Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale 2-3-4 maggio 2012
NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE
C’È IL CONCETTO LUCREZIANO DEL PESSIMISMO FIDUCIOSO O RAGIONEVOLE ...
Quindici giorni fa sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” abbiamo incontrato Tito Lucrezio Caro. Il misterioso Lucrezio – come voi ben sapete – ha composto un poema epico-didascalico [che non si limita a raccontare una storia ma vuole anche spiegare - la “didascalia è una spiegazione - una serie di concetti] in sei Libri, intitolato De rerum natura [La natura], che risulta essere una delle opere più significative della Storia del Pensiero Umano. Come sapete Lucrezio ha messo in versi [7415 versi] il pensiero di Epicuro ma lo ha rielaborato in modo creativo per adeguarlo alla sua mentalità, al modo di pensare della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”. Quali sono le linee del pensiero che emergono dall’opera di Lucrezio della quale noi, quindici giorni fa, abbiamo commentato quattro Libri?
Lucrezio – secondo il pensiero della Scuola epicurea – considera il mondo come il risultato casuale dell’incontro di atomi che, collocati nel vuoto, si muovono in continuazione. Anche la nostra anima è formata di atomi e, come tale, è destinata a morire con il corpo. La realtà dunque – così come la descrive Lucrezio nel suo poema – appare come un insieme di atomi indistruttibili [“atomo”, in greco, significa “indivisibile”], eterni, piccolissimi: gli atomi, secondo Lucrezio, sono anche gli apportatori di un tipo particolare di energia [“amor blandus”, l’amore dolce e affettuoso] mediante la quale si riproduce la vita nel mondo.
Lucrezio nega, con grande determinazione – e anche in opposizione con gli epicurei ortodossi e con gli stoici –, l’esistenza di una divinità creatrice e provvidenziale: l’idea del “divino” – spiega Lucrezio – è sorta nella mente degli umani a causa della paura [“Primos in orbe Deos fecit timor, la paura creò in terra i primi dèi”, scrive Lucrezio] e il “timore” si è sviluppato, si è amplificato in seguito agli spaventosi fenomeni della natura come i terremoti e i periodici cataclismi. La religione, secondo Lucrezio, risulta essere una creazione umana favorita dai fenomeni naturali che incutono timore e spavento: per questo Lucrezio pensa che la “religione” – la quale fornisce risposte legate alla superstizione e, quindi, genera violenza e ignoranza – vada rimossa perché contribuisce ad acuire le paure, soprattutto la paura della morte. “Non bisogna temere la morte” – afferma Lucrezio – perché è una condizione che non rappresenta un pericolo: la morte è un “sonno pacificatore”.
La conoscenza – scrive Lucrezio – avviene attraverso i sensi, i quali devono essere educati a questo scopo, in modo da poter procurare alla persona il piacere della conoscenza stessa [qui c’è un’intuizione di tipo platonico perché emerge il concetto de “l’amor platonico, l’eros, la tensione verso la conoscenza”]. Il “piacere” – secondo Lucrezio – è da considerarsi il sommo bene se lo si intende come “assenza di ogni dolore” e come “piena letizia dell’animo”, di conseguenza Lucrezio critica aspramente la ricerca del piacere [il tarlo delle passioni] intesa nel senso dell’accaparramento di scriteriati godimenti materiali che, in definitiva, sono portatori di malesseri e generatori di infelicità. L’ideale della saggezza può essere raggiunto se la persona – istruendosi ad acquisire il piacere della conoscenza attraverso l’esercizio della “sapienza poetica” – impara a raggiungere il più completo controllo di se stessa. Il piano di studio [se così lo possiamo chiamare] di Lucrezio prevede un forte richiamo alla “responsabilità personale”. Lucrezio è consapevole che anche il concetto di “responsabilità” – come quello di “voluptas” [ce ne siamo occupate ed occupati nello scorso itinerario] – è ambivalente e ciò dipende, secondo lui, dal fatto che l’universo nel quale viviamo non è ben congegnato: Lucrezio non coltiva l’ottimismo bensì si assume [potremmo dire] la responsabilità di praticare una forma particolare di pessimismo.
In latino la parola “responsabilità” corrisponde a due termini contrastanti, entrambi utilizzati da Lucrezio: “periculum” e “auctoritas”. La parola “periculum” viene usata quando l’idea di “responsabilità” collima con i termini “colpevolezza, implicazione, imputabilità”. Mentre la parola “auctoritas” viene utilizzata quando l’idea di “responsabilità” coincide con i termini “garanzia, impegno, consapevolezza”.
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In quale occasione avete dovuto assumervi la responsabilità di dare delle garanzie?...
Scrivete quattro righe in proposito, assumetevi questa responsabilità...
Il piano di studio [se così lo possiamo chiamare] di Lucrezio – che sollecita l’attuazione di un percorso educativo che persegua l’obiettivo del cambiamento dello stile di vita delle persone in nome della sobrietà materiale e della serenità d’animo – quindi prevede un forte richiamo alla “responsabilità soggettiva”, alla presa di coscienza individuale per cui “l’acquisizione di responsabilità” comporta una scelta di carattere etico. Di conseguenza i termini latini con cui Lucrezio rende l’aggettivo “responsabile” sono inequivocabili: utilizza “reus [il colpevole]” per indicare il responsabile di azioni che danneggiano la società civile, e poi utilizza “auctor [l’ideatore]” e “sponsor [il promotore]” per richiamare la responsabilità a compiere azioni che facciano riflettere l’individuo sul tasso di Umanesimo presente nella società. Le scelte filologiche di Lucrezio continuano ad essere di grande attualità.
Nell’itinerario di quindici giorni fa noi abbiamo analizzato, a grandi linee, i primi quattro Libri del De rerum natura e abbiamo costruito un catalogo di parole-chiave e di idee-cardine che richiama i più importanti temi di carattere esistenziale: su questi temi – sulla natura del mondo, sulla natura dell’anima, sulla natura della sapienza poetica, sulla natura della morte, sulla natura dell’amore – la riflessione continua. Naturalmente non possiamo rinunciare a conoscere anche il contenuto degli ultimi due libri del poema di Lucrezio: il V e il VI.
Nel V Libro del De rerum natura, Lucrezio torna ad occuparsi dei problemi relativi al cosmo e – dopo aver tessuto un nuovo elogio ad Epicuro, perché ha indicato agli esseri umani la strada per liberarsi dalle passioni e dal timore degli dèi; dopo aver fatto una lunga premessa nella quale afferma che l’universo è mal congegnato e, quindi, gli umani sono destinati all’infelicità; dopo aver affermato che il mondo non è eterno – descrive come si è formato il pianeta e come si sono formati i corpi celesti, descrive l’origine della vita vegetale e animale, poi passa a trattare dello sviluppo della civiltà umana dalle forme di vita ancora belluine dei primitivi [degli aborigeni], fino all’acquisizione di gradi di civilizzazione sempre più complessi e ottenuti – afferma Lucrezio – per mezzo della sola forza della natura.
