e, paradossalmente, anche molto vicini a lui.
Pur pensando che non si dovrebbe mai far ricorso alla violenza, ci dobbiamo domandare: Giulio Cesare è stato assassinato o è stato giustiziato? Dalle Idi di marzo dell’anno 44 a.C., intorno a questa domanda, il dibattito è in corso.
Il paesaggio intellettuale che abbiamo appena raggiunto contiene quella che è stata chiamata “l’età di Cesare” perché questo personaggio ha inciso profondamente nella Storia di Roma ad ampio raggio proprio per il fatto che, nel I secolo a.C., lo Stato romano sta occupando il vastissimo territorio dell’Ellenismo. L’età di Cesare – collocata nella storia dell’Ellenismo – è un momento assai tormentato dal punto di vista politico che porta alla fine dell’Antica Repubblica ma, tuttavia, quest’età è anche quella che vede fiorire il cosiddetto “periodo classico della Letteratura latina”. Noi ci occupiamo di Cesare [su questo personaggio si potrebbe fare un Percorso intero] in funzione della didattica della lettura e della scrittura, secondo la natura del nostro viaggio: infatti Cesare è uno scrittore e, anche in questo frangente, ha lasciato il segno. Quindi sbrighiamoci ad incontrare Cesare perché gli rimangono pochi giorni a disposizione e sa che li deve dedicare a noi!
Sul personaggio di Giulio Cesare ci sono tanti di quei saggi e tante di quelle biografie che – per chi si dedica alla lettura – c’è solo l’imbarazzo della scelta: in proposito potete utilizzare la biblioteca e la rete. Noi prendiamo in considerazione le linee fondamentali della vita e dell’opera di Cesare per aprire una porta che immette nell’epoca che da lui ha preso il nome: un’epoca che vede la nascita di tendenze significative in campo poetico e, soprattutto, in campo filosofico.
Gaio Giulio Cesare, il condottiero, lo statista, lo scrittore, lo storico, è anche un personaggio spregiudicato ed ambiguo ed è il vero protagonista dell’ultimo periodo della Repubblica colui che ne determina il trapasso al Principato e all’Impero. La sua figura è tra le più celebri della Storia: è dal suo nome che derivano i titoli di imperatore in tedesco, il Kaiser, e in russo, lo Zar.
Gaio Giulio Cesare è nato il 13 luglio dell’anno 100 a.C. da un’antichissima famiglia di origine patrizia, la gens Iulia, che si vantava di discendere per via paterna da Iulo, figlio di Enea e, perciò, da Venere e per via materna dal re Anco Marzio. I natali di Cesare sono quindi radicati nel mito. Sono scarse le notizie sugli anni della sua gioventù e sulla sua formazione culturale, che, comunque, deve essere stata molto approfondita ed accurata. Cesare, in quelli che sono i complessi giochi della politica romana, rivela subito un atteggiamento antiaristocratico, si schiera contro il dittatore Lucio Cornelio Silla e per questo motivo viene incluso nelle liste di proscrizione e si salva fuggendo da Roma [Il degrado istituzionale ha fatto sì che la magistratura del dittatore sia diventata appannaggio dell’uomo forte che s’impone e pretende – a differenza del passato, degli esempi raccontati nei “miti paralleli”, – di essere nominato dal Senato dittatore a tempo indeterminato o addirittura a vita]. Cesare viene graziato dal dittatore per l’intervento di personalità legate alla famiglia della madre ma giudica più prudente non ritornare nella capitale e nell’81 a.C. preferisce trasferirsi in Asia dove fa le sue prime esperienze militari. Ritorna a Roma nel 78 a.C., dopo la morte di Silla, ed esordisce sulla scena politico-giudiziaria pronunciando, senza successo, un discorso di accusa per concussione contro Cornelio Dolabella, potente rappresentante del partito aristocratico. Cesare, dopo questo smacco, capisce che deve studiare se vuole far carriera e allora parte per un viaggio d’istruzione e sbarca sull’isola di Rodi. A Rodi c’è, nel I secolo a.C., un gran fermento intellettuale: Cesare segue le Lezioni di Apollonio Molone e in questa Scuola c’era anche Cicerone a studiare. La Scuola rodia di Apollonio Molone propone lo studio della retorica fondendo i metodi della retorica asiana [dei maestri dell’Asia Minore], molto ampollosa, con quelli della retorica attica [del centro dell’Ellade], molto raffinata: in pratica questa Scuola insegnava a capire bene ciò che si legge, a scrivere con chiarezza i propri pensieri e a parlare mettendo ben in chiaro le proprie idee. Cesare è intelligente e trae vantaggio da questi studi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola “retorica” è anche sinonimo di “eloquenza [l’eloquenza è la capacità di esprimersi bene perché ispirati dagli oggetti]”... Qual è per voi, oggi, l’oggetto più eloquente, suggestivo, espressivo: il sole, il mare, il fiume, il pane, il cielo, o che cosa?...
Basta una parola per rispondere, scrivetela...
Per quanto riguarda l’excursus della vita e della carriera di Cesare ora noi non possiamo far altro che scorrere il catalogo delle varie tappe che lo hanno portato ai vertici del potere fino a diventare il padrone assoluto dello Stato, ma prima di far questo dobbiamo dedicarci – a proposito di didattica della lettura e della scrittura – ad un romanzo che, strada facendo, stiamo leggendo capitolo per capitolo: forse questo racconto sarebbe piaciuto a Cesare perché anche lui ha conosciuto l’esilio.
Questo romanzo scritto, come sapete, da Irène Némirovsky nel 1931 s’intitola Come le mosche d’autunno di cui abbiamo già letto sei capitoli. Stiamo leggendo questo racconto perché si tratta di “un’ipotesi di sviluppo letterario”: la trama del romanzo [come ben sappiamo] sembra sviluppare un dramma perduto di Lucio Ambivio Turpione il cui riassunto è riportato da Cicerone nel De officiis [I doveri]. Irène Némirovsky mette in scena la mitica figura di Vesta nel realistico personaggio della vecchia nutrice russa Tat’jana Ivanovna la quale, come sapete, si ritrova emigrata – insieme ai nobili Karin fuggiti alla Rivoluzione – a Parigi all’inizio del XX secolo, ma questa bella città non è il suo mondo, non è il mondo nel quale – giusti o sbagliati che siano – possa ritrovare i suoi ritmi di vita: a Parigi non c’è l’inverno russo che è una stagione fondamentale per il metabolismo e per l’equilibrio mentale di Tat’jana Ivanovna, e i Karin devono cominciare a darsi da fare per vivere.
Leggiamo il settimo capitolo de Come le mosche d’autunno.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno
I primi mesi della vita dei Karin a Parigi furono tranquilli. Soltanto in autunno, quando il piccolo Andrej tornò dalla Bretagna e si dovette pensare a una sistemazione definitiva, il denaro cominciò a scarseggiare. Gli ultimi gioielli se n’erano andati da tempo. Restava un piccolo capitale, che poteva durare due, tre anni … E poi? Alcuni russi avevano aperto ristoranti, locali notturni, negozietti. Come gli altri, con gli ultimi soldi che rimanevano, i Karin acquistarono e arredarono una bottega in fondo a un cortile, e lì cominciarono a vendere le posate antiche, i pizzi e le icone che erano riusciti a portare con sé. Agli inizi non si presentò nessun acquirente. In ottobre ci fu da pagare l’affitto. Poi divenne necessario mandare Andrej a Nizza: l’aria di Parigi gli causava delle crisi d’asma. Pensarono di cambiare casa. Trovarono un appartamento meno caro e più luminoso vicino alla porte de Versailles, ma di sole tre stanze e con una cucina stretta come un armadio a muro. Dove sistemare la vecchia Tat’jana? Era impensabile costringerla a salire fino al sesto piano, con le sue gambe malferme. Nel frattempo, ogni fine del mese diventava più difficile della precedente. Le domestiche se ne andavano una dopo l’altra, non riuscendo ad abituarsi a quegli stranieri che di giorno dormivano e di notte mangiavano e bevevano, lasciando i piatti sporchi sui mobili del salotto fino all’indomani.
