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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È IL CONCETTO DEL “COLTIVARE LA SPERANZA” IN RELAZIONE AL TEMA DELLA MORTE ...

Lezione N.: 
6

Prof. Giuseppe Nibbi     Lo sapienza  poetica ellenistica  [evangelica e imperiale]    10-11-12  novembre  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È IL CONCETTO DEL “COLTIVARE LA SPERANZA”

IN RELAZIONE AL TEMA DELLA MORTE  ...

     Nel vasto territorio della sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico– che da sei settimane stiamo attraversando – ci troviamo ancora davanti al quel complesso paesaggio intellettuale che contiene il testo della Prima Lettera ai Corinti. Nel testo di quest’opera Paolo di Tarso s’interroga anche sul tema della morte e, quando ne parla, fa soprattutto riferimento al tema della vita.

     Abbiamo già studiato la scorsa settimana che, secondo le studiose e gli studiosi di filologia, le allusioni che Paolo di Tarso, soprattutto nel testo della Prima Lettera ai Corinti, fa sul tema del prepararsi a morireper sfidare la morte in modo da aspirare alla risurrezione (alla vita), fanno pensare ad un’opera importante e fanno pensare che lui l’abbia letta quest’opera o che ne conosca il significato del testo attraverso la mediazione di qualche Scuola neoplatonica con cui è venuto a contatto nei suoi viaggi da una città all’altra sul territorio dell’Ellenismo (sappiamo che su questo argomento sono stati scritti una serie di saggi, ma nessuno dei quali è stato tradotto in italiano).

     L’opera di cui stiamo parlando – come già sappiamo – è il dialogo di Platone intitolato Fedone: ci sono delle affinità tra il testo del Fedone di Platone e il testo della Prima Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso.

     Paolo di Tarso ci fornisce, quindi, l’occasione per rileggere o per leggere (se non lo abbiamo ancora letto) il testo del Fedone secondo l’ottica della sapienza poetica ellenistica per cui tutta una serie di considerazioni, che Platone nel IV secolo a.C. fa fare a Socrate in questo dialogo, assumono nel I secolo d.C. un significato particolare proprio alla luce della novella Letteratura dei Vangeli a cominciare dall’Epistolario di Paolo di Tarso.

     Per arricchire la nostra riflessione dobbiamo dire che le studiose e gli studiosi di filologia hanno, da circa tre secoli, studiato il rapporto tra i testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso e i testi delle opere della filosofia greca, soprattutto i testi delle opere di Platone e di Aristotele. Qual è il motivo per cui le studiose e gli studiosi di filologia hanno studiato questo rapporto? Lo hanno studiato per mettere in evidenza l’influenza che le parole-chiave e i concetti-cardine della filosofia greca (soprattutto delle opere di Platone), passando attraverso le opere della Letteratura del Vangelo, hanno avuto nella costruzione del pensiero filosofico cristiano che, in età medioevale, si afferma in tutta Europa (e queste grandi tematiche del pensiero medioevale le studieremo a suo tempo: ora prepariamo il terreno per poterle affrontare con qualche competenza in più: l’Alfabetizzazione è la coltura della cultura!).

     Platone fa fare a Socrate, che come sapete è il protagonista del Fedone, un’affermazione significativa: «Bisogna filosofare – indagare, ricercare, meditare, studiare, contemplare – per prepararsi a morire». Che significato ha (ci siamo già chieste e già chiesti la scorsa settimana) questa affermazione che, a prima vista, può sembrare un po’ funerea? Di fronte a questa domanda – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – nello scorso itinerario abbiamo già fatto una riflessione sul rapporto tra il testo del Fedone e i testi che compongono l’Epistolario di Paolo di Tarso.

     Il Fedone è stato scritto intorno al 380 a.C. ed è – come sappiamo – il dialogo che tratta il tema dell’anima, in particolare sviluppa il tema de l’immortalità dell’anima, un argomento che non interessa in modo particolare a Paolo di Tarso. Nel Fedone – che molte studiose e molti studiosi di filologia considerano il capolavoro di Platone dal punto di vista letterario – troviamo poi un tema nei confronti del quale Paolo, invece, è più sensibile: il ragionamento sulla differenza tra la religione e la fede, che sono due concetti diversi da non confondersi l’uno con l’altro;  nell’ottica di Platone, del cosiddetto Platone politico, questi due concetti risultano essere ben separati – la religione lega mentre la fedelibera – e su questo argomento Paolo di Tarso condivide pienamente le tesi di Platone e fa suo questo concetto.

     Abbiamo concluso l’itinerario della scorsa settimana leggendo un frammento dal Fedone in cui Socrate afferma: «Ho detto moltissime volte che, dopo che avrò bevuto il veleno, non rimarrò più con voi, ma me ne andrò di qui in certi luoghi felici e beati». La riflessione sull’immortalità dell’anima che Platone fa fare a Socrate è tipicamente orfica ma si capisce anche, con facilità, che le parole di Platone ricordano la Letteratura dei Vangeli (e poi abbiamo studiato a suo tempo quanto le figure di Dioniso e di Cristo siano vicine tra loro).