Nel V Libro del De rerum natura Lucrezio fa un’affermazione importante: la civilizzazione è avvenuta per mezzo della sola forza della natura, senza interventi soprannaturali, e quando gli esseri umani sono stati capaci di investire in intelligenza. Se pensiamo a come abbiamo iniziato [più di sei mesi fa] il nostro viaggio, circondati dai mitici acquitrini del “mondo di Janus”, possiamo percepire ora un drastico cambiamento di mentalità: Lucrezio vuole spazzare via la superstiziosa concezione del mondo insita nei culti della “religione ianuaria”, e il suo attacco alla “religione”, come fenomeno che addormenta la ragione, va in questa direzione.
Ma Lucrezio fa un ulteriore passo avanti – per cui, se da una parte è stato apprezzato dagli illuministi, dall’altra è stato stimato anche dai romantici e dagli esistenzialisti – perché mentre in tutta l’ultima parte del V Libro del De rerum natura dimostra di sentire un’umana simpatia per i “primitivi” e per il loro lento aprirsi alle belle arti, contemporaneamente Lucrezio, coltivando un lucido pessimismo, si distacca dall’ottimistica concezione epicurea del “progresso” data dal fatto che alla dottrina epicurea viene attribuita una missione salvifica: Lucrezio esalta Epicuro con parole poetiche quasi fosse una sorta di divinità ma poi affronta le asserzioni della dottrina epicurea con spirito decisamente laico, senza cedere a nessuna concessione di carattere “religioso”, per Lucrezio Epicuro è un educatore non un “salvatore”.
La condanna del “progresso” da parte di Lucrezio è anche un atto di natura politica nei confronti del “triste periodo che la patria sta vivendo” [così scrive all’inizio del I Libro del suo poema]: il drammatico periodo delle “guerre civili” che non può essere considerato se non come un notevole “regresso”. Lucrezio condanna il “progresso” in relazione al fatto che per i Romani il “progresso” si identificava con la “distruzione” [con l’involontaria complicità del povero e ignaro Saturno] perché questo tipo di “progresso” – scrive Lucrezio – invece di favorire l’uguaglianza e la benevolenza crea: «L’accrescimento continuo dell’umana insaziabilità» e, questa affermazione [di grande attualità] conduce Lucrezio ad esporre un principio [una sentenza] che caratterizza tutto il suo poema. Lucrezio pronuncia una sentenza che cambia i connotati alla cultura della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”, scrive Lucrezio: « Perché, secondo me, la colpa è prima di tutto dentro di noi [Magis in nobis culpa resedit]». Questo giudizio, secco e severo, – in un mondo, come quello romano, in cui le colpe sono sempre degli altri – dà inizio ad un’importante meditazione sul concetto di “interiorità”, sul senso da dare alla “responsabilità personale”.
Purtroppo questa meditazione ha investito poche persone: dapprima Cicerone poi, nel corso dei secoli, i Padri della Chiesa come Gerolamo, e poi anche un certo Aurelio Agostino di Tagaste o di Ippona [che conosciamo come Sant’Agostino] il quale, meditando sulla sentenza di Lucrezio attraverso l’Hortensius di Cicerone [un’opera purtroppo andata smarrita, della quale possediamo solo pochi frammenti proprio attraverso Agostino], pensa che «la verità [o il senso di responsabilità] vada cercata dentro di noi [in interiore]», ma questa è un’altra storia che appartiene al territorio della “sapienza del tardo antico” sul quale viaggeremo nel prossimo Percorso.
Lucrezio manifesta spesso la sua lucida disperazione per il fatto che l’universo è mal congegnato e, di conseguenza, gli umani sono destinati all’infelicità e per il fatto che il male cova nell’interiorità dell’essere umano, ma Lucrezio è convinto che la persona possa godere di momenti di felicità solo se si mette alla ricerca della verità anche se sa di non poterla trovare: quindi il “pessimismo lucreziano” può essere considerato [ed è stato considerato] come un “pessimismo fiducioso, speranzoso”, si parla di “pessimismo ragionevole” perché rifiuta il sonno della ragione.
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Quale di queste parole – la sfiducia, lo scoraggiamento, la diffidenza, la passività, il dubbio, il qualunquismo, la speranza, l’ipotesi, la probabilità, la razionalità, o quale altra parola – mettereste per prima accanto al termine “pessimismo”?...
Scrivetela...
E ora leggiamo il brano dove Lucrezio scrive la sentenza che dà un senso al suo poema e che dà un senso a che cosa lui intenda per “progresso” e per “pessimismo”: la riflessione lucreziana condiziona il pensiero dell’epoca “ambigua” che, con la fine della Repubblica, sta nascendo e dà inizio ufficialmente all’età dei Classici che si configura come la prima importante “stagione del dissenso”.
LEGERE MULTUM….
Tito Lucrezio Caro, De rerum natura [La natura] Libro V 1412-1435. L’umano progresso?
Ciò che possediamo ci basta fino a quando non troviamo qualcosa che ci pare migliore e che lo sostituisca.
È così che ci siamo stancati delle ghiande, è così che abbiamo abbandonato i giacigli di foglie e di fronde.
Allo stesso modo è stata disprezzata la pelle delle fiere come veste, eppure, quando essa fu usata
per la prima volta, suscitò tanta invidia che costò la vita a colui che la indossò, anche se poi,
tutta insanguinata e lacera, non poté certo servire agli assassini. Allora era la pelle
di una fiera a tormentare la vita degli umani, oggi sono la porpora e l’oro: la verità
è che la colpa è prima di tutto dentro di noi [magis in nobis culpa resedit]. E se ripararsi dal freddo
con una pelle era necessario, coprirsi di vesti d’oro e di porpora è perfettamente superfluo:
eppure il genere umano continua a faticare per niente,
a consumare la sua vita senza saper porre i giusti limiti ai suoi desideri e senza sapere in che cosa
consiste il vero piacere. Così l’umanità è progredita, ma il progresso
è avvenuto e avviene a prezzo di orribili crimini contro la stessa umanità. …
Rimane da commentare l’ultimo Libro del De rerum natura, e anche il VI Libro di questo poema ci riserva una sorpresa in funzione della didattica della lettura e della scrittura: per il contenuto non è propriamente una bella sorpresa ma per l’esercizio della riflessione è certamente un elemento significativo.
Il VI libro del De rerum natura è considerato un completamento del Libro precedente perché si propone di dare una spiegazione scientifica di quei fenomeni naturali che ordinariamente spaventano gli esseri umani, perché in essi vedono, erroneamente, la manifestazione dell’ira di qualche divinità e invece non sono altro che le manifestazioni [le atomiche epifanie] del modo con cui si evolve la vita del pianeta attraverso il fenomeno inarrestabile della “distruzione” che scandisce inesorabilmente il cammino umano [ricordate Gli anelli di Saturno del prof. Sebald? Lo abbiamo incontrato all’inizio di dicembre dello scorso anno e ora possiamo aggiungere che è stato un attento lettore dell’opera di Lucrezio].
Così, dopo aver elogiato la città di Atene come patria di Epicuro, Lucrezio chiarisce le vere cause dei lampi, dei fulmini, delle trombe marine, delle nubi, dell’arcobaleno, dei terremoti, del vulcanismo, del magnetismo e, infine, delle epidemie e delle pestilenze che sono le forme più terribili di “distruzione”: e il Libro VI, insieme al poema, si conclude proprio con il grandioso e drammatico quadro di Atene devastata da una terribile epidemia di peste. Lucrezio alla fine del VI Libro del De rerum natura descrive con uno straordinario realismo le conseguenze della spaventosa epidemia di peste che colpisce Atene e così facendo presenta sistematicamente per la prima volta nella Storia della cultura un orribile scenario a cui è stato dato il nome di “trionfo della morte”.
Questa dicitura – che tutte e tutti voi avete certamente in mente – rappresenta il titolo di un vastissimo scenario culturale che investe la Storia della Letteratura ma soprattutto la Storia dell’Arte figurativa.
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Se utilizzate la rete potete facilmente accedere a tutta una serie di opere che s’intitolano Il trionfo della morte e che, spesso, più che incutere terrore fanno sorridere perché contengono anche una certa dose di comicità non sempre involontaria...
Fate una ricerca in proposito…
Nel grandioso e drammatico quadro di Atene devastata dalla peste che Lucrezio descrive con grande efficacia domina un particolare sentimento che il poeta è stato capace di esprimere in modo mirabile in tutti i Libri del suo poema.
L’interesse delle studiose e degli studiosi contemporanei per il testo del De rerum natura di Lucrezio è fortemente aumentato soprattutto quando è stato definito con maggiore completezza, all’inizio del secolo scorso, il concetto di “inconscio”. Nella rappresentazione poetica lucreziana le descrizioni più efficaci riguardano il sentimento dell’angoscia, che Lucrezio ha saputo descrivere in modo mirabile nella sua opera, e il sentimento dell’angoscia è proprio il centro da cui nascono e si irradiano i vari aspetti del mondo dell’inconscio: i sogni, le allucinazioni, le frenesie, le ansie. Da questi fenomeni il poeta Lucrezio si sente attratto perché gli sembrano essere le manifestazioni più evidenti e più violente di quelle forze misteriose e inspiegabili [non tutte le domande hanno una risposta, c’insegna Lucrezio] che costringono l’essere umano a vivere nell’angoscia e che danno l’impressione di agire sotto la spinta e sotto il dettato di un potere sotterraneo, estraneo all’io cosciente.
Lucrezio però, con la sua solita sorprendente lucidità, dà una risposta – sebbene di carattere interlocutorio – con spirito pedagogico alla domanda: perché siamo angosciati? Di questo nostro stato psicologico – afferma Lucrezio – dobbiamo farcene una ragione, dobbiamo maturare la consapevolezza che siamo molto spesso soffocati da un’angoscia terribile, dobbiamo maturare la consapevolezza che siamo preda della noia [taedium vitae] la quale rode il nostro cuore, dobbiamo maturare la consapevolezza che soffriamo di un’insoddisfazione la quale offusca le pur brevi parentesi di gioia, dobbiamo maturare la consapevolezza che ci coglie l’irrequietezza perché aspiriamo ad un inafferrabile e quindi irraggiungibile stato di benessere, dobbiamo maturare la consapevolezza che abbiamo la smania di cose nuove che poi si rivelano uguali a tutte le altre: ebbene, ci troviamo in questa condizione perché siamo alla ricerca affannosa delle cause della nostra esistenza e il male sta nel fatto che non ne siamo coscienti, che non vogliamo esserne coscienti, che preferiamo soffocare la coscienza. Il potere costituito – afferma Lucrezio – ci asseconda volentieri perché continua a sfornare situazioni alienanti [la conseguenza delle false risposte date dalle religioni idolatriche] che non permettono alla persona di dedicarsi alla ricerca del senso da dare alla propria esistenza ma danno stupide risposte preconfezionate, falsamente consolatorie. Lucrezio, con la sua rappresentazione poetica, invita a prendere coscienza [socraticamente] del fatto che il senso dell’esistenza sta nella ricerca del significato da dare alla propria esistenza e, in questa ricerca, lo strumento privilegiato è lo studio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Le parole “angoscia”, “noia”, “insoddisfazione”, “irrequietezza”, “smania” attirano l’attenzione... Scrivete quattro righe per stabilire quali siano le cause che vi procurano angoscia e noia e insoddisfazione e irrequietezza e smania...
Non perdete l’occasione di riflettere...
Leggiamo, in proposito, questo frammento dal Libro III del De rerum natura.
LEGERE MULTUM….
Tito Lucrezio Caro, De rerum natura [La natura] Libro III 1053-1069. Taedium vitae
Viviamo con la paura di morire quando già tante persone sagge sono scomparse,
sentiamo il peso della vita e siamo insoddisfatti anche quando non abbiamo
particolari motivi di dolore e di insoddisfazione, abbiamo dentro come un tarlo
che ci consuma: ma se meditassimo e riflettessimo sui profondi problemi del vivere
e del morire capiremmo il perché della vita e della morte e ci faremmo una ragione
del nostro stato di malessere e vivremmo consapevolmente. Il vivere senza
la consapevolezza che sia necessario cercare, anche senza speranza di trovare,
il significato dell’esistenza, è uno degli aspetti più tragici della vita umana. …
Ma ora torniamo ad occuparci della parte finale del Libro VI con la quale si conclude il poema.
Lucrezio alla fine del VI Libro del De rerum natura descrive, con uno straordinario realismo, le conseguenze della spaventosa epidemia di peste che colpisce Atene. Lucrezio mette in versi un avvenimento – l’epidemia di peste che aveva colpito Atene nel 430 a.C. – già raccontato da Tucidide [460-400 circa a.C.] nel II Libro della sua Storia della guerra del Peloponneso, ma Lucrezio si pone al di fuori di qualsiasi collocazione cronologica perché non è tanto il resoconto storico che a lui interessa quanto l’esercizio della “sapienza poetica” e, quindi, non c’è confronto tra la grandiosa tragica descrizione del poeta latino e l’asciutto ed essenziale resoconto in prosa dello storico greco: i generi letterari con cui Tucidide [storico di età antica] e Lucrezio [poeta ellenistico] trattano questo tema sono diversi ma c’è congruenza su una serie di elementi che accompagneranno sempre il racconto del tragico avvenimento della peste che occupa in Letteratura un posto di rilievo.
E ora, prima di aprire una breve parentesi sul valore che ha assunto il tema della peste in Letteratura e prima di puntare – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – la nostra attenzione su due opere recenti che riprendono in modo diverso questo argomento, leggiamo un frammento di 48 versi dal Libro VI del De rerum natura. Bisogna ribadire che è con Lucrezio che questo drammatico argomento [descritto in 150 versi] entra nella Storia del Pensiero Umano con i molti temi di carattere esistenziale che fa emergere: l’epidemia pestilenziale diventa una grande metafora dell’impotenza umana e una straordinaria allegoria del trionfo della morte.
LEGERE MULTUM….
Tito Lucrezio Caro, De rerum natura [La natura] Libro VI 1138-1286. Il trionfo della morte
L’epidemia, proveniente dall’Egitto, scoppiò in Atene, spopolando la città e
le campagne. La gente si ammalava e moriva a mucchi: dapprima la testa avvampava,
gli occhi arrossavano, la gola si copriva di piaghe, la lingua si seccava, poi il male scendeva
nel petto e quando raggiungeva il cuore la fine era vicina. All’abbattimento fisico si accompagnava l
a depressione psichica: singhiozzi profondi e gemiti lamentosi scuotevano le membra degli infermi,
che esteriormente non erano neppure caldi, ma dentro bruciavano per la febbre, al punto
che per loro l’unico conforto consisteva nel gettarsi nudi nell’acqua dei fiumi.
La medicina stessa era impotente di fronte alla gravità del male.
Chiari erano però i sintomi che preannunciavano l’avvicinarsi della morte: l’ammalato si perdeva
d’animo per la paura, i tratti del viso apparivano stravolti, le orecchie ronzavano, il respiro si faceva più fitto e faticoso,
il collo si imperlava di sudore, la saliva diventava scura e salmastra, i muscoli
delle mani si contraevano, le membra immancabilmente si raggelavano, gli occhi
si incavavano, la fronte si gonfiava: all’ottavo o al nono giorno sopraggiungeva
la morte. E se qualcuno scampava alla malattia, moriva poco dopo per le terribili piaghe
o per le frequenti diarree; taluni, inoltre, pur di salvarsi non esitavano
a tagliarsi le mani e i piedi: altri persero gli occhi o la memoria. I cadaveri
si ammucchiavano gli uni sopra gli altri, ma gli uccelli e le fiere stavano ben lontani,
per il fetore insopportabile e anche perché i pochi che se ne erano cibati erano morti.
Del resto anche gli animali non osavano uscire più dalle loro tane, e la maggior parte
moriva miseramente, primi tra tutti i cani. Terribili erano poi le conseguenze
della peste sul piano psicologico e sociale: il contagio avveniva con estrema facilità
e uno, non appena si sentiva male, già si vedeva morto. Alcuni scappavano
abbandonando i loro cari ammalati per paura di essere contagiati ma poco dopo morivano essi stessi
nel più assoluto abbandono; quelli che invece rimanevano
al capezzale dei loro parenti, pagavano con la morte il loro nobile altruismo.
Nessuno in pratica fu risparmiato. Anche nelle campagne i pastori e i contadini languivano,
chiusi nelle loro capanne nella miseria più nera: i figli cadevano esanimi sui corpi
dei loro genitori già morti e padri e madri spiravano tra le braccia dei figli. Parecchi dalla campagna
cercarono rifugio in città, dove si ammassarono nelle case, per le strade, presso le fontane,
ad aspettare la morte che li coglieva laceri e sporchi, ridotti pelle ed ossa. Perfino i templi degli dèi erano pieni di cadaveri che nessuno
si prendeva la briga di portar via: il dolore era tale che era venuta meno qualsiasi forma di religioso rispetto.
Anzi, nella confusione generale non si usava più neppure seppellire i morti e orrende scelleratezze
suggerì la tristezza della situazione: la gente, per non lasciar lì insepolto il cadavere
di un proprio caro, non esitava a gettarlo sul rogo destinato ad un altro,
e, se c’era bisogno, ricorreva anche alla forza. …
Il realistico racconto lucreziano della peste [noi abbiamo appena letto i 48 versi iniziali di questo racconto] si colloca fuori dalla cronologia perché allora come ora l’umanità potrebbe essere vittima della spaventosa epidemia: oggi, come allora, di fronte allo scatenarsi delle forze della natura l’essere umano si troverebbe inerme con le stesse paure, con le stesse viltà di cui è solito dar prova quando è chiamato a far fronte alle necessità più gravi. Con lucido realismo Lucrezio passa in rassegna i vari momenti della malattia, i suoi sintomi e le sue conseguenze, senza trascurare nulla per accrescere l’orrore che nasce dalla visione dei corpi straziati, in cui è scomparsa ogni traccia di umana dignità: per Lucrezio è nei momenti di estrema gravità che, caduta la maschera [dal punto di vista letterario i termini “peste” e “maschera” sono spesso associati], si può vedere il vero volto dell’essere umano e, quindi, la sua diagnosi della situazione tende sempre a spostarsi dall’esteriorità all’interiorità, per cogliere quelle che sono le reazioni della persona di fronte ad un tremendo flagello [dal punto di vista letterario i termini “peste” e “corruzione” sono spesso associati]. Con il racconto della peste il pessimismo lucreziano sembra toccare il suo punto massimo nella condanna degli atteggiamenti più meschini dell’animo umano: la paura di morire, con l’eccessivo e assurdo attaccamento alla vita, l’egoismo di chi abbandona i propri cari caduti ammalati per timore di ammalarsi egli stesso, l’abbandono delle pratiche pietose più elementari inducono ad una riflessione sul rapporto tra la disgregazione e la solidarietà. Dobbiamo pensare, quindi, che Lucrezio vuole ammonire le lettrici e i lettori perché, anche di fronte ad una cosa ineluttabile come la pestilenza, non perdano la loro ragionevolezza: la prudenza, l’assennatezza, l’equilibrio.
Noi non sappiamo se il poema di Lucrezio doveva concludersi in questo modo, ma oggi, il fatto che il sipario si chiuda su questo scenario, con la grandiosa descrizione della peste, assume un significato straordinario: forse Lucrezio, arrivato a questo punto della composizione, si è reso conto che il suo poema poteva risultare completo proprio attraverso il gioco poetico dell’antitesi e, se così è stato, lui deve aver gioito molto. Che cosa significa che il De rerum natura poteva risultare completo attraverso il gioco poetico dell’antitesi? Significa – e deve essersene reso conto anche Cicerone che ha pubblicato l’opera – che è possibile vedere nel racconto conclusivo della peste un’antitesi della scena iniziale del poema, dell’episodio dedicato a Venere, come se all’iniziale inno alla potenza fecondatrice, che è alla base della vita, dovesse corrispondere questo terribile canto dedicato alla morte: Lucrezio ama questi parallelismi, questi contrasti tra prologhi ed epiloghi perché così funziona l’umana esistenza.
Il racconto lucreziano dell’episodio della peste di Atene è nato come esemplificazione della teoria epicurea sull’origine e sulla diffusione delle epidemie, a cui è estraneo qualsiasi intervento divino [dal punto di vista letterario i termini “peste” e “provvidenza” sono spesso associati ma Lucrezio si dissocia da questa idea]; ebbene, questo racconto è stato per il pensiero dei medioevali e dei moderni, ed è oggi per il pensiero contemporaneo, un altro di quei mirabili itinerari intellettuali nel corso dei quali Lucrezio quasi dimentica l’ipotesi iniziale – dare una spiegazione “scientifica” alle epidemie – per seguire il suo grande estro poetico, e questa ulteriore e significativa prova di poesia, a conclusione dell’opera, rende ancora più forte il fascino del De rerum natura: un fascino che è rimasto intatto nei secoli.
E ora – in funzione della ricerca individuale – apriamo una breve ma ricca parentesi sul valore che ha assunto il “tema della peste” in Letteratura proprio a partire dal racconto “sapienziale e poetico” di stampo ellenistico-imperiale di Lucrezio.
Nella Storia della Letteratura uno dei racconti più antichi sul tema della peste lo troviamo nel Libro dell’Esodo, dal capitolo 7 al capitolo 11, dove si narra il celebre episodio delle “piaghe d’Egitto” [in ebraico la parola “piaga” rimanda al flagello della peste].
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In ogni casa c’è una Bibbia e si presume, quindi, che ne possediate una e, di conseguenza, potete leggere, o rileggere, questi capitoli del Libro dell’Esodo…
Un altro racconto della peste, composto in età greco-antica, lo troviamo nella già ricordata Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide quando lo scrittore narra la peste di Atene del 430 a.C..
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Potete consultare in biblioteca la Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide e leggere le prime venti righe del capitolo 53 del II Libro dove l’autore mette in evidenza il nesso tra la peste e l’infrazione delle Leggi…
La narrazione storica di Tucidide ha fatto da modello al racconto poetico di Lucrezio e il testo poetico di Lucrezio ha poi fatto scuola in campo letterario e noi non possiamo fare a meno – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – di fare una piccola rassegna su questo argomento per conoscere e per capire i diversi significati che viene ad assumere il “tema della peste”.
Il tema della peste, con tutta la sua potenzialità di carattere realistico e metaforico, fa da pretesto per la composizione del Decameron di Giovanni Boccaccio [opera scritta tra il 1349 e il 1351]: Boccaccio immagina – e lo racconta nell’Introduzione alla Prima giornata – che, durante l’epidemia di peste [la mortal pestilenza] a Firenze nel 1348, sette ragazze e tre ragazzi si rifugino per dieci giorni [“deka-emera”, in greco, significa “dieci giorni”] in una villa per evitare il contagio e lì, per passare il tempo, giocano ad inventar novelle e l’allegra brigata – perché la tragedia della peste fa scatenare spesso una macabra allegria – ne produce ben cento, dieci novelle per giornata.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il testo del Decameron è facilmente reperibile nelle biblioteche domestiche e, quindi, l’Introduzione alla Prima giornata è facilmente consultabile anche se la prosa trecentesca del Boccaccio non è facile da leggere senza l’ausilio delle note: per esercizio potete far scorrere il testo di questa Introduzione sotto gli occhi in modo da rintracciare la parola “pestilenza” – la trovate sette volte – e potete leggere la frase che contiene questa parola per coglierne il senso…
Tra i testi della Letteratura che raccontano le conseguenze del contagio da peste uno dei più lucidi è sicuramente il resoconto di Daniel Defoe [1660-1731] che nel suo Diario dell’anno della peste – la versione italiana è La peste di Londra e la traduzione è di Elio Vittorini – racconta la terribile epidemia che ha infuriato a Londra nel 1665. Defoe – che aveva cinque anni all’epoca dell’epidemia – ricostruisce fedelmente questo avvenimento con grande precisione documentaria ma narrandolo in modo così incalzante, con un’incisività tale e con uno stile così schietto e veloce che sembra di leggere un romanzo d’avventure.
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Questo romanzo lo trovate in biblioteca, lo potete sfogliare e non vi sarà difficile trovare il brano che riporta, in 8 punti, gli obblighi imposti per impedire il diffondersi del contagio, è sempre bene essere a conoscenza di certe cose…
La peste nella Letteratura è stata immaginata anche in chiave fantastica e simbolica e, a questo proposito, tra gli esempi più celebri, dobbiamo annoverare il racconto di un autore amante del mistero incombente e delle situazioni che generano orrore in chi legge: stiamo parlando del racconto intitolato La maschera della morte rossa dello scrittore americano Edgar Allan Poe [1809-1849] dove la “morte rossa” è il nome simbolico che viene dato alla peste, un elemento che lo scrittore utilizza anche in altri due racconti intitolati Re Peste e L’ombra.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
I Racconti di Edgar Allan Poe sono facilmente reperibili e sono leggibili in poco tempo perché sono composti da testi brevi, e se amate il “genere horror” non potete fare a meno di avvicinarvi a questo autore che viene considerato un classico in materia…
Altra splendida trasfigurazione simbolica della peste è quella creata dal grande scrittore russo Aleksandr Puškin [1799-1837] nella tragedia intitolata Il festino in tempo di peste. Puškin prende spunto per scrivere quest’opera da un episodio marginale di un dramma – l’episodio del banchetto, del festino – dello scrittore romantico inglese John Wilson. Puškin personifica la peste che diventa oggetto di un inno che il Presidente del banchetto, per esaltare la gioia e la passione della gioventù, si ostina a cantare nel corso di questo incontro conviviale organizzato per sfuggire all’infuriare dell’epidemia. Dobbiamo dire che Il festino in tempo di peste fa parte dei cosiddetti quattro “piccoli drammi” in versi che Puškin ha scritto nel 1830, gli altri tre s’intitolano Mozart e Salieri, Il cavaliere nero e Il convitato di pietra e anche nei testi di queste tre opere s’insinua una sorta di epidemia che determina il trionfo della morte.
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In biblioteca, e anche sulla rete, potete entrare in contatto con il testo de Il festino in tempo di peste e potete rintracciare e leggere L’inno alla peste che si presenta come una specie di gioioso duello [Puškin ha sempre avuto la mania dei duelli], di festosa battaglia tra il cuore umano e il contagio…
Alla peste, in Letteratura, è stato attribuito quasi sempre un senso figurato per cui da malattia infettiva del corpo diventa malattia infettiva dell’anima e tra gli autori che hanno interpretato in senso metaforico la peste non possiamo non ricordare lo scrittore Curzio Malaparte [1898-1957] la cui opera è in corso di ripubblicazione e di rivalutazione critica. Nel romanzo, che ha fatto scandalo, intitolato La pelle, Malaparte afferma che gli esseri umani si ammalano facilmente di una malattia endemica chiamata “corruzione”. Nel romanzo La pelle ha un ruolo da protagonista la città di Napoli che, all’indomani della Liberazione, passa dall’eroismo della Resistenza alla peste della corruzione e, quindi, uomini, donne e bambini vengono contagiati da una sorta di malattia per la quale si abbandonano alle più vergognose umiliazioni per procurarsi un po’ di fittizio benessere, pur di “salvare la pelle”. Questo romanzo, dopo un’implacabile e cruda narrazione, approda ad un finale dove emerge, in senso cristiano, il sentimento della pietà e la pratica della sopportazione.
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La pelle di Curzio Malaparte è un romanzo contemporaneo di cui si consiglia la lettura o la rilettura perché il tema della “corruzione” è ancora di attualità…
Tutte le autrici e gli autori – e sono molti – che si sono serviti della peste come tema letterario, hanno narrato le reazioni delle persone di fronte al manifestarsi e al dilagare dell’epidemia e le conseguenze che l’epidemia stessa ha sulle loro emozioni e sui loro comportamenti.
Tra gli autori che, in età contemporanea, hanno saputo meglio compiere un’analisi concreta, asettica, priva di moralismo e di trasfigurazioni metaforiche, delle conseguenze dell’epidemia, due si distinguono e sono Thomas Mann [1875-1955] con il romanzo La morte a Venezia [1912] e Giovanni Verga [1840-1922] con il romanzo I Malavoglia [1881]. Questi due scrittori offrono due prospettive antitetiche ma complementari perché in La morte a Venezia il campo di osservazione è la società in generale, mentre ne I Malavoglia è il nucleo famigliare. Entrambi i protagonisti di questi due romanzi – che sono due classici della Storia della Letteratura contemporanea – pensano che la fuga [dal colera asiatico di Venezia e dal colera di Catania] sia l’unica reazione possibile, sia l’unica via di salvezza, ma trovano ugualmente la morte perché s’incantano ad osservare la fuga degli altri: uno s’incanta a contemplare l’ideale della bellezza, l’altro è bloccato dall’imbattibile forza del destino.
