Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale] 27-28-29 ottobre 2010
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO
CI SONO, NEL TESTO DELLA PRIMA LETTERA AI CORINTI, QUATTRO PAROLE FONDAMENTALI,
LE PRIME TRE SONO: KERIGMA, EXOUSIA, EUCARISTIA...
Da quattro settimane stiamo viaggiando sul territorio della "sapienza poetica ellenistica" e, per la precisione, in quel vasto spazio che è stato chiamato di "stampo evangelico" e ci troviamo – come sapete – nei pressi di un significativo paesaggio intellettuale rappresentato dal testo della Prima Lettera ai Corinti, un testo che fa parte dell’Epistolario di Paolo di Tarso, che è una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano, un’opera che ha influenzato la Letteratura in tutti i tempi, specialmente il genere letterario del romanzo in età moderna e contemporanea.
Paolo, dall’inverno dell’anno 50 all’incirca fino all’estate del 51, vive a Corinto in una comunità molto vivace (l’ekklesìa di Corinto), formata soprattutto da persone che sono culturalmente di formazione pagana, oltre che ebrea, e la maggior parte di loro sono di modesta condizione sociale.
Quando Paolo si trova a Efeso scrive "ai Corinti" perché in questa comunità si sono verificati dei fatti gravi, e Paolo ne viene al corrente attraverso una piccola delegazione di persone a lui legate che lo raggiunge a Efeso e gli racconta i fatti. Nella comunità di Corinto ci sono divisioni, scontri, difficoltà di convivenza, crisi famigliari in atto, rigurgiti fondamentalisti e atteggiamenti di menefreghismo, oltre che attrazione per i culti pagani, per il consumismo sessuale offerto dalla città (abbiamo parlato di quel grande mercato del sesso che è il tempio di Afrodite a Corinto), e soprattutto vi è poco decoro nel partecipare alla cosiddetta "cena del Signore", un argomento di cui cominceremo ad occuparci nel corso di questo itinerario.
Abbiamo già detto la scorsa settimana che, per quanto riguarda la parola "comunità" nelle così dette ekklesie (di cui ci occuperemo a suo tempo: è un tema ostico ma che va affrontato), il significato del termine non corrisponde alla realtà dei fatti perché le "comunità" sono associazioni di gruppetti di persone molto eterogenei tra loro e questo è anche un motivo di vivacità culturale oltre che di conflittualità permanente.
Intorno ai problemi molto pratici nati nella comunità di Corinto Paolo cerca di dare delle risposte ai suoi interlocutori (al piccolo gruppo che è più legato a lui e che lo interpella); Paolo s’impegna a formulare dei responsi che siano coerenti con la "buona notizia della resurrezione di Gesù (il vangelo)" e, nel compiere questo sforzo culturale, Paolo riesce a dare forma ad una serie di temi che costituiscono le "linee ideologiche di base" della Chiesa delle origini e che diventeranno poi il pensiero della Chiesa universale (ecumenica).
La Prima Lettera ai Corinti è stata scritta tra l’anno 54 e il 56 a Efeso e sappiamo che era stata preceduta da un’altra Lettera: ce lo dice Paolo al capitolo 5 versetto 9 che abbiamo letto: "Vi ho già scritto di non avere nulla a che fare con chi vive nell’immoralità (come dire: non date coperture all’immoralità)."; ma questa Lettera "prima della prima" è andata perduta e noi sappiamo che Paolo ha scritto molte Lettere.
Lo schema della Prima Lettera ai Corinti è semplice e il leggerla non presenta alcuna difficoltà e neppure molto tempo, infatti questo testo si compone di 16 capitoletti che occupano circa 18 paginette: spero che abbiate preso contatto con questo testo. Come abbiamo potuto constatare nel testo della Prima Lettera ai Corinti ci sono molti punti su cui è necessario riflettere e questo esercizio di riflessione sui punti più importanti in funzione della didattica della lettura e della scrittura lo abbiamo, in parte, portato a termine nei due itinerari precedenti.
Naturalmente non abbiamo ancora finito di prendere in considerazione il testo della Prima Lettera ai Corinzi perché i temi più significativi li dobbiamo ancora incontrare. Infatti ci sono in questo testo almeno quattro elementi, quattro parole-chiave fondamentali per la Storia del Pensiero che hanno condizionato e orientato la nostra cultura (la cultura Occidentale) nel corso dei secoli, e di questi elementi ce ne dobbiamo occupare. In un Percorso di alfabetizzazione come il nostro la conoscenza delle quattro parole-chiave che prendiamo in considerazione contenute nel testo della Prima Lettera ai Corinti serve soprattutto per "fare ricerca" in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Il primo elemento importante che risalta nel testo della Prima Lettera ai Corinti corrisponde alla parola-chiave "kerigma", un termine che è stato tradotto con la parola "annuncio". Il "kerigma" è l’annuncio pubblico (oggi potremmo dire "pubblicitario") sotto forma di slogan: un messaggio con il quale si sintetizza la forma e il contenuto di un oggetto, di un prodotto. Letteralmente la parola "kerigma" significa "nòcciolo", il nòcciolo di un frutto che ha un unico seme e questo termine assume anche un significato metaforico: il "kerigma" è il "nòcciolo" di una tesi, il succo di un discorso. Ebbene nel testo della Prima Lettera ai Corinti al capitolo 15 dal versetto 1 all’11 troviamo l’annuncio, il messaggio, il "kerigma del cristianesimo", la sintesi di quella che chiamiamo la "buona notizia (il vangelo)": «è per mezzo di questo messaggio – scrive Paolo – che siete stati salvati".
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Voi avete conservato un nòcciolo, lo avete seminato?… Un volta si giocava con i nòccioli…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora leggiamo il testo del "kerigma": i primi 11 versetti del capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinti.
LEGERE MULTUM ….
Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Corinti 15, 1-11
«Fratelli e sorelle, vi ricordo il nòcciolo del messaggio [kerigma] di salvezza che vi ho portato, che voi avete accolto e nel quale rimanete saldi. È per mezzo suo che siete salvati, se lo conservate come ve l’ho annunciato. Altrimenti avrete creduto invano. Prima di tutto vi ho trasmesso l’insegnamento che anch’io ho ricevuto: Cristo è morto per i nostri peccati, come è scritto nel Libro di Isaia [Isaia 53, 8-9] ed è stato sepolto. È risuscitato [Salmo 16, 10] il terzo giorno [Osea 6, 2] come è scritto nel Libro di Osea ed è apparso a Pietro. Poi è apparso ai dodici apostoli, quindi a più di cinquecento discepoli riuniti insieme. La maggior parte di essi è ancora in vita, mentre alcuni sono già morti. In seguito è apparso a Giacomo, e poi a tutti gli apostoli. Dopo essere apparso a tutti, alla fine, è apparso anche a me, benché io, tra gli apostoli, sia come un aborto. Infatti, io sono l’ultimo degli apostoli; non sono neanche degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Tuttavia per grazia di Dio, io sono quello che sono [Yavè!]. E la sua grazia non è stata inefficace: ho lavorato più di tutti gli altri apostoli; non io a dir la verità, ma la grazia di Dio che agisce in me. Questo è il nòcciolo del messaggio [kerigma] che io e gli altri vi annunziamo. E voi l’avete accettato». …
Questo è un brano molto importante perché stabilisce per la prima volta la linea ideologica, i termini del documento base, la piattaforma gerarchica nell’ordine delle apparizioni del "risorto". Con il "kerigma" si proclama che la chiave di volta della salvezza è la risurrezione (l’anastasia), e la risurrezione si manifesta con le apparizioni del risorto, un risorto che – come metterà in evidenza la Letteratura del Vangelo – ci tiene a mostrare le sue ferite per mettere anche in evidenza un paradosso: non c’è risurrezione senza passione e tribolazione e, per avvalorare questo concetto, Paolo cita il capitolo 53 del Libro di Isaia dove si parla della figura travagliata del "servo del Signore" e –come molte e molti di voi ricorderanno – abbiamo studiato questo argomento nel Percorso dell’anno 2007-2008 sul territorio della "sapienza poetica beritica".