Tat’jana Ivanovna tentò di fare qualche lavoretto domestico, di lavare i panni, ma era sempre più debole, e le sue vecchie mani non avevano più la forza di sollevare i pesanti materassi francesi o la biancheria intrisa d’acqua.
I ragazzi, sempre stanchi e nervosi, la trattavano in malo modo, la cacciavano via: «Lascia stare. Vattene. Fai solo pasticci. Rompi tutto». Lei si allontanava senza dir niente. D’altronde, non pareva nemmeno sentirli. Se ne stava immobile per ore, con le mani incrociate sul grembo, a fissare il vuoto, attonita. Era curva, quasi piegata in due, la pelle del viso bianca, esangue, con vene bluastre rigonfie all’angolo degli occhi. Spesso, quando la chiamavano, non rispondeva, limitandosi a serrare ancora di più la piccola bocca incavata. Eppure non era sorda. Ogni volta che uno di loro si lasciava sfuggire, sia pure a voce bassa, quasi un sospiro, un riferimento al loro Paese, lei trasaliva e di colpo diceva, con voce flebile e calma: «Sì…il giorno di Pasqua, quando è bruciato il campanile di Tëmnaja, mi ricordo…». Oppure: «Il padiglione…Quando voi siete partiti, il vento aveva già mandato in pezzi i vetri…Mi domando che cosa ne è stato…».
E di nuovo taceva, guardava la finestra, i muri bianchi e il cielo sopra i tetti. «Quando verrà finalmente l’inverno?» diceva. «Ah, mio Dio, da quanto tempo non vediamo né il freddo né il ghiaccio … Com’è lungo l’autunno qui … A Karinovka, probabilmente, è già tutto bianco, il fiume è ghiacciato… Vi ricordate, Nikolaj Aleksandrovič, quando voi avevate tre o quattro anni, io ero giovane allora, e la vostra povera mamma diceva: “Tat’jana, si vede che sei del Nord, ragazza mia. Alla prima neve perdi la testa…”. Vi ricordate?».
«No» mormorava Nikolaj Aleksandrovič con aria sfinita.
«Io sì che mi ricordo,» brontolava «e tra poco sarò la sola…».
I Karin non rispondevano. Ognuno di loro aveva già abbastanza ricordi, preoccupazioni e tristezze suoi personali. Un giorno Nikolaj Aleksandrovič disse: «Gli inverni qui non somigliano ai nostri».
Lei trasalì.
«Che cosa volete dire, Nikolaj Aleksandrovič?».
«Lo vedrai molto presto» mormorò lui.
Lo guardò fisso e tacque. Per la prima volta l’espressione strana, smarrita e diffidente dei suoi occhi lo colpì.
«Che cos’hai, njanja?» le chiese con dolcezza.
Lei non rispose. Tanto, non sarebbe servito a niente …
Tutti i giorni guardava il calendario che segnava l’inizio di ottobre, scrutava a lungo l’orlo dei tetti, ma la neve non si decideva a cadere. Non vedeva altro che tegole scure, pioggia, foglie d’autunno secche e tremolanti.
Adesso era sola tutto il giorno. Nikolaj Aleksandrovič batteva la città alla ricerca di oggetti antichi e di gioielli per il loro negozietto; riuscirono a vendere qualche anticaglia e a comprarne altre.
Un tempo Nikolaj Aleksandrovič aveva posseduto collezioni di porcellane preziose e di piatti d’argento cesellato. Adesso, quando verso sera rientrava a casa lungo gli Champs-Elysées con un pacchetto sotto il braccio, gli accadeva a volte di dimenticare che non era per casa sua, per se stesso, che si era dato da fare. Camminava veloce, respirando l’odore di Parigi, guardando nel crepuscolo le luci che brillavano, quasi felice, con il cuore colmo di una malinconica serenità. Loulou aveva trovato un posto da indossatrice in una casa di moda. Impercettibilmente la vita si organizzava. Rincasavano tardi, esausti, portando con sé dalla strada, dal lavoro, una sorta di eccitazione che si sfogava ancora per un po’ in risate, in parole; ben presto, però la casa cupa e il mutismo della vecchia li raggelavano. Cenavano in fretta, andavano a letto e dormivano un sonno senza sogni, stremati dalla dura giornata. …
Per quanto riguarda il percorso della vita e la trafila della carriera di Giulio Cesare ora noi non possiamo far altro che scorrere il catalogo delle varie tappe che lo hanno portato ai vertici del potere fino a diventare il padrone assoluto dello Stato romano. La morte di Cesare – e in quante opere se ne è parlato! – ha contribuito alla glorificazione di questo personaggio e anche all’esaltazione delle varie tappe del suo percorso di vita e della trafila della sua carriera. Per tradizione il percorso della vita e della carriera politica di Giulio Cesare viene presentato in sei tappe fondamentali. Queste sei tappe le dobbiamo conoscere, seppure a grandi linee.
La prima tappa riguarda l’adesione di Cesare alla politica con una scelta che contrasta con la sua appartenenza al ceto aristocratico. Dopo il suo viaggio d’istruzione a Rodi Cesare torna a Roma e viene eletto pontefice nel 73 a.C. anche per merito della mediazione della sua potente famiglia e riprende anche l’attività giudiziaria ed aderisce alla corrente più popolare del cosiddetto partito democratico: in breve tempo diventa il massimo esponente di questa corrente e comincia a guadagnarsi il favore del popolo – che risente di una pesante crisi economica in corso – con elargizioni in grano, in denaro e organizzando spettacoli a proprie spese, al punto da indebitarsi pesantemente.
La seconda tappa della vita di Cesare corrisponde al suo rapido “cursus honurum”, alla sua rapida carriera politica: in breve tempo è questore in Spagna nel 68 a.C., edile nel 65 a.C., pontefice massimo nel 63 a.C., che è anche l’anno del consolato di Cicerone e della congiura di Catilina. Sembra che Cesare abbia partecipato all’impresa e, una volta fallita, si sia opposto invano alla condanna a morte dei congiurati contro l’intransigenza di Cicerone. È stato poi pretore nel 62 a.C., propretore nel 61 a.C. nella Spagna Ulteriore, dove sottomette i Lusitani. L’amministrazione della Spagna gli procura fama e ingenti ricchezze di dubbia provenienza che usa per acquistare ulteriore influenza a Roma e nel 60 a.C. si presenta candidato al consolato.
La terza tappa della carriera di Cesare corrisponde al primo triumvirato. Nel 59 a.C. Cesare viene eletto console con l’appoggio di Pompeo e di Crasso, e questi tre personaggi decidono di creare un potere parallelo a quello del Senato. Difatti stipulano tra loro un patto privato di enorme importanza politica – è il primo atto che decreta la fine della Repubblica –, questo patto è noto con il nome di “primo triumvirato”: il triumvirato non è un’istituzione prevista dalla costituzione romana e sarebbe un atto eversivo che nessuno è in grado di contrastare. Questi tre potenti alleati fanno approvare in Senato una serie di Leggi favorevoli ai loro interessi: una Legge agraria sulla distribuzione delle terre per favorire i veterani di Pompeo, una Legge sugli appalti per favorire i molteplici affari di Crasso in Asia, mentre Cesare fa astutamente finta di sacrificarsi a vantaggio dei suoi due complici e s’imparenta anche con Pompeo facendogli sposare sua figlia Giulia dopo che Pompeo ha divorziato dalla sua terza moglie Mucia Terza, dalla quale ha avuto due figli Gneo e Sesto, e poi Cesare aspetta il momento favorevole per passare all’incasso.
