Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale 21-22-23 marzo 2012
NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE
C’È L’ECLETTISMO DELLA SCUOLA FILOSOFICA ROMANA ...
Stiamo attraversando il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e ci troviamo davanti ad un vasto paesaggio intellettuale che raccoglie l’eredità storica, politica e culturale di quella che è stata chiamata “l’età di Cesare” e che, cronologicamente, corrisponde al I secolo a.C..
Sappiamo che Giulio Cesare è stato, fin da giovanissimo, un uomo di grandissime ambizioni che vuole primeggiare e che non esita, in campo militare e politico, a farsi largo con grande abilità ma anche con il cinismo e con la ferocia necessaria. Cesare per la sua ascesa politica spende somme enormi, servendosi anche del suo figlioccio Bruto che pratica l’usura, Cesare capisce che per ottenere il pubblico potere, i consolati e il comando degli eserciti bisogna “ungere le ruote [pagare tangenti]” e, quindi, utilizza con abilità questo metodo [fortemente inviso a Cicerone] facendolo diventare una prassi normale. Sappiamo che Giulio Cesare nella sua vita ha sempre sentito la necessità di studiare, di leggere, di scrivere, di tenere gli occhi aperti sul mondo della cultura sebbene anche questo fatto sia legato alla sua voglia di essere solo al comando: anche come scrittore Cesare avrebbe voluto essere il primo.
Il rapporto tra Giulio Cesare e la cultura è inficiato da un fatto emblematico – un po’ misterioso – di cui però, molto probabilmente, non è responsabile: stiamo parlando dell’incendio che avrebbe distrutto la più grande biblioteca del mondo antico, la Biblioteca di Alessandria. Abbiamo detto la scorsa settimana che avremmo accennato a questo fatto e in un viaggio come il nostro – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – non si può non parlarne.
Al termine della seconda guerra civile [e abbiamo studiato questo avvenimento] Pompeo viene sconfitto a Fàrsalo, in Tessaglia, da Cesare e riesce a fuggire in Egitto ma lì viene ucciso a tradimento dal re Tolomeo Aulete il quale pensava di ingraziarsi Cesare, ma Cesare invece disapprova questo gesto con sdegno e decide di fargliela pagare [per Cesare è anche il pretesto per andare alla conquista dell’Egitto]. Cesare sbarca in Egitto nel 48 a.C. e lì incontra una principessa – la figlia di Tolomeo Aulete – che si chiama Cleopatra e che sta contendendo il regno al giovane fratello Tolomeo: Cesare favorisce Cleopatra ed ella si siede sul trono dei Faraoni. Plutarco di Cheronea nelle Vite parallele ci racconta in che modo – molto spregiudicato – la giovane e seducente Cleopatra abborda il già maturo Cesare e, fra poco, lo sentiremo raccontare questo episodio attraverso un intreccio filologico.
È proprio durante la guerra, combattuta ad Alessandria tra Cesare e Tolomeo Aulete [la guerra scoppia perché Tolomeo Aulete vorrebbe far fuori Cesare così come ha fatto fuori Pompeo, ma Cesare non si fa sorprendere perché anche lui ha già deciso di far fuori Tolomeo], che, sembra, sia andata in fiamme la celeberrima Biblioteca ma, probabilmente, si è trattato di un’apparenza. Che cosa significa? Adesso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, questa storia – del presunto incendio della Biblioteca di Alessandria per colpa di Cesare – ce la facciamo raccontare da un libro, pubblicato nel 1986, scritto da Luciano Canfora e intitolato La biblioteca scomparsa che la maggior parte di voi conosce [molte e molti di voi lo hanno letto] perché lo abbiamo utilizzato in questi due ultimi viaggi [ne abbiamo letto, strada facendo, un certo numero di capitoli] per fare chiarezza su alcuni temi riguardanti la cultura ellenistico-alessandrina. La lettura di questo testo non è semplice e va affrontata con cautela: si tratta di un saggio scritto sotto forma di romanzo e prevede la paziente consultazione delle note che spiegano molti e interessanti riferimenti culturali, ma non tutti. Soprattutto questo testo va letto – così come stiamo facendo – nell’ambito di un Percorso di alfabetizzazione culturale in funzione del chiarimento, della comprensione di determinati argomenti.
Leggiamo due pagine da La biblioteca scomparsa di Luciano Canfora a proposito del tema che stiamo trattando, due pagine in cui l’autore cita [le citazioni sono tra virgolette] e utilizza le fonti: Plutarco, Lucano, Dione Cassio, Orosio, Livio, Strabone, Aftonio.
LEGERE MULTUM….
Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa
Sul far della notte una piccola imbarcazione si era accostata alla reggia, inosservata. Poco dopo un uomo, all’apparenza un mercante di tappeti, aveva chiesto di essere condotto al cospetto di Cesare. Si chiamava Apollodoro, disse, e veniva dalla Sicilia. Una volta ammesso, srotolò il suo fagotto sotto gli occhi divertiti del generale romano. Ne emerse, sdraiata in tutta la sua non eccessiva lunghezza, Cleopatra, che aveva appunto indossato, per mimetizzarsi, un sacco di lino, di quelli usati per trasportare tappeti. Quando il sacco si aprì, narra Plutarco, Cesare rimase affascinato «dalla sfrontatezza della donna», la quale infatti, senza imbarazzo, intrecciò con lui, in greco, una conversazione charmante [questo termine deriva dalla parola “carmen”].
