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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È IL TESTO DELLA SECONDA LETTERA AI CORINTI NELLA QUALE TROVIAMO LE PAROLE: ORGOGLIO E UMILTÀ, FORZA E DEBOLEZZA, IRONIA E ANGOSCIA, GIOIA E NOSTALGIA, GUSTO E DELUSIONE …

Lezione N.: 
7

Prof. Giuseppe Nibbi     Lo sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale]     17-18-19 novembre 2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È IL TESTO DELLA SECONDA LETTERA AI CORINTI NELLA QUALE TROVIAMO LE PAROLE:

ORGOGLIO E UMILTÀ, FORZA E DEBOLEZZA, IRONIA E ANGOSCIA, GIOIA E NOSTALGIA, GUSTO E DELUSIONE

     In queste settimane abbiamo sostato in un punto del territorio della "sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico" da dove abbiamo osservato il paesaggio intellettuale che contiene il testo della Prima Lettera ai Corinti. Il capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinti contiene un’affermazione molto particolare che abbiamo letto: «La morte prende il suo potere dal peccato, e il peccato prende la sua forza dalla legge». Abbiamo detto che questa affermazione fa emergere una lunga serie di problemi culturali che portano lontano dall’itinerario che stiamo percorrendo.

     Prima di riflettere su questa affermazione – e lo abbiamo già detto la scorsa settimana – è necessario conoscere, per quanto è possibile, le caratteristiche principali della mentalità di Paolo di Tarso: una mentalità che, come abbiamo studiato nell’itinerario scorso, oscilla tra i "perbenismi" che fanno parte della cultura del fariseismo conservatore a cui Paolo è ancora legato e le "spinte rivoluzionarie e alternative" che fanno parte della cultura progressista dell’ebraismo ellenistico a cui Paolo aderisce. Sappiamo che – dopo aver studiato il testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi (lo scorso anno) e quello della Prima Lettera ai Corinti che stiamo studiando in questi itinerari – Paolo condivide molti valori correnti della società di cui fa parte.

     Abbiamo detto che c’è uno "strato" della mentalità di Paolo che possiamo definire "perbenista" (potremmo dire) di "perbenismo borghese". Nel modo di pensare e di fare di Paolo ci sono modelli comportamentali che sono tipici tanto della mentalità dell’ebraismo delle sinagoghe che Paolo frequenta, quanto della mentalità ellenistica che domina nelle polis greche nelle quali Paolo soggiorna e che fanno riferimento ad una serie di luoghi comuni dai quali è difficile prendere le distanze.

     Alla fine dell’itinerario scorso abbiamo detto che il tratto più evidente della personalità di Paolo di Tarso, che emerge dalle Lettere, è rappresentato da un certo "complesso di superiorità" che lui possiede. Un complesso di superiorità che lui dice – a chi glielo rinfaccia – di aver ricevuto per "grazia di Dio". Paolo afferma, nelle sue Lettere, che in entrambe le carriere, tanto da fariseo prima (e lo scorso anno abbiamo studiato questo aspetto della vita di Shaul, da fariseo sul territorio dell’Ellenismo) quanto da apostolo dopo, è sempre stato il "migliore". Perché fa questa affermazione senza lasciare spazio alla modestia?

     L’argomento del "complesso di superiorità" di Paolo di Tarso non è facile da affrontare perché i materiali che riguardano questo tema sono tutti sparpagliati nei vari testi dell’Epistolario. Possiamo formulare l’ipotesi che Paolo di Tarso fosse per carattere predisposto ad avere un "complesso di superiorità", ma questo atteggiamento che lui assume è, molto probabilmente, legato anche al continuo bisogno che ha di difendersi dagli attacchi violenti ai quali è sottoposto. A Corinto l’autorità di Paolo viene contestata direttamente e con violenza da altri "apostoli", e lui è costretto a rivendicare sempre il suo "status" ma non avendo delle credenziali, non possedendo delle referenze che arrivano da Gerusalemme o da Antiochia, non può fare altro che ricordare sempre agli altri le sue capacità.

     Ora, per continuare la nostra riflessione, puntiamo l’attenzione sul testo della Seconda Lettera ai Corinti. Nel testo della Seconda Lettera ai Corinti al capitolo 11 versetto 5 si legge: «Ora io ritengo di non essere stato in nulla inferiore a questi eccellentissimi apostoli». Il testo della Seconda Lettera ai Corinti contiene una serie di brani che sono esemplari per il genere letterario dell’argomentazione polemica.

     Delle caratteristiche e della struttura della Seconda Lettera ai Corinti ne parleremo dopo, ora è necessario riflettere su quella che è stata chiamata, dalle studiose e dagli studiosi di filologia, la "tattica" di Paolo per procedere allo sviluppo dell’argomentazione polemica. In che cosa consiste questa "tattica" di Paolo? Diciamo subito che, tra gli esperti, c’è chi definisce questa "tattica" come un abile esercizio di "vittimismo" mascherato: Paolo si fa forza trasformando le accuse che riceve, quindi le debolezze, in virtù di cui gloriarsi: «Se c’è da gloriarsi – scrive Paolo nella Seconda Lettera ai Corinti – mi glorierò di ciò che si riferisce alla mia debolezza».

     Ma quali sono le "debolezze" che Paolo trasforma in motivo di vanto?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Paolo trasforma in motivo di vanto alcune “debolezze” che gli vengono rinfacciate e, a questo proposito, potete leggere nella Seconda Lettera ai Corinti i capitoli 10-11 e 12… C’è una debolezza – nel senso di lacuna, di carenza – che vi riconoscete?...