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A questo proposito, per dare un significato a questi stati d’animo descritti nel testo di questi due romanzi, potete ascoltare, o riascoltare, l’Adagietto [è stato scritto con la “i” e la “i” è rimasta] della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler [1860-1911], non è difficile reperire un’incisione di quest’opera composta proprio all’inizio del secolo scorso...
Per concludere questa breve rassegna – alla quale ciascuna e ciascuno di voi, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, può dare sviluppo – dobbiamo ancora fare due citazioni. Se vogliamo giocare con le parole potremmo dire che questa rassegna si presenta, paradossalmente, come una sorta di epidemia letteraria che potrebbe continuare a riprodursi a lungo. La “peste”, che è una malattia praticamente debellata, si riproduce ancora costantemente e allegoricamente in seno alla Letteratura, e sul sentiero della Storia del Pensiero Umano l’emergenza di questa parola-chiave, rappresentata in vario modo, è sempre evidente [e strada facendo ne faremo esperienza] la “peste” continua ad essere contagiosa sul piano culturale, e questo è uno di quei casi in cui il “contagio” è un fatto positivo. Inoltre, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, il concetto di “pestilenza” è stato utilizzato dalle autrici e dagli autori per svolgere la funzione che hanno i vaccini: in questo caso un ruolo di stimolo per la produzione di anticorpi che spronino alla riflessione sui mali procurati dalla superstizione, dalla corruzione, dalla prevaricazione.
Negli ultimi capitoli dei Promessi sposi, dal XXXI al XXXVI, Alessandro Manzoni descrive la peste che si è abbattuta su Milano nel 1630. Manzoni descrive la peste in tutto il suo spaventoso orrore con grande perizia e la storia e l’immaginazione si fondono in una corale e dolorosa sinfonia [abbiamo appena citato la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler]. Manzoni utilizza gli occhi e le sensazioni di Renzo, che angosciato va a Milano in cerca di Lucia, per descrivere il tragico quadro della desolante solitudine causata dell’epidemia e per rappresentare il raccapriccio di Renzo nel vedere le case vuote, i cadaveri abbandonati in strada a imputridire, i carri carichi di corpi di moribondi guidati dai monatti. L’interpretazione manzoniana della peste – e Lucrezio disapprova – è in chiave provvidenziale, l’epidemia è come una “scopa” che spazza via la corruzione e la sofferenza umana viene attenuata dalla fiducia in Dio e da un rafforzamento della fede.
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La Scuola – siccome è molto probabile che I promessi sposi siano nella vostra biblioteca domestica – consiglia di leggere il capitolo XXXIV del romanzo che è un piccolo capolavoro per la sapienza poetica con cui Alessandro Manzoni costruisce questo testo…
Leggiamo ora un frammento dal romanzo manzoniano: è la pagina finale del capitolo XXXI de I promessi sposi – con il quale ha inizio il racconto dell’epidemia – dove emergono due elementi che sono sempre presenti nelle narrazioni riguardanti la peste a cominciare da Tucidide.
Il primo elemento è la ricerca un capo espiatorio [l’untore] al quale, cavalcando le bestie indomabili della superstizione e dell’ignoranza, dar la colpa dell’epidemia: questo elemento – denuncia il Manzoni – non viene smentito con chiarezza dalle autorità costituite che vogliono fornire al popolo un pretesto perché sfoghi la propria ira non contro chi avrebbe dovuto, con efficaci provvedimenti di governo, evitare o contenere la malattia ma contro dei fantasmi, contro dei simulacri, contro gente innocente [primi fra tutti i forestieri].
Il secondo elemento, direttamente collegato al primo, è che la parola “ peste” non si può usare esplicitamente, non si può citarla in modo palese: il potere costituito tende sempre a sdrammatizzare [lo si è fatto recentemente in Italia con la “crisi economica” che sembrava non ci dovesse toccare o che potesse essere prevenuta e curata con le barzellette] per scaricare le proprie responsabilità.
E adesso leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Alessandro Manzoni, I promessi sposi Capitolo XXXI
La città, già agitata, ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggeri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. Si fecero interrogatori, esami d’arrestati, d’arrestatori, di testimoni; non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, d’esaminare, d’intendere. Il tribunale della sanità pubblicò una grida, con la quale prometteva premio e impunità a chi mettesse in chiaro l’autore o gli autori del fatto. Ad ogni modo non parendoci conveniente, dicono que’ signori nella citata lettera, che porta la data del 21 di maggio, ma che fu evidentemente scritta il 19, giorno segnato nella grida stampata, che questo delitto in qualsivoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo, e per cavare indicio del fatto, habbiamo oggi publicata grida etc. Nella grida stessa però, nessun cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura, che partecipavano al governatore: silenzio che accusa a un tempo una preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto più biasimevole, quanto più poteva esser perniciosa. Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato. Coloro che credevano esser quella un’unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl’insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell’altro gentiluomo milanese. Non mancavan, come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e l’attribuivano a scolari, a signori, a ufìziali che s’annoiassero all’assedio di Casale. Il non veder poi come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s’andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in oblìo. C’era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perché, tanto nel lazzeretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, “si diceua” (gli ultimi argomenti d’una opinione battuta dall’evidenza son sempre curiosi a sapersi), “si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero morti”. Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di san Gregorio, fuori di porta Orientale, a pregar per i morti dell’altro contagio, ch’eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla. In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefìzio e del malefìzio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire. …
E, infine, per concludere la nostra rassegna – che sebben piccola è assai nutrita – facciamo un’ultima citazione e puntiamo la nostra attenzione su un’opera che, certamente, risulterebbe gradita a Lucrezio perché rispecchia la sua mentalità e riprende quell’idea di un “pessimismo fiducioso” che caratterizza il pensiero lucreziano e anche il pensiero della Scuola filosofica romana. Il poema di Lucrezio si chiude con la descrizione della peste, derivata dalle famose pagine di Tucidide sull’epidemia che ha devastato Atene, ma nel De rerum natura la peste non devasta la città, devasta l’intero genere umano e, nell’infuriare dell’epidemia, la persona saggia non ha rimedi miracolosi da offrire ma ha soltanto la fredda luce della ragione da opporre al trionfo dell’assurdo proprio come fanno i protagonisti del romanzo di Albert Camus [un ammiratore di Lucrezio] intitolato, appunto, La peste.