… continua la lettira …
Quindi, a quanto pare, è una maldicenza quella che vorrebbe Giulio Cesare responsabile dell’incendio della Biblioteca di Alessandria: probabilmente in quella guerra bruciarono rotoli da esportazione contenuti nei magazzini del porto. Tuttavia l’episodio si è prestato per fare da corollario all’ironia sulla figura di Cesare e sul suo rapporto con Cleopatra: un argomento che ha spesso trovato posto nella Letteratura moderna e contemporanea. Facciamo un esempio citando un solo frammento dal dramma di George Bernard Shaw, scritto nel 1899, intitolato Cesare e Cleopatra.
George Bernard Shaw [1856-1950] è nato a Dublino, nel 1876 si è trasferito a Londra dove ha svolto l’attività giornalistica, ha cominciato scrivendo romanzi di impegno sociale e politico, d’impronta socialista, e poi si è dedicato al teatro diventando un grande drammaturgo tanto che nel 1925 gli è stato assegnato il premio Nobel per la Letteratura: la più celebre delle sue commedie s’intitola Pigmalione, rappresentata per la prima volta a Londra nel 1912: è probabile che conosciate quest’opera, che l’abbiate vista rappresentare a teatro oppure al cinema sotto forma di commedia musicale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Fate una piccola ricerca su quest’opera di George Bernard Shaw utilizzando l’enciclopedia o collegandovi alla rete…
Adesso leggiamo un breve frammento tratto dal testo del dramma intitolato Cesare e Cleopatra dove l’autore, immaginando questo dialogo tra Cesare e Teòdoto il precettore di corte, si mostra ottimamente informato sulla dinamica del celebre presunto incendio della Biblioteca di Alessandria. George Bernard Shaw utilizza questo episodio – a lui non interessa se sia avvenuto davvero o no – per fare della sottile ironia sulla volontà di Cesare di essere sempre il primo e, in questo caso, il primo come scrittore. Leggiamo questo frammento:
LEGERE MULTUM….
George Bernard Shaw, Cesare e Cleopatra
TEODOTO: «Il fuoco divampa dalle tue navi. La prima delle sette meraviglie del mondo perisce: la biblioteca di Alessandria è in fiamme».
CESARE: «Tutto qui?».
TEODOTO: «Tutto?! Vuoi passare alla storia come un soldato barbaro ignaro del valore dei libri?».
CESARE: «Ma Teòdoto! Sono anch’io un autore …». …
Il drammaturgo fa esprimere Cesare come se volesse dire: brucino pure tutti i libri, l’importante che rimangano i miei, sono anch’io un autore, sono io il solo autore da salvare e, in questa biblioteca, i miei libri non ci sono ancora [Bruci pure!].
Per un periodo non breve della sua esistenza la biblioteca dei Tolomei ha incarnato il sogno surreale che vi possa essere, o sia da qualche parte esistito, un luogo di raccolta di tutti i libri di tutto il mondo: questo è un atto di superbia [come pensa Gerolamo] che merita di essere punito con il fuoco che è il devastante consorte delle biblioteche di ogni tempo. Ma la Biblioteca di Alessandria, forse, non è mai bruciata del tutto: ogni tanto è scomparsa dalla scena per poi tornare a manifestare la sua fama di maggiore biblioteca del mondo antico, di più grande contenitore di cultura dell’età ellenistica e di mitico punto di raccolta di tutti i libri del mondo.
A proposito di cultura dobbiamo dire che “l’età di Cesare” – con cui finisce l’Antica Repubblica romana [e comincia anche a finire l’Età antica] –, sebbene sia un momento particolarmente tormentato dal punto di vista politico, tuttavia è anche l’età che vede fiorire il cosiddetto “periodo classico” della Letteratura latina: un evento culturale di grande importanza nella Storia del Pensiero Umano, un evento che presuppone un cambiamento epocale.
Nelle ultime due settimane abbiamo accennato al fatto che questo periodo – il “periodo classico” della Letteratura latina – ha inizio con l’esperienza dei “neòteroi”, i “giovani poeti nuovi”, i quali si distinguono per il loro anticonformismo letterario e per aver creato una lirica soggettiva che dà voce ai sentimenti dell’autore: la Letteratura latina, sulla scia della lirica alessandrina, scopre “l’intimità”, e questo crea un contrasto con l’esteriorità, con la drammaticità degli avvenimenti: con i personalismi esasperati, con le dittature, con le liste di proscrizione, con i tentativi di colpo di Stato, con le congiure, con lo stravolgimento delle Istituzioni repubblicane, con le guerre civili.
Mentre a Roma [e dintorni] succede tutto questo – il peggio che la lotta per il potere possa offrire – la cultura cerca di dare il meglio di sé e gli intellettuali si sforzano di non lasciarsi coinvolgere nel degrado dandosi alla “poesia”. Tra i “poeti nuovi” ce n’è uno che ha superato tutti, che è il più rappresentativo di tutti e noi lo abbiamo incontrato la scorsa settimana nel paesaggio intellettuale in cui vive [se così si può dire]: questo personaggio è Gaio Valerio Catullo, il più geniale dei “nuovi poeti” che si distingue, in assoluto, per essere uno dei maggiori poeti della storia della Letteratura universale: Catullo ha interpretato il “tema dell’amore” in tutte le sue sfumature possibili diventando un modello. Le Liriche di Catullo hanno avuto subito un grande e immediato successo e hanno influenzato i poeti elegiaci dell’età augustea come Tibullo, Properzio e Ovidio [li incontreremo a suo tempo], dell’opera di Catullo ne hanno risentito anche Orazio e Virgilio [e incontreremo anche loro, strada facendo].
Sappiamo che l’opera catulliana è stata apprezzata da Petrarca, dagli Umanisti, dai poeti dell’età moderna e, come abbiamo potuto constatare la scorsa settimana, da Ugo Foscolo il quale si è ispirato a anche a Catullo per comporre i suoi sonetti. Ugo Foscolo si ispira a Catullo per scrivere, nell’estate del 1803, il famoso sonetto In morte del fratello Giovanni che abbiamo letto nel corso dello scorso itinerario. Ugo Foscolo – che ha vissuto le stesse dolorose esperienze del poeta latino – prende in prestito alcuni passi dal Carme 101 di Catullo secondo la lezione della cultura ellenistica per cui la “sapienza poetica” è frutto di un’ampia tessitura intellettuale dove gli intrecci filologici sono strumenti utili per la didattica della lettura e della scrittura: il “cercare degli spunti”, il “trovare delle coincidenze” è un tipico atteggiamento intellettuale della cultura ellenistica legato alla nascita della “biblioteca”, dello spazio destinato alla raccolta delle idee.
Il modello della biblioteca alessandrina contiene un concetto filosofico, un concetto cardine che diventa gradito alla mentalità pratica degli intellettuali romani, e questo concetto apre la via per lo sviluppo della filosofia a Roma: la biblioteca rappresenta il grande contenitore della “varietà”, il luogo dove la “varietà” è a portata di mano e quindi tra tante cose diverse – tra tanti libri diversi, contenenti idee diverse – si può scegliere ciò che ci pare più utile. Il concetto-cardine della “varietà” arriva a Roma sulla scia di una parola-chiave di cultura ellenistica: il termine “ecletticità”. Ma procediamo facendo un passo alla volta.
Sono molte le scrittrici e gli scrittori moderni e contemporanei che si sono ispirati a Catullo tanto in modo implicito quanto in modo esplicito. Adesso vogliamo fare un ulteriore esempio in proposito [il 21 marzo si celebra la Giornata internazionale della poesia] chiamando in causa – anche per commemorare il trentacinquesimo anniversario della sua morte – un poeta che si chiama Sandro Penna. Diciamo subito che Sandro Penna ha ricevuto nel 1957 il premio Viareggio per la poesia con la seguente motivazione: «La poesia di Penna, arroccata nell’ambito di un eros malinconico e grazioso, è di limpida classicità». Sandro Penna ha risposto che forse avevano esagerato con questa motivazione e che lui non era certo Catullo al quale spesso si era ispirato. Chi è Sandro Penna?
Sandro Penna è nato a Perugia nel 1906 in una famiglia borghese. Ha sempre studiato molto ma in modo piuttosto irregolare. A vent’anni si è stabilito a Roma dove ha trascorso tutta la vita, salvo un breve periodo passato a Milano, e dove è morto nel 1977.
Sandro Penna è stato un personaggio stravagante e anticonformista e si è sempre comportato come un eterno sradicato: non ha mai avuto un lavoro fisso ma solo occupazioni saltuarie e occasionali, soprattutto ha collaborato con varie riviste letterarie racimolando modesti compensi e, nonostante la fama raggiunta, è vissuto sempre in solitudine e sulla soglia della miseria. Ha sempre voluto essere un “libero poeta” e la sua poesia si è sviluppata al di fuori degli ambienti letterari ufficiali e al di fuori di qualsiasi corrente contemporanea. Il suo primo libro di liriche è uscito nel 1939 con il titolo Poesie. Poi ha pubblicato Appunti [1950], Una strana gioia di vivere [1956], Croce e delizia [1958] e queste raccolte sono state comprese poi, insieme con altre poesie inedite, nell’edizione complessiva intitolata Tutte le poesie [1970], poi ha pubblicato ancora Stranezze [1976] e Il viaggiatore insonne [1977].
Sandro Penna – così come Catullo e i neòteroi – ha una concezione quasi “sacra [in senso orfico]” della poesia: considera la poesia un dono naturale nel cuore della persona. Per il poeta scrivere versi diventa una necessità a cui non può rinunciare: «Io mi sento – ha detto in un’intervista – proprio come uno che ha le orecchie piene d’acqua e poi finalmente, quando non se l’aspetta, comincia a risentire bene, si sente libero, come un’altra persona, quasi avesse fatto una convalescenza felice, o tutte e due le cose insieme. Questa situazione di benessere mi derivava dall’aver trovato un’espressione per i contenuti che mi urgevano dentro, e ciò è possibile solo sotto la forza dell’ispirazione». Questa è l’idea estetica di Penna: «Quando preme qualcosa, la forma si trova sempre, viene sempre». E il suo orgoglio di poeta sta nell’essersi lasciato guidare la mano e nell’aver sempre e soltanto obbedito all’ispirazione: «Ciò che mi distingue da tutti, forse, è che io ho avuto sempre l’atteggiamento di non volere scrivere una poesia. Solamente, io spero che quelle venute, siano venute appunto con prepotenza, e quindi sono un po’ belle per questo».
Fonte d’ispirazione per Penna sono comunque i “classici” a cominciare da Catullo e sul piano tematico, infatti, nei suoi versi ricorrono in modo continuativo motivi catulliani: prima di tutto quello dell’amore e dei sentimenti di passione, di desiderio e di gioia di vivere ma sempre velata dalla malinconia. E, dal punto di vista espressivo, la sua poesia è soprattutto lirica.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola ”ispirazione” richiama il “suggerimento” e lo “spunto”... Da che cosa avete preso spunto per fare qualcosa che vi stava a cuore?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Sandro Penna nel leggere Il libro di Catullo ha certamente trovato ispirazione nei versi del carme intitolato Non ascoltare la tua pena d’amore, leggiamoli. Questo carme contiene parole-chiave e concetti che noi conosciamo dall’itinerario della scorsa settimana, in particolare, emerge lo scontro tra la pace [otium] e il tormento.
LEGERE MULTUM….
Gaio Valerio Catullo, Carmi [Non ascoltare la tua pena d’amore]
Non ascoltare, Catullo, la tua pena d’amore, è una ferita che non puoi curare,
cerca di vivere felice, sciogli completamente nella pace [otium] gli ardori della vita
e il tuo tormento avvolgilo nel velo della notte e lascialo cullare al dolce vento. …
E ora leggiamo come s’ispira Sandro Penna a questi versi, come sviluppa lo spunto catulliano: gli stessi sentimenti legano le umane generazioni.
LEGERE MULTUM….
Sandro Penna, Stranezze [1957-1976]
Arso completamente dalla vita io vivo in essa felice e dissolto.
La mia pena d’amore non ascolto più di quanto non curi la ferita.
Mi nasconda la notte e il dolce vento. Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico amico fiume lento. Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore. La luna si nasconde e poi riappare
- lenta vicenda inutilmente mossa sovra il mio capo stanco di guardare.
Adesso dobbiamo riprendere il nostro cammino specifico: sappiamo che l’unico a fare dell’ironia sui “nuovi poeti” e a polemizzare con Catullo – naturalmente dopo aver letto con molta attenzione le sue opere – è Cicerone. Cicerone – [e questo lo abbiamo già detto più volte] etichetta sarcasticamente i nuovi poeti con il termine “neòteroi”, come dire: “ma chi si credono di essere questi giovani?” [Così la pensa anche il senatore Rosario La Ciura, ve lo ricordate?]. Perché Cicerone prende in giro i “nuovi poeti” e critica Catullo?
Cicerone ammira lo stile Catullo perché anche lui avrebbe ambìto a fare il poeta ma non ha il “dono”, non ha l’“ispirazione [non è capace a lasciarsi andare]”. Cicerone critica i “nuovi poeti” e, in particolare, Catullo perché, secondo lui, si occupano troppo di poesia e troppo poco di filosofia: «Se si occupassero – sostiene Cicerone sarcasticamente – più di filosofia se ne farebbero una ragione di tutte quelle pene d’amore per le quali dicono di soffrire». Questa affermazione di Cicerone [sulla quale dobbiamo riflettere] – rivolta soprattutto a Catullo che, secondo lui, si occupa troppo di poesia e troppo poco di filosofia – ci fa capire che, nel I secolo a.C., a Roma, oltre all’influsso della poesia alessandrina è arrivato anche l’influsso delle Scuole filosofiche dell’Ellenismo e come Catullo coglie l’influsso della poesia elegiaca alessandrina così Cicerone coglie l’influsso della filosofia ellenistico-alessandrina con tutta la varietà – l’ecletticità – di idee significative che propone.
Forse Catullo non ha avuto il tempo di occuparsi di filosofia perché è morto giovane e non siamo in grado di dire se lo avrebbe fatto o no, mentre Cicerone è stato colui il quale ha prodotto per primo, in modo sistematico, un pensiero che, sebbene s’ispiri alla cultura filosofica ellenistica, possiamo etichettare come “romano”: Cicerone viene considerato l’iniziatore della “filosofia latina” anche se, appena prima di lui, c’è un altro personaggio che apre la riflessione su questo tema e che non possiamo ignorare. Che caratteristiche ha la “filosofia latina”, che ruolo ha avuto Cicerone in questo frangente e chi è il personaggio che abbiamo evocato come primo maestro della Scuola filosofica romana? Per rispondere a queste domande dobbiamo procedere con ordine.
Marco Tullio Cicerone lo abbiamo già citato molte volte nel corso di questo viaggio ma non ci siamo ancora occupate ed occupati in modo sistematico di lui e del suo pensiero: lo faremo ma non subito, prima utilizzeremo ancora Cicerone come promotore culturale, che è un ruolo importante che questa persona ha avuto nella Storia del Pensiero Umano, non è casuale il fatto che il termine “cicerone” sia diventato emblematico in questo senso. L’ultima volta che lo abbiamo citato lo abbiamo fatto per lasciare in sospeso una questione relativa ad una affermazione fatta da Cicerone.
Circa sei settimane fa [e, probabilmente, ve ne ricordate: fate funzionare la memoria!] abbiamo letto un brano tratto dall’opera intitolata De officiis [I doveri]. In questo brano Cicerone, in modo allusivo, riassume la trama di quel dramma perduto di Lucio Ambivio Turpione [in cui è protagonista la figura di Vesta] che abbiamo continuato ad evocare leggendo, per intero, il testo di un breve romanzo contemporaneo [Come le mosche d’autunno di Irène Némirovsky]. Nel testo di questo brano Cicerone – il De officiis [I doveri] è un’opera dedica al figlio Marco – usa molte metafore e tra queste, una delle più celebri, proprio per i suoi risvolti storici, politici e anche letterari, è quella cosiddetta del “maiale vorace”: ricordate questo particolare? C’è chi sostiene che questa metafora ciceroniana – insieme ad un’altra metafora che citeremo prossimamente – sia l’epitaffio [il necrologio] della Repubblica romana.
Adesso vi rileggo alcune righe dal De officiis [I doveri] – questo testo lo possedete già in repertorio – per fare maggior chiarezza nella nostra mente in funzione della riflessione che stiamo facendo: fate attenzione.
LEGERE MULTUM….
Marco Tullio Cicerone, De officiis [I doveri]
Il senso del dovere, o Marco, che è fortemente radicato nelle nostre umane lettere, deve radicarsi anche nei nostri cuori. Nella fattoria del dramma [il dramma perduto di Lucio Ambivio Turpione] non c’è posto per i sentimenti umani, nemmeno per i più elementari perché la sopraffazione del più prepotente sui più deboli diventa l’unico legame sociale, così come succede in una stalla mal governata dove sarà sempre l’animale più ingordo a prevalere, sarà sempre il maiale più vorace a vincere. …
Sei settimane fa abbiamo lasciato in sospeso la metafora del “maiale vorace” dicendo che ci saremmo tornate e tornati sopra strada facendo in funzione – secondo la natura del nostro Percorso – della didattica della lettura e della scrittura. Che significato ha questa affermazione?
Prima di fare chiarezza in proposito [sulla metafora del “maiale vorace” alla luce della didattica della lettura e della scrittura] – intanto voi nella vostra mente preparate un posto, lasciate uno spazio per questa riflessione: esercitatevi nel fare [come si suol dire in campo didattico] “gestione intellettuale del vostro sapere” organizzandovi in modo che la vostra diventi una “testa ben fatta”, provvista di contenitori funzionali – dobbiamo conoscere quali sono le principali caratteristiche della filosofia latina: un fenomeno che arriva in ritardo sul cammino della Storia del Pensiero Umano.
A Roma non nasce e non si sviluppa un indirizzo filosofico originale: infatti, a Roma non troviamo dei veri e propri “filosofi” cioè persone che abbiano impostato un sistema proprio che si possa considerare “nuovo”, troviamo invece degli amanti e degli interpreti eclettici della filosofia greca. Noi sappiamo già che dal 155 a.C. – dal tempo di Catone il Censore e di Carneade di Cirene [e noi sappiamo chi era costui!] – il Senato romano è stato, per qualche tempo, molto ostile ad ospitare quei filosofi greci che emigravano a Roma esportando le dottrine filosofiche delle Scuole ellenistiche: il pensiero epicureo, stoico e scettico. Però, col tempo, soprattutto dopo che la Grecia viene assoggettata, sorge – in modo particolare nelle giovani generazioni – un interesse per i problemi filosofici e quindi a Roma approdano e si sviluppano le dottrine delle Scuole ellenestico-alessandrine. Queste dottrine vengono considerate utili elementi di cultura soprattutto per il carattere pratico che possono avere e, in particolar modo, come complemento alla scienza del Diritto: i Romani hanno la mania di decretare per regolamentare gli stili di vita, per disciplinare ogni tipo di comportamento. A Roma aveva fatto presa sulle giovani generazioni nel II secolo a.C. – anche per l’incursione di Carneade – lo Scetticismo: il pensiero scettico sostiene che nessuna dottrina è assolutamente vera e ogni giudizio va sospeso ma questo modo di pensare a Roma, dove prevale uno spirito pratico e la volontà di prendere decisioni repentine, non si è radicato.
A Roma nasce una filosofia che ha un carattere eclettico: che cosa significa? L’Eclettismo è una corrente di pensiero che si era già formata ad Atene nell’ambito dell’Accademia [dell’istituzione fondata da Platone] dai successori di Carneade: in particolare sono filosofi eclettici Filone di Larissa, Antioco d’Ascalona, Posidonio di Rodi e poi Panezio di Rodi che abbiamo incontrato ai primi di febbraio perché era a Roma ospite degli Scipioni. L’Eclettismo è una corrente di pensiero abbastanza affine allo Scetticismo ma si distingue perché afferma che bisogna, facendo uso della ragione, analizzare le varie dottrine per trovare in esse quegli elementi positivi che possono favorire un corretto stile di vita. La Scuola filosofica romana è molto pratica, non ha interesse per dimostrare che la “verità assoluta” non esiste ma preferisce indagare nelle dottrine delle Scuole dell’Ellenismo greco per trovare utili elementi di applicazione. Quindi la Scuola filosofica romana dimostra, in origine, una certa indifferenza per i problemi metafisici studiati da Platone e da Aristotele.
Gli intellettuali romani preferiscono studiare lo Scetticismo mitigato della Media Accademia, l’Epicureismo che è facilmente adattabile ai loro costumi e lo Stoicismo che si dimostra essere un fedele interprete dell’antica austerità che ancora piaceva a larghi strati della popolazione. I filosofi romani hanno, innanzi tutto, il merito di aver volgarizzato e diffuso il patrimonio filosofico ellenico, quello delle Scuole epicuree, stoiche e scettiche: da questo patrimonio hanno preso quel che, secondo loro, era buono per la loro mentalità e lo hanno assemblato in un pensiero che è stato chiamato “eclettico” perché il termine “eclettico” significa “vario, eterogeneo, composito, versatile, enciclopedico”. I filosofi romani sottopongono ad un controllo critico ogni dottrina, che essi vedono come un misto di vero e di falso, e ricercano quelle che, secondo loro, sono da considerarsi le “verità relative” sparse nei vari sistemi, tentando di conciliare il tutto in un unico complesso che non sia avulso dalla vita pratica né astratto e separato dalla realtà quotidiana. L’Eclettismo rimanda al concetto di “varietà” che per gli intellettuali romani consiste nel mettere insieme cose diverse per dar luogo ad una sintesi che abbia delle caratteristiche etiche ed estetiche positive.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In un certo senso anche noi pratichiamo l’Eclettismo quando agiamo concretamente sulla varietà: che varietà diverse di fiori scegliereste per fare un bel mazzo, che varietà diverse di pesci scegliereste per fare una buona frittura, che varietà diverse di legumi scegliereste per fare una buona minestra, che varietà diverse di verdure scegliereste per fare una buona insalata, che varietà diverse di colori scegliereste per comporre un bell’acquarello, che varietà diverse di territori scegliereste per fare una bella passeggiata, che varietà diverse di musiche scegliereste per allietare il vostro ascolto?...
Scrivete quattro righe in proposito...
L’eclettismo si mescola con la vita quotidiana, si identifica con la varietà di esperienze che facciamo quotidianamente: “vivere con filosofia” [è un concetto ciceroniano di stampo eclettico] significa dar prova di consapevolezza non di menefreghismo.
Marco Tullio Cicerone è accreditato all’unanimità come il più importante esponente del pensiero dell’eclettismo nell’ambito di tutta la Storia del Pensiero Umano, ma, come abbiamo accennato poco fa, colui che viene considerato il primo maestro dell’eclettismo latino – ed è una figura che emerge nel paesaggio intellettuale de “l’età di Cesare” – è un personaggio che dobbiamo incontrare prima di Cicerone: si chiama Marco Terenzio Varrone detto il Reatino [lo abbiamo già citato in un’occasione in questo viaggio] il quale è nato dieci anni prima di Cicerone ma è morto, molto anziano [novantenne], quasi vent’anni dopo Cicerone [Cicerone ha avuto un incidente di percorso ed è morto a 63 anni]. Quindi, prima di andare all’appuntamento con Cicerone, dobbiamo incontrare Marco Terenzio Varrone detto il Reatino, ma prima ancora [anche per non urtare la suscettibilità di Cicerone che non ha un carattere facile] dobbiamo occuparci – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – della celebre metafora ciceroniana del “maiale vorace”: un tema che abbiamo lasciato in sospeso sei settimane fa e anche poco fa.
La celebre metafora ciceroniana del “maiale vorace” ha trovato spazio nella Storia della Letteratura creando tutta una serie di interessanti intrecci filologici e l’esempio più calzante che possiamo fare è quello di un romanzo che però citiamo soltanto e di cui si consiglia la lettura e la rilettura – probabilmente molte e molti di voi lo hanno letto – e che s’intitola La fattoria degli Animali. La fattoria degli Animali è una favola satirica composta dallo scrittore George Orwell, pubblicata a Londra nel 1945. Leggiamone solo un frammento: «Dodici voci si alzarono furiose, e tutte erano simili. Non c’era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere tra i due.».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La Scuola consiglia la lettura o la rilettura di questo significativo [e breve] romanzo allegorico, lo trovate in biblioteca…
Noi, a questo proposito – per dipanare la celebre metafora ciceroniana del “maiale vorace” – leggiamo insieme un significativo racconto [di giuste proporzioni per essere letto tutto intero] in modo da allargare il nostro ventaglio di conoscenze in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Questo racconto è stato scritto da un autore che si chiama Julio Ramón Ribeyro.
Julio Ramón Ribeyro è un narratore peruviano nato a Lima nel 1929. Ha soggiornato a lungo in Europa, negli Stati Uniti e poi si è stabilito definitivamente a Parigi dove è morto nel 1994. Dopo aver prodotto una narrativa fantastica, alla maniera della Letteratura latinoamericana, espressa in uno stile purissimo, Ribeyro è approdato ad una scrittura realistica che affronta scottanti temi civili e sociali.
Ribeyro è noto soprattutto come autore di racconti: ne ha scritti più di un centinaio raccolti in diversi volumi. Tradotto in italiano troviamo il volume intitolato La parola del mondo, pubblicato nel 1973 e il romanzo Cronaca di San Gabriele [1960] che racconta la storia dell’esperienza contadina di un adolescente peruviano. Il racconto che leggiamo, Gli avvoltoi senza piume, è contenuto in un altro volume, tradotto e pubblicato in Italia nel 1981, che s’intitola Niente da fare, Monsieur Baruch.
Ribeyro dipinge con la scrittura personaggi che non hanno speranze se non quella, primordiale, di sopravvivere, e in questo racconto, intitolato Gli avvoltoi senza piume, troviamo un vecchio orrendo, con una gamba di legno, che sfrutta due nipoti ragazzini, facendo loro raccogliere avanzi di cibo in una discarica di immondizie per nutrire un maiale insaziabile. Quando la sopraffazione del più forte sul più debole [stiamo parafrasando il testo del “De officiis - I doveri” di Cicerone] diventa l’unico legame “sociale” allora non c’è posto per i sentimenti umani, nemmeno per i più elementari: sono i maiali insaziabili che vincono.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Voi che relazioni avete con il maiale, nel senso di “animale commestibile”?... Di questo prezioso animale non si butta via nulla: qual è la parte del maiale che vi piace di più?...
Scrivete quattro righe inproposito...
Cominciamo a leggere questo racconto:
LEGERE MULTUM….
Jiulio Ramòn Ribeyro, Niente da fare, Monsieur Baruch
Gli avvoltoi senza piume
Alle sei del mattino la città si alza in punta dei piedi e comincia a muovere i primi passi. Una nebbia sottile dissolve il contorno degli oggetti e crea come un’atmosfera incantata. Le persone che attraversano la città a quest’ora sembrano esser fatte di un’altra sostanza e appartenere a un ordine biologico spettrale. Le pie donne si trascinano faticosamente fino ai portali delle chiese che le inghiottono. I nottambuli, macerati dalla notte, tornano a casa avvolti nelle sciarpe e nella loro malinconia. Gli spazzini cominciano lungo la avenida Pardo la loro lugubre passeggiata, armati di scope e di carretti.
… continua la lettira …
Marco Tullio Cicerone è accreditato all’unanimità come il più importante esponente del pensiero eclettico nell’ambito di tutta la Storia del Pensiero Umano. Ma, come abbiamo accennato poco fa, nel paesaggio intellettuale de “l’età di Cesare” emerge la figura di colui che viene considerato il primo maestro dell’eclettismo latino: questo personaggio si chiama Marco Terenzio Varrone detto il Reatino ed è nato dieci anni prima di Cicerone [nel 116 a.C.] ma è morto, molto anziano, quasi vent’anni dopo Cicerone [Cicerone ha avuto un incidente di percorso prima di diventare propriamente un vecchio e la prossima settimana vedremo di che cosa si tratta anche perché è un argomento legato alle metafore ciceroniane del “maiale vorace”, che conosciamo, e del “ragno insidioso”, che non conosciamo ancora].
A monte dell’attività dei principali filosofi romani è necessario ricordare la figura di Marco Terenzio Varrone [116-27 a.C.] che è un vero e proprio genio enciclopedico e l’enciclopedismo è figlio della “varietà”, della “ecletticità”. Di lui Gerolamo [nel IV secolo] – nel suo Commento sull’età classica latina [Chronicon] ha scritto: «Varrone Reatino è uno degli uomini più acuti, e di sicuro il più colto, che siano mai nati».
Marco Terenzio Varrone è nato a Rieti nel 116 a.C. ed è soprannominato Reatino, dalla sua città d’origine, per distinguerlo da altri intellettuali omonimi vissuti nella stessa epoca.
Vale la pena fare un viaggio a Rieti utilizzando, in prima istanza, una guida del Lazio o collegandosi alla rete. Rieti sorge in bella posizione lungo il fiume Velino all’angolo di sud-est della cosiddetta Conca Reatina che è un ampio bacino [posto a un’altitudine di circa 400 metri] compreso tra i monti Reatini e i monti Sabini dove domina la grande mole del monte Terminillo. Rieti è l’erede di Reate, l’antichissimo e principale centro dei Sabini: dopo la conquista romana della Sabina nel 290 a.C. ad opera di Manio Curio Dentato, i terreni circostanti sono stati bonificati con l’apertura della “cava curiana” e con lo scavo del “canale curiano” che scaricava nel fiume Nera le acque del fiume Velino che allagavano i campi rendendoli improduttivi [dal Medioevo queste strutture sono scomparse].
Cicerone [ancora una volta Cicerone c’informa] viene chiamato nel 54 a.C. come difensore del municipio di Rieti in una controversia con Terni [l’antica Interamna] per i danni provocati ai terreni ternani dal “canale curiano” perché da anni i Reatini non vi facevano lavori di manutenzione: è interessante riflettere sul fatto che avremmo dovuto imparare da tempo a governare i dissesti idrogeologici dovuti all’incuria. Cicerone riesce ad evitare agli amministratori reatini una pesante condanna perché, come difensore, li induce a riconoscere le loro responsabilità e li fa giurare che avrebbero sùbito provveduto a dragare a loro spese il “canale curiano” per metterlo in sicurezza lavorando anche loro [per dare l’esempio] insieme agli operai. Cicerone rimane così impressionato dalla bellezza della Conca Reatina e dalla valle della “cava curiana” che nella sua “Orazione in difesa di Rieti” la paragona alla valle di Témbi [Tempe] in Tessaglia sull’antica strada tra Làrissa e Salonicco.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Grecia, o collegandovi alla rete, fate un’escursione nella valle di Témbi scavata dal fiume Péneo [Piniòs] tra i contrafforti dei monti Òssa e l’Olimpo: in questo luogo c’è l’alloro sacro ad Apollo, la fonte di Dafne [ci sta suggerendo Ovidio] e questa valle, dal fascino particolare, venne fatta ricostruire dall’imperatore Adriano nella sua villa di Tivoli…
E allora con la guida del Lazio fate un’incursione nella Conca Reatina e una visita a Rieti, e con la guida della Grecia fate un’escursione nella valle di Témbi: buon viaggio…
Torniamo sul nostro sentiero e continuiamo a fare la conoscenza di Marco Terenzio Marrone. Marco Terenzio Varrone nasce in una famiglia benestante di proprietari terrieri di ceto equestre e riceve un’accurata educazione a Roma alla Scuola del filologo Lucio Elio Stilone e poi perfeziona la sua formazione culturale con il tradizionale viaggio in Grecia, va ad Atene dove studia nella Nuova Accademia diretta dal filosofo Antioco di Ascalona di tendenza eclettica. Tornato a Roma intraprende la carriera politica e militare: è questore, tribuno della plebe, pretore. Segue Pompeo in Spagna nella campagna contro Sartorio, in Oriente in quella contro i pirati e contro Mitridate. Nella guerra civile tra Pompeo e Cesare Varrone è schierato con Pompeo e, dopo la sconfitta dei pompeiani nella battaglia di Farsalo [nell’agosto del 48 a.C.], ottiene il perdono di Cesare [è proverbiale l’interessata magnanimità di Cesare] che, conoscendo le sue competenze intellettuali e il valore della sua erudizione, gli affida l’incarico della realizzazione a Roma della prima biblioteca pubblica: il progetto rimane sulla carta con la morte di Cesare. Cesare ad Alessandria ha scoperto il valore che ha la Biblioteca per una città, ha potuto constatare l’autorevolezza che una Biblioteca dà ad una città, e Roma [caput mundi!] ne è priva!
Marco Terenzio Varrone – irriducibile repubblicano – viene incluso nelle liste di proscrizione prima da Antonio e poi da Ottaviano ed evita la morte grazie al suo amico Fufio Caleno che lo tiene nascosto in casa sua per diverso tempo. Dopo la terza guerra civile Marco Terenzio Varrone viene graziato dal vincitore Ottaviano – che non ha, apparentemente, più nemici – e si ritira a vita privata [non aveva alternative] e si dedica interamente agli studi fino alla morte avvenuta forse nella sua villa di Tuscolo, dopo aver compiuto novant’anni, nel 27 a.C., anno in cui Ottaviano decide di diventare “Augusto” dopo aver accentrato tutte le cariche istituzionali nelle sue mani: Marco Terenzio Varrone muore con la Repubblica.
Marco Terenzio Varrone è stato uno studioso infaticabile che si è occupato di discipline diverse: di letteratura, di antichità, di retorica, di scienze, e ha composto 74 opere per un complesso di oltre 600 libri. Dell’immenso “corpus varroniano” ci sono pervenuti: il De re rustica, un trattato sull’agricoltura [ci viene in mente l’opera di Catone il Censore, vissuto nel secolo precedente] che Varrone scrive a ottant’anni, nel 37 a.C., quando Virgilio si accinge a comporre le Georgiche. Il De re rustica è l’unica opera di Varrone che ci è pervenuta integralmente e parla, sotto forma di dialogo, della coltivazione della terra, degli strumenti di lavoro, delle vigne, degli uliveti, dell’allevamento del bestiame [bovini, cavalli, suini, pecore, capre, lepri, caprioli, cinghiali, pesci e api]. La forma dialogica di Varrone è briosa e spigliata ma il discorso diventa più ferraginoso quando lui fa sfoggio di erudizione e infarcisce il linguaggio di termini arcaici, tecnici e di derivazione greca.
Poi ci sono pervenuti circa 600 versi delle Saturae Menippeae. Le Saturae Menippeae era un’opera in 150 libri formata da un misto di prosa e di versi alla maniera del filosofo cinico greco Menippo di Gàdara [del III secolo a.C.]. Dai 600 versi che ci sono rimasti di quest’opera si capisce che Varrone Reatino ha un forte atteggiamento critico verso i vizi dei suoi contemporanei e sente la nostalgia del passato, un passato che, così come lui lo descrive, ricco di valori, non è mai esistito, ma questa “nostalgia etica e ideale” serve come modello per aspirare ad essere migliori: più giusti, più onesti, più equilibrati, più saggi, ciò a cui tende il pensiero eclettico che sta per essere sistematizzato da Cicerone.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Di che cosa sentite la nostalgia oggi pensando alla vostra vita passata?...
Scrivete quattro righe in proposito, ma basta anche una frase per rispondere...
Ma l’opera che maggiormente c’interessa di Marco Terenzio Varrone s’intitola De lingua latina: si tratta di un trattato di morfologia e di sintassi latina in 25 volumi di cui ci sono rimasti due libri interi e un certo numero di frammenti di altri quattro libri. Perché è importante quest’opera? Per rispondere a questa domanda dobbiamo imbastire una riflessione e questo esercizio lo faremo nell’itinerario della prossima settimana quando studieremo il pensiero di Cicerone: Marco Terenzio Varrone dedica quest’opera [De lingua latina] proprio anche a Cicerone.
Marco Terenzio Varrone ha goduto presso i suoi contemporanei di grande fama e della considerazione di dotto insuperabile di stampo eclettico e lo rincontreremo, quindi, tra otto giorni in funzione propedeutica per lo studio del pensiero filosofico ciceroniano.
Concludiamo questo itinerario portando a termine la lettura del racconto Gli avvoltoi senza piume propiziata da Cicerone con la sua metafora sul “maiale vorace”: la favola di Ribeyro è ripugnante ma non è forse più ripugnante la sopraffazione che lui denuncia, su cui dobbiamo riflettere?
LEGERE MULTUM….
Jiulio Ramòn Ribeyro, Niente da fare, Monsieur Baruch
Gli avvoltoi senza piume
Verso mezzogiorno Enrique tornò coi secchi colmi.
Lo seguiva uno strano visitatore: un cane scheletrico pezzato di scabbia.
- L’ho trovato allo scarico, - spiegò Enrique e mi ha seguito.
Don Santos afferrò il bastone. - Una bocca in più in casa!
Enrique si strinse al petto il cane e fuggì verso la porta.
- Non fargli male, nonno. Gli darò un po’ della mia razione.
Don Santos si avvicinò, affondando la gamba nel fango.
… continua la lettira …
Anche Cicerone sente lo strepito delle battaglie tra uomini del medesimo Stato che si combattono – “maiali voraci” – per ambizione personale.
Perché è importante l’opera di Marco Terenzio Varrone intitolata De lingua latina che lui dedica anche a Cicerone? Perché quest’opera ci informa [ed è l’unica a farlo] su un’importante polemica culturale di stampo ellenistico: quale polemica?
Per rispondere a questa e ad altre domande bisogna seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come l’idea che i bambini devono andare a Scuola e non a razzolare nell’immondizia per far ingrassare i “maiali voraci moltinazionali”] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui.
Accorrete numerose e numerosi pensando che la prossima sarà l’ultima Lezione prima della vacanza pasquale, e pensando anche che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme …
Il viaggio continua…