Scrivete quattro righe in proposito…

     Nel capitolo 10 della Seconda Lettera ai Corinti Paolo scrive: «… e se anche sono un profano nell’arte della parola, non lo sono però nella dottrina». E i suoi avversari sottolineano come: «le Lettere di Paolo sono dure e severe, ma quando egli è tra noi, allora è umile e il suo modo di parlare è debole». La tattica di Paolo si manifesta nel momento in cui lui ammette che queste osservazioni, queste critiche possono essere anche vere, ma questa ammissione è un gesto di sfida per poter cominciare a polemizzare: Paolo cerca la polemica e, nel manifestare questo esercizio, non è affatto tenero.

     Come abbiamo sentito gli avversari di Paolo dicono che: «…è profano nell’arte della parola, ed è di aspetto insignificante». Paolo incassa ma non è che accetti bel bello queste critiche: se la lega al dito e replica a questi attacchi in due modi. Prima di tutto sostiene che, sebbene la sua predicazione non possieda un’eloquenza e un’erudizione pari a quella di Apollo (Apollo di Alessandria lo abbiamo incontrato qualche settimana fa e sappiamo chi è), non può essere in realtà considerata inferiore. Paolo poi rivendica orgogliosamente il fatto che per lui parla la Sophia, la Sapienza di Dio, che è follia agli occhi delle persone disattente e prese dagli affari come lo sono i suoi malevoli interlocutori.

     Paolo per far fronte alle proprie insufficienze usa un sistema che si dimostra efficace e gli consente di sfoggiare la sua prontezza e la sua intraprendenza: Paolo capovolge i difetti (attenzione: non i vizi) trasformandoli in virtù, in modo tale che i punti deboli possano diventare punti di forza, e dobbiamo dire che c’è, ancora una volta, qualcosa di "socratico", e anche qualcosa di epicureo, di stoico e di scettico, in questo suo modo comportarsi.

     E ora leggiamo un brano che, a questo proposito, è diventato un classico:

LEGERE MULTUM ….

 Paolo di Tarso, Seconda Lettera ai Corinti 12, 7-10

 Io ho avuto grandi rivelazioni. Ma proprio per questo, perché non diventassi orgoglioso, mi è stata inflitta una sofferenza che mi tormenta, come una scheggia nel corpo [una spina nella carne]. Tre volte ho supplicato il Signore di liberarmi da questa sofferenza. Ma egli mi ha risposto: "Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta in tutta la sua forza proprio quando uno è debole". È per questo che io mi vanto volentieri della mia debolezza perché la potenza di Cristo ["exousia", conosciamo questa parola] agisca in me. Perciò io mi rallegro della debolezza, degli insulti, delle difficoltà, delle persecuzioni e delle angosce che io sopporto a causa di Cristo, perché quando sono debole, allora sono veramente forte.

     La lettura di questo brano ci fa pensare che Paolo sia davvero una persona umile e modesta ma se andiamo avanti a leggere ci accorgiamo invece che queste parole sono una piattaforma di lancio per colpire gli avversari, senza esclusione di colpi, e l’arma più potente che Paolo di Tarso utilizza è quella dell’ironia di tradizione ellenistica.

     Paolo crea una sorta di stato d’animo, per poi mettere in ridicolo la "forza" dei suoi fratelli, dei suoi figli spirituali che sono diventati suoi avversari nel corso del dibattito sul teme della "buona notizia". E allora alza il tono e colpisce, e scrive: «Certo, voi siete ormai sazi. Ormai siete diventati ricchi. Senza di me siete diventati re. Che bello! Finalmente possiamo cominciare a regnare con voi! Sciocchi, stupidi (non va per il sottile) sappiate che Dio ha stabilito che noi apostoli (ecco che si manifesta il "complesso di superiorità") fossimo gli ultimi fra gli uomini, fossimo come dei condannati a morte. I veri apostoli diventano uno spettacolo per il mondo, come fossero i rifiuti del mondo, come fossero la spazzatura del mondo. Io (e suona forte questo "io") sono a posto (ribadisce Paolo senza debolezza): dispongo di un’oratoria poco brillante, dispongo di scarsa presenza fisica e per di più sono afflitto da una spina nella carne. Queste debolezze sono la prova concreta della Potenza di Dio (exousia) in me. Se Dio, nonostante queste debolezze, mi ha chiamato ciò significa che queste debolezze sono una forza».

     E ora leggiamo ancora dal testo della Seconda Lettera ai Corinti:

LEGERE MULTUM ….

 Paolo di Tarso, Seconda Lettera ai Corinti 12, 11-21

 Ho parlato come se fossi pazzo! Siete voi che mi avete costretto. Proprio voi, che invece avreste dovuto parlare in mia difesa.

Perché, anche se io non sono nulla, non sono certo stato in nulla inferiore a quei super-apostoli. Io sono un vero apostolo; lo provano le azioni che ho compiuto in mezzo a voi con grande pazienza: segni, prodigi, miracoli. Che cosa vi fa sentire inferiori alle altre comunità? Solo questo: che io non vi sono mai stato di peso!

Vogliate perdonarmi questa ingiustizia! Eccomi pronto a venire da voi per la terza volta, e non vi sarò di peso. Perché non cerco il vostro denaro, cerco voi.