     Questa sera dobbiamo andare ancora alla ricerca di intrecci filologici tra il testo del Fedone di Platone e i testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso: in particolare quello della Prima Lettera ai Corinti e allora continuiamo su questa strada.

     Nel dialogo il Fedone la celebre discussione sul tema dell’immortalità dell’anima inizia con una significativa affermazione. Socrate, prima di bere la cicuta, conversa con i suoi amici sul tema della morte e dell’aldilà e, a questo proposito, allude a un qualcosa che potrebbe somigliare all’Inferno, al Purgatorio e al Paradiso, infatti Socrate dice ai suoi discepoli: «Io penso che i morti abbiano un futuro e che questo futuro sia migliore per i buoni che non per i cattivi». Questo concetto, nel testo della Prima Lettera ai Corinti, regge tutta la riflessione di Paolo di Tarso sul tema della risurrezione.

     Nella discussione che Platone mette in scena nel Fedone, di cui la Scuola consiglia la lettura, interviene per primo Simmia di Tebe il quale, paragonando il corpo a uno strumento musicale e l’anima all’armonia che lo strumento produce, sostiene che quando la lira, quando lo strumento si rompe (quando il corpo cessa di vivere) muore con esso anche l’armonia (cioè anche l’anima muore). Cebete, però, non è d’accordo con Simmia perché sostiene l’ipotesi pitagorica della reincarnazione. «L’anima è – sostiene Cebete – come una persona che nella vita abbia consumato molti mantelli [molti vestiti] … Tutti i mantelli, ovvero tutte le reincarnazioni, saranno meno longevi della persona che li ha posseduti a eccezione dell’ultimo mantello che vivrà comunque più a lungo di quella persona». Socrate – dopo aver ascoltato le parole di questi due interlocutori – interviene sostenendo la tesi dell’immortalità dell’anima.

     La conversazione si anima moltissimo e Critone, che Socrate ha nominato suo esecutore testamentario, è costretto a intervenire per rimproverare Socrate. «O Socrate – dice Critone – il carceriere ti raccomanda di stare calmo e di parlare meno che puoi perché se ti agiti troppo il veleno non avrà molto effetto sul tuo corpo e lui sarà costretto a farti bere il farmaco due o tre volte». «E tu – risponde Socrate – digli di prepararne due o tre porzioni, però adesso, per cortesia, lasciate che tutti parlino».

     Socrate – nel testo del Fedone – comincia a discutere sul tema dell’anima affermando: «Solo i malvagi possono augurarsi che dopo la morte ci sia il nulla, ed è logico che così la pensino, perché è nel loro interesse Io invece sono sicuro che essi vagheranno angosciati nel Tartaro e che solo chi ha trascorso la vita con onestà e con temperanza sarà ammesso a vedere la Vera Terra». A questo punto interviene Simmia molto perplesso e chiede: «Cosa intendi dire, o Socrate, con l’espressione Vera Terra?». E Platone fa pronunciare a Socrate una sorta di discorso apocalittico (rivelatorio) che rimanda alla Letteratura del Vangeli e che ricorda lo stile di Paolo quando nella Prima Lettera ai Corinti descrive il corpo dei risorti e ricorda il testo dell’Apocalisse di Giovanni dove l’autore parla di Terra nuova e Cieli nuovi e di Abisso: l’interpretazione teologica successiva, in età medioevale, trasformerà queste affermazioni (come abbiamo già detto) nel concetto di Paradiso, di Inferno e di Purgatorio.

     «Sono convinto – risponde Socrate – che la Terra è sferica. Essa non ha bisogno di un appoggio per restare dov’è perché trovandosi al centro dell’Universo, non saprebbe dove cadere Inoltre sono convinto che è molto più vasta di quanto non sembri e che noi, conoscendone solo quella parte che va dal Fasi (dall’estremità orientale del Mar Nero) alle colonne d’Ercole (allo stretto di Gibilterra), siamo come formiche o ranocchi che vivono intorno a un piccolo stagno Gli esseri umani sono convinti di abitare la sommità della Terra e invece si trovano in una sua cavità, allo stesso modo di chi, vivendo in fondo a un abisso marino, scambiasse la superficie del mare per la volta del cielo Si dice – aggiunge Socrate – che la Vera Terra abbia l’aspetto di una palla di cuoio a dodici pezzi (un Dodecaedro costituito da dodici pentagoni, in pratica quasi una sfera e, così come la descrive Socrate, questa palla sembra essere simile ai palloni di cuoio per giocare al calcio) e si dice – aggiunge Socrate – che la Vera Terra sia iridescente e intarsiata di diversi colori In alcune parti di essa ha lo splendore dell’oro e in altre è più bianca della neve, in altre ancora è argentea o porporina Le stesse sue cavità, viste dall’esterno, essendo piene di acqua o di aria, rifulgono in una iridescente varietà di colori Così pure – aggiunge Socrate – gli alberi, i frutti, i fiori, i sassi e le montagne della Vera Terra sono così levigati e trasparenti che al loro confronto diventano opache quelle piccole pietre che quaggiù hanno tanto valore In questo luogo, le persone sono beate e abitano le rive dell’aria così come noi quaggiù viviamo sulle rive del mare».