La quarta tappa della carriera di Cesare corrisponde al suo proconsolato in Gallia. Cesare ha un progetto in mente: quello di creare una sorta di suo Stato nello Stato e, quindi, si fa affidare per cinque anni il proconsolato della regione Illirica e della Gallia Cisalpina, a cui si aggiunse poi quello della Gallia Narbonense. Dal 58 al 52 a.C. Cesare conduce con grande successo una serie di campagne militari: conquista l’intera regione fino al Reno, ottenendo un risultato fondamentale per l’espansione del dominio di Roma, oltre che, soprattutto, per l’accrescimento del proprio potere personale. La proroga del proconsolato per altri cinque anni lo trattiene in Gallia fino al 50 a.C. e si ha l’idea che questa vasta regione sia diventata una specie di Stato autonomo governato da Cesare il quale ama dire: «Meglio essere il primo qui che il secondo a Roma». A Roma, in Senato, si forma un partito anti-cesariano di cui fa parte anche Cicerone, e Cesare non aspettava altro: che si facesse chiarezza nel gioco delle parti. La situazione si evolve con la rottura dell’equilibrio del triunvirato: Crasso muore, sconfitto e ucciso dai Parti, nella battaglia di Carre nel 53 a.C.. Pompeo entra inevitabilmente in concorrenza con Cesare – muore anche sua moglie Giulia e di conseguenza anche il legame di parentela con Cesare si affievolisce –; Pompeo si allontana dal partito democratico e diventa il rappresentante dell’oligarchia senatoriale, il difensore della legalità repubblicana, colui che può contrastare Cesare che sembra voglia creare un nuovo potere monarchico fondato sulla forza dell’esercito. Il tribuno della plebe Publio Clodio – colui che curava gli interessi politici di Cesare a Roma – viene ucciso nel 52 a.C. e Pompeo viene nominato console unico e incaricato di riportare ordine nella capitale dopo i tumulti avvenuti in seguito alla morte di Clodio: si capisce, però, che il popolo parteggia per Cesare e non per Pompeo che ha assunto il ruolo del repressore.
La quinta tappa della carriera di Cesare corrisponde alla guerra civile. Il termine “civile” deriva dal latino “civis” che significa “cittadino” quindi una “guerra civile” è un conflitto tra cittadini della stessa città, della stessa nazione: è difficile che nella guerra ci sia qualcosa di “civile” nel senso di progredito, di evoluto, di educato. Roma aveva già assistito ad una prima guerra civile [88-82 a.C.] tra Caio Mario [del partito democratico, e Cesare era schierato con lui] e Lucio Cornelio Silla [del partito aristocratico] conclusasi con la vittoria e la dittatura di Silla [dall’82 al 79 a.C. e - come sappiamo – Cesare, da giovane, era stato in esilio, fino alla morte di Silla, perché era stato inserito nelle liste di proscrizione]. Ma da questi avvenimenti ormai sono passati trent’anni e Cesare, benché lontano da Roma [primo in Gallia], chiede nel 49 a.C. di presentarsi candidato al consolato, rifiutando però di congedare l’esercito come gli ha ordinato di fare il Senato. Il Senato allora decreta lo stato di emergenza e affida a Pompeo i pieni poteri, ma Cesare, dopo aver pronunciato la famosa frase: «Alea iacta est [Il dado è tratto]», passa, al comando della famosa XIII legione, il fiume Rubicone che segnava il confine tra la Gallia e l’Italia – è il 10 gennaio del 49 a.C. – dando così inizio alla seconda guerra civile.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La valle del fiume Rubicone [in dialetto Urcòn] si trova in Emilia Romagna e con una guida di questa regione – che trovate in biblioteca –, e collegandovi alla rete, potete fare un’escursione su questo territorio visitando i centri che vi s’incontrano: Sogliano al Rubicone, Borghi, Savignano sul Rubicone, Gatteo e San Mauro dove c’è anche la casa natale [con annesso piccolo museo] di un celebre poeta, sapete chi è?... Fate una gita nella valle del Rubicone...
Cesare s’impadronisce facilmente dell’Italia ed entra a Roma da trionfatore, poi insegue Pompeo che è fuggito in Spagna e poi lo rincorre nell’Ellade. Lo scontro decisivo avviene il 9 agosto del 48 a.C. a Fàrsalo in Tessaglia dove Cesare, nonostante sia in inferiorità numerica, sconfigge l’esercito senatorio di Pompeo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Fate un’escursione anche a Fàrsalo, oggi questa piccola cittadina [di 8500 abitanti] si chiama Fàrsala e si trova a circa 45 chilometri a sud di Làrissa che è il capoluogo della Tessaglia e alla quale, per localizzare Fàrsala, dovete fare riferimento consultando la guida della Grecia…
A Fàrsala – che probabilmente compare anche in qualche sito della rete – nella piazza principale ci sono i resti dell’agorà, sulla collina quelli dell’acropoli e a 3 chilometri verso est c’è la necropoli di Fàrsala, e lì l’esperienza più significativa è quella di fare una passeggiata nella pianura circostante dove è stata combattuta la celebre battaglia …
Fate una visita a Fàrsala, buon viaggio...
La seconda guerra civile non si conclude con la battaglia di Fàrsalo, durerà ancora qualche anno: le guerre sembra che debbano sempre durare poco tempo ma in realtà – come suggerisce lo storico Tucidide – “Una guerra si sa quando comincia ma è impresa velleitaria pronosticare il momento della fine”.
Pompeo, sconfitto a Fàrsalo, riesce a fuggire in Egitto ma lì viene ucciso a tradimento dal re Tolomeo Aulete che aveva anche ricevuto dei favori da Pompeo e che pensava di ingraziarsi Cesare, ma Cesare invece disapprova questo gesto con sdegno [l’uccisione di Pompeo è anche un bel pretesto per Cesare]. Cesare sbarca in Egitto e si ferma un anno, lì incontra una principessa – la figlia di Tolomeo Aulete – che si chiama Cleopatra e che sta contendendo il regno al giovane fratello Tolomeo: Cesare la favorisce e Cleopatra si siede sul trono dei Faraoni. L’incontro tra Cesare e Cleopatra ha dato spunto alla letteratura, al teatro, al cinema.
Intanto da Roma giunge a Cesare la notizia che, in Asia Minore, Farnace, figlio di Mitridate, è insorto e ha distrutto la guarnigione romana: Cesare conduce una campagna così fulminea che la annuncia al Senato con il famoso dispaccio: «Veni, vidi, vici». Frattanto i superstiti pompeiani si sono riorganizzati in Africa, appoggiati da Giuba, re della Mauritania, e pensano di attaccare l’Italia ma Cesare li precede, sbarca in Africa e li sbaraglia a Tapso, l’antica colonia fenicia di Taparura [oggi si chiama Sfax, in Tunisia].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Procuratevi in biblioteca una guida della Tunisia, e anche collegandovi alla rete: fate una visita a Sfax, buon viaggio...
Dobbiamo ricordare che tra i combattenti pompeiani c’era anche Marco Porcio Catone il Minore, pronipote di Catone il Censore, che era un fierissimo repubblicano e avversario di Cesare. Catone il Minore non vuole sopravvivere a quella che lui pensava fosse per Roma la “perdita della libertà” e si uccide a Utica [nel 46 a.C.], e da questo momento prende il soprannome, postumo, di Catone l’Uticense [ma questo personaggio, inviso a Cesare ma vicino a Cicerone, lo rincontreremo tra tre settimane]. Gli ultimi pompeiani, capeggiati dai figli di Pompeo Gneo e Sesto, fuggono in Spagna e nel 45 a.C. vengono sconfitti a Munda nella regione Betica. In questa battaglia muore anche Tito Labieno che era stato luogotenente di Cesare in Gallia ma, contrario al suo comportamento, si era schierato contro di lui. Con la battaglia di Munda ha termine la seconda guerra civile: ma le guerre non finiscono mai del tutto. Cesare diventa il padrone assoluto dello Stato romano e ci rendiamo conto di come diventi facile esaltare le imprese di questo personaggio.
