Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale 1 – 7 giugno 2012
NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE
C’È LA LEZIONE CONVIVIALE ...
Nel viaggio che si è appena concluso, con il quale abbiamo attraversato il territorio della “sapienza poetica di stampo imperiale”, sono molti i temi con i quali siamo venute e venuti in contatto. Tra questi temi merita, ancora una volta, di essere ricordato [anche in ragione della sua contemporaneità] il tema delle “diverse patrie”. Per riflettere su questo tema, ora che siamo alla fine, andiamo ad esplorare nell’area del principio.
Quando Romolo [secondo il mito codificato dalla Letteratura latina che abbiamo studiato] fonda Roma, dà a quel quadrato di terra [ed è il poeta Ennio che c’informa] il nome di “asylum”, ed è facile tradurre questa parola, ma vi siete mai domandate e domandati che cosa significa questo termine, quale incastro filologico contiene? La parola latina “asylum” deriva dal termine greco “άsylon àsylon” che significa “inviolabile” ma, tuttavia, contiene un elemento poco rassicurante perché la parola greca “sŷlon” significa “rapina, preda” e perciò il termine “à [che in greco significa “non”] - sŷlon” lo possiamo tradurre con un’espressione ben augurante: “chi entra in questo perimetro non lo deve fare per rapinare perché questo è un luogo inviolabile”. Oggi l’espressione “dare asilo” dovrebbe corrispondere al rispetto dei diritti inviolabili della persona.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Voi sete state, siete stati all’asilo?... Quali sono i vostri ricordi [passati e recenti] dell’asilo?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Romolo, con questo richiamo [agli albori del mito di fondazione], invita gente di ogni provenienza e condizione e, quindi, non si limita a scavare un solco destinato a segnare il perimetro delle mura, anche perché [ed è sempre il poeta Ennio che c’informa] al centro del tracciato scava una fossa [forum] affinché ciascuno degli stranieri possa gettarvi dentro una zolla della propria terra d’origine. Ed è in questo modo che il suolo della futura Città risulta formato da una vera e propria mistione di terre: quella del Lazio e quella nativa di ciascun cittadino.
Quest’anno abbiamo studiato l’evoluzione del complesso rapporto di amore e odio che ha portato all’integrazione tra la cultura greca e la cultura latina, sappiamo che, in origine, non è stato facile l’avvicinamento tra questi due mondi profondamente diversi: c’è una diversità “ab origine” che dobbiamo spiegare alla fine del viaggio.
Il significato del mito della fondazione di Roma – basato sulla parola-chiave “asylum” – ci fa riflettere se lo si confronta con il modo in cui immaginavano le proprie origini gli Ateniesi. Gli Ateniesi raccontavano che i primi re [Cecrope ed Erittonio] erano venuti su “direttamente dalla terra”, e che erano addirittura per metà serpenti: le creature più terrestri che esistano. Conformemente a ciò gli Ateniesi consideravano se stessi come “autochthones” che, in greco, significa “venuti su dalla terra”. Ebbene, il contrasto non potrebbe essere più evidente: se ad Atene è la terra che produce gli esseri umani, a Roma sono gli esseri umani che producono la terra.
Questi due miti rispecchiano due modi contrapposti di immaginare l’appartenenza civica: ad Atene terra e sangue fanno tutt’uno, e questa città di “autoctoni [nati dalla terra]” accetta, come cittadini, solo coloro che sono figli a loro volta di cittadini ateniesi. Al contrario Roma costituisce una comunità della quale, indipendentemente dal proprio sangue, si può acquisire il diritto di far parte, ma sempre [per dir così] portando con sé una zolla della terra d’origine: in che modo? Ce lo spiega Cicerone, dialogando con Pomponio Attico nel trattato del 52 a.C. che s’intitola Le Leggi [De legibus] in cui esalta anche il valore politico della “filologia”. Sappiamo che Cicerone non è un filosofo che crea delle idee originali, eppure gran parte del patrimonio ideale dell’antichità noi lo abbiamo conosciuto attraverso di lui, anzi, lo abbiamo ereditato attraverso il filtro di quella che lui chiama l’humanitas [la capacità di scegliere idee belle buone e giuste per costruire una società solidale].
Per Cicerone la persona “compiuta” – ricca in humanitas – è, prima di tutto, quella esperta nel linguaggio, la quale si rende utile alla società perché insegna a ben parlare, e “chi sa ben parlare – afferma Cicerone – sa anche ben pensare”. La persona esperta nel linguaggio è a servizio di ciò che giova alla città, e ciò che giova alla città è, insieme, l’utile e il bene, che per Cicerone sono una stessa cosa e scrive: « Non c’è nulla di utile che non sia onesto [Nihil utile nisi quod honestum]». La “honestas” ciceroniana è la proiezione politica del concetto di “humanitas”: non c’è umanità senza onestà .
I due elementi che – secondo Cicerone – rendono le cittadine e i cittadini tutti uguali sono l’onestà e la razionalità. Cicerone scrive che: «Vera legge è la ragione che, conforme alla natura, è diffusa tra tutti gli esseri umani». Questa dottrina del “diritto naturale” – contenuta nel testo del trattato intitolato Le Leggi [De legibus], scritto da Cicerone nel 52 a.C. – viene fatta propria dai primi Padri della Chiesa [che entreranno in azione nell’Età tardo-antica], e diventa patrimonio comune dell’Europa medioevale e dell’Età moderna: chissà come mai queste idee ciceroniane [che sono anche di Lucrezio, di Virgilio, di Orazio, di Ovidio] stentano a diventare patrimonio dell’Europa contemporanea? Leggiamo un frammento da Le Leggi di Cicerone:
LEGERE MULTUM….
Marco Tullio Cicerone, Le Leggi
Vera legge è la ragione che, conforme alla natura, è diffusa tra tutti gli esseri umani ed è immutabile ed eterna. Non si deve cercare chi ce la spieghi e l’interpreti perché la legge, l’essenza della legge, non è una a Roma e un’altra ad Atene, la legge non è valida oggi e diversa domani, ma la Legge è eterna ed immutabile, e unisce e unirà tutti i popoli in eterno; se c’è un Dio che ne è l’autore, l’interprete e il promulgatore, questo Dio sarà un maestro e un reggitore comune di tutti gli esseri umani.
Tutti coloro che vivono nei municipi, caro Attico, hanno due patrie, una di natura [loci], l’altra di cittadinanza [iuris], una che riguarda il luogo, l’altra il diritto.
Anch’io del resto, come tu sai, ho due patrie: da una parte Arpino, il municipio da cui proviene la mia famiglia, e in molti mi chiamano l’Arpinate, dall’altra parte Roma, e tu continui a stupirti, Attico, se non penso che Roma sia la mia unica patria? Certo che è anche la mia patria e per questa Città io darei la vita, secondo le Leggi e secondo il dovere di ogni buon cittadino. Questo però non mi impedisce di avere anche un’altra patria, non di cittadinanza [di ius, iuris] ma di natura [di locus, loci]. …
Per capire il significato di queste affermazioni dell’Arpinate [ecco perché Cicerone è stato sempre chiamato così], bisogna ricordare che i Romani [i membri del Senato romano] hanno, fin dalle origini, inaugurato una politica della cittadinanza che ha cercato di tradurre in legge il mito di quella famosa “zolla di terra [ager]” portata dall’altrove per riempire il “forum”, e la legislazione romana, in questo caso, è stata esemplare. Ai cittadini veniva infatti attribuita una “origo”, ossia un “luogo originario” – città, colonia o municipio che fosse –, e tale “origo” [avere un’origine era ritenuta una cosa importante] connetteva ciascuno a tutta la comunità che, proprio in virtù di questa “origine naturale”, che si manifestava nella “zolla di terra”, lo aveva accolto. Questa patria di “luogo”, come la chiama Cicerone, si trasmetteva di padre in figlio, e gran parte dei cittadini romani erano tali proprio in quanto e perché avevano una “origine” non romana.
E altro non ci si sarebbe potuti aspettare, del resto, da un popolo che immaginava in questo modo perfino i propri dèi e il proprio mitico antenato. I Romani, infatti, avevano collocato i loro dèi aborigeni non a Roma ma altrove, a Lavinio [che era considerato il centro del “mondo di Janus”], dove si sosteneva che essi avessero la propria “origo” [il luogo originario]. Mentre come capostipite [e lo sappiamo bene] si sono scelti un troiano, Enea, che, in quanto tale, aveva un’ “origo” ben lontana dal Lazio. Le cittadine e i cittadini di Roma – soprattutto per merito della loro Letteratura [seppur giovane rispetto a quella greca] – hanno fatto, sin dagli albori, una scoperta preziosa, la scoperta di sentirsi se stessi non a dispetto dell’essere altro, ma proprio grazie al fatto di essere altro: vogliono essere “cittadine e cittadini romani” perché questa qualifica dà delle garanzie, dà loro il diritto [ius, iuris] di coltivare la convinzione di avere anche un’altra patria nella quale riconoscersi culturalmente [locus, loci].
Questa idea di avere una “patria di natura [patria loci]” e una “patria di cittadinanza [patria iuris]” ci fa pensare che si debba possedere anche una patria che sia fatta di “sostanza intellettuale” quella che si forma in noi [nella nostra mente] attraverso il costante e il permanente arricchimento culturale e che possiamo chiamare: la “patria dell’intelletto [patria mentis]”.
Ed è con questa consapevolezza che, il prossimo autunno, vogliamo metterci in viaggio su un nuovo Percorso di studio per attraversare il territorio dell’Età tardo-antica [il territorio della “sapienza poetica e filosofica” dell’età tardo-antica]: con la consapevolezza che dobbiamo sempre dirigerci verso la “patria dell’intelletto” per avvalorare il fatto che “imparare ad apprendere” è un diritto da garantire ed è un dovere a cui ottemperate …