     «Chi dice queste cose?» chiede Simmia molto perplesso da questa visionaria descrizione ma Socrate ignora l’interruzione e prosegue: «Nella profondità della Terra c’è quella grande voragine che Omero e molti altri poeti hanno chiamato Tartaro Qui confluiscono tutti i fiumi e di qui tutti i fiumi defluiscono di nuovo Di questi, – afferma Socrate – quattro sono da ricordare: il fiume Oceano che scorre intorno alla Terra, l’Acheronte che gira in senso contrario e termina in una palude chiamata Acherusiade, il Piriflegetonte che, essendo di fuoco, appena trova un varco erompe dalla Terra sotto forma di lava e infine il quarto fiume, il Cocito che, girando a spirale, sprofonda fra le viscere della Terra e si getta anche lui nel Tartaro Qui, nella palude Acherusiade, – dice Socrate – vengono portate le anime di coloro che si sono macchiati di gravi colpe Alcune di esse, avendo agito in un momento di collera, dopo un periodo più o meno lungo potranno risalire in superficie, altre anime invece, per la gravità dei loro crimini sono condannate in eterno Questa dunque – afferma Socrate – è la sorte che tocca alle anime dei viventi: i tristi nel Tartaro e i puri sulla Vera Terra Ecco perché giova nella vita acquistare virtù e saggezza con la filosofia [con l’amore per la sapienza], giacché bello è il premio e grande è la speranza!».

     Dopo aver ascoltato questo discorso Simmia di Tebe controbatte dicendo: «Credi davvero nelle cose che hai detto, o Socrate?». E Socrate risponde, come è nel suo stile, in modo interlocutorio: «Credere a quello che ho detto, forse, non si addice ad una persona assennata, ma in compenso procura un grande benessere interiore».

     Che significato ha questa risposta di Socrate (che contiene il pensiero di Platone)? Questa risposta di Socrate significa che, secondo lui, una fede, un ideale, si basa non su una certezza da difendere ma su una speranza da coltivare, su una aspettativa, su un desiderio, su un sogno, su una prospettiva utopica. E Paolo di Tarso condivide questo ragionamento: la fede nella risurrezione si basa non su una certezza da difendere ma su una speranza da coltivare e difatti nella Prima Lettera ai Corinti, dopo aver descritto e difeso con determinazione l’idea della risurrezione, conclude il ragionamento affermando che tutto questo avverrà perché  Cristo è la nostra speranza e la speranza – non la certezza – è il fondamento della fede.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è un’aspettativa che vorreste si realizzasse al più presto?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Poi si legge nel Fedone che, a questo punto, appare sulla porta della cella un giovane inserviente del tribunale il quale ha in mano un recipiente di marmo, un mortaio (l’accessorio con cui si fa il pesto) con la cicuta da pestare e consegna il tutto all’erborista che è già arrivato e deve preparare il farmaco (la parola “farmacon”, in greco, significa contemporaneamente: medicina e veleno e anche la cicuta non è solo un veleno ma, utilizzata in modo idoneo, è anche un medicamento).

     Socrate si alza in piedi e dice: «Ecco che il destino mi chiama». Critone, cercando di non farsi vedere troppo disperato, sussurra: «Hai qualche ordine da darci? In che modo vuoi essere sepolto?». Socrate risponde ridendo con un battuta che richiama il concetto dell’immortalità dell’anima: «Seppellitemi come più vi piace, sempre che riusciate ad acchiapparmi perché potrei anche sfuggirvi di mano e svignarmela nel Tartaro prima di essere sepolto!». «Mio buon Critone, – continua Socrate, diventato più serio – come posso convincerti che la persona che adesso sta parlando con te, tra poco, quando la vedrai cadavere su questo letto, sarà un’altra persona?». La morte – secondo Platone – trasforma i nostri connotati, cambia la nostra dimensione così come – secondo Paolo di Tarso – la risurrezione trasforma i connotati della persona, cambia la sua dimensione qualitativa.

     Platone, nel Fedone, invita (per bocca di Socrate) a coltivare la speranza nell’immortalità dell’anima, Paolo di Tarso, nella Prima Lettera ai Corinti, invita a coltivare la speranza nella risurrezione.

     Nel corso dei secoli il Cristianesimo farà proprio il pensiero platonico sull’immortalità dell’anima e questo complesso itinerario lo seguiremo passo per passo nei Percorsi futuri (quando abbiamo attraversato l’affresco del La Scuola di Atene – vi ricordate? –  abbiamo studiato la fase culminale di questa grande operazione culturale). Ora proseguiamo la nostra riflessione nel momento in cui questo processo è ancora alle origini ed esiste ancora una linea di demarcazione tra pensiero orfico e predicazione paolina.

     Poi Socrate si rivolge a Critone e gli chiede di far entrare l’erborista con la pozione velenosa ma Critone protesta e dice a Socrate: «Perché hai tutta questa fretta, lo vedi che il sole è ancora alto?I condannati attendono sempre l’ultimo raggio del tramonto e, prima di bere il veleno, fanno una bella cena mangiando a sazietà e dopo fanno anche l’amore con una donna scelta per l’occasione». Socrate ribatte con severità: «È naturale che ci si comporti così, quando si ritiene vantaggioso ritardare il momento della morte, ma, caro Critone, è naturale che io faccia esattamente il contrario, perché, manifestando un eccessivo attaccamento alla vita, diventerei patetico e smentirei in un solo momento tutto quello che ho sempre predicato: non il vivere è da tenere in massima considerazione, ma il vivere bene». Non quindi la quantità (che pure è importante), ma la qualità della vita è da tenere in massima considerazione, e Socrate vuole decidere sulla sua vita e sulla sua morte. A questo punto entra l’erborista con in mano la tazza che contiene la pozione letale.

     Abbiamo detto che, secondo Socrate (secondo Platone), una fede, un ideale, si basa non su una certezza da difendere ma su una speranza da coltivare. Ma che cosa significa per Socrate (per Platone) coltivare la speranza? Coltivare la speranza, per Socrate (per Platone), significa perseguire l’idea che «Non il vivere è da tenere in massima considerazione, ma il vivere bene; e vivere bene vuol dire imporsi la virtù e prefiggersi la giustizia» e questo deve avvenire non in funzione del proprio tornaconto personale ma per l’interesse comune. Se noi leggiamo il testo della Prima Lettera ai Corinti possiamo constatare come più volte Paolo manifesti questa stessa idea: la comunità si costruisce perseguendo le virtù e praticando la saggezza, cioè desiderando ardentemente i doni dello Spirito.

     Come abbiamo detto poco fa nel Fedone Platone racconta – fa raccontare a Socrate – il grande mito finale in cui descrive come è fatto l’al di là e come vengono giudicate le anime che vi giungono: come saranno punite (sprofondate nel Tartaro, che è l’antenato dell’Inferno) o premiate se hanno partecipato « – afferma Platone – », ma subito dopo, in modo veramente emblematico, Platone scrive (fa dire a Socrate): « [è Socrate che parla], e«della virtù e della saggezza nella vita perchébello è il premio e grande la speranza»Certamente, sostenere che le cose siano veramente come io le ho esposte, non si conviene ad una persona che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa di simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che abbiamo riflettuto sul fatto che l’anima possa essere immortale: ebbene, questo mi pare che convenga, e che si possa rischiare di crederlo, perché il rischio è bello! E bisogna che, con queste credenze, noi facciamo l’incantesimo a noi medesimi: ed è per questo che io, da un pezzo, mi raffiguro questo mito. Per questi motivi, deve avere ferma fiducia, riguardo alla sua anima, la persona che durante la sua vita ha rinunciato a fare il male, e, invece, si è curata nelle gioie dell’apprendere, e, avendo ornato la sua anima non di ornamenti che le sono estranei, ma di pregi che sono a lei propri, cioè di temperanza, giustizia, fortezza, libertà e verità, così aspetta l’ora del suo viaggio nell’Ade, pronta a mettersi in viaggio quando verrà il suo giorno. E anche voi tutti un giorno dovrete fare questo viaggio, ciascuno quando sarà il suo giorno. Quanto a mecome direbbe un eroe tragico, già mi chiama il mio destino, ed è quasi l’ora che vada al bagno, perché mi pare meglio bere il veleno dopo essermi lavato e non lasciare alle donne la fatica di lavare il mio cadavere».

     Platone, con il racconto mitico (nel racconto della morte di Socrate c’è un clima da passione evangelica), evoca la speranza nell’al di là ma, nel momento in cui costruisce il concetto dell’al di là, sta parlando dell’al di qua per invitare allo studio (“a gustare le gioie dell’apprendere”) che è sinonimo di cura per l’anima ed è fonte di acquisizione delle virtù (le virtù civili, le virtù politiche) utili per costruire la bella città (kallipolis).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per Platone le qualità necessarie per costruire la “bella città” [kallipolis] sono: la modestia, la rettitudine, l’equità, la volontà, la regola, la sincerità… Voi quale di queste qualità scegliereste per prima? 

Scrivetela…   

Queste virtù – e molte altre provenienti dalla cultura della “sapienza poetica ellenistica” soprattutto di stampo platonico – diventano “doni dello Spirito” nella Letteratura dei Vangeli…

     Il tema della morte è un argomento che, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, si presenta in modo molto accattivante e il materiale in proposito è moltissimo tanto che è difficile fare delle scelte.

     Sul tema della morte ci sono molte letture interessanti su cui esercitarci come il romanzo La morte di Ivan Il'ic di Leone Tolstòj di cui lo scorso anno abbiamo letto alcuni frammenti, e come Il re muore di Eugène Ionesco, o come L’anno della morte di Ricardo Reis di José Saramago, o come Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. Ma se ne potrebbero indicare molte altre; e in questo quadro, è un utile esercizio rileggersi la Lettera a Meneceo di Epicuro e il Manuale di Epitteto (tradotto da Giacomo Leopardi): due opere che abbiamo studiato nel Percorso dello scorso anno. Inoltre è utile andare in biblioteca per sfogliare quello straordinario poema filosofico che s’intitola De rerum natura di un autore latino che si chiama Tito Lucrezio Caro (98 ca.-55 circa a.C.). Questo poema – che appartiene al catalogo della sapienza poetica ellenisticain lingua latina – è enorme: è formato da sei libri che contengono 7500 versi esametri con i quali Lucrezio racconta come è fatta la Natura secondo il pensiero di Epicuro.

     Lucrezio – come Platone, come Epicuro e come Paolo di Tarso – ci fa ragionare su un quesito veramente significativo: è poi così terribile morire? L’argomentazione di Lucrezio è logica ed è razionale ma non riesce tuttavia a tranquillizzarci (non tranquillizza neppure lui), anche perché noi non siamo fatti solo di logica e di razionalità.

     Che cos’è – si domanda Lucrezio – il morire? Il morire è la dimensione del non-essere – dice Lucrezio – e, quindi, è poi così terribile non-essere? Sapete che noi – afferma Lucrezio – di questa situazione abbiamo già fatto esperienza? Sì perché noi, per un tempo lunghissimo, per un periodo enorme, non siamo stati se non in condizione di non-essere! E ciò non ci ha causato nessuna sofferenza. Dopo la morte andremo– supponendo che il verbo andare sia adeguato – nello stesso luogo o nella stessa assenza di luogo dove, in condizione di non essere, siamo già stati prima di nascere. Quindi, angosciarsi per gli anni e per i secoli in cui non saremo più tra i vivi è bizzarro: perché ci dovremmo preoccupare? Infatti non ci succederà nulla come non ci è successo nulla nei millenni in cui non eravamo ancora venuti al mondo. Il non-esserci prima non ci ha fatto soffrire per nulla e, dunque, è ragionevole supporre che non debba farci soffrire il nostro definitivo non-esserci dopo. Forse, scrive Lucrezio, dovremmo riflettere un po’ di più sullo stupore di essere nati, che è grande quanto lo spaventoso stupore della morte che ci attende. Se la morte significa non-essere, ebbene, noi l’abbiamo già sconfitta una volta: il giorno in cui siamo nati.

     Lucrezio, nel suo grande poema, parla della mors aeterna - la morte-eterna, parla di ciò che non è mai stato e né mai sarà, di ciò che è destinato alla morte eterna perché non tutto riesce a nascere. Ebbene, saremo anche persone mortali, ma la morte eterna, noi che siamo vive, che siamo vivi, l’abbiamo già sfuggita: perché non ci accontentiamo di questo? Alla morte smisurata noi – scrive Lucrezio – abbiamo già rubato un po’ di tempo,  e i giorni, i mesi, gli anni, i decenni che abbiamo vissuto, ogni istante che viviamo, e questo tempo presente sarà sempre nostro: noi, nascendo, abbiamo trionfato ed è come se fossimo temporaneamente risuscitati. Questa riflessione è molto significativa ed è di una logica stringente, ed è stata sviluppata nei secoli! E allora perché la nostra preoccupazione per il morire non passa? Lucrezio si dà una spiegazione: perché, quando io non ero ancora, non c’era un io che avesse nostalgia di essere: nessuno mi privava di niente visto che ancora non-ero e non avevo coscienza di perdere nulla, visto che ero nulla; ma adesso che ho già vissuto, so che cosa significa vivere e posso prevedere ciò che perderò con la morte. Per questo, oggi, – afferma Lucrezio – la morte mi preoccupa, cioè occupa la mia mente in anticipo con la paura di perdere quello che ho, soprattutto la vera ricchezza che abbiamo: gli affetti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Richiedete in biblioteca il poema filosofico De rerum natura di Lucrezio e cercate nel III Libro i versi dal 970 al 975 e leggeteli… Lucrezio ha ragione quando dice che dovremmo lasciarci prendere dallo stupore di essere nati, che è grande quanto lo spaventoso stupore della morte che ci attende… Se la morte significa "non-essere" l'abbiamo già sconfitta una volta, il giorno in cui siamo nati... Di chi o di che cosa avete celebrato la nascita ultimamente?

Scrivete quattro righe in proposito...

     Dunque, il tema della morte ci fa pensare e ci trasforma anche in esseri pensanti: magari anche in persone un po’ angosciate, un po’ sconcertate, ma vive. Il tema della morte serve a farci pensare soprattutto alla vita ed è uno stimolo per tentare di capire la vita.

     E si può ridere della morte? A dare una risposta a questa domanda ci aiuta uno scrittore che spesso ci tiene compagnia: Achille Campanile (1900-1977). Sul tema della morte Achille Campanile, nel 1959, ha pubblicato un romanzo intitolato Il povero Piero: se non lo avete letto leggetelo e se lo avete già letto rileggetelo.

     Achille Campanile – lo sappiamo – non è solo un umorista. Umberto Eco ha scritto: Campanile, come al solito, con il suo sorriso c’inganna e ci consola, e le sue riflessioni sul tema della morte sono quasi metafisiche, sono pseudofilosofiche, e gioca con tutti i luoghi comuni che circolano sull’argomento ma, soprattutto, il tema della morte serve allo scrittore – così come fa Lucrezio – per farci riflettere sul valore della vita, sul senso dell’essere e del non-essere.

     Leggiamo due pagine dal romanzo Il povero Piero:

LEGERE MULTUM ….

Achille Campanile, Il povero Piero

Le ore scorrevano uguali, lente, tediose. Rese anche più tediose dal fatto che, attraverso i vetri, si vedeva il sole di belle giornate serene, seppure un po’ ventose. Di là dai vetri stava arrivando pian piano la primavera con un po’ di polvere. Ogni tanto, preceduto da un improvviso sommesso gracchiare, come d’una molla che si svolga, si diffondeva per l’appartamento il tintinnare d’una pendola, che cercava di portare un po’ d’allegria nella casa; ma nessuno vi faceva attenzione. Dall’esterno giungeva il lontano stridore d’un tram sulle rotaie, che là dentro già sembrava l’eco d’un altro mondo, in cui non si tornerà più. Poi, di nuovo silenzio ed uggia.

… continua la lettura …

     Il tema della morte serve a farci pensare soprattutto alla vita, il tema della morte è uno stimolo per tentare di capire la vita. Le studiose e gli studiosi di filologia si domandano: chissà che cosa pensava veramente Paolo di Tarso su questo tema? Platone – come sappiamo – fa dire a Socrate che filosofare, cioè perseguire l’Idea del Bene, è prepararsi a morire. Probabilmente Paolo di Tarso pensa che evangelizzare, cioè predicare la buona notizia della risurrezione, è prepararsi a morire.

     Il pensiero della sapienza poetica ellenistica– greca, latina, di stampo evangelico –sul tema della morte è piuttosto omogeneo: è proprio la certezza della morte ciò che dà un senso alla nostra vita, che la rende unica, irripetibile e qualcosa di straordinariamente importante per noi. Tutti i compiti e tutti gli impegni che ci prefiggiamo nella vita sono forme di resistenza alla morte, proprio perché sappiamo che la morte è un fatto ineluttabile. La coscienza della morte è ciò che fa della vita una questione importantissima per ciascuna e ciascuno di noi: qualcosa che deve essere pensato. Qualcosa di misterioso e di tremendo che ci costringe a lottare, per il quale dobbiamo sforzarci e riflettere.

     Se la morte non esistesse – affermano tutti i maestri di Scuola ellenistica – avremmo, per assurdo, ben poco da fare. Perché avremmo ben poco da fare? Una risposta la troviamo nel testo del Fedone di Platone, nel testo del De rerum natura di Lucrezio, nel testo dei Saggi di Montaigne e nei testi delle Lettere di Paolo di Tarso. Se la morte non esistesse avremmo, per assurdo, ben poco da fare perché quasi tutto quello che facciamo lo facciamo per evitare di morire. Dice Socrate nel Fedone: «Se la morte non esistesse ci sarebbe molto da vedere, ben poco da fare e niente su cui riflettere».

     L’acuirsi dell’inquietudine di fronte al tema della morteci rivela l’essenza unica e irriducibile della nostra individualità. L’inquietudine – sollecitata dal tema della morte– rivela alla persona il proprio io, fa dire alla persona: io ci sono. Questa affermazione fa pensare a molte autrici e a molti autori: ora ne citiamo due che spesse volte abbiamo incontrato e che incontreremo ancora: Fernando Pessoa e Jorge Louis Borges. Adesso noi ci possiamo concedere solo un frammento, il testo della celebre Quartina di Jorge Louis Borges.

     Leggiamolo questo testo:

LEGERE MULTUM ….

Jorge Louis Borges, Quartina

Morirono gli altri, ma ciò accadde nel passato

che è la stagione [nessuno lo ignora] più propizia alla morte.

È possibile che io, suddito di Yaqub Almansur,

muoia come dovettero morire le rose e Aristotele?

     Tutti gli umani coltivano l’ipotetica possibilità di non morire mai: questo concetto – con la Quartina di Jorge Louis Borges – adesso ce lo facciamo spiegare da Achille Campanile.

LEGERE MULTUM ….

Achille Campanile, Il povero Piero

… “Tuttavia, quest’ipotetica possibilità di non morire più, anche se si manifestasse, non si potrebbe accertare che dopo la fine del mondo, a esercizio chiuso per cessazione, al tirar delle somme, insomma. Perché siamo sempre lì: da un momento all’altro si potrebbe morire. Ma dove vuole arrivare, col suo ragionamento, signor Autore?.

A questo: malgrado la quasi assoluta certezza che tutti dovremo morire, e l’assoluta certezza che tutti quelli che ci hanno preceduto sono morti, pure, tutti restano sorpresi del fenomeno. Dirò di più: lo considerano una cosa incredibile e addirittura impossibile. Sentite questi due signori:

… continua la lettura …

     Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo letto un frammento che appartiene al capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinti; questo frammento – sul quale, abbiamo detto, saremmo tornate e tornati a riflettere – contiene un’affermazione molto particolare: «La morte prende il suo potere dal peccato, e il peccato prende la sua forza dalla legge». Un’affermazione di questo genere fa emergere una lunga serie di problemi culturali e per condurre una riflessione progressiva sui temi che emergono dobbiamo, come al solito, procedere con cautela perché, contrariamente, si va a finire lontano dall’itinerario che stiamo percorrendo.