Il "kerigma" diventa l’atto costitutivo della Chiesa dei vescovi e molto significativa è la scala gerarchica costruita da Paolo sulla base delle apparizioni del risorto: al primo posto colloca Pietro (su questo tema si è discusso a lungo e si continua a discutere). Perché Paolo, che ha litigato aspramente con Pietro nella sua visita a Gerusalemme (studieremo questi avvenimenti quando prenderemo in considerazione la Lettera ai Galati), lo mette al primo posto nella scala gerarchica? Il primo motivo dipende da una riflessione che Paolo fa sul comportamento che, secondo la tradizione, ha avuto il Signore: se il Signore ha scelto Pietro, con tutti i suoi limiti, per primo come suo apostolo questo significa che ci sarà certamente una ragione che a noi – dice Paolo – non è dato, almeno per il momento, sapere. Il secondo motivo per cui Paolo mette Pietro al primo posto nella scala gerarchica è tattico: in questo modo Paolo riesce a portare la figura di Pietro sul territorio dell’ellenismo anche se Pietro non ne voleva sapere di far uscire da Gerusalemme il messaggio della salvezza. La tattica di Paolo è quella di far diventare Pietro il primo testimone della resurrezione in tutte le città dell’ellenismo e soprattutto a Roma in modo che lo spirito di Gerusalemme si dilati ampiamente in senso ecumenico. La lista gerarchica serve a Paolo anche per inserire se stesso a pieno titolo come apostolo: lo fa apparentemente con umiltà, ma sul tema della "apparente umiltà" ci torneremo strada facendo.
Abbiamo detto che il kerigma mette in primo piano la risurrezione, l’anastasia e, di conseguenza non possiamo lasciarci sfuggire l’occasione di riflettere in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
L’Anastasia andiamo ad incontrarla a San Pietroburgo e per attuare questo incontro usiamo uno strumento di locomozione agilissimo, usiamo un romanzo: uno dei romanzi più palpitanti ed enigmatici della Storia della Letteratura per i personaggi, per le parole-chiave e per le idee che contiene. Questo romanzo s’intitola L’idiota, è stato scritto da Fëdor Dostoevskij, e penso che molti e molte di voi l’abbiano letto: questo è, comunque, uno di quei romanzi da leggere e da rileggere periodicamente.
Perché presentiamo questo romanzo e ne leggiamo due pagine? Già lo sapete: c’è una ragione legata agli "intrecci filologici" tra i grandi romanzi e l’Epistolario di Paolo di Tarso e quest’opera, l’Epistolario di Paolo di Tarso, – come sappiamo – ha influenzato la Storia della Letteratura, ha influenzato le scrittrici e gli scrittori più portati, come Dostoevskij, alla "coscienziosa riflessione"; con la dicitura "coscienziosa riflessione" le studiose e gli studiosi hanno definito il metodo filosofico di Dostoevskij: oggi Dostoevskij viene universalmente considerato un filosofo che si esprime scrivendo romanzi.
Di Fëdor Dostoevskij (1821-1881) conosciamo il catalogo delle sue opere, ne citiamo alcune: Le notti bianche, I demoni, Memorie del sottosuolo, Diario di uno scrittore, L’eterno marito, Umiliati e offesi, Il giocatore, Delitto e castigo, I fratelli Karamazov.
A proposito de I fratelli Karamazov: non ne abbiamo ancora parlato! Perché noi I fratelli Karamazov li abbiamo avvicinati a primavera alla fine del Percorso dello scorso anno e la domanda è d’obbligo: a che punto siete con la lettura de I fratelli Karamazov?
Ma torniamo a L’idiota. In questo romanzo uno dei personaggi-chiave è Anastasija Filippovna, un personaggio metaforico molto significativo, uno dei personaggi emblematici del romanzo: sappiamo che la parola "anastasia", in greco, significa "risurrezione" e questo nome non è stato scelto casualmente dallo scrittore.
Nastàs’ja è una ragazza molto bella, la sua bellezza viene esaltata in un ritratto che la raffigura e questo ritratto è come se fosse una vera e propria icona religiosa perché Nastàs’ja è bella come il concetto della risurrezione, ma questa bellezza è tormentata perché non può esserci risurrezione senza sofferenza, senza passione, senza la morte così come si esprime Paolo di Tarso nel "kerigma" contenuto nel testo della Prima Lettera ai Corinti che abbiamo appena letto.
Per giunta sappiamo che Dostoevskij, nella sua vita, ha vissuto un’esperienza tormentata che ha sempre considerato come se fosse una "risurrezione", un’esperienza di ritorno alla vita: «Sono stato baciato – scrive Dostoevskij – da una bellissima fanciulla di nome Anastasia (la Risurrezione)». E questo episodio – che conosciamo bene – lo scrittore lo fa raccontare proprio dal personaggio principale del romanzo: il principe Myškin.
Sappiamo che nel 1848 a San Pietroburgo Dostoevskij milita nella "Lega della pace e della libertà": è un gruppo di giovani che si definisce socialista e comunista (il 1848 è l’anno in cui viene pubblicato Il Manifesto di Marx ed Hengels). Che cosa fanno questi giovani? Questi giovani manifestano sulle piazze contro la miseria, per la pace, contro la repressione della polizia zarista, contro la pena di morte. Il 23 aprile 1849 Dostoevskij viene arrestato e rinchiuso nella fortezza di Pietro e Paolo e il 16 novembre viene condannato a morte insieme agli altri rivoluzionari, il 19 dicembre lo zar Nicola I commuta la condanna a morte con la deportazione in Siberia ma lo fa con raffinata crudeltà: i condannati lo vengono a sapere quando si trovano davanti al plotone d’esecuzione e quando l’ufficiale che comanda ha già ordinato di puntare. Questa atroce esperienza lo scrittore la rievoca attraverso il principe Myškin nel secondo capitolo de L’idiota.