Lo scrittore Albert Camus – autore del romanzo La peste – è nato nel 1913 a Mondovì [Costantina] nell’Algeria francese in una famiglia molto povera, suo padre Lucien è un operaio alsaziano che, richiamato alle armi all’inizio della prima guerra mondiale, muore nel 1914 nella battaglia della Marna, sua madre Catherine Sintès è di origine spagnola e per sopravvivere deve trasferirsi ad Algeri nel quartiere povero di Belcourt dove Albert Camus passa l’infanzia a contatto con la miseria del sottoproletariato arabo e alle prese con una realtà sociale che gli lascerà un ricordo indelebile che emerge nei suoi scritti [è uscito in questo giorni nelle sale il film di Gianni Amelio tratto dal romanzo autobiografico di Camus intitolato Il primo uomo, il film porta lo stesso titolo]. Nonostante la povertà e la cattiva salute, soprattutto per merito del suo maestro delle elementari che ammira la sua intelligenza, Albert Camus riesce a studiare, a laurearsi in filosofia all’università di Algeri, a intraprendere la carriera del giornalista [Camus ha diretto Cambat uno dei giornali più importanti della Resistenza europea], fino a diventare uno dei più grandi scrittori contemporanei al quale è stato assegnato il premio Nobel per la Letteratura nel 1957, ed è stato anche, con Sartre, un caposcuola dell’Esistenzialismo. Camus muore nel 1960 in un incidente stradale a Villeblevin [nella regione dello Yonne]. Camus, oltre ad essere un romanziere, è stato un drammaturgo e ha diretto una compagnia teatrale [l’Equipe], ed è stato un saggista che ha saputo portare in Letteratura una problematica che mette al centro dei valori umani ed esistenziali il diritto alla liberta.
L’elenco delle opere di Camus è lungo e noi ne citiamo solo alcune che dovrebbero essere lette: i due romanzi Lo straniero [1947] e La caduta [1958] e i due saggi Il mito di Sisifo [1947] e L’uomo in rivolta [1951]. E poi c’è La peste, il romanzo pubblicato nel 1947 a cui Camus ha cominciato a pensare nel 1939 e del quale nel 1942 [settant’anni fa] aveva già scritto la prima stesura.
Il testo de La peste riporta la cronaca di un’immaginaria epidemia scoppiata nella città di Orano, in Algeria. Gli avvenimenti sono narrati in terza persona dal dottor Rieux, il medico che, preoccupato per l’imminente trasferimento della moglie in un sanatorio, scopre in un topo morto l’inizio del contagio e questo avvenimento segna l’inizio della peste che assedierà la città. Naturalmente la peste – a detta dell’autore – è, prima di tutto, una metafora che rappresenta la lotta della Resistenza europea contro il nazifascismo e poi è un’allegoria che raffigura tutte le forme del male contro cui combatte l’essere umano. Orano viene isolata con un cordone sanitario dal resto del mondo, è affamata, è incapace di fermare la pestilenza e diventa, quindi, il palcoscenico dello scatenarsi delle passioni di una umanità che viene a trovarsi sempre al limite tra la disgregazione e la solidarietà: i protagonisti del romanzo sono persone sagge che sanno di non avere rimedi miracolosi da offrire ma, nonostante questo, sono consapevoli del fatto che non possono perdere il lume della ragione con la quale si devono, comunque, opporre al trionfo dell’assurdo.
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Questo romanzo merita di essere letto, o riletto, e quindi mettetelo in lista: avrete preso la buona abitudine di comporre, per iscritto, un catalogo delle opere da leggere?...
Tenere un catalogo delle opere da leggere è un utile esercizio di ordine mentale indipendentemente dal fatto che poi si riesca a leggere tutto ciò che l’elencazione contiene...
Leggiamo ora un brano da La peste di Camus che esemplifica lo stile di questo scrittore attento agli aspetti medici, ma soprattutto concentrato sulle conseguenze psicologiche dell’epidemia. Camus [allo stesso modo di Tucidide, Lucrezio, Manzoni] mette in evidenza come la parola “peste”, all’inizio dell’epidemia, venga pronunciata tra l’incredulità e l’ostinato “non volersi rendere conto” della gravità della situazione.
Leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Albert Camus, La peste
La stampa, così pettegola nella faccenda dei sorci, non parlava più di nulla. Gli è che i sorci morivano per la strada e le persone nella loro camera; e i giornali non si occupano che della strada. Ma la prefettura e il municipio cominciarono a consultarsi. Per tutto il tempo che ogni medico non aveva avuto conoscenza di più di due o tre casi, nessuno aveva pensato di muoversi. Ma infine, bastò che qualcuno pensasse a far la somma. La somma era paurosa. In pochi giorni appena i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese a quelli che si preoccupavano dello strano morbo che si trattava d’una vera epidemia. Fu il momento scelto da Castel, un collega di Rieux molto più anziano di lui, per andare a trovarlo.
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La drammatica descrizione della peste fatta da Lucrezio nel De rerum natura è anche l’immagine di un’epoca – l’età di Cesare – in cui la gente si era abituata a “flagelli” come le congiure, le guerre civili, le liste di proscrizione, le uccisioni indiscriminate [abbiamo partecipato all’uccisione di Cicerone], la legislazione ad uso e consumo dei potenti, la rimozione delle Istituzioni repubblicane.
Lucrezio ci indica una strada che porta dinnanzi al vastissimo paesaggio intellettuale di una nuova epoca: l’età di Augusto, e l’opera di Lucrezio – il suo “pessimismo ragionevole” – influenza gli intellettuali di questa età. Con l’età di Augusto i “flagelli” dell’epoca precedente sembra si siano trasformati in “fortune e benedizioni”. Perché diciamo “sembra”? Perché le studiose e gli studiosi concordano nell’affermare che l’età di Augusto è pervasa da un alone di ambiguità: e quali sono le caratteristiche di questa ambiguità?
Prima di tutto c’è un’ambiguità di carattere sociale: con l’epoca di Augusto terminano le guerre civili e Ottaviano adotta un’accorta politica di distensione per riappacificare gli animi ma, contemporaneamente, per raggiungere quello che avrebbe dovuto essere un nobile obiettivo, costruisce – con la legislazione sulla famiglia [le Leggi Giulie], con l’istituzione del corpo dei pretoriani per il mantenimento dell’ordine pubblico, con la polizia e i servizi segreti – poderosi strumenti di repressione che neutralizzano qualsiasi tipo di opposizione e non favoriscono la pacificazione nazionale che risulta solo apparente.
In secondo luogo c’è un’ambiguità di carattere politico perché Ottaviano – dopo aver sconfitto tutti gli avversari – si presenta come il difensore e il restauratore delle Istituzioni repubblicane: si muove, al contrario di Cesare, con molta prudenza nello stabilire la sua autorità sullo Stato. Ottaviano sa che ai Romani – e anche a lui – è inviso il titolo di re e quindi vuole che, in apparenza, nulla cambi nell’ordinamento repubblicano: Ottaviano è stato abilissimo a far sì che il passaggio dalla Repubblica al Principato avvenisse senza scossoni e si guarda bene dall’abolire il Senato della Repubblica e i Comizi eletti dal popolo. Nel 27 a.C. si presenta in Senato e depone i poteri straordinari che aveva avuto come unico superstite dei triumviri e chiede che si continuino ad eleggere regolarmente i consoli, i pretori, i tribuni della plebe e tutti gli altri magistrati, ed esige che lo Stato continui a chiamarsi Repubblica: in realtà vuole che tutti [i senatori, l’aristocrazia mercantile e il popolo] abbiano fiducia in lui e che lo considerino il “salvatore della patria” e per questo accetta il titolo [una nuova onorificenza coniata appositamente] di principe del Senato [il primo dei senatori con diritto di scegliere per primo]. A consacrare tanta autorità il Senato gli conferisce il titolo di “Augustus”, un termine che deriva dal verbo “augere” che significa “accrescere” e, con questo titolo, la persona di Ottaviano viene considerata “sacra e inviolabile”: il nome di famiglia “Cesare” si trasforma in titolo ufficiale e verrà conferito, da questo momento, anche agli altri imperatori, detti i “Cesari”.