La sesta tappa della carriera di Cesare corrisponde alla dittatura. Diventato padrone di Roma Cesare vara una serie d’importanti riforme: allarga a 900 membri il numero dei senatori inserendovi molti suoi ex ufficiali e molti provinciali [dalla Gallia, dalla Spagna] a lui fedeli; aumenta, a garanzia d’una migliore amministrazione dello Stato, il numero dei questori, degli edili e dei pretori; estende la cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina; favorisce le classi subalterne e, in particolare, i suoi soldati con assegnazioni di terre; modifica il calendario facendo adottare l’anno solare egiziano di 365 giorni con l’aggiunta di un giorno ogni quattro anni [l’anno bisestile]. Usando moderazione [o facendo finta di usarla] Cesare non infierisce contro i suoi avversari, evitando condanne e liste di proscrizione come precedentemente avevano fatto Mario e Silla: uno dei primi che Cesare perdona è Cicerone anche se sa [o proprio perché sa] che questa persona non è facilmente condizionabile. Cesare, con grande abilità, consolida il suo potere personale controllando personalmente la gestione di tutte le magistrature. Il Senato gli assegna ripetutamente il titolo di console [nel 46 e nel 45 a.C.], quello di “imperàtor” [questo appellativo comincia a circolare costantemente], comandante supremo dell’esercito, e, infine, la dittatura a vita nel 44 a.C.. Il fatto è che intorno a lui si forma una folla di adulatori e di profittatori che finisce per nuocere alla sua reputazione: viene onorato con statue, con una sorta di divinizzazione e il mese Quintile, nel quale è nato, viene ribatezzato Iulius [Luglio].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Che cosa avete fatto nel mese di Luglio dello scorso anno?...
Scrivere quattro righe in proposito, esercitate la memoria ...
Abbiamo così percorso – a grandi linee – le tradizionali sei tappe della carriera di Giulio Cesare: l’adesione alla politica nel partito democratico, il rapido “cursus honurum”, il primo triumvirato, il proconsolato in Gallia, la guerra civile e la dittatura a vita che lo porta a diventare il padrone assoluto dello Stato romano ma anche alla morte. La “morte di Cesare” – e in quanti modi artistici è stato rappresentato questo avvenimento che è teatrale già di per sé! – ha contribuito alla glorificazione di questo personaggio e anche all’esaltazione delle varie tappe del suo percorso di vita e della trafila della sua carriera.
Cesare rifiuta per ben tre volte il titolo di “rex”, offertogli da Marco Antonio, ma il suo assolutismo però non può piacere a chi – patrizi e cavalieri – vengono privati del potere, né può piacere ai veri repubblicani. Quindi – visto che le guerre non finiscono mai del tutto – è l’oligarchia senatoria che decide di fare la guerra a Cesare nel modo meno ortodosso organizzando la congiura guidata da Marco Giunio Bruto, che è quasi come un figlio per Cesare [«Anche tu, Bruto, figlio mio!» sono le ultime parole di Cesare] e da Gaio Cassio. La congiura viene messa in atto in Senato, il 15 marzo del 44 a.C. e Cesare, forse troppo sicuro di sé, cade – in modo plateale – trafitto dai colpi di pugnale dei congiurati rotolando ai piedi della statua di Pompeo mentre si copre il capo con la toga. Tra i congiurati ci sono sedici senatori che lo circondano e lo trafiggono quando Tullio Cimbro, dopo essersi inginocchiato davanti a lui per rivolgergli una supplica, prende i lembi della veste di Cesare con tutte e due le mani e gliela strappa di colpo scoprendogli le spalle e il collo. Eppure Cesare era stato messo in guardia dal suo servizio di sicurezza e poi sua moglie Calpurnia aveva fatto un sogno e certi sogni non vanno sottovalutati.
Questa affermazione ci permette, ora, di aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Anche Tat’jana Ivanovna, nell’ottavo e penultimo capitolo del romanzo Come le mosche d’autunno, sogna e il tema del sonno e del sogno ha la sua importanza nella Storia del Pensiero Umano.
Leggiamo questo capitolo:
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno
Ottobre passò e iniziarono le piogge di novembre. Da mattina a sera si sentivano gli scrosci d’acqua che rimbalzavano con fragore sul lastricato del cortile. Negli appartamenti l’aria era calda e pesante. La notte, quando si spegnevano i caloriferi, l’umidità esterna penetrava attraverso le crepe del pavimento. Un vento pungente soffiava da sotto i parafuoco di ferro posti davanti ai caminetti spenti.
Per ore intere, seduta davanti alla finestra nell’appartamento vuoto, Tat’jana Ivanovna guardava la pioggia cadere e le gocce pesanti scorrere sui vetri come un fiume di lacrime. Da una cucina all’altra, al di sopra delle piccole dispense tutte uguali e dei fili del bucato tesi fra due chiodi per farvi asciugare gli strofinacci, le domestiche si scambiavano frasi scherzose e lamentele in quella lingua veloce per lei incomprensibile. Verso le quattro i bambini tornavano da scuola. Si sentivano dei pianoforti suonare tutti insieme, e su ogni tavolo, nelle sale da pranzo, si accendevano lampade quasi identiche. Poi venivano tirate le tende alle finestre, e lei non sentiva più nient’altro che il ticchettio della pioggia e il rombo attutito proveniente dalla strada.
Come faceva tutta quella gente a vivere chiusa in quelle case tetre? Quando sarebbe arrivata la neve?
Novembre passò, e passarono anche le prime settimane di dicembre, di poco più fredde. La nebbia, l’umidità, le ultime foglie morte, calpestate, trascinate via dai rigagnoli … Arrivò Natale. Il 24 dicembre, dopo una cena leggera consumata in fretta su un angolo del tavolo, i Karin andarono a festeggiare in casa di amici. Tat’jana Ivanovna li aiutò a vestirsi. Quando la salutarono, al momento di uscire, lei ebbe un moto di gioia nel vederli vestiti come un tempo, e Nikolaj Aleksandrovič in frac. Guardò compiaciuta Loulou, il suo abito bianco, le lunghe trecce raccolte sulla nuca. «Coraggio, Lulička, stanotte con l’aiuto di Dio troverai un fidanzato».
Loulou alzò le spalle in silenzio, si lasciò abbracciare senza dir niente, e tutti uscirono. Andrej trascorreva le vacanze di Natale a Parigi. Indossava la casacca, i calzoncini blu e il berretto del liceo che frequentava a Nizza. Sembrava più alto e più robusto; aveva un modo svelto e vivace di infilare le parole, e l’accento, i gesti, il gergo di un ragazzo nato e cresciuto in Francia. Quella era la prima volta che andava fuori di sera, insieme ai genitori. Rideva e canticchiava. Tat’jana Ivanovna si sporse dalla finestra e lo seguì con lo sguardo mentre camminava davanti agli altri; superando le pozzanghere con un salto. Il portone si era richiuso con un colpo sordo. Tat’jana Ivanovna rimase sola ancora una volta. Sospirò. Il vento, tiepido nonostante la stagione, le soffiava sul viso minuscole goccioline di pioggia. Alzò la testa e istintivamente guardò il cielo. Si scorgeva appena, fra i tetti, uno spazio buio di uno strano colore rossastro, come arroventato da un fuoco interiore. Nella casa, a piani diversi, dei grammofoni suonavano musiche discordanti.