E ora, dal testo de L’idiota, leggiamo un frammento per mettere in evidenza un intreccio filologico che c’interessa: ricordate l’ultimo brano che abbiamo letto nello scorso itinerario tratto dal primo capitolo della Prima Lettera ai Corinti? Ebbene, proprio dal capitolo primo della Prima Lettera ai Corinti, Dostoevskij prende spunto per rafforzare l’idea cardine del kerigma cristiano: non c’è resurrezione senza tribolazione, senza passione. Leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Fëdor Dostoevskij, L’idiota (1868)
Dopo aver raccontato l’episodio il principe Myškin aggiunse: «Chi ha detto che la natura umana è in grado di sopportare questo senza impazzire? … Forse esiste una persona alla quale hanno letto la sentenza, gli hanno lasciato il tempo di torturarsi e poi hanno detto: "Va’, sei graziato". … Come se Cristo, che è sapienza e potenza di Dio, ti sussurrasse: "Vieni sei risorto". Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini. Guardate quelli che Dio ha chiamati? Vi sono forse, dal punto di vista umano, molti sapienti o molti potenti o molti personaggi importanti? No! Dio ha scelto coloro che vengono considerati insignificanti, per coprire di vergogna i sapienti; ha scelto quelli considerati deboli, per distruggere quelli che si credono forti. Dio ha scelto quelli che nel mondo non hanno importanza o sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che pensano di valere qualcosa. Così, nessuno potrà vantarsi davanti a Dio.» …
Chi come noi è entrato in contatto con il testo della Prima Lettera ai Corinti non fa nessuna fatica a cogliere l’intreccio con l’uso della citazione paolina che, senza dubbio, rafforza l’idea che lo scrittore vuole esprimere: Dio salva in modo paradossale attraverso la tribolazione, attraverso la passione.
Il protagonista de L’idiota è il principe Myškin, ultimo erede di una grande famiglia decaduta. È una persona molto particolare, che possiede una sensibilità spirituale eccezionale. Perché è un "idiota"? Perché ha una fiducia assoluta negli altri. Ma i rapporti umani non sono così limpidi, così trasparenti (provvisti di " glasnost, di trasparenza"). Il principe Myškin è un personaggio caratterizzato, fin dall’inizio, dalla positività, in pratica non ha mai vissuto in società, ma è cresciuto in un villaggio svizzero dove è guarito da una malattia nervosa che lo porta ad essere indifeso e fiducioso nel prossimo. Di ritorno in Russia, si scontra con una società malata e crudele, dove il suo atteggiamento bonario ed innocente è considerato da "idiota". Egli si lega contemporaneamente a due donne, con quell’affetto che lui solo sa tributare ad ogni essere umano: alla viziata e capricciosa Aglàja, e ad una donna molto bella, dal carattere complesso e sfuggente che si chiama Nastàs’ja Filìppovna.
La lettura di questo romanzo ci porta dentro ad una intricata sequenza di avvenimenti, raccontati con un ritmo incalzante. Le linee generali della trama le possiamo ricordare anche perché sono note.
Di Nastàs’ja Filìppovna è innamorato anche Rogòzin, conoscente del principe, incarnazione di quel principio del male che non manca mai nei romanzi di Dostoevskij. Rogòzin diventa sempre più geloso per il rapporto ambiguo che lega Myškin a Nastàs’ja Filìppovna, e quindi tenta prima di uccidere l’amico, infine uccide la donna: la resurrezione (l’anastasia) e la passione sono legati paradossalmente. Rogòzin veglia sul cadavere di Nastàs’ja per una notte intera assieme a Myškin che, in questa circostanza, ripiomba nel suo stato di idiozia, con un ritorno finale allo stato di purezza dell’infanzia come rifiuto del male del mondo, come unico moto di autodifesa possibile per il protagonista che non sa vivere nella società.
Gli appunti preparatori al romanzo mostrano come fosse intenzione di Dostoévskij creare una figura di assoluta, incontaminata purezza che cerca di redimere il mondo con la sua innocenza, simile, a detta dello scrittore, a Cristo, ma anche a Don Chisciotte, in quanto la bestialità dell’uomo lo costringe a rientrare nel suo stato di follia per non contaminarsi. Il principe Myškin è senz’altro il più bel personaggio creato da Dostoevskij e ed certamente uno dei più affascinanti della letteratura mondiale.
Nella intricata rete di avvenimenti che racconta questo romanzo scorre un’immensa mole di materiale: soprattutto citazioni che danno vita a significativi intrecci filologici e le citazioni più numerose sono quelle che riguardano la Letteratura del Vangelo, soprattutto provenienti dal Libro dell’Apocalisse di Giovanni e dalle Lettere di Paolo di Tarso.
Poi dobbiamo ricordare che in questo romanzo emergono anche i temi della cronaca giudiziaria russa di quel momento e i temi, molto interessanti, del dibattito in corso nel movimento socialista internazionale. Tutto, temi e personaggi, ne L’idiota, si fondono in un testo enigmatico ma chiaro, i cui significati non si consumano in un’unica lettura: questi grandi romanzi – come diciamo sempre in funzione della didattica della lettura e della scrittura – vanno letti un certo numero di volte nella vita per conoscere i molteplici significati che racchiudono in loro.
Dostoevkij questo romanzo comincia a scriverlo in Svizzera, a Ginevra, nel 1868, quando era lì per un congresso della "Lega della pace e della libertà", c’era anche Garibaldi a quel congresso! Nel novembre del 1868 Dostoevskij si stabilisce a Firenze con la moglie e vi resta fino al luglio del 1869, ed è in questo periodo che porta a termine L’idiota.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Ci sono tracce della presenza fiorentina di Dostoevskij?…
Fate un piccola ricerca in proposito…
L’idiota è un romanzo avvincente e questo testo permette alla lettrice e al lettore di esercitarsi in "coscienziose riflessioni" e leggerlo in parallelo allo studio sulle Lettere di Paolo di Tarso è un metodo efficace per potenziarne i significati
Ne leggiamo ancora alcune pagine. Siamo nel salotto delle generalessa Lizaveta e sono presenti le sue tre figlie. Nello studio c’è Gavrila il cui diminutivo è Ganja.
LEGERE MULTUM ….
FedorDostoevskij, L’idiota (1868)
Quando il principe Myškin tacque, lo guardarono tutte sorridendo, perfino Aglaja, ma specialmente Lizaveta.
- Ecco passato l’esame! - esclamò essa.
- Voi credevate, egregie signorine, che sareste state voi a prenderlo sotto la vostra protezione come un poveretto, e invece è lui che appena si degna di scegliervi, con la riserva, per giunta, che verrà qui di rado. Eccovi messe nel sacco, e io ne ho piacere, ma soprattutto è nel sacco Ivàn Fedorovic. Bravo, principe, poco fa avevano raccomandato di sottoporvi a un esame! Quello poi che avete detto del mio viso è la pura verità: io sono una bambina, e lo so. Lo sapevo già prima che veniste; voi avete per l’appunto espresso il mio pensiero con una sola parola. Il vostro carattere credo che si accordi perfettamente col mio, e ne sono assai lieta; ci somigliamo come due gocce d’acqua. Solo che voi siete un uomo, e io sono una donna, e in Svizzera non ci sono stata: ecco l’unica differenza.
- Non abbiate fretta, maman, - esclamò Aglaja, - il principe ha detto che, facendoci tutte le sue confidenze ha avuto in mente una sua idea particolare e non ha parlato da sempliciotto.
- Sì, sì, - dissero ridendo le altre due.
- Non canzonate, care, egli forse è più accorto di tutte voi tre insieme. Vedrete. Ma perché, principe, non avete detto nulla di Aglaja? Aglaja aspetta, e io pure
- Ora non posso dir nulla; lo dirò poi
- Perché? Mi sembra che si faccia notare
- Oh, sì, si fa notare. Voi, Aglaja Ivànovna, siete una bellezza straordinaria. Siete così bella, che si ha paura di guardarvi
- E nient’altro? E le caratteristiche? - insisté la generalessa.
- La bellezza è difficile giudicarla; io non ci sono ancora preparato. La bellezza è un enigma.
- Vuol dire che, ad Aglaja avete proposto un enigma, - disse Adelaida.
- Risolvilo dunque, Aglaja. Ma è bella, principe, è bella?
- Straordinariamente! - rispose con calore il principe, dopo aver gettato ad Aglaja uno sguardo rapito: - quasi come Anastasja Filippovna, sebbene il viso sia affatto diverso!…
Tutte si scambiarono un’occhiata di meraviglia.
- Come chi-i-i? - disse strascicando la generalessa: - come Anastasja Filippovna? Dove avete veduto Anastasia Filippovna? Che Anastasia Filippovna?
- Poco fa Gavrila ne mostrava il ritratto a Ivàn.
- Come, ha portato il suo ritratto a Ivàn?
- Per mostrarglielo. Oggi Anastasja Filippovna ha regalato il suo ritratto a Gavrila, e lui l’ha portato qui per mostrarlo
- Lo voglio vedere! - sbottò a dire la generalessa: - dov’è quel ritratto? Se gliel’ha regalato, deve averlo lui, e lui è certo ancora nello studio. Il mercoledì viene sempre a lavorare e non se ne va mai prima delle quattro. Si chiami subito Gavrila! Ma no, non mi struggo poi tanto dal desiderio di vederlo. Fate il favore, principe: andate nello studio, caro, prendetegli il ritratto e portatelo qui. Dite che è per vederlo. Ve ne prego.
- Non c’è male, ma è un po’ troppo semplicione, - disse Adelaida, quando il principe fu uscito.
- Sì, un po’ troppo, - confermò Aleksandra, - tanto da essere perfino ridicolo!
L’una e l’altra non parevano aver espresso tutto il loro pensiero
- Del resto, con le nostre fisionomie se l’è cavata bene, - disse Aglaja, - ci ha lusingate tutte, anche maman.
- Non fare dello spirito, ti prego, - esclamò la generalessa. - Non è stato lui a lusingarmi, ma io sono rimasta lusingata.
- Tu credi che volesse cavarsela? - domandò Adelaida.
- A me pare che non sia così sempliciotto.
- E dagli! - esclamò la generalessa adirandosi. - Secondo me, voi siete ancora più ridicole di lui. Sempliciotto, ma furbo, nel senso più nobile della parola, s’intende. Proprio come me.
"Certo, ho fatto male a lasciarmi sfuggire la circostanza del ritratto, - rifletteva il principe, nell’andare verso lo studio, sentendo come un rimorso … - Ma … forse ho fatto bene a lasciarmela sfuggire" …Cominciava a balenargli una strana idea, non ancora del tutto chiara però.
Gavrila era ancora seduto nello studio e immerso nelle sue carte. Non prendeva dunque a ufo il suo stipendio dalla società per azioni. Si turbò indicibilmente quando il principe chiese il ritratto e raccontò in qual modo le signore ne erano venute a conoscenza!
- E-e-eh! Che bisogno avevate di chiacchierare! - esclamò con rabbioso dispetto. - Non sapete nulla voi … Idiota! - borbottò tra sé.
- Scusatemi Gavrila, l’ho detto proprio senza pensarci; è venuto nel discorso: Ho detto che Aglaja è quasi bella come Anastasja Filippovna.
Ganja lo pregò di fornirgli maggiori particolari, cosa che il principe fece.
Ganja tornò a guardarlo con espressione beffarda.
- Ce l’avete proprio con Anastasja Filippovna … - borbottò, ma non terminò la frase e divenne pensieroso. Era visibilmente agitato. Il principe gli rammentò il ritratto.
- Sentite, principe, - disse a un tratto Ganja, come se un’idea improvvisa lo avesse illuminato: - vi devo chiedere un immenso favore … Ma, davvero, non so se … - si turbò e non finì; voleva prendere una decisione e voleva lottare con se stesso.
Il principe aspettava in silenzio. Ganja l’osservò ancora una volta con uno sguardo fisso, scrutatore.
- Principe, - riprese a dire - adesso di là, per un certo caso veramente bizzarro e comico … del quale io non ho colpa, insomma, di là sembra che siano un po’ in collera con me, di modo che per qualche tempo non ci voglio andare, se non mi chiamano. Ora, avrei urgente necessità di parlare con Aglaja. E le ho scritto qualche parola, - nelle sue mani apparve un foglietto piegato - ma non so come fargliele avere. Non vorreste voi, principe, consegnarle ad Aglaja, subito, ma a lei personalmente, in maniera, voglio dire, che nessuno veda, capite? Non è un segreto, non c’è nulla di speciale … ma, lo farete?
- La cosa non mi va troppo, - rispose il principe.
- Ah, principe, mi è indispensabile! - disse Ganja pregandolo - Credetemi, si tratta di un caso estremo, per mezzo di chi lo potrei mandare? È una cosa di suprema importanza per me …
Ganja aveva una gran paura che il principe non acconsentisse e lo guardava negli occhi con trepida e supplichevole espressione.
- Va bene lo consegnerò.
- Ma che nessuno se ne avveda, - supplicò ancora Ganja, tutto lieto, - e sentite, principe, posso contare sulla vostra parola d’onore?
- Ma certo, non lo mostrerò a nessuno, - disse il principe.
- Il biglietto non è sigillato, ma … - si lasciò sfuggire Ganja, nella sua agitazione, ma si arrestò vergognoso.
- Oh, non lo leggerò, - rispose il principe con tutta semplicità, poi prese il ritratto e uscì dallo studio.
Ganja, rimasto solo, si strinse il capo fra le mani. Egli non poteva più tornare alle sue carte, tanto era agitato e ansioso, e si mise a camminare da un angolo all’altro dello studio.
Il principe intanto se ne andava pensieroso; lo aveva impressionato sgradevolmente quell’incarico, e anche il fatto di quel biglietto di Ganja ad Aglaja. Ma quando due stanze lo separavano ancora dal salotto, si fermò all’improvviso, come ricordandosi di una cosa, si guardò intorno, si accostò a una finestra, dove c’era più luce, e si mise a osservare il ritratto di Anastasja Filippovna. Pareva volesse risolvere un enigma che era celato in quel viso e che già dinanzi lo aveva colpito. Quel viso non comune per bellezza, e per altro ancora, lo colpì più fortemente di prima. C’era in esso un orgoglio senza limiti e un disprezzo che era quasi odio, e nello stesso tempo un certo che di fiducioso, di meravigliosamente ingenuo: tale contrasto suscitava perfino, in chi guardava quei lineamenti, un senso di pietà. Quasi insopportabile era quella bellezza abbagliante, quella bellezza del volto pallido, delle guance quasi infossate e degli occhi ardenti: strana bellezza! Il principe la fissò per un minuto, poi di colpo si riscosse, si guardò intorno, avvicinò in fretta il ritratto alle labbra e lo baciò. Quando, di lì a un minuto, entrò nel salotto, il suo viso era perfettamente tranquillo. Ma aveva appena messo piede nella sala da pranzo, quando sulla soglia si incontrò con Aglaja che usciva. Era sola.
- Gavrila mi ha pregato di consegnarvi questo, - disse il principe, porgendole il biglietto. Aglaja si fermò, prese il biglietto e guardò il principe in modo strano. Non c’era nel suo sguardo il minimo turbamento, forse vi traspariva soltanto una certa meraviglia, e anche quella sembrava riferirsi unicamente al principe. Col suo sguardo, Aglaja pareva chiedergli in qual maniera si trovasse immischiato con Ganja in questa faccenda. Stettero l’uno di fronte all’altra per qualche istante; alla fine un che di beffardo si disegnò sul volto di lei; ella sorrise leggermente e passò oltre.
La generalessa, in silenzio e con una certa sfumatura di sdegno, considerò per qualche tempo il ritratto di Anastasja Filippovna, che ella teneva dinanzi a sé col braccio teso
- Sì, è bella, - disse poi, - molto bella, anzi. Io l’ho veduta due volte, ma solo da lontano. Sicché a voi piace questo genere di bellezza? - domandò d’improvviso, volgendosi verso il principe.
- Sì … questo - rispose il principe con un certo sforzo.
- Proprio questo, volete dire?
- Proprio questo. Perché?
- In questo viso … c’è molta sofferenza, una passione, - proferì il principe quasi involontariamente, quasi parlando a se stesso, anziché rispondere alla domanda.
- Forse voi farneticate, - concluse la generalessa, e con gesto altero posò il ritratto sulla tavola, lontano da sé.
Aleksandra lo prese, Adelaida le si avvicinò, e tutt’e due si misero a osservarlo.
In quel mentre Aglaja tornò nel salotto.
- Che forza! - esclamò Adelaida, fissando avidamente il ritratto da dietro la spalla della sorella.
- Dove? Che forza? - domandò brusca la generalessa Lizaveta.
- Una bellezza come questa è una forza, - disse Adelaida con calore, - con una bellezza simile si può capovolgere il mondo! E se ne andò, pensosa, al suo cavalletto. Aglaja volse al ritratto appena uno sguardo, socchiuse gli occhi, sporse il labbro inferiore, e andò a sedere in disparte, incrociando le braccia.
La generalessa chiamò il servo e ordinò: - Chiamate qua Gavrila Ardilianovic, è nello studio …
«Una bellezza come questa è una forza, - disse Adelaida con calore - con una bellezza simile si può capovolgere il mondo!». Quindi la bellezza dell’Anastasia capovolge il mondo così come la bellezza della resurrezione (l’anastasia) si manifesta con la potenza e la sapienza di Dio.
E, infatti, dopo il termine "kerigma", la seconda parola fondamentale che troviamo nel testo della Prima Lettera ai Corinti corrisponde alla parola-chiave "exousia". Il significato letterale della parola "exousia" è "la manifestazione della Potenza e della Sapienza di Dio". Questa parola – ovviamente tradotta in italiano – noi l’abbiamo già sentita leggere più di una volta perché conosciamo il brano che la contiene: abbiamo letto il primo capitolo della Prima Lettera ai Corinti dove la parola "exousia" la troviamo nel versetto 24 che dice: «Ma per quelli che Dio ha chiamati, siamo essi Ebrei o Greci, Cristo è Potenza e Sapienza di Dio (exousia)». Naturalmente anche Dostoevskij, come abbiamo letto poco fa, ne L’idiota cita – fa citare al principe Myškin nel secondo capitolo del romanzo – il concetto dell’exousia: «Come se Cristo, che è sapienza e potenza di Dio [exousia], ti sussurrasse: "Vieni sei risorto"».
In quasi tutte le Lettere di Paolo, dopo l’anno 54, troviamo espresso questo concetto, e perché Paolo di Tarso costruisce il concetto dell’exousia, del "manifestarsi della Potenza e della Sapienza di Dio" nella quotidianità? Paolo elabora questo concetto per affiancarlo ad un altro che era diventato debole e anche un po’ scomodo: che significato ha questa affermazione?
Nel Percorso dello scorso anno abbiamo studiato come nel testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi (che viene considerato il primo scritto della storia della Letteratura dei Vangeli) Paolo abbia messo in primo piano l’idea della "parousia", della prossima venuta trionfale di Gesù risorto, Signore e Salvatore. Paolo dichiara, nel testo ai Tessalonicesi, che con la "parousia" si realizza la fine del tempo e della storia e dichiara che questo avvenimento è da ritenersi imminente: ma gli anni passano e la "parousia" non si compie: il Signore ritarda oppure ha addirittura cambiato idea? Per questo Paolo decide di dare una ritoccata alla linea dottrinaria e pensa di cominciare a mettere in primo piano l’idea dell’exousia: della Potenza e della Sapienza di Dio che si è già manifestata in Cristo Signore quando è risorto portando nella quotidianità di ogni persona una nuova qualità di vita.
Con il concetto dell’exousia quello della parousia passa in secondo piano: con l’exousia la potenza dell’incontro con Dio dà subito i suoi frutti perché con la risurrezione – sostiene Paolo – il Signore si è già manifestato nella Gloria. A poco a poco succederà che "l’incontro potente e sapiente con Dio" si consoliderà, anche per il Cristianesimo, soprattutto nel rito, nei rituali liturgici e succede che si preferirà andare ad incontrare "la potenza e la sapienza di Dio (l’exousia)" partecipando ai riti, piuttosto che costruendo la solidarietà (l’agape, la charitas).
Su questo tema, cioè su come si realizza l’exousia (la manifestazione della Potenza e della Sapienza di Dio) nella Chiesa c’è sempre stato uno scontro forte. Un esempio classico e universale è quello di Francesco d’Assisi secondo il quale la manifestazione della Potenza e della Sapienza di Dio si ha quando si solidarizza con i prediletti del Signore e le caratteristiche dei prediletti del Signore sono implicite nella risposta paradossale di Paolo nella Prima Lettera ai Corinti, risposta ripresa e utilizzata anche da Fëdor Dostoevskij nel testo de L’idiota che abbiamo letto: «Come se Cristo, che è sapienza e potenza di Dio, ti sussurrasse: "Vieni sei risorto". Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini», ma su questo tema significativo torneremo a riflettere strada facendo.