Poi c’è un’ambiguità di carattere culturale – che è quella che a noi interessa maggiormente – perché Ottaviano è un uomo di cultura che è cresciuto e ha studiato ad Atene e sa benissimo quanto sia importante investire in intelligenza e sa benissimo anche che gli investimenti in intelligenza spesso fomentano il dissenso nei confronti del potere che nasconde sempre scheletri nei propri armadi [Ad ottobre apriremo gli armadi di Augusto, sarà bene non farlo sapere in giro]. Quindi Augusto [ormai bisogna chiamarlo così dopo il 27 a.C.] gioca di anticipo e si fa lui promotore e sponsorizzatore della cultura e dichiara di desiderare che la civiltà e la letteratura greco-romana raggiungano il massimo splendore: si circonda sempre di consiglieri ricchi di doti intellettuali perché vuole conoscere e vuole capire come la pensano, anche se poi lui fa sempre di testa sua, e anche se, poi, li fa controllare dai servizi segreti. Lui si dichiara “principe [il primo promotore] della cultura” e richiama gli intellettuali perché il senso patriottico, i culti religiosi e il culto della storia di Roma siano al centro della loro ispirazione.
Dobbiamo dire che questa operazione di controllo e di orientamento ideologico riesce ad Augusto fino ad un certo punto perché, per fortuna, nelle pieghe dell’attività culturale, s’insinuano sempre i germi della libertà sebbene l’età di Augusto sia un’epoca a “libertà limitata”. L’età di Augusto è un’epoca a “libertà limitata” perché il Principe è un despota al quale, tuttavia, va riconosciuta la volontà di prendere delle iniziative utili per cercare di governare uno Stato che, nel suo insieme, comincia ad essere ingovernabile.
La prima decisione dispotica presa da Augusto è quella di reggere le sorti dello Stato dalla sua bella casa privata sul Palatino [che diventa una fortezza presidiata dai pretoriani], svalutando le sedi pubbliche del potere. Una decisione che possiamo considerare saggia è quella di cercare di far cessare le guerre e di instaurare un tempo di pace: Ottaviano non è un guerriero e sa che la guerra è sempre un pessimo affare, tuttavia fa intraprendere dall’esercito alcune campagne militari per stabilizzare i confini su punti strategicamente ben difendibili: a nord allarga il territorio fino al fiume Reno e a est fino al Danubio. Lo Stato romano, nel 27 a.C., si estende per una superficie doppia [sei milioni di chilometri quadrati] di quella dell’Impero di Alessandro Magno e quindi Ottaviano decide di chiudere le porte del tempio di Giano a significare che s’inaugurava per tutto l’Impero la Pax Romana: purtroppo il tempo di pace, dopo 700 anni di guerre [700 anni di guerre e di distruzioni per poter proclamare la pace universale? È un bel paradosso!], durerà solo vent’anni, poi la conflittualità permanente, in modo ancor più acuto, riprenderà vigore.
Augusto attua la riforma dell’amministrazione dello Stato: divide l’Impero in 25 province [dobbiamo ricordare che nella provincia di Siria, che comprendeva la Palestina, un bel giorno, tra il 4 e il 7 a.C., nasce “quel Gesù”, come lo definisce Paolo di Tarso] e si sviluppa la cosiddetta “burocrazia” alle dipendenze del Principe più che dello Stato.
Augusto cerca anche di ravvivare il sentimento religioso, la moralità dei costumi, l’amore all’agricoltura, il patriottismo, l’unità della famiglia [istituisce il “dies familiae” contro il divorzio]: ma queste riforme danno scarsi risultati perché il tarlo della corruzione [la metafora lucreziana dell’epidemia] è inarrestabile e il Principe è anche il primo a predicare bene e a razzolare male, a dare il cattivo esempio con il suo comportamento dispotico [un esempio emblematico è dato dal modo con cui Augusto gestisce - da severo antidivorzista e difensore dell’unità della famiglia - i suoi tre matrimoni, ma ce ne occuperemo ad ottobre di questi argomenti].
Sul piano culturale Augusto fa grandi investimenti e finanzia i nascenti “circoli culturali” perché sa che la cultura è potere – non investe in cultura per abbattere l’ignoranza dilagante, ma per formare sudditi ubbidienti – e vuole conquistare il favore della pericolosa categoria degli intellettuali [lui aveva in mente quelli fortemente critici della generazione precedente, i Cicerone, i Lucrezio], gli intellettuali della sua generazione, in effetti, sembrano stare tutti dalla sua parte: ma è proprio così? Come mai le opere degli autori più importanti, quelli più vicini al Principe, quelli che determinano la grandezza dell’età di Augusto, sembrano essere delle opere di opposizione? E come mai costoro [Ovidio che muore in esilio, Tito Livio che non vede l’ora di scappare a Padova, Orazio protetto da Mecenate, Virgilio sepolto a Napoli e non a Roma] non hanno vita facile? Di queste contraddizioni ce ne dobbiamo occupare: sono le contraddizioni [le aporie] di un’epoca dominata dall’ambiguità dove “l’epidemia” sembra passata ma, in realtà, cova sotto le ceneri dell’ormai defunta Repubblica.
E, per concludere, a proposito dell’attenuazione dell’epidemia, leggiamo ancora una pagina da La peste di Albert Camus nella quale aleggia, pur sempre, lo spirito caustico del “pessimismo ragionevole” di Lucrezio.
LEGERE MULTUM….
Albert Camus, La peste
La popolazione visse in tale segreta agitazione sino al 25 gennaio. Quella settimana le statistiche precipitarono al punto che, dopo aver consultato la commissione medica, la prefettura annunciò che il contagio poteva considerarsi arginato. E la sera del 25 gennaio un’allegra agitazione colmò la città. Per unirsi alla gioia generale, il prefetto diede ordine di ridare la illuminazione dei tempi della salute. Nelle vie illuminate, sotto un cielo freddo e puro, i nostri concittadini si riversarono allora in gruppi clamorosi e ridenti.
... continua la lettura …
Chi è il “vecchietto dei gatti” ne La peste di Camus? E chi può essere costernato per l’allontanarsi dell’epidemia, e perché? Leggete questo romanzo e lo saprete.
Siamo entrate ed entrati nell’età di Augusto: chi dobbiamo incontrare? Dopo Cicerone e Lucrezio abbiamo appuntamento con Virgilio, con Orazio e, ancora una volta, con Ovidio ma prima dobbiamo incontrare Cilnio Mecenate, Messalla Corvino [che abbiamo citato qualche mese fa] e Asinio Pollione [già comparso strada facendo]: costoro sono i tenutari dei tre più importanti “circoli culturali” romani nei quali, in superficie, si loda il Principe ma sotto traccia cova il dissenso.
Questi importanti incontri avverranno nelle prossime settimane sulla scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come il “pessimismo ragionevole”] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui.
Accorrete numerose e numerosi pensando che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme.
Il viaggio continua [ancora tre itinerari ci separano dalla sua conclusione]…