Tat’jana Ivanovna mormorò: «Da noi…» e si interruppe. A che scopo ricordare? Era tutto finito da così tanto tempo… Finito, morto…
Chiuse la finestra e rientrò nell’appartamento. Di nuovo alzò la testa, inspirò l’aria con un certo sforzo e un’espressione inquieta e irritata. Quei soffitti bassi la soffocavano. Karinovka … La grande casa con le finestre immense da cui l’aria e la luce entravano a fiotti, le terrazze, i salotti, le gallerie che nelle sere di festa potevano ospitare comodamente cinquanta orchestrali. Si ricordava la notte di Natale in cui erano partiti Kirill e Jurij … Aveva l’impressione di sentire ancora il valzer che suonavano quella notte … Erano passati quattro anni … Le pareva di vedere le colonne scintillanti di ghiaccio al chiaro di luna.
«Se non fossi così vecchia,» pensò «mi metterei in viaggio… Ma non sarebbe la stessa cosa… No, no,» borbottò confusa «non sarebbe la stessa cosa…».
La neve … Il giorno in cui l’avrebbe vista cadere, sarebbe finito tutto… Avrebbe dimenticato. Si sarebbe messa a letto e avrebbe chiuso gli occhi per sempre.
«Ma vivrò fino ad allora?» mormorò.
Con gesti da automa raccattò gli abiti abbandonati sulle sedie, li piegò. Da un po’ di tempo le sembrava di vedere dappertutto una polverina fine che cadeva dal soffitto e ricopriva gli oggetti con una patina uniforme. Era cominciato in autunno, quando le giornate diventavano sempre più corte, e in casa si aspettava ad accendere la luce per non consumare troppa elettricità. Lei spolverava e scuoteva di continuo le stoffe degli arredi; la polvere si sollevava, ma poi ricadeva subito altrove, come cenere lieve.
Tirò su gli abiti, li spazzolò, borbottando con aria inebetita e sofferente: «Che cosa succede? Ma insomma, che cosa succede?».
Di colpo si fermò, si guardò intorno. A tratti non capiva più perché fosse lì, ad aggirarsi in quelle stanze anguste. Si portò le mani al petto, sospirò. L’aria era calda e pesante; i caloriferi, eccezionalmente ancora accesi in quella notte di festa, diffondevano un odore di vernice fresca. Decise di spegnerli, ma non aveva mai capito come si dovesse fare. Girò invano la manopola per qualche minuto, poi rinunciò. Aprì di nuovo la finestra. L’appartamento sul lato opposto del cortile era illuminato e proiettava nella stanza un rettangolo di vivida luce.
«Da noi,» pensava «da noi, adesso…».
La foresta era gelata. Chiuse gli occhi e rivide con straordinaria precisione la neve alta, i fuochi del villaggio che brillavano in lontananza e il fiume, al limitare del parco, duro e scintillante come ferro.
Rimase immobile, rannicchiata contro la finestra, e con il gesto che le era abituale si rialzò lo scialle sulle ciocche scomposte dei capelli. Cadeva una pioggerella rada e tiepida; le gocce luccicanti, sospinte da improvvise folate di vento, le bagnavano il viso. Rabbrividì, si strinse ancora di più addosso il vecchio scialle nero. Le ronzavano le orecchie, a tratti sembravano colpite da un rumore violento, come quello del batacchio di una campana. Le doleva la testa, tutto il corpo le faceva male.
Uscì dal salotto ed entrò nella sua stanzetta in fondo al corridoio.
Prima di mettersi a letto si inginocchiò per dire le preghiere. Come ogni sera, si fece il segno della croce, poi chinò la fronte fino a toccare il pavimento. Ma questa volta le parole le si ingarbugliarono sulle labbra; si fermò, fissando con una sorta di stupore la vivida fiammella ai piedi dell’icona.
Si mise a letto, chiuse gli occhi. Non riusciva ad addormentarsi, ascoltava suo malgrado gli scricchiolii dei mobili, il rumore del pendolo nella sala da pranzo, quasi un sospiro umano che precedeva il battere delle ore nel silenzio; e, sopra e sotto di lei, i grammofoni, tutti accesi in quella sera di vigilia. C’era gente che saliva le scale, altra che scendeva, attraversava il cortile, usciva. Si sentiva continuamente gridare: «Il portone, per favore!», poi il rumore sordo del portone aperto e richiuso e dei passi che si allontanavano nella strada deserta. I taxi passavano veloci. Una voce roca chiamava il portinaio in cortile.
Tat’jana Ivanovna girò sospirando sul cuscino la testa pesante. Sentì suonare le undici, poi mezzanotte. Si addormentò e si svegliò a più riprese. Nell’attimo in cui perdeva coscienza vedeva ogni volta in sogno la casa di Karinovka, ma l’immagine svaniva, e lei richiudeva subito gli occhi per afferrarla di nuovo. Mancava sempre un dettaglio. Un momento, il giallo delicato della pietra si mutava in rosso come di sangue rappreso; quello dopo, la casa era cieca, murata, senza più finestre. Eppure sentiva il flebile fruscio dei rami d’abete gelati mossi dal vento, quel loro lieve rumore di vetro.
A un tratto il sogno mutò. Si vide ferma davanti alla casa aperta, vuota. Era un giorno d’autunno, all’ora in cui i domestici andavano a riaccendere le stufe. Adesso era al pianterreno, in piedi, sola. Nel sogno vedeva la casa deserta, le stanze spoglie come le aveva lasciate, con i tappeti arrotolati lungo le pareti. Saliva, e tutte le porte sbattevano, per via della corrente, con un suono strano, simile a un gemito. Camminava in fretta, come se temesse di arrivare in ritardo. Vedeva l’infilata di stanze immense, tutte aperte, vuote, pezzi di carta da imballaggio e vecchi giornali che rotolavano per terra, sollevati dal vento.
Alla fine entrò nella camera dei bambini. Era vuota come le altre, scomparso anche il lettino di Andrej, e nel sogno provò una certa meraviglia: ricordava di averlo sistemato lei stessa in un angolo della stanza e di aver arrotolato i materassi. Seduto a terra davanti alla finestra, Jurij, pallido e smagrito, in divisa da soldato come l’ultimo giorno, giocava con dei vecchi astragali, come faceva da bambino. Lei sapeva che era morto, e tuttavia provò, nel vederlo, una gioia così straordinaria che il suo vecchio cuore esausto cominciò a battere con una violenza quasi dolorosa; i colpi sordi e profondi le martellavano il petto. Ebbe ancora il tempo di vedere se stessa precipitarsi verso di lui sul parquet polveroso, che scricchiolava sotto i suoi passi come una volta, e nell’attimo in cui stava per toccarlo, si svegliò.
Era tardi. Si stava facendo giorno. …
I congiurati delle Idi di marzo del 44 a.C. [2058 anni fa] non hanno un piano prestabilito e rimangono disorientati dopo l’uccisione di Cesare: gridano invano che la libertà è salva, proclamano che il tiranno è caduto ma non hanno da proporre un programma di governo. Il popolo è stato ridotto nelle condizioni di una marionetta e senza un burattinaio che lo blandisca non si muove, e neppure si muovono i cesariani presi dallo sgomento perché Cesare aveva fatto testamento – manifestando tutto il suo populismo e la sua demagogia – ma non aveva designato un successore. In questa situazione emerge un personaggio astuto e ambizioso: Marco Antonio.
Marco Antonio è stato un valoroso ufficiale delle legioni di Cesare, è stato già anche console designato da Cesare e pensa di poter ereditare il potere di Cesare. Anche Marco Antonio – come tutte le persone che ruotano intorno a Giulio Cesare – è diventato un personaggio letterario, una figura che è entrata a far parte del mondo della Cultura.