La domanda che ora ci dobbiamo porre è: in che cosa si manifesta oggi l’exousia? In che cosa si manifesta la Potenza e la Sapienza?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Oggi si pensa soprattutto alla Potenza… Gli esseri umani hanno sempre voluto manifestare la loro potenza… In che modo, secondo voi, una persona dovrebbe manifestare maggiormente la sua potenza?…
Scrivete quattro righe in proposito: condividete il paradosso di Paolo di Tarso e di Francesco d’Assisi?…
Domandavo prima quali rapporti abbiate intessuto con I fratelli Karamazov visto che nella primavera scorsa la Scuola ha promosso una campagna per invitare alla lettura di questo grande romanzo di cui abbiamo parlato ampiamente e del quale abbiamo letto una serie di pagine molto interessanti (abbiamo anche incontrato Il Grande Inquisitore) e ora non è il caso di ripetere tutto ciò che abbiamo già detto.
Facciamo solo un’altra incursione sul testo di questo grande romanzo a proposito del concetto di "exousia" che naturalmente ricorre spesso. Dostoevskij mette in relazione il concetto di "exousia (il manifestarsi della Potenza e della Sapienza di Dio)" con la figura dello starec. Dostoevskij dedica un capitolo – il capitolo V, l’ultimo capitolo del Libro primo – de I fratelli Karamazov agli "starcy" che è il plurale di starec e ne spiega la funzione facendo, come sempre, anche interessanti accenni storici: quindi chi vuole approfondire questa materia legga o rilegga questo capitolo.
Il testo di questo straordinario romanzo di Dostoevskij ci porta da subito dentro ad un convento nel quale vive uno, il più giovane, dei Fratelli Karmazov che si chiama Alëša e che lo scrittore, nella lettera introduttiva, definisce come il protagonista della complessa storia. Alëša coltiva la vocazione religiosa e vive a stretto contatto con lo starec Zosima: lo starec è un direttore spirituale che ha acquisito delle doti particolari, miracolose, è una figura nella quale si manifesta la Potenza e la Sapienza di Dio e potremmo dire che è l’incarnazione dell’exousia.
Ma leggiamo alcune pagine per constatare come Dostoevskij insista su questo concetto-cardine del manifestarsi della Potenza e della Sapienza di Dio in termini paolini: la Potenza e la Sapienza di Dio si manifesta sempre nei confronti di coloro che vengono considerati insignificanti, per coprire di vergogna i sapienti, si manifesta nei confronti di quelli che vengono considerati deboli, per distruggere quelli che si credono forti, si manifesta verso quelli che nel mondo non hanno importanza o sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che pensano di valere qualcosa, e lo starec è il mediatore di tutto ciò. Leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov
Pellegrine fedeli
Giù accanto alla veranda di legno, addossata alla parete esterna della clausura, s’accalcavano in quel momento tutte donne, una ventina circa di popolane. Erano state avvisate che lo starec, finalmente, stava per uscire, ed esse s’erano raggruppate lì in attesa. S’erano affacciate alla veranda anche le signore Chochlakov che aspettavano egualmente lo starec, ma nel locale riservato alle visitatrici di classe. Esse erano in due: madre e figlia. La signora Chochlakova madre, dama ricca e sempre elegantemente vestita era una donna ancora abbastanza giovane e molto carina, un po’ pallida, con due occhi vivissimi e quasi perfettamente neri. Non aveva più di trentatre anni, e già da cinque anni era vedova. La figliuola quattordicenne aveva le gambe paralizzate. Erano già sei mesi che la povera giovinetta non poteva camminare, e bisognava trasportarla su una lunga poltrona a ruote. Era una figurina incantevole, un pochino smagrita dal male, ma lieta. Un che di burlesco scintillava negli scuri, grandi occhi di lei, dalle lunghe sopracciglia. Fin dalla primavera la madre aveva cominciato i preparativi per condurla all’estero, ma poi nel corso dell’estate s’erano attardate per sistemar le cose nei possedimenti. Era ormai una settimana che soggiornavano nella nostra città, piuttosto per affari che come pellegrine, ma già un’altra volta, tre giorni or sono avevano visitato lo starec. Adesso erano tornate d’improvviso, benché sapessero che lo starec non era quasi più in grado di ricevere chicchessia; e, con insistenti preghiere, avevano chiesto d’avere ancora una volta la «felicità di rimirare il sublime risanatore nel quale si manifestava la Potenza e la Sapienza di Dio». Aspettando che lo starec uscisse, la mammina s’era seduta su una sedia accanto alla poltrona della figliuola, mentre a due passi da lei stava dritto un vecchio monaco, che non era di questo convento: veniva da un lontano, malnoto cenobio del settentrione. Anche costui attendeva la benedizione dello starec. Ma, quando apparve sulla veranda, lo starec s’avviò anzitutto verso la gente del popolo perché la Potenza e la Sapienza di Dio si manifesta sempre nei confronti di coloro che vengono considerati insignificanti. La folla s’accalcò intorno alla scaletta che, dalla bassa veranda, con tre gradini scendeva a terra. Lo starec si fermò sul gradino più alto, indossò la stola e cominciò a benedire le donne che gli si stringevano intorno. Gli fu portata innanzi una klikuša [Dalla radice "klik", gridare: le "strillone"] che tenevano per tutt’e due le braccia. Quella, appena scorse lo starec, di colpo, con stridi insensati, cominciò a rantolare e a contorcersi tutta, come nelle doglie del parto. Ponendole sul capo la stola, lo starec pronunciò sulla donna una breve preghiera; e subito essa ammutolì e si fece calma. Non so quel che avvenga ora, ma quando io ero bambino, mi sono trovato parecchie volte, in campagna e presso i conventi, a vedere e ascoltare cedeste klikuši. Le portavano durante la messa, e quelle stridevano o rompevano in ululati canini, da rimbombarne tutta la chiesa; ma quando venivano recati fuori i sacri pani, ed esse venivano condotte là da presso, immediatamente «l’invasamento» cessava, e le inferme, per un po’ di tempo, si calmavano ogni volta. Io, bambino com’ero, ne restavo assai impressionato e stupito. Senonché, sempre in quegli anni, sentivo asserire da parecchi proprietari, e soprattutto, in città, dai miei maestri, ai quali domandavo spiegazione, che quella era tutta una commedia e nient’altro, fatta allo scopo di non lavorare: e che si poteva troncarla benissimo con le debite misure di severità, come dimostravano i vari aneddoti che adducevano. Ma più tardi, con stupore, venni a sapere da medici specialisti che si trattava di ben altro che d’una commedia: si trattava di una tremenda malattia femminile, che sembra diffusa principalmente da noi in Russia, e sta a testimoniare del crudele destino della nostra donna di campagna: una malattia provocata dagli estenuanti lavori, ripresi a troppo breve distanza dai parti travagliati, irregolari, senza assistenza medica di sorta; oltre che dai dolori senza sfogo, dalle percosse, e da tutte quelle cose, che certe nature femminili non riescono, come tante altre, a sopportare. Quanto poi a quella strana e istantanea guarigione, che nel colmo delle furie e delle convulsioni sorprendeva la donna, non appena la accostavano ai sacri pani (e che a me veniva spiegata come una finzione, non solo, ma come una trappola organizzata a buon conto dai «clericali»), è probabile che anch’essa avvenisse in modo perfettamente naturale, dato che tanto le donne che la portavano ai sacri pani, quanto - ciò che più importa - la malata stessa, erano pienamente convinte, come d’una verità irrefutabile, che lo spirito immondo, dal quale la malata era posseduta, non avrebbe potuto mai resistere se, appressandola ai sacri pani, la avessero fatta genuflettere dinanzi a questi. Così si determinava ogni volta (e non poteva a meno di determinarsi), in una donna nervosa e anche psichicamente malata com’erano quelle, una specie d’inevitabile scossa di tutto l’organismo in quell’atto di genuflettersi ai sacri pani, scossa suscitata dall’attesa dell’immancabile miracolo della guarigione, e dalla stessa profonda fede che esso si sarebbe avverato. Ed esso veniva ad avverarsi, foss’anche soltanto per un minuto. Appunto in questo modo s’avverò anche adesso, non appena lo starec ricoprì la malata con la stola, il semplice gesto con cui si manifesta la Potenza e la Sapienza di Dio.