Perché non sono i figli che devono risparmiare per i genitori, ma sono i genitori che devono provvedere ai figli. Ben volentieri io spenderò quel che possiedo e sacrificherò anche me stesso per voi.

Se io vi amo più degli altri, voi dovreste amarmi di meno? È dunque chiaro che io non vi sono stato di peso.

Tuttavia potrebbe darsi che, astutamente, io sia riuscito a sfruttarvi in qualche modo con l’inganno. Forse qualcuno dei fratelli che vi ho mandato mi è servito per sfruttarvi? Ho chiesto a Tito di venire da voi e ho mandato con lui quell’altro fratello che conoscete. Forse Tito vi ha sfruttati in qualche modo? Forse non abbiamo agito animati dalle stesse intenzioni comportandoci allo stesso modo?

Probabilmente voi pensate da un pezzo che io cerchi di difendermi dinanzi a voi. No! Io parlo dinanzi a Dio, come credente in Cristo. Tutto quel che dico, carissimi, lo dico per far crescere la vostra fede. Purtroppo temo che quando verrò non vi troverò come vi vorrei, e voi non troverete me come mi vorreste. Temo che vi siano tra voi litigi, invidie, orgoglio, contrasti, maldicenze, pettegolezzi, fanatismi, immoralità. Temo che quando verrò, Dio mi umilierà di nuovo dinanzi a voi, e che dovrò piangere per tutti quelli che hanno peccato e rifiutato di staccarsi dalle immoralità, dai vizi e dalle dissolutezze in cui sono vissuti finora.

     La "buona notizia" presuppone – secondo Paolo – un radicale cambiamento di stile di vita. Il problema, poi, della "spina nella carne" di cui Paolo parla con dolore, con rassegnazione ma anche con orgoglio rimane storicamente un problema insoluto: è, difatti, un disturbo imprecisato che non viene mai chiarito da Paolo. È significativo il fatto che questo tema non abbia dato lo spunto per creare delle ipotesi "stimmatistiche": la cultura delle stimmate si afferma dopo l’anno mille nella Chiesa. Nelle Lettere Paolo di Tarso si lamenta di disturbi molto umani, non di derivazione divina.

     In Paolo di Tarso, attraverso la lettura del suo Epistolario – e la Scuola, a questo punto, vi propone di leggere il testo della Seconda Lettera ai Corinti – , vediamo combinarsi insieme una serie di situazioni contraddittorie: l’orgoglio e l’umiltà, la forza e la debolezza, l’ironia e l’angoscia, la gioia e la nostalgia, il gusto per le affermazioni (poche in verità) e la delusione per le molte sconfitte. In queste oscillazioni, che emergono dai testi, possiamo riconoscere uno scrivano con una grande agilità mentale, che riesce a presentare come pregi quelli che, in un personaggio pubblico, vengono normalmente considerati dei difetti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Di queste dieci parole-chiave: orgoglio, umiltà, forza, debolezza, ironia angoscia, gioia, nostalgia, gusto, delusione… quale scrivereste per prima in questo momento?...

     Queste parole (orgoglio, umiltà, forza, debolezza, ironia, angoscia, gioia, nostalgia, gusto, delusione) sono termini-chiave nel genere letterario del romanzo. Se rinveniamo nell’Epistolario di Paolo di Tarso queste parole-chiave, è logico pensare che la Scuola – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dovrebbe impegnarsi a farli studiare questi testi come s’impegna a far studiare i testi di altri importanti classici della Storia del Pensiero Umano.

     A proposito delle parole-chiave che abbiamo citato adesso incontriamo un romanzo nel cui testo le troviamo tutte queste parole. Il romanzo su cui – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – puntiamo l’attenzione è stato scritto nel 1949 da uno scrittore che nella sua vita è stato anche candidato al premio Nobel. Il fatto curioso è che quest’opera – che contiene tutto il catalogo delle parole-chiave che troviamo nei testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso – non è propriamente un’opera che appartiene alla cultura di riferimento delle Lettere di Paolo, alla cultura occidentale, ma è opera di uno scrittore giapponese che si chiama Inoue Yasushi (1907-1991). Yasushi – che è stato un importante critico d’arte e un poeta – è stato uno dei maggiori scrittori giapponesi del Novecento e nel romanzo breve che incontriamo adesso questo scrittore mette bene in evidenza la sua capacità narrativa.

     C’è, inoltre, un altro motivo per cui incontriamo questo romanzo: in questo testo l’autore riflette anche sul tema della morte che – come abbiamo potuto constatare – è uno degli argomenti che ci accompagna mentre attraversiamo il territorio della "sapienza poetica ellenistica". In questo romanzo lo scrittore tiene legati i destini di quattro personaggi, un uomo e tre donne: questi personaggi hanno apparentemente vissuto la loro vita nella più assoluta normalità dei loro rapporti ma in realtà – scopriamo leggendo – che ogni essere ha una sua vita segreta.

     Inoue Yasushi è molto bravo a costruire un testo che è attraversato da una tensione costante, da una rabbia sorda ma trattenuta che non esplode neppure alla fine quando ogni menzogna viene svelata e ogni passione si è consumata e l’orgoglio diventa umiltà, la forza diventa debolezza, l’ironia diventa angoscia, la gioia si trasforma in nostalgia e il gusto in delusione.

     Ma leggiamo l’inizio di questo romanzo che s’intitola Il fucile da caccia, dove ci viene spiegato il senso del titolo e dove l’autore ci conduce nel cuore del racconto. C’è, ancora, un altro motivo per cui incontriamo questo romanzo: è un romanzo epistolare formato da tre lettere. Un ulteriore motivo, poi, per metterlo in repertorio è che questo testo è un inno, una riflessione profonda sul valore della scrittura come gesto, come esercizio della mano, della mente e del cuore.