Questa affermazione fa emergere dal vasto paesaggio intellettuale che stiamo osservando l’immagine di un classico: William Shakespeare. William Shakespeare ha scritto e ha messo in scena una serie di drammi di argomento classico scritti in epoca diversa. I principali sono tre, ricavati dalle Vite parallele di Plutarco [un’opera che incontriamo spesso sui nostri percorsi], e, quindi, dobbiamo dire che anche William Shakespeare pesca, a piene mani, nel territorio della “sapienza poetica ellenistica”. I tre drammi shakespeariani tratti dalle Vite parallele di Plutarco sono: il dramma Coriolano [di incerta datazione, sicuramente entro il 1609], che racconta le vicende del valoroso e arrogante condottiero dell’antica repubblica romana, il dramma Antonio e Cleopatra [1606-1608] che si incentra sull’amore e la rovina di questi due personaggi dopo la sconfitta di Azio [nel 31 a.C.] inflitta loro da Ottaviano, e il dramma Giulio Cesare [1598-99] che mette in scena la morte del dittatore e la fine dei congiurati Bruto e Cassio, sconfitti a Filippi [nel 42 a.C.] da Antonio e Ottaviano.
Vogliamo puntare l’attenzione su questo dramma, il Giulio Cesare di William Shakespeare – molto brevemente perché a noi, in questo momento, interessa solo un frammento –, il quale viene spesso messo in cartellone dai teatri e quindi c’è la possibilità di poter assistere ad una sua rappresentazione; inoltre questo testo shakespeariano ha ispirato, e per questo viene citato, la creazione di altri lavori artistici: figurativi, teatrali, musicali, cinematografici [è di questi giorni l’uscita del film dei fratelli Taviani intitolato Cesare deve morire, vincitore dell’Orso d’oro alla Mostra del Cinema si Berlino].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Richiedete in biblioteca – è facile trovarlo anche nelle biblioteche domestiche – il testo del dramma Giulio Cesare di William Shakespeare e leggetelo: per leggere un testo teatrale è sufficiente un’ora di tempo…
Del Giulio Cesare di William Shakespeare è molto famosa “l’orazione funebre che fa Antonio sul cadavere di Cesare”: è un vero capolavoro di astuzia politica e di demagogia perché Antonio finge di rendere omaggio alla scelta dei congiurati con un continuo ritornello – “Bruto è un uomo d’onore” –, che progressivamente però viene contraddetto dal racconto della magnanimità e della bontà di Cesare, benefattore dei cittadini con la sua eredità. Il popolo, abilmente manipolato da questo discorso, comincia a manifestare insofferenza al ritornello sull’onore di Bruto e gli si scatena contro, secondo l’abile piano oratorio di Antonio.
William Shakespeare denuncia una situazione: quando le Istituzioni repubblicane vengono meno, e i poteri di controllo non esistono più, prendono piede la demagogia e il populismo, e allora sono i più ambiziosi e i più scaltri a prevalere a scapito del bene comune.
Leggiamo la famosa “orazione funebre di Antonio sul cadavere di Cesare”.
LEGERE MULTUM….
William Shakespeare, Giulio Cesare Atto III, Scena II
[Si trovano già sulla scena una folla di cittadini, Bruto, Cassio, Antonio e il cadavere di Cesare]
PRIMO CITTADINO Fermi, oh! Ascoltiamo Marc’Antonio.
TERZO CITTADINO Che salga in cattedra; lo ascolteremo. Nobile Antonio, sali.
ANTONIO Per l’amore di Bruto, sono obbligato a parlare.
QUARTO CITTADINO Che dice egli di Bruto?
TERZO CITTADINO Egli dice che per amore di Bruto si sente obbligato a prendere la parola.
QUARTO CITTADINO Sarà bene che egli non sparli di Bruto qui.
PRIMO CITTADINO Questo Cesare era un tiranno.
TERZO CITTADINO Davvero, questo è certo: siamo fortunati che Roma se ne sia liberata.
SECONDO CITTADINO Silenzio! Ascoltiamo ciò che Antonio può dire.
ANTONIO O voi gentili Romani …
CITTADINI Silenzio, oh! Ascoltiamolo.
ANTONIO Amici, Romani, compatrioti, ascoltatemi; io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro, il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cesare. Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare fu ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cesare ne ha pagato le conseguenze. Qui, col permesso di Bruto e degli altri – ché Bruto è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore – io vengo a parlare al funerale di Cesare. Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma Bruto dice che fu ambizioso; e Bruto è un uomo d’onore. Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito le casse dello Stato: sembrò questo atto ambizioso in Cesare? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa: eppure Bruto dice ch’egli fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Tutti vedeste come al Lupereale tre volte gli presentai una corona di re ch’egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione? Eppure Bruto dice ch’egli fu ambizioso; e Bruto è davvero un uomo d’onore. Non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse, ma qui io sono per dire ciò che io so. Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la loro ragione. Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cesare e debbo tacere finché non ritorni a me.
PRIMO CITTADINO Mi pare che vi sia molta ragione nelle sue parole.
SECONDO CITTADINO Se tu consideri bene la cosa, a Cesare è stato fatto gran torto.
TERZO CITTADINO Vi sembra, signori? Temo che uno peggiore di lui verrà al suo posto.
QUARTO CITTADINO Avete notato le sue parole? Non volle accettare la corona: è quindi certo che non era ambizioso.
PRIMO CITTADINO Se si troverà che è così qualcuno la pagherà ben cara.
SECONDO CITTADINO Pover’anima! I suoi occhi sono rossi come il fuoco dal piangere.
TERZO CITTADINO Non v’è uomo a Roma più nobile di Antonio.
QUARTO CITTADINO Ora, osservatelo, ricomincia a parlare.
ANTONIO Pur ieri la parola di Cesare avrebbe potuto opporsi al mondo intero: ora egli giace là, e non v’è alcuno, per quanto basso, che gli renda onore. Signori miei, se io fossi disposto ad eccitare il vostro cuore e la vostra mente alla ribellione ed al furore, farei un torto a Bruto e un torto a Cassio, i quali, lo sapete tutti, sono uomini d’onore: non voglio far loro torto: preferisco piuttosto far torto al defunto, far torto a me stesso e a voi, che far torto a sì onorata gente. Ma qui c’è una pergamena col sigillo di Cesare – l’ho trovata nel suo studio – è il suo testamento: che i popolani odano soltanto questo testamento, che, perdonatemi, io non ho intenzione di leggere, e andrebbero a baciare le ferite del morto Cesare, ed immergerebbero i loro lini nel sacro sangue di lui; anzi, chiederebbero un suo capello per ricordo, e morendo, ne farebbero menzione nel loro testamento, lasciandolo, come bene prezioso, ai loro figli.
PRIMO CITTADINO Vogliamo sapere che cosa c’è scritto nel testamento: leggetelo, Marc’Antonio.
CITTADINI Il testamento, il testamento! Vogliamo sapere che cosa contiene il testamento di Cesare!
ANTONIO Pazienza, gentili amici, non debbo leggerlo; non è bene che voi sappiate quanto Cesare vi ha amato. Non siete di legno, non siete di pietra, ma esseri umani, e essendo umani e udendo il testamento di Cesare, esso v’infiammerebbe, vi farebbe impazzire: è bene non sappiate che siete i suoi eredi; perché, se lo sapeste, oh, tutto avrebbe un seguito!
QUARTO CITTADINO Leggete il testamento; vogliamo conoscerlo, Antonio; dovete leggerci il testamento, il testamento di Cesare.
ANTONIO Volete pazientare? Volete attendere un poco? Ho sorpassato il segno nel parlarvene. Temo di far torto agli uomini d’onore i cui pugnali hanno trafitto Cesare; davvero, è questo che temo.
QUARTO CITTADINO Erano traditori: che uomini d’onore!
CITTADINI Il testamento! Il testamento!
SECONDO CITTADINO Erano canaglie, assassini: il testamento! Leggete il testamento!