Molte delle donne che gli s’affollavano da presso s’effondevano in lacrime di tenerezza e di gioia, provocate dalla commozione del momento; altre si gettavano a baciare almeno l’orlo di quel suo vestito, e altre litaniavano come prefiche. Egli le benedisse tutte, e con qualcuna si mise a discorrere. La klikuša gli era già nota: veniva di poco lontano, da un villaggio a non più di sei miglia dal convento, e già altre volte era stata condotta qui.
- Eccone una che è di lontano! - ed egli indicava una donna tutt’altro che vecchia, ma molto magra ed emaciata, non tanto abbronzata quanto, piuttosto, stranamente annerita in viso. Essa stava in ginocchio, e con lo sguardo immoto fissava lo starec. Nel suo sguardo c’era qualcosa di attonito.
- Di lontano, padre mio, di lontano, da trecento miglia di qui. Di lontano, padre, di lontano, - cominciò la donna cantilenando, e dondolava lentamente la testa da una parte e dall’altra, sostenendosi la guancia col palmo della mano. Parlava come se recitasse le lamentazioni funebri. C’è nel popolo un dolore taciturno e paziente: si ritira in se stesso, e tace. Ma c’è anche un dolore che esplode; esso dapprima prorompe in lacrime, e poi continua a colare in lamentazioni. Questo è comune soprattutto fra le donne. Ma non è un dolore più lieve di quello taciturno. Le lamentazioni non gli danno altro ristoro fuorché quello d’esulcerare e di lacerare il cuore. È un dolore che non desidera neppure di trovar consolazione: si nutre del senso d’essere inconsolabile. Le lamentazioni sgorgano da un bisogno di rinfiammare incessantemente la piaga.
- Sei di città? - continuò, osservandola con interesse, lo starec.
- Di città, padre mio, di città siamo noi; siamo di famiglia contadini, ma siamo di città, in città abitiamo. Per veder te, padre mio, sono venuta. Ci hanno tanto parlato di te, padre caro, ce ne hanno parlato tanto. Un figlietto così piccolo m’è morto, mi sono messa in giro a pregar Dio. In tre conventi sono già stata, e m’hanno detto: «Prova un po’, Nastas’juska, a andare anche qua» da voi volevano dire, angelo bello, da voi in cui si manifesta la Potenza e la Sapienza di Dio. Sono venuta, ieri mi sono fermata al posto di riposo, e oggi eccomi da voi. …
Beh, insomma, questa donna "appassionata", travagliata – della quale potete continuare a leggere la "passione" non può che chiamarsi "Nastas’juska" diminutivo di Anastasia, la risurrezione: e non c’è risurrezione senza passione secondo il kerigma contenuto nella Prima Lettera ai Corinti, è la "passione" la contraddizione in cui si manifesta la Potenza e la Sapienza di Dio.
La terza parola fondamentale che troviamo nella Prima Lettera ai Corinti è la parola-chiave: "eucaristia". Questa parola è diventata talmente comune che ha perduto il suo significato sostanziale che è "dirsi grazie in modo veramente gratuito" in modo da creare una solidarietà e non una interdipendenza interessata, in modo da creare una comunione: ecco il senso che ha l’idea di "fare la comunione" secondo la visione paolina.
Ebbene nella Prima Lettera ai Corinzi al capitolo 11 dal versetto 23 al 26 troviamo un brano che ha assunto un ruolo che, poi, è diventato liturgico: queste parole – tra le quali spicca per la prima volta la parola "eucaristia" – sono diventate l’atto costitutivo di quel rito che ha preso il nome di "Cena del Signore" e sono diventate le parole potenti e sapienti di uno strumento d’incontro tra la realtà umana, materiale e intellettuale, e quella divina.
La struttura di questo brano – con le dovute modifiche è entrato nei testi della Letteratura dei Vangeli durante i due decenni successivi. Il brano che riporta le parole di Gesù di Nazareth durante l’ultima cena è un testo che tutti conosciamo a memoria perché è la formula liturgica della "consacrazione". Questo testo nasce dalla penna di Paolo di Tarso non per regolamentare la celebrazione di un rito, il rito della cena, ma per rimproverare i Corinti di non rispettare le regole dell’agape (della condivisione) fraterna.
Se scorriamo (fatelo questo esercizio) il capitolo 11 della Prima Lettera ai Corinti leggiamo tutta una serie di norme di comportamento – come devono atteggiarsi, vestirsi, comportarsi gli uomini, e le donne con le dovute distinzioni – che Paolo suggerisce, con severità, ai membri di questa comunità profondamente lacerata: sono le stesse norme della cultura "farisea"; tra le altre cose veniamo a sapere che quella della "Cena del Signore" era diventata già una cerimonia formale, priva di partecipazione emotiva e soggetta ad abusi. Che tipo di abusi? C’era chi si portava troppo da mangiare senza dividerlo con gli altri. C’era chi si presentava troppo elegante per farsi vedere. C’era chi beveva troppo, si ubriacava e poi sproloquiava. E Paolo, di conseguenza, di fronte a questi problemi pratici, come al solito, affronta l’emergenza e, a proposito della "Cena del Signore" scrive un testo che diventa la struttura portante della liturgia del cristianesimo.
Le domande che si pongono le studiose e gli studiosi di filologia sono molto interessanti, la prima domanda è molto significativa: Gesù di Nazareth ha mai pronunciato le parole che riporta Paolo durante l’ultima cena? Sicuramente, se le ha pronunciate, non può averle dette proprio così! Quindi il testo del rituale dell’Ultima cena lo ha creato Paolo di Tarso? Questo tema di ricerca è direttamente collegato ad un significativo interrogativo: come mai il testo del Vangelo Secondo Giovanni non racconta l’episodio dell’Ultima cena con il suo rituale?
Questi sono temi di grande fascino che incontreremo strada facendo avanzando nel territorio dell’Ellenismo – ma bisogna fare un passo per volta sul sentiero dell’Apprendimento – dove ci sono i significativi paesaggi intellettuali della Letteratura dei Vangeli.
E, per ora, rimaniamo a fare l’inventario delle parole-chiave del testo della prima Lettera ai Corinti e leggiamo il brano di Paolo, un brano che ha codificato un rito che, nel corso dei secoli, ha fatto passare in secondo piano tutti gli altri riti.
LEGERE MULTUM ….
Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Corinti 11, 23-26
Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: nella notte in cui fu tradito, il Signore Gesù prese il pane, fece la preghiera di ringraziamento [eucaristia], spezzò il pane e disse: «Questo è come il mio corpo che è dato per voi. Fate questo in memoria di me». Poi, dopo aver cenato, fece lo stesso col calice. Lo prese e disse: «Questo calice è la nuova alleanza [diatekè, che in greco significa "testamento"] che Dio stabilisce per mezzo del mio sangue. Tutte le volte che ne berrete fate questo in memoria di me». Infatti, ogni volta che mangiate da questo pane e bevete da questo calice, voi annunziate la morte del Signore, fino a quando ci sarà il suo ritorno [parousia]. …
Per Paolo di Tarso il concetto di "eucaristia (rendimento di grazie)" è corrispondente al concetto ebraico della "berit", dell’alleanza, del "patto", quindi l’eucaristia è un patto che diventa un rapporto potente e sapiente tra la persona di Dio e l’essere umano, e quindi è un rapporto di carattere esistenziale e non tanto di carattere rituale.
L’elemento più significativo sul quale dobbiamo puntare l’attenzione è che non c’è traccia nel pensiero di Paolo di Tarso di un’azione di "trasformazione del pane e del vino in carne e in sangue". Il testo dice: Il Signore Gesù prese il pane, fece la preghiera di ringraziamento [eucaristia], spezzò il pane e disse: «Questo è come il mio corpo che è dato per voi. Fate questo in memoria di me» …«Questo calice è la nuova alleanza che Dio stabilisce per mezzo del mio sangue». …
Dobbiamo sapere che quella che si chiama la dottrina della "transustanziazione", per cui, all’atto della consacrazione il pane e il vino si trasformano nel corpo e nel sangue di Gesù pur mantenendo la loro sembianza esterna, è una dottrina elaborata nel XIII secolo, all’inizio del 1200. Questa dottrina viene elaborata, attraverso una tradizione che è andata consolidandosi nel tempo, dai monaci Amalario di Metz [770-853 circa] e Pascasio Radberto [790-865 circa]: questi personaggi li incontreremo quando attraverseremo i vasti territori del medioevo, ora possiamo solo citarli. Possiamo dire che la loro dottrina è stata ratificata circa tre secoli dopo dal IV Concilio Lateranense, nel 1215, sotto il pontificato di papa Innocenzo III, Lotario dei Conti di Segni. Questo papa è quello che nel 1208 ha lanciato la crociata contro gli Albigesi o Catari che avevano cominciato a predicare una riforma della Chiesa in senso pauperistico nel sud della Francia, in terra di Provenza (ricordiamoci che la mamma di Francesco d’Assisi è provenzale di Avignone e questo fatto è fondamentale per la formazione di Francesco tanto come santo quanto come poeta) – qualche anno fa abbiamo studiato questo tema affascinante (c’è chi le ha percorse, proprio sulla scia della scuola, le strade dei Catari) –, e questo provvedimento dottrinale (la proclamazione della transustanziazione) è anche legata al clima culturale che c’è nella cristianità in questo momento: il IV Concilio Lateranense vuole contrastare le idee della Chiesa catara che si stanno diffondendo sul territorio europeo. Ricordiamo che il libro dei Catari per eccellenza è il testo del Vangelo Secondo Giovanni, in cui non si parla – come abbiamo detto – di "Ultima cena" e per i Catari [kataros, in greco, significa "puro"] il sacramento fondamentale è il "Consolamentum", la capacità che la comunità ha di accoglierti, di fare comunione con te; il cristianesimo "cataro" è più vicino allo spirito paolino, e il concetto di "eucaristia" che ha pensato Paolo di Tarso nella Prima Lettera ai Corinti, nel 1215, con il IV Concilio Lateranense, cambia i suoi connotati e da "patto storico" tra la persona di Dio e l’essere umano, diventa piuttosto un rituale mitico, a-storico, sacrale; ma di questi temi ce ne occuperemo a suo tempo – nei viaggi di studio che faremo nei vasti spazi del medioevo – ora dobbiamo rimanere sul nostro sentiero specifico.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
A che cosa o a chi vi fa pensare il gesto di spezzare il pane?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Il pane mi fa venire in mente un libro – di cui si consiglia la lettura – che s’intitola "Il pane di ieri" ed è stato scritto da Enzo Bianchi, il fondatore e il priore della Comunità monastica di Bose (in provincia di Biella). Leggiamone una pagina:
LEGERE MULTUM ….
Enzo Bianchi, Il pane di ieri
Difficile operazione ricordare, rileggere e raccontare il proprio passato, il mondo di ieri nel quale abbiamo vissuto. Operazione in cui si corre non solo e non tanto il rischio della nostalgia, quanto quello di rendere idilliaco ciò che in realtà non lo era affatto: rischio ancor più facile se il nostro passato si situa in un mondo un po’ perduto, come quello della cultura contadina, e se i ricordi risalgono a un’età precedente quella della maturità. Eppure resto convinto della verità di un detto della mia terra: el pan ed sèira, l’è bon admàn, «il pane di ieri è buono domani» …
… continua la lettura …
Enzo Bianchi termina la presentazione al suo libro con due parole veramente significative tratte dalla cultura contadina di sua madre: "lezione" e "consolazione". La "consolazione" è il sacramento del "consolamentum" di cultura catara?
Questa sera abbiamo riflettuto su tre delle quattro parole fondamentali che spiccano nel testo della Prima Lettera ai Corinti: la parola "kerigma", la parola "exousia" e la parola "eucaristia", la prossima settimana incontreremo anche la quarta.
Queste parole-chiave – "kerigma", "exousia", "eucaristia" – hanno sempre avuto un grande peso nella storia della cultura e inoltre, soprattutto nel genere letterario del "romanzo", si assiste anche – come abbiamo assistito in questo itinerario – alla laicizzazione dei concetti contenuti in queste parole-chiave tanto da suscitare, a volte, l’indignazione dell’autorità ecclesiastica e l’intervento censorio dell’autorità giudiziaria: questo è un tema delicato che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – affronteremo la prossima settimana facendo un esempio molto famoso.
Non mancate perché la Scuola è qui, ed è qui soprattutto per ricordarci che l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona. E il nostro viaggio sul territorio dell’Ellenismo di stampo evangelico continua perché possiamo imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…