LEGERE MULTUM ….

Inoue Yasushi, Il fucile da caccia (1949)

 Ho pubblicato di recente sulla rivista «L’amico del cacciatore», il modesto bollettino dell’Associazione venatoria giapponese, una poesia dal titolo Il fucile da caccia. Ciò potrebbe dare l’impressione che io abbia qualche interesse per la caccia, ma sono stato educato da una madre che aveva in odio l’uccisione di esseri viventi, e in vita mia non ho mai preso in mano nemmeno un fucile ad aria compressa. Il fatto è che a dirigere questa rivista è un mio compagno dei tempi del liceo, ed è stato lui, forse spinto da un impulso improvviso, o magari anche nel cortese intento di riparare a un lungo silenzio, a chiedermi una poesia. Nonostante l’età, infatti, non mi sono ancora svezzato dalle riviste dei circoli poetici e compongo versi in un mio stile personale. In questo caso però si trattava di una pubblicazione troppo specifica e lontana dai miei interessi, e mi si chiedeva un contributo in qualche modo legato alla caccia: normalmente non ci avrei pensato due volte prima di rifiutare l’invito. Ma proprio in quel periodo, in seguito a un evento casuale, ero stato colpito dal nesso tra un fucile da caccia e la solitudine umana, e stavo pensando di scrivere qualcosa intorno a questo tema. Mi dissi allora che forse quella rivista avrebbe potuto essere la sede ideale per presentare il mio scritto. E così una sera di fine novembre, una delle prime sere davvero fredde della stagione, lavorai alla mia scrivania fin oltre la mezzanotte, componendo alla mia maniera una sorta di poemetto, che il giorno seguente inviai alla redazione dell’«Amico del cacciatore».

… continua la lettura …

     E adesso è necessario dare alcune indicazioni per favorire la lettura del testo della Seconda Lettera ai Corinti che è formata da tredici capitoletti, in tutto una decina di pagine.

     Dopo che Paolo ha inviato la Prima Lettera ai Corinti si sono verificati dei fatti gravi che hanno scosso questa comunità. Le relazioni di Paolo di Tarso con quelli che considera i suoi "figli" attraversano una crisi terribile che si manifesta in una contestazione violenta nei suoi confronti. Paolo scrive ai suoi corrispondenti, i quali conoscono benissimo i fatti, e quindi lui non li espone: capiamo che sono fatti noti a tutti quelli con cui comunica e noi rischiamo di non comprendere completamente questo testo così appassionato e polemico. Per fortuna le allusioni, abbastanza numerose, presenti nel testo hanno permesso alle studiose e agli studiosi di filologia di ricostruire, a grandi linee, il quadro drammatico della situazione.

     Le studiose e gli studiosi di filologia hanno anche, come al solito, potuto far riferimento al testo degli Atti degli Apostoli. Il Libro degli Atti al capitolo 19 racconta che, nell’anno 56, Paolo è a Efeso. A Efeso Paolo viene a sapere che a Corinto, l’ala giudeo-cristiana, quella degli Ebioniti (conosciamo questo tema perché lo abbiamo studiato), sollevano la comunità contro di lui. Paolo, allora, decide di fare una visita-lampo a Corinto e qui viene ricevuto molto freddamente. Paolo è stanco, non sta bene, ha poco tempo a disposizione, è implicato troppo personalmente in questo conflitto, è molto nervoso, e gli saltano i nervi, quindi non solo non accomoda la situazione, ma la sua presenza complica la situazione, e cresce il disordine e lo scontro. Allora Paolo prende la decisione di reagire chiedendo scusa, molto umilmente, a tutti e decide di ripartire subito, dicendo che è meglio per tutti ragionare e riflettere: Paolo dice che è meglio scriversi, perché la scrittura è lo strumento più efficace per imbastire una riflessione. Abbiamo cominciato a leggere un romanzo – Il fucile da caccia di Inoue Yasushi –dove lo scrittore fa (fa fare ai suoi personaggi) la stessa affermazione.

     Ma a Corinto gli animi sono surriscaldati e l’affare si esaspera: la passione polemica cresce, gli intrighi si moltiplicano, una parte della comunità rigetta categoricamente l’autorità di Paolo e, come abbiamo già studiato, lo calunnia personalmente. Traspare il fatto che gli altri, gli appartenenti alle altre componenti, nella comunità, tacciono: nessuno lo difende.

     Dal testo della Seconda Lettera ai Corinti si capisce che, da Gerusalemme, arrivano dei "missionari" che si vantano di aver conosciuto personalmente Gesù di Nazareth. Costoro vogliono imporsi, pretendono di avere un ruolo dirigenziale, e cercano di distruggere la reputazione di Paolo: lo scherniscono per il suo carattere autoritario e geloso, per la sua mancanza di eloquenza, per il suo vittimismo e, soprattutto, gli negano la "vocazione", negano che lui abbia avuto una "chiamata" di natura soprannaturale per cui non credono che lui possa essere considerato come un "apostolo". Costoro insinuano sarcasticamente che se la sia inventata lui questa storia che racconta della sua conversione a Damasco. Dicono che il suo "vangelo", il suo "annuncio", è fasullo e che le sue intenzioni sono quelle di "sfruttare la situazione", di farsi mantenere dalla comunità. Inoltre cominciano una campagna accusatoria – e questo è un tema di cui parleremo strada facendo – sull’intenzione che Paolo manifesta, di non obbligare i pagani, i gentili, i non-ebrei che riconoscono Gesù come Signore, a praticare la Legge di Mosè. Si forma, quindi, un’opposizione sistematica a Paolo che si manifesta contro di lui senza esclusione di colpi e, naturalmente, per iscritto, senza esclusione di colpi, Paolo si difende.

     Le studiose e gli studiosi di filologia che hanno usato, per le loro analisi, strumenti di carattere decostruzionista c’informano che, con certezza, nel testo canonico della Seconda Lettera ai Corinti sono contenuti "brani" di almeno quattro diverse Lettere che sono stati ricuciti insieme in questo testo unico. Il rapsodo (il sarto) è certamente papa Clemente Romano, e noi conosciamo questo personaggio e la sua opera di messa in ordine di tutto quel materiale che va a costituire il primo nucleo della dottrina del Cristianesimo. Il testo della Seconda Lettera ai Corinti – ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia – è stato anche "purgato (censurato)" da espressioni poco "garbate" che contrastavano con lo spirito di fratellanza predicato dalle Ekklesìe.

     La situazione a Corinto trova una "fase di normalizzazione" quando Paolo manda lì un suo collaboratore: Tito. Tito è un personaggio che appare fermo nelle convinzioni che sono quelle di Paolo, ma è anche, in quanto a diplomazia, molto più abile di Paolo, e Tito riesce, sebbene con grande difficoltà, a rilanciare la "corrente" di Paolo – la cosiddetta "corrente ellenista" – a Corinto. Tito riesce a mettere in difficoltà anche gli "offensori", i calunniatori di Paolo. Il Libro degli Atti degli Apostoli racconta questi avvenimenti: Tito tarda a tornare da Corinto, Paolo viene cacciato da Efeso per "la sommossa degli orefici" e si mette in viaggio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate a leggere il capitolo 19 degli Atti degli Apostoli dal versetto 21 al versetto 41… 

     In Macedonia Paolo incontra Tito, che porta buone notizie e allora Paolo – visto che Tito è stato così abile – lo invita a tornare subito a Corinto per continuare la "colletta" in favore della Chiesa madre di Gerusalemme che è provata dalla miseria. Ora, di questa questione della colletta per la chiesa di Gerusalemme ne parleremo ancora, anche perché andrà a portarglieli Paolo questi soldi. I maligni sostengono che Paolo abbia voluto un po’ comprarsela la "patente" di apostolo da quelli che rivendicavano di aver "frequentato" Gesù.

     Noi non possiamo mettere in dubbio la buona fede di Paolo, ma sappiamo che Paolo era anche, come si dice, "uomo di mondo" e tutto ciò contribuisce a rendere più interessante la lettura delle Lettere paoline. Il testo della Seconda Lettera ai Corinti vale la pena di essere letto soprattutto perché è ricco di brani che costituiscono un bellissimo "diario intimo" che potrebbe intitolarsi "confessioni". In nessun altro scritto compare così scoperta la personalità di Paolo di Tarso caratterizzata da un contrasto di forza e debolezza, di audacia e riserbo, di impeto e di tenerezza, emerge davvero un bel personaggio da romanzo" che parla di solidarietà, di fratellanza, di uguaglianza e di giustizia sociale.

     Leggiamone una pagina:

LEGERE MULTUM ….

Paolo di Tarso, Seconda Lettera ai Corinti 7, 2-16 8, 1-15

 Cercate di capirmi: non ho fatto torto a nessuno, non ho sfruttato nessuno. Lo dico perché è così, non per rimproverarvi. Ve l’ho già detto: vi voglio bene, voi siete uniti a me per la vita e per la morte. Sinceramente, sono molto fiero di voi. Malgrado tutte le sofferenze, Dio mi riempie di gioia e di consolazione.

Infatti, neanche arrivando in Macedonia ho avuto riposo. Ho trovato difficoltà di ogni genere: circondato da persecutori, tormentato da preoccupazioni.

Ma Dio, che consola gli sfiduciati, mi ha ridato forza con l’arrivo di Tito. E non solo con il suo arrivo ma anche con la notizia della buona impressione che gli avete fatto. Infatti Tito mi ha detto che desiderate rivedermi e ha parlato della vostra nostalgia e del vostro affetto per me, e così la mia gioia è aumentata.

Se vi ho rattristati con la lettera che vi ho scritto, non me ne pento. Prima sono stato un po’ dispiaciuto quando ho visto che effettivamente quella lettera vi ha rattristati, sia pure per breve tempo. Ma ora sono contento di averla scritta, non perché vi ha addolorati, ma perché questa vostra tristezza vi ha fatto cambiare atteggiamento. Il vostro dolore era come Dio lo desiderava, quindi io non vi ho fatto alcun danno. Infatti, la tristezza che rientra nei piani di Dio fa cambiar vita in modo radicale e porta alla salvezza; invece la tristezza che viene dalle preoccupazioni di questo mondo porta alla morte. La vostra tristezza era nei piani di Dio, ed essa ha suscitato in voi desiderio di difendervi, indignazione, timore, desiderio di rivedermi, premura e zelo nel punire il male. In ogni modo avete dimostrato di non avere alcuna colpa in questa faccenda.

Se vi ho scritto non è stato per accusare chi ha offeso e per difendere chi è stato offeso, ma proprio perché vi rendeste conto, dinanzi a Dio, della stima che avete per me. E questo vostro modo di agire mi ha consolato.

Ma oltre a questa consolazione mi sono anche rallegrato perché ho visto che Tito era contento di voi. Infatti, tutti voi lo avete tranquillizzato. Con lui io mi ero un po’ vantato di voi, e voi non mi avete deluso.

Com’è vero che ho sempre detto la verità a voi, così è risultato vero anche l’elogio di voi che avevo fatto a Tito. E così il suo affetto per voi aumenta ancora quando ricorda come avete ubbidito e come lo avete accolto con premura e con riguardo. Mi rallegro perché io posso contare su di voi in ogni occasione.

Fratelli, desidero farvi conoscere quel che la grazia di Dio ha compiuto nelle ekklesìe che sono in Macedonia, quei credenti sono stati duramente provati dalle sofferenze, tuttavia hanno conservato una grande serenità, e malgrado la loro estrema povertà, sono stati veramente generosi. Vi assicuro che hanno offerto volentieri aiuti secondo le loro possibilità; anzi, hanno fatto anche di più. Con grande insistenza mi hanno chiesto il privilegio di partecipare anch’essi all’invio di aiuti per i credenti di Gerusalemme. Sono andati molto al di là di quanto speravo: prima hanno offerto se stessi al Signore e poi, ubbidendo a Dio, si sono messi a mia disposizione. Per questo ho incoraggiato Tito a condurre a termine in mezzo a voi questo generoso impegno, visto che lui stesso l’aveva iniziato, voi avete di tutto e in abbondanza: la fede, il dono della parola, la conoscenza, un grande entusiasmo, e fra voi c’è quell’amore che vi ho insegnato ad avere. Fate in modo di essere ricchi anche in questo impegno generoso.

Non vi sto dando un ordine: vi ricordo la premura che gli altri hanno avuto, per vedere se anche il vostro amore è genuino. Voi conoscete la generosità del Signore nostro Gesù Cristo: per amor vostro, lui che era ricco, si è fatto povero per farvi diventare ricchi con la sua povertà. Al riguardo vi do questo consiglio: voi che sin dall’anno scorso avete incominciato non soltanto ad agire, ma anche a volere questa iniziativa, fate ora in modo di portarla a termine. Come siete stati pronti nel prendere l’iniziativa, siatelo anche nel realizzarla con i mezzi che avete a disposizione. Perché il risultato è gradito a Dio, se chi dona ci mette buona volontà. E Dio tiene conto di quel che uno possiede, non certo di quel che non ha.

Questa colletta infatti non ha lo scopo di ridurre voi in miseria perché altri stiano bene: la si fa per raggiungere una certa uguaglianza. In questo momento voi siete nell’abbondanza e perciò potete recare aiuto a loro che sono nella necessità. In un altro momento saranno loro, nella loro abbondanza, ad aiutare voi nelle vostre difficoltà. Così ci sarà sempre uguaglianza, come si legge nel Libro dell’Esodo:

Chi aveva raccolto molto non ebbe di più; chi aveva raccolto poco non ebbe di meno.

     Il grande pensatore francese del 1600, Blaise Pascal (che ogni tanto incontriamo strada facendo) ha scritto che il suo pensiero – i suoi Pensieri – dipendono anche dal testo della Seconda Lettera ai Corinti. Che cosa intende dire Pascal con questa affermazione?

     Noi non possiamo rinunciare a fare una riflessione in proposito, anche perché il testo dei Pensieri di Pascal, in casa, va tenuto in posizione strategica e, ogni tanto, va preso in mano, va aperto a caso e un frammento della pagina che capita sotto gli occhi va letto: "i pensieri di Pascal" servono ad illuminare i nostri pensieri.

     Che contributo ha dato Blaise Pascal (1623-1662) alla Storia del Pensiero Umano e che contributo hanno dato i Pensieri di Pascal alla Storia della cultura? Pascal è stato un grande matematico e un grande studioso di fisica e rimane un maestro nella storia di queste due discipline. Per questo motivo Pascal è stato un grande indagatore della "ragione" nella quale avevano così tanta fiducia gli intellettuali di questo momento storico, il XVII secolo, a cominciare da Cartesio. Pascal, però, proprio perché è un profondo conoscitore dei meccanismi della ragione, dubita che la conoscenza umana si basi esclusivamente sulla ragione. Pascal chiama la "ragione" con l’espressione "ésprit de geometrie", "spirito di geometria", perché la ragione è capace di fare, come si fa in geometria, dei ragionamenti deduttivi, e non ha un valore assoluto, non riesce a dimostrare tutto. «Come dire che – scrive Pascal – l’ultimo passo della ragione è di riconoscere che c’è un’infinità di cose che l’oltrepassano. Lo spazio, il movimento, il tempo, il numero sono princìpi da cui parte la ragione geometrica e non sono dimostrabili, li accettiamo in virtù della loro evidenza, ma l’evidenza ci rimanda più al cuore che alla ragione: i princìpi prima di tutto si sentono». «Le deduzioni geometriche – scrive Pascal – sono valide, ma partono da deduzioni non dedotte. La ragione è sempre preceduta dall’esperienza che è la fonte e la guida della conoscenza, l’esperienza che, secondo l’insegnamento di Galileo, deve partire dai dati di fatto per risalire ai princìpi e non viceversa. E, quindi, la persona umana non può essere compresa che in piccola parte dalla ragione. Perché l’essere umano è un "oggetto" molto complicato, intessuto di istinti e di sentimenti che nella loro complessità sfuggono nel modo più assoluto allo "spirito di geometria". La persona umana non è un teorema».

     Dopo avere studiato a fondo il problema, Pascal afferma che la ragione, è capace di dedurre e di intuire, ma non è capace di "sentire", di cogliere il senso profondo, di afferrare l’intimo della realtà. La ragione non riesce a cogliere in profondità né la realtà naturale né quella umana: «Ma – scrive Pascal – la ragione è comunque un grande strumento perché è capace di essere consapevole dei suoi limiti. La ragione "è forte perché è debole" come possiamo leggere nel testo della Seconda Lettera ai Corinti di San Paolo: "la ragione, si legge nel capitolo undicesimo di questa epistola, è forte perché ha la coscienza di essere insufficiente.

     Il pensiero filosofico dello scienziato Pascal procede ad analizzare la condizione umana facendo anche l’esegesi dell’Epistolario di Paolo di Tarso. Noi ci dobbiamo domandare: come fa una studentessa o uno studente a studiare l’opera di Pascal, a leggere i Pensieri di Pascal, senza aver letto il testo della Seconda Lettera ai Corinti?

     «La persona – scrive Pascal – che è consapevole dei suoi limiti è anche consapevole di essere superiore all’universo perché l’universo è privo di pensiero. Ma l’essere umano è consapevole che, anche se privo di pensiero, l’universo è tanto più forte di noi. Il silenzio eterno di questi spazi infiniti ci atterrisce. Smarriti in questo remoto angolo della natura. Che cosa sono gli esseri umani?». Questa è la prima considerazione sulla condizione umana sulla quale Pascal ci fa riflettere e questa considerazione si basa su una bella aporia, su una bella contraddizione: l’essere umano è superiore in un universo tanto più forte di lui.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Secondo voi  qual è la qualità che rende – o che potrebbe rendere – superiore l’essere umano nell’universo?...

Basta una parola per rispondere…

     Se la ragione è insufficiente significa che la nostra capacità di conoscere è davvero tanto limitata? Pascal pensa che esista un’altra forma di conoscenza di carattere non razionale: una forma di conoscenza che penetra nel profondo della realtà, là dove lo spirito di geometria non può arrivare. Pascal chiama questa forma di conoscenza: "ésprit de finesse", "spirito di finezza", e la chiama anche – con una terminologia tipicamente paolina – la "ragione del cuore", frutto di una intuizione immediata che sente l’intimo delle cose, che coglie le cose in profondità, nella loro totalità.

     Lo "spirito di finezza" non vede le cose in superficie, dall’esterno e, guidato da questo "spirito fine", l’essere umano indaga nella propria natura, e indagando si accorge di essere "qualcosa", di essere persino "superiore", ma si accorge anche chiaramente di non essere tutto. Quindi la persona, mediante lo spirito di finezza, capisce di avere una natura situata tra l’essere e il nulla. La persona è consapevole di avere una sua dignità che si basa sul pensiero: sul pensiero consapevole – così come scrive Paolo nella Seconda Lettera ai Corinti – della propria miseria e della propria insufficienza. Scrive Pascal, parafrasando Paolo di Tarso: «Paradossalmente la grandezza dell’essere umano consiste nella consapevolezza di essere in una condizione di inferiorità. Sembra che la consapevolezza dell’attuale insufficienza, presupponga che, nel passato, l’essere umano sia stato davvero signore dell’universo. Come se un peccato originale ci abbia messo in bilico tra l’essere e il nulla».

     E non c’è nessun divertimento che ci possa distrarre dalla nostra condizione, anche se noi cerchiamo di alzare il volume per non sentire non possiamo sfuggire alla ragione che rende manifesta la nostra miseria.

     Leggiamo, a questo proposito, un pensiero di Pascal:

LEGERE MULTUM ….

Blaise Pascal, Pensieri

 Gli esseri umani, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci. Nulla è così insopportabile all’essere umano come essere in pieno riposo, senza passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazioni. Egli sente allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. E subito sorgeranno dal fondo della sua anima, il tedio, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione. Le occupazioni, la carriera, il trambusto delle guerre, il gioco, la caccia, tutto serve all’essere umano per evitare di stare solo con se stesso, nella sua stanza, e scoprire faccia faccia la propria miseria. Gli esseri umani occupano il loro tempo a inseguire una palla o una lepre: è anche il piacere del re. Il quale re è circondato di persone che non pensano se non a divertire il re e a impedirgli di pensare a se stesso, perché se ci pensa, anche se è re, è infelice. È per questo che va a caccia. Non gli interessa la lepre: il re non è in grado di comprarsi una lepre? Gli interessa la caccia. Ma per la caccia ci vuole la lepre! Sotto il divertimento, insomma, non c’è la ragione, c’è la fuga dalla ragione.

     L’essere umano – scrive Pascal – ha perso la "grazia di Dio": ecco che cosa deve riconquistare l’essere umano.