ANTONIO M’obbligate dunque a leggere il testamento? E allora fate cerchio attorno al corpo di Cesare, e lasciate che io vi mostri colui che fece il testamento. Debbo scendere? E me lo permettete?
CITTADINI Venite giù!
SECONDO CITTADINO Scendete.
TERZO CITTADINO Avrete il permesso. [Antonio scende]
QUARTO CITTADINO In cerchio; state intorno.
PRIMO CITTADINO Lontani dalla bara; lontani dal corpo.
SECONDO CITTADINO Fate posto ad Antonio, al nobilissimo Antonio.
ANTONIO No, non vi affollate intorno a me; state lontani.
CITTADINI State indietro! Posto! Andate indietro!
ANTONIO Se avete lacrime, preparatevi a spargerle adesso. Tutti conoscete questo mantello: io ricordo la prima volta che Cesare lo indossò; era una serata estiva, nella sua tenda, il giorno in cui sconfisse i Nervii: guardate, qui il pugnale di Cassio l’ha trapassato: mirate lo strappo che Casca nel suo odio vi ha fatto: attraverso questo il ben amato Bruto l’ha trafitto; e quando tirò fuori il maledetto acciaio, guardate come il sangue di Cesare lo seguì, quasi si precipitasse fuori di casa per assicurarsi se fosse o no Bruto che così rudemente bussava; perché Bruto, come sapete, era l’angelo di Cesare: giudicate, o dèi, quanto caramente Cesare lo amava! Questo fu il più crudele colpo di tutti, perché quando il nobile Cesare lo vide che feriva, l’ingratitudine, più forte delle braccia dei traditori, completamente lo sopraffece: allora si spezzò il suo gran cuore; e, nascondendo il volto nel mantello, proprio alla base della statua di Pompeo, che tutto il tempio s’irrorava di sangue, il gran Cesare cadde. Oh, qual caduta fu quella, miei compatrioti! Allora io e voi, e tutti noi cademmo, mentre il sanguinoso tradimento trionfava sopra di noi. Oh, ora voi piangete; e, m’accorgo, voi sentite il morso della pietà: queste sono generose gocce. Anime gentili, come? piangete quando non vedete ferita che la veste di Cesare? Guardate qui, eccolo lui stesso, straziato come vedete, dai traditori.
PRIMO CITTADINO O pietoso spettacolo!
SECONDO CITTADINO O nobile Cesare!
TERZO CITTADINO O infausto giorno!
QUARTO CITTADINO O traditori! Canaglie!
PRIMO CITTADINO O vista cruenta!
SECONDO CITTADINO Vogliamo essere vendicati.
CITTADINI Vendetta! – Attorno! – Cercate! – Bruciate! – Incendiate! – Uccidete! – Trucidate! Non lasciate vivo un solo traditore!
ANTONIO Fermi, compatrioti!
PRIMO CITTADINO Silenzio, fermi! Ascoltate il nobile Antonio.
SECONDO CITTADINO Lo ascolteremo, lo seguiremo, moriremo con lui!
ANTONIO Buoni amici, dolci amici, che io non vi sproni a così subitanea ondata di ribellione. Coloro che hanno commesso queste azioni sono uomini d’onore; quali private cause di rancore essi abbiano, ahimè, io ignoro, che li hanno indotti a commetterle; essi sono saggi ed uomini d’onore, e, senza dubbio, con ragioni vi risponderanno. Non vengo, amici, a rapirvi il cuore. Non sono un oratore com’è Bruto; bensì, quale tutti mi conoscete, un uomo semplice e franco, che ama il suo amico; e ciò ben sanno coloro che mi han dato il permesso di parlare in pubblico di lui: perché io non ho né l’ingegno, né la facondia, né l’abilità, né il gesto, né l’accento, né la potenza di parola per scaldare il sangue degli uomini: io non parlo che alla buona; vi dico ciò che voi stessi sapete; vi mostro le ferite del dolce Cesare, povere, povere bocche mute, e chiedo loro di parlare per me: ma fossi io Bruto, e Bruto Antonio, allora vi sarebbe un Antonio che sommoverebbe gli animi vostri e porrebbe una lingua in ogni ferita di Cesare, così da spingere le pietre di Roma a insorgere e ribellarsi.
CITTADINI Ci ribelleremo.
PRIMO CITTADINO Bruceremo la casa di Bruto!
SECONDO CITTADINO Via dunque! Venite, si cerchino i cospiratori!
ANTONIO Ascoltatemi ancora, compatrioti; ancora uditemi parlare.
CITTADINI Silenzio, oh! Ascoltate Antonio, il nobilissimo Antonio.
ANTONIO Amici, voi andate a fare non sapete che cosa. Perché Cesare ha così meritato il vostro amore? Ahimè, non lo sapete – debbo dirvelo allora – avete dimenticato il testamento di cui vi parlavo.
CITTADINI Verissimo, il testamento: restiamo al ascoltare il testamento.
ANTONIO Ecco il testamento, e col sigillo di Cesare: ad ogni cittadino romano egli dà, ad ognuno individualmente, settantacinque dracme.
SECONDO CITTADINO Nobilissimo Cesare! Vendicheremo la sua morte.
TERZO CITTADINO O regale Cesare!
ANTONIO Ascoltatemi con pazienza.
CITTADINI Zitti, oh!
ANTONIO Inoltre, egli vi ha lasciato tutti i suoi luoghi di passeggio, le sue private pergole e gli orti nuovamente piantati, al di qua del Tevere; egli li ha lasciati a voi ed ai vostri eredi per sempre: pubblici luoghi di piacere, per passeggiare e per divertirvi. Questo era un Cesare! Quando ne verrà un altro simile?
PRIMO CITTADINO Giammai, giammai! Venite, via, via! Bruceremo il suo corpo nel luogo santo, e con i tizzoni incendieremo le case dei traditori. Raccogliete il corpo.
SECONDO CITTADINO Andate a prendere il fuoco.
TERZO CITTADINO Abbattete le panche.
QUARTO CITTADINO Abbattete i sedili, le finestre, ogni cosa. [Escono i cittadini col corpo]
ANTONIO Ed ora, che lavori da sé. Malanno, tu sei scatenato, prendi tu il corso che vuoi. …
Il programma politico di Cesare che si protende nel suo demagogico testamento, basato su elargizioni una tantum al popolo per rendersi simpatico, non era certo in grado di contrastare la crisi economica che ormai aveva cominciato a minare lo Stato romano e che sarà la causa principale della sua rovina.
È proprio vero quello che fa dire Shakespeare a Marco Antonio nel momento in cui lui vorrebbe servirsi del “malanno” che ha scatenato – lui ha creato l’infezione per poi poterla curare – ma il “malanno” prende davvero un corso autonomo e va a colpire lo stesso Antonio perché compare sulla scena un giovane, il nipote e figlio adottivo di Cesare, uno studente che si trovava ad Atene a studiare: si chiama Caio Ottaviano, ha 19 anni, è intelligente, è colto, il Senato non lo teme ed è proprio Cicerone, il quale non stima Marco Antonio, a ricordare ai senatori che Ottaviano va tenuto in considerazione, e il popolo è curioso di vedere questo ragazzo che viene chiamato a Roma perché a lui spetta la sua parte di eredità in quanto parente di Cesare. Ottaviano arriva a Roma presentandosi come un agnellino in modo da attirare intorno a sé la massima simpatia e la massima fiducia, ma quando capisce di essere diventato ufficialmente il rappresentante del partito contrario ad Antonio e che più della metà dei senatori si schierano con lui, allora tira fuori le sue unghie da lupo e rivendica non solo la sua parte di eredità ma anche tutta la potenza che aveva acquisito Cesare e del quale era in corso il processo di divinizzazione. Questa però è un’altra storia che prevede un secondo Triunvirato e una terza guerra civile: è un’altra storia che si trova nel paesaggio intellettuale successivo a questo, un paesaggio del quale conosciamo già molti aspetti.
La cosiddetta “età di Cesare”, il I secolo a.C., è un periodo storico molto travagliato tuttavia – forse anche per reazione – è anche fecondo dal punto di vista culturale tanto che le studiose e gli studiosi di filologia lo considerano il “periodo classico” della Letteratura latina e per noi che siamo in viaggio in funzione della didattica della lettura e della scrittura questo fatto è significativo.
Giulio Cesare è stato anche uno scrittore e ci sono giunte, complete, due opere intitolate: Commentarii de bello gallico [La guerra gallica] e Commentarii de bello civili [La guerra civile] e poi un Epigramma in sei versi sul commediografo Terenzio. Mentre delle numerose Epistulae [le Lettere] di Cesare, riunite e pubblicate dopo la sua morte, ne rimangono solo sette contenute nell’Epistolario di Cicerone. Rari sono anche i frammenti di un trattato grammaticale sui problemi della lingua e dello stile intitolato De analogia [Sulla analogia] scritto durante la campagna di Gallia [nel 54 a.C.] e dedicato a Cicerone in cui Cesare sostiene – secondo gli insegnamenti che ha ricevuto alla Scuola di Rodi di Apollonio Molone – la necessità di scrivere con semplicità e con chiarezza. Sono andate perdute tutte le altre opere letterarie di Cesare: Anticato [Anticatone] del 45 a.C., in cui Cesare critica la figura di Catone l’Uticense che Cicerone, invece, aveva celebrato come ultimo “eroe della libertà” e al quale Cesare contesta gli atteggiamenti e soprattutto la scelta etica del suicidio. Tra le opere di Cesare andate perdute c’è un poemetto in versi intitolato Iter [Il viaggio], del 46 a.C., che aveva per tema il viaggio di Cesare da Roma alla Spagna contro i pompeiani e poi le giovanili Laudes Herculis [Lodi di Ercole] e la tragedia Oedipus [Edipo] e infine il De Astris [Le stelle] che doveva essere un trattato di astronomia, forse legato alla riforma del calendario. Dobbiamo ricordare che sul testo due celebri Commentarii [il De bello gallico e il De bello civili], una volta [prima del 1962], tutte le scolarette e gli scolaretti di prima media si dovevano esercitare.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete fatto, a scuola, l’esperienza di tradurre i testi di Giulio Cesare?... Scrivete quattro righe in proposito anche se questa esperienza vi è mancata, di certo non vi è mancata la possibilità di conoscere il personaggio letterario di Asterix: come lo avete conosciuto? ...
Il termine “commentarii” significava propriamente “appunti, promemoria” e indica un genere minore di narrazione, intesa come nuda registrazione di notizie personali e di dati destinati a essere rielaborati da altri nella forma più completa e artistica, propria del genere storiografico. Cesare è consapevole di avere scritto non solo degli appunti ma delle opere di un certo valore letterario – alla Scuola di Rodi Cesare ha imparato bene a scrivere, in modo chiaro, sintetico, senza fronzoli – e, forse, le ha intitolate Commentarii per falsa modestia. D’altra parte con il titolo di “Commentarii” vuole sottolineare il suo atteggiamento di storico che racconta e interpreta solo le vicende a cui lui ha partecipato, senza sovrabbondanze ed espedienti retorici per renderle più attraenti. Cicerone stesso, che pur non aveva simpatia per Cesare, ne loda l’ineguagliabile semplicità e leggibilità. Sta di fatto che nei Commentarii il protagonista assoluto è sempre lui anche se afferma di voler mantenere uno sguardo lucido sulle vicende esposte: l’uso stesso della narrazione in terza persona [secondo l’esempio dello storico greco Senofonte nell’Anabasi] sembra un segno della convinzione di voler trattare la materia in modo obiettivo, ma c’è chi dice che sia un ulteriore prova di egocentrismo.
Più che la funzione storica è chiara la funzione politica e apologetica dei due Commentarii nei quali Cesare sente sempre la necessità di giustificare la sua opera. Nel De bello gallico presenta la guerra e la conquista di tutta la Gallia come atto necessario alla difesa del territorio romano minacciato dai nemici esterni, in realtà quei popoli non avevano nessuna intenzione di inimicarsi con Roma: è Cesare che vuole conquistare un territorio nel quale essere il “primo”. Nel De bello civili addossa agli avversari la responsabilità di aver scatenato la guerra per cupidigia e per ambizione ma in quanto a cupidigia e ambizione lui non è da meno. Per queste ragioni Cesare quando racconta effettua dei tagli particolari nella presentazione di una serie di episodi e àltera spesso la cronologia degli eventi. L’esempio più eclatante è quello della cattura del re degli Alverni Vercingetorige, l’eroe nazionale dei popoli gallici, il quale si sacrifica per evitare danni maggiori alla sua gente: Cesare non racconta che questo personaggio è esemplare e che lui, ad Alesia, lo ha preso prigioniero con l’inganno. Cesare nel contenuto dei Commentarii falsifica spesso la realtà a suo vantaggio.
Per quanto riguarda la forma Cesare usa una lingua nitida ed espressiva, scrive in modo elegante ed essenziale rifiutando gli abbellimenti retorici. Nei Commentarii non vi sono analisi psicologiche particolari, né discorsi, né racconti pittoreschi: Cesare è capace di tenere vivo l’interesse di chi legge con l’esposizione nuda e cruda delle vicende raccontate con una certa efficacia drammatica.
La lettura dei Commentarii [De bello gallico e De bello civili], oggi, risulta piuttosto noiosa: perché, tuttavia, sono importanti queste due opere? Sono importanti per l’antropologia, per la geografia, per l’etnologia. I Commentarii sono stati di grande utilità per le molte notizie che vi si trovano sugli usi militari dei Romani, sulle loro opere di ingegneria come le costruzioni dei ponti, delle navi e delle fortificazioni; poi molto utile è la presentazione delle caratteristiche geografiche delle regioni e degli aspetti etnici delle diverse popolazioni dell’Europa nord occidentale. Cesare ha fatto esistere i Galli, i Germani, i Britanni [con i loro usi e costumi] e – sebbene come subalterni – li ha fatti entrare nella Storia: non immaginava certamente, nel suo egocentrismo, che qualche secolo dopo queste popolazioni avrebbero preso il sopravvento e – influenzate dalla cultura latina – avrebbero anche contribuito a conservare la civiltà romana in Europa [comprese le opere di Cesare].
L’età di Cesare è un momento assai tormentato dal punto di vista politico che porta alla fine dell’Antica Repubblica romana, tuttavia quest’età è anche quella che vede fiorire il cosiddetto “periodo classico” della Letteratura latina e questo periodo ha inizio, come sappiamo, con l’esperienza dei “neòteroi”, i “poeti nuovi”, i quali si distinguono per il loro anticonformismo letterario e per aver creato una lirica soggettiva che dà voce ai sentimenti dell’autore: la Letteratura latina – sulla scia della lirica alessandrina – scopre il concetto di “intimità” e il ruolo che hanno le donne in relazione a questo concetto. Ed è significativo poterlo dire oggi in occasione dell’8 marzo, della “Giornata internazionale della donna lavoratrice”, e aggiungerei “della donna studiosa”.
Chi sono i “neòteroi” [termine inventato sarcasticamente da Cicerone], i “poeti nuovi” e in che cosa consiste la loro opera? E, soprattutto, quali sono le caratteristiche del cosiddetto “periodo classico” della Letteratura latina?
Per rispondere a queste domande bisogna seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente. Perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come l’intimità] e l’Apprendimento permanente [direbbe Cesare] è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui. Accorrete numerose e numerosi pensando che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme.
Il viaggio continua…