     Prima è necessario conoscere, per quanto è possibile, le caratteristiche principali della mentalità di Paolo di Tarso: una mentalità che oscilla tra i perbenismi che fanno parte della cultura del fariseismo conservatore a cui Paolo è ancora legato e le spinte rivoluzionarie e alternative che fanno parte della cultura progressista dell’ebraismo ellenistico a cui Paolo aderisce. Abbiamo già notato – studiando i testi della Prima Lettera ai Tessalonicesi (lo scorso anno) e la Prima Lettera ai Corinti che stiamo studiando in questi itinerari – che Paolo condivide molti valori correnti della società di cui fa parte.

     C’è uno strato della mentalità di Paolo che possiamo definire perbenista, (con uno slogan potremmo dire) di perbenismo borghese. Paolo possiede anche una mentalità tipica della classe media (ebreo farisaica) a cui appartiene. Ci sono una serie di stereotipi, di modelli comportamentali che sono tipici tanto dell’ebraismo delle sinagoghe che Paolo frequenta, quanto della mentalità dell’ellenismo delle polis greche nelle quali soggiorna. Quindi la lettrice e il lettore non si devono meravigliare di tutta una serie di prese di posizione, anche contraddittorie, di Paolo che (da secoli) fanno discutere e che hanno delle ripercussioni anche sul piano letterario.

     Quali sono le prese di posizione di carattere perbenista di Paolo di Tarso, che, a volte, ci faranno persino sorridere? Possiamo, in proposito, – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – costruire un catalogo. Paolo giudica contro natura, per gli uomini, portare i capelli lunghi, e giudica imprudente, per le donne, pregare a capo o a volto scoperto, specialmente dopo essere state dalla parrucchiera o dall’estetista per farsi belle e per farsi notare. Questi erano costumi consolidati nella società del tempo per gli ebrei, per i greci, per i latini appartenenti alla classe media. Paolo si presenta come celibe, come singolo, ma esorta al matrimonio al fine di avere dei rapporti e una vita affettiva regolare. In un primo tempo Paolo si dimostra contrario al divorzio, – cita un divieto di Gesù –  ma in seguito diventa più tollerante e modifica il suo giudizio. Paolo ha un atteggiamento negativo nei confronti della pratica dell’omosessualità, perché è una pratica in uso tra i pagani. Paolo esorta a non esibire, con ostentazione eccessiva, il proprio sapere, soprattutto la conoscenza delle lingue ed esorta a fare ogni cosa decorosamente e con ordine in modo che i pagani non abbiano alcun motivo per considerare i cristiani dei folli. Quando si raduna l’Assemblea (Ekklesìa) esorta le persone a parlare una per volta, senza prevaricare gli altri, rispettando i tempi perché scrive: Dio non è un Dio di disordine ma di pace.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Costruite un catalogo della mentalità “perbenista” di Paolo di Tarso, cercate, leggete e scrivete a quali modelli comportamentali corrispondono queste citazioni: Prima Lettera ai Corinti 11, 4-16...  Prima Lettera ai Corinti 7, 7...  Prima Lettera ai Corinti 7, 5... Prima Lettera ai Corinti 7, 10-16... Lettera ai Romani 1, 26-27...  Prima Lettera ai Corinti 14, 19... Prima Lettera ai Corinti 14, 22-40...  Fate questo esercizio di carattere filologico: permette di entrare in contatto con l’Epistolario di Paolo di Tarso

Quale atteggiamento odierno considerate "perbenista"?

Scrivete quattro righe in proposito...

     Contemporaneamente ad elementi di moderazione borghese il pensiero di Paolo di Tarso contiene, in potenza, i germi di una vera e propria rivoluzione sociale. Paolo pensa e scrive – nella Lettera ai Galati al capitolo 3 (questa lettera la  studieremo a suo tempo) che: Non c’è più né giudeo né gentile, non c’è più né schiavo né libero, non c’è più né maschio né femmina, ma voi siete uno solo in Cristo Gesù. Anche se questo non lo possiamo definire un vero e proprio programma sociale e politico, però queste affermazioni contengono una volontà utopica di abbattimento delle divisioni che spesso creano squilibrio nei rapporti umani.

     Il punto in cui Paolo si impegna di più caparbiamente è quello del superamento di identità tra Ebrei e Gentili (i non ebrei). Sostanzialmente, per Paolo, Ebrei e Gentili sono fratelli, tutti figli dello stesso Dio e uniti nella storia della salvezza. Vedremo, a suo tempo, quando incontreremo la Lettera ai Galati che non sarà facile far passare queste idee.

     Per quanto riguarda gli schiavi, Paolo pensa che siano a tutti gli effetti fratelli in Cristo e, se leggiamo la Lettera a Filemone (che abbiamo già citato lo scorso anno: l’avete letta?), composta da un testo brevissimo, un capitoletto di 25 versetti, troviamo che uno schiavo, Onèsimo (significa “utile” in greco), è fuggito e si è rifugiato presso Paolo stesso. Paolo, che si trova in prigione (e questo fatto è molto strano), lo accoglie ma lo rimanda, con questa Lettera di accompagnamento, dal suo padrone, Filemone, al quale Paolo raccomanda di considerare Onèsimo come fosse suo fratello, anzi di trattarlo come se fosse Paolo. Questo Filemone è un personaggio non ben identificato, Onèsimo è un personaggio allegorico e questa Lettera, come sappiamo, è deuteropaolina, non è stata scritta da Paolo, ma contiene idee che possono senz’altro essere attribuite a Paolo il quale certamente pensa che, in nome della fede, il sistema della schiavitù debba essere superato e tra i credenti si debba realizzare una vera fraternità. Di conseguenza Paolo sostiene anche che gli schiavi non devono cercare la libertà perché a loro verrà data e questa idea la potete leggere nel testo della Prima Lettera ai Corinti al capitolo 7 dal versetto 21 al 23.

     Nei confronti delle donne – e questo è sempre stato un punto caldo– Paolo è convinto che abbiano la stessa dignità e che siano uguali in molte cose all’uomo. Credo si possa dire che, in questo momento storico, nel I secolo d.C., che è un’epoca permeata di forte maschilismo, pensare a un Paolo di Tarso femministasia un controsenso. D’altra parte, Paolo, come abbiamo già detto, ritiene che sia indispensabile conservare la consueta distinzione tra i ruoli, maschile e femminile, ma la sua posizione sulla dignità e l’uguaglianza delle donne è comunque ideologicamente alternativa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il pensiero di Paolo di Tarso contiene i germi di una “rivoluzione sociale”Cercate, leggete e scrivete a quali “modelli alternativi” corrispondono queste citazioni: Lettera ai Galati 3, 28...

Lettera a Filemone 1, 26...  Prima Lettera ai Corinti 7, 4...  Prima Lettera ai Corinti 11, 8-12...

Che cosa vi fa venire in mente la parola “alternativa”? 

Scrivete quattro righe in proposito

     Nel pensiero di Paolo di Tarso ci sono molte contraddizioni: perché succede questo? Intanto, lo sappiamo, è difficile trovare pensieri impegnati senza contraddizioni, senza aporie.

     Se leggiamo l’Epistolario cogliamo nel pensiero di Paolo anche un certo pessimismo che lui tenta di superare con la speranza nella parousìa, nella venuta gloriosa del Signore e, quindi, pensa e scrive che: non c’è più tempo per rifare la società. Ma questo ragionamento forse nasconde l’idea che sia un’impresa troppo difficile rifare e cambiare la società. Il tempo ormai si è fatto breve e passa infatti l’apparenza di questo mondo scrive, con una certa amarezza, Paolo nella Prima Lettera ai Corinti.

     In sintesi Paolo unisce zelo e sobrietà, saggezza e capacità amministrative, propone un pensiero nuovo e provocatorio con forti implicazioni sociali, e un fervore religioso dotato di progetti concreti che cercherà, invano, di realizzare. A parole, ma soprattutto per iscritto, Paolo costruisce un programma ideale: il programma di una fede nuova che, senza rinnegare il patrimonio dell’ebraismo – ma rinnovandolo – possa presentarsi ed attecchire nel mondo greco-romano.

     Dobbiamo dire che, nonostante la chiamata sulla via di Damasco avesse invertito il corso della sua vita, Paolo rimane, per molti versi, uguale a se stesso. L’apostolo Paolo condivide molti tratti che sono propri del fariseo Shaul. In fin dei conti Shaul e Paolo continuano ad essere lo stesso personaggio, e che cosa li fa essere lo stesso personaggio? Il fatto che tanto la figura di Shaul quanto quella di Paolo vorrebbe cambiare il mondo! Ma sia la persona di Shaul che la persona di Paolo capisce che cambiare il mondo non è facile: troppi luoghi comuni riempiono la mente delle persone e impediscono che si sviluppi una autentica volontà di cambiamento.

     E allora, a proposito di luoghi comuni, concludiamo con Achille Campanile e con Il povero Piero.

LEGERE MULTUM ….

Achille Campanile, Il povero Piero

Mentre Luigi prendeva nota nel silenzio dei circostanti, il vecchio, che pareva chiuso in una profonda meditazione sulla vanità delle cose umane, fece qualche passo avanti.

«Fratello », cominciò con tono lugubre e voce profonda, fissando il marmista.

«Sì, lo so», fece questi, un po’ seccato, «“fratello, ricordati che dobbiamo morire, è questo che vuol dirmi?».

«Non ci penso nemmeno», disse l’altro, «m’ha preso per un trappista? Dico che il mio povero genero era anche fratello».

L’impiegato delle pompe funebri trasalì.

… continua la lettura …

     Il tratto più saliente della personalità di Paolo di Tarso, che emerge dalle Lettere, è rappresentato da un certo complesso di superioritàche lui possiede. Un complesso di superiorità che lui dice – a chi glielo rinfaccia – di aver ricevuto per grazia di Dio.

     Paolo afferma, nelle sue Lettere, che in entrambe le carriere, tanto da fariseo prima (e lo scorso anno abbiamo studiato questo aspetto della vita di Shaul) quanto da apostolo dopo, è sempre stato il migliore. Perché Paolo scrive in modo da non lasciare spazio alla modestia?

     Per dare una risposta è necessario riflettere e rifletteremo perché il nostro viaggio continua:  la Scuola è qui e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 12, 2010