     I pensatori – scrive Pascal – sono andati a dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio, hanno fatto i loro ragionamenti, e hanno soddisfatto il loro "spirito di geometria". Ma non hanno trovato Dio con la ragione – scrive Pascal – perché a Dio ci si avvicina con lo "spirito di finezza", con il cuore, perché Dio non può essere fatto che di amore e di consolazione. Dio non può essere freddamente "dimostrato": Dio lo si coglie nel momento in cui ci fa sentire la sua misericordia e la sua debolezza. Dio lo si coglie con la "finezza del cuore", e per la ragione non c’è spazio, occorre avere fede: occorre rischiare, scrive Pascal. E chi ha fede nella "presenza" di Dio, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe – un Dio che ha parlato al cuore dell’essere umano più che alla sua ragione – fa come una scommessa in cui se vince, vince tutto, e se perde, non perde nulla, e allora – scrive Pascal – vale la pena scommettere su Dio, E, anche se una persona è incapace di credere, per sollevarsi dalla sua miseria e dalla sua fragilità, – può pure vivere nel suo dubbio – ma è bene che agisca come se Dio ci fosse. Pascal – come Paolo di Tarso – è convinto che la fede sia essenziale e sia necessaria alla natura umana, pensa che, attraverso la fede, l’essere umano possa soddisfare le sue esigenze più profonde.

     Pascal c’invita a prendere atto che la ragione, pur essendo un valido strumento, non è più l’unica guida: dobbiamo educare anche il cuore, dobbiamo ascoltare i sentimenti, dobbiamo attuare una ricerca comune del senso profondo delle cose. La ragione, il cuore, i sentimenti non sono in antitesi tra loro: lo spirito di geometria e lo spirito di finezza sono complementari.

     Leggiamo un altro frammento dai Pensieri di Pascal:

LEGERE MULTUM ….

Blaise Pascal, Pensieri

 Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce ma non dobbiamo neppure lasciarci andare troppo superficialmente dove ci porta il cuore: gli irrazionalismi sono molto pericolosi. Geometria e finezza sono complementari, e la filosofia ha l’obbligo salutare di sospettare sempre di se stessa e la scienza ha l’obbligo morale di interrogarsi se le sue conquiste siano veramente adatte alle speranze dell’Umanità.

     E ora, per concludere, sulla scia di ciò che scrive Pascal in sintonia con il pensiero di Paolo di Tarso, torniamo sul testo del romanzo Il fucile da caccia di cui abbiamo letto l’incipit.

     In questo romanzo lo scrittore tiene legati i destini di quattro personaggi, un uomo e tre donne, ed è un romanzo epistolare formato da tre lettere scritte da ciascuna di queste tre donne ( la nipote, la moglie e l’amante) al personaggio maschile. Ciò che coinvolge in questa lettura non è la trama ma sono le riflessioni dei tre personaggi femminili. Lo scrittore Inoue Yasushi (abbiamo detto) è molto bravo a costruire un testo dove ciò che nella vita rimane nascosto viene svelato e, quindi, con la consapevolezza di dire finalmente la verità – una consapevolezza che solo la scrittura autobiografica sa dare alle persone e questa idea viene formulata da Paolo di Tarso nella Seconda Lettera ai Corinti – l’orgoglio dei personaggi diventa umiltà, la loro forza diventa debolezza, la loro ironia diventa inquietudine, la loro gioia si trasforma in nostalgia e il loro buon gusto in delusione: ma è in questa presa di coscienza – la coscienza del limite (di cui parla Pascal parafrasando Paolo) – che la vita acquisisce un senso e, di conseguenza, anche la morte.

     Cominciamo a leggere la lettera di Shōko, la nipote:

LEGERE MULTUM ….

Inoue Yasushi, Il fucile da caccia

 LETTERA DI SHŌKO

 Caro zio, caro zio Jōsuke,

da quando è morta la mamma sono già passate, anzi volate, tre settimane. Più o meno da ieri sono cessate le visite di condoglianze, e in casa improvvisamente è sceso il silenzio. La tristezza di sapere che la mamma non c’è più si è fatta di colpo più reale, penetrandomi a fondo nel cuore. Posso immaginare, zio, quanto devi essere stanco. Non solo hai pensato tu a tutto, dall’avvisare i parenti fino alla cena della veglia ma, a causa delle particolari circostanze in cui è morta la mamma, sei andato alla polizia al posto mio più volte. Non ho parole per ringraziarti di tutte le pene che ti sei dato. Poiché subito dopo sei dovuto partire per Tōkyo per gli affari della tua ditta, mi preoccupa che la stanchezza accumulata si faccia sentire di colpo.

… continua la lettura …

     Continueremo, strada facendo, a leggere questo romanzo.

     Paolo di Tarso è un grande viaggiatore che non viaggia "a caso" ma si sposta sul territorio dell’Ecumene da una ekklesìa all’altra. Come si sarebbe potuto muovere Paolo di Tarso se sul territorio eurasiatico non ci fossero state le ekklesìe della diaspora giudaica? Probabilmente – sostengono le studiose e gli studiosi di filologia – senza le ekklesìe non sarebbe potuto esistere un Paolo di Tarso.

     Leggendo le sue Lettere capiamo che Paolo di Tarso considera il fenomeno della "diaspora giudaica" cioè la "dispersione degli ebrei" nel mondo, come un fatto molto positivo, in linea con la storia culturale di questo popolo. Questo significa che ci troviamo di fronte ad un argomento interessante che dobbiamo affrontare: che cosa sono le ekklesìe della diaspora ebraica? C’erano già delle strutture che portavano questo nome, ekklesìa, prima della diffusione del messaggio della risurrezione di Gesù di Nazareth?

     Ebbene, questo è un tema che, nel prossimo itinerario, dobbiamo affrontare: ed è un tema che contiene un’altra importante "chiave" che ci serve per poter leggere e studiare i testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso.

     Il viaggio continua: la Scuola è qui e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 19, 2010