Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale] 24-25-26 novembre 2010
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO
C’È DA PERCORRERE LA TRAFILA FILOLOGICA DELLA PAROLA-CHIAVE "EKKLESÌA …
Al termine dello scorso itinerario sul territorio della "sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico" abbiamo detto che Paolo di Tarso è un grande viaggiatore anche perché non viaggia "a caso" ma si sposta sul territorio dell’Ecumene da una ekklesìa all’altra. E sappiamo che, questa sera, dobbiamo mettere al centro della nostra attenzione la parola "ekklesìa" con tutti i concetti significativi che questo termine contiene.
Paolo lo abbiamo incontrato mentre viaggia instancabilmente: lo abbiamo incontrato a Tessalonica, a Corinto, a Efeso e sappiamo che, in queste città, il suo punto di riferimento sono le "ekklesìe". Paolo inizia i suoi viaggi da Antiochia di Siria, dove è vissuto per un po’ di tempo insieme a quelli che lui chiama i suoi amici (ci si domanda se ad Antiochia ci siano anche dei suoi parenti): lì, ad Antiochia, c’è un’importante ekklesìa, ed è in questa struttura che nasce, come ci riferisce il testo degli Atti degli Apostoli, il gruppo dei "cristiani ellenisti" .
Per andare da Antiochia a Efeso (dove Paolo si trova tuttora, secondo la logica del nostro Percorso) Paolo avrebbe potuto utilizzare la via più breve e più agevole, la via del mare: c’era una efficiente linea di traghetti che collegava queste polis. Ma Paolo parte a piedi, e da Antiochia raggiunge Tarso, attraversa il massiccio del monte Tauro passando per le porte Siriache, punta verso nord: verso la Cappadocia, attraversa la Galazia del sud, poi attraversa la Frigia verso sud-ovest e raggiunge Efeso sulla costa dell’Egeo. Perché Paolo sceglie questa scomoda soluzione? Perché è spinto dal desiderio di incontrare di nuovo persone che aveva conosciuto e che frequentavano le ekklesìe e che avevano le sue stesse idee probabilmente. Paolo voleva sapere, voleva vedere, voleva constatare lo "stato di salute" della sua corrente (la corrente dei cristiani ellenisti) all’interno delle ekklesìe della diaspora giudaica o ebraica (che dir si voglia). Ed ecco che con questa dicitura – le "ekklesìe della diaspora giudaica" abbiamo detto qualche cosa in più, ma procediamo con ordine.
Ci siamo già chieste e chiesti la scorsa settimana: come si sarebbe potuto muovere Paolo di Tarso se sul territorio eurasiatico che lui attraversa non ci fossero state le ekklesìe della diaspora giudaica? Probabilmente – sostengono le studiose e gli studiosi di filologia – senza le ekklesìe non sarebbe potuto esistere neppure un Paolo di Tarso. Leggendo le sue Lettere capiamo che Paolo considera il fenomeno della "diaspora giudaica", cioè la "dispersione degli ebrei" nel mondo, come un fatto molto positivo, in linea con la storia culturale di questo popolo. Questo significa che ci troviamo di fronte ad un argomento interessante che dobbiamo affrontare chiedendoci: che cosa sono le ekklesìe della diaspora giudaica? Sappiamo che c’erano già delle strutture che portavano questo nome, "ekklesìa", prima della diffusione del messaggio della risurrezione di Gesù di Nazareth. Ebbene, questo è un tema che dobbiamo affrontare: ed è un tema che contiene un’altra importante "chiave" che ci deve servire per poter leggere e studiare i testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso e, di conseguenza, per leggere la Letteratura in generale e, in particolare, i prodotti del genere letterario del romanzo.
Sappiamo che, all’inizio degli anni 50, in tutte le polis piccole e grandi sul territorio dell’Ellenismo c’erano delle strutture chiamate ekklesìe. La traduzione letterale di questa parola greca corrisponde al termine "assemblea" e si erano formate, queste "assemblee", intorno alle Sinagoghe, quindi in seno alle istituzioni e alla cultura dell’ebraismo.
Prima di tutto dobbiamo affrontare questo tema studiando la storia del termine "ekklesìa", un termine che, oggi, a noi viene spontaneo tradurre con la parola "chiesa" ma su questo tema dobbiamo fare una riflessione perché, contrariamente, rischiamo di non capire granché (rischiamo di non fare le distinzioni necessarie) su quella che consideriamo la nostra identità culturale.
La parola-chiave "ekklesìa" ha un’importanza centrale nella cultura della "sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico" ed è un altro termine tipico del glossario di Paolo di Tarso insieme alle parole: euagelìa (il vangelo, buona notizia), elpis (la speranza), anastasis (la risurrezione), agape (l’amore solidale), parousia (il ritorno glorioso), exousia (la manifestazione della potenza), sophia (la sapienza), eucaristia (il dirsi davvero grazie).
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola “ekklesìa”, abbiamo detto, è una parola tipica del vocabolario delle Lettere di Paolo di Tarso, “Glossario ellenistico giudaico-cristiano”…
Nella nostra cultura contemporanea la parola “chiesa” ha un significato soprattutto strutturale, le chiese sono edifici molto importanti nella storia europea e anche nella nostra personale… I riti principali della nostra vita sono legati anche alle “chiese”…
Quale chiesa, quali chiese sono legate alla vostra storia personale?...
Scrivete quattro righe in proposito…
Che cosa sono le ekklesìe della diaspora giudaica? Ci troviamo di fronte ad un argomento interessante e, per studiare questo argomento, dobbiamo percorrere alcune tappe. La parola "chiesa" non è nata con il cristianesimo: questo è un luogo comune e, nel I secolo a.C., la parola "ekklesìa" è fortemente radicata nella cultura dell’ellenismo: dove, quando, come e perché si sviluppa questa "parola" e che cosa rappresenta?
Innanzi tutto dobbiamo dire che le parole che appartengono al "Glossario ellenistico giudaico-cristiano" creato da Paolo di Tarso con il suo Epistolario è costituito da termini significativi che non sono stati inventati da Paolo di Tarso. Queste parole – che influenzeranno tutta la Storia del Pensiero medioevale e moderno – Paolo di Tarso le raccoglie nell’ambiente culturale giudaico ed ellenistico. Quindi le parole-chiave del "Glossario paolino" sono termini che nascono dalla fusione della cultura ebraica con la cultura greca e questa fusione ha caratterizzato oltre alla Storia del Pensiero Umano medioevale, moderno e contemporaneo anche la Storia della Letteratura e, in particolare, il genere letterario del romanzo. Il "Glossario ellenistico giudaico-cristiano" – anche senza saperlo – noi lo conosciamo bene perché le parole di cui è composto danno forma alla struttura di base di tutti i "riti" e le "cerimonie" che caratterizzano la nostra vita. Naturalmente una delle parole più importanti del "Glossario paolino" è certamente la parola "ekklesìa" e nell’Epistolario di Paolo di Tarso si fa un grande uso di questa parola.
Ma, ora, prima di occuparci della parola "ekklesìa" dobbiamo ricordare che Paolo di Tarso utilizza il suo "Glossario" per elaborare e per dare un senso ai concetti fondamentali del suo pensiero: al concetto dell’attesa, a quello della salvezza per mezzo della risurrezione, a quello della colpa. L’ "attesa", la "salvezza" e la "colpa" sono tre grandi temi dell’Epistolario paolino e li stiamo studiando.
E, a questo proposito – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – continuiamo a leggere il romanzo che abbiamo presentato e di cui abbiamo letto l’incipit la scorsa settimana. Questo romanzo – come sapete – s’intitola Il fucile da caccia ed è stato scritto nel 1949 dallo scrittore giapponese Inoue Yasushi (1907-1991). In questo romanzo lo scrittore tiene legati i destini di quattro personaggi, un uomo e tre donne, ed è un romanzo epistolare formato da tre lettere scritte da ciascuna di queste tre donne (la nipote, la moglie e l’amante) al personaggio maschile. Ciò che coinvolge in questa lettura non è la trama ma sono le riflessioni che intessono i tre personaggi femminili sul tema del senso che ha la vita e la morte. Lo scrittore Inoue Yasushi, abbiamo detto, è molto bravo a costruire un testo dove ciò che nella vita rimane nascosto viene svelato e, quindi, con la consapevolezza di dire finalmente la verità – una consapevolezza che solo la scrittura autobiografica sa dare alle persone (questa idea viene elaborata da Paolo di Tarso nella Seconda Lettera ai Corinti) –, l’orgoglio dei personaggi diventa umiltà, la loro forza diventa debolezza, la loro ironia diventa inquietudine, la loro gioia si trasforma in nostalgia e il loro buon gusto in delusione e in tristezza.
Continuiamo a leggere la lettera di Shōko, la nipote, la quale scopre la relazione segreta che, per anni, ha legato la propria madre e lo zio e allo zio sta scrivendo quello che prova nell’aver fatto questa scoperta.
LEGERE MULTUM ….
Inoue Yasushi, Il fucile da caccia (1949)
LETTERA DI SHŌKO
Caro zio, caro zio Jōsuke,
il fatto che io abbia letto di nascosto il diario della mamma ti farà sicuramente arrabbiare. Ma il giorno prima che la mamma morisse, tutt’a un tratto ho avuto una specie di presentimento che ormai per lei non ci fosse più niente da fare. La fine si stava avvicinando. Era stato qualcosa in lei a suggerirmi questo infausto presagio. La mamma, come tu ben sai, negli ultimi sei mesi, a parte la leggera febbre che non passava, non aveva accusato calo di appetito, aveva un colorito roseo ed era perfino un po’ ingrassata.
… continua la lettura …
Una delle parole più importanti del "Glossario paolino" è certamente la parola "ekklesìa" e nell’Epistolario di Paolo di Tarso si fa un grande uso di questa parola.
Sappiamo che l’Epistolario di Paolo di Tarso è composto da quattordici Lettere, sei delle quali sono considerate scritte da lui: la Prima ai Tessalonicesi, la Prima Lettera e la Seconda Lettera ai Corinti e le Lettere ai Filippesi, ai Galati e ai Romani. Le altre otto: la Seconda Lettera ai Tessalonicesi, la Lettera ai Colossesi, la Lettera a Filemone, la Lettera agli Efesini, la Prima e la Seconda Lettera a Timoteo, la Lettera a Tito e la Lettera agli Ebrei contengono "parole e idee" di Paolo, ma non sono state scritte da lui personalmente.
Nei testi delle quattordici Lettere di Paolo di Tarso il termine "ekklesìa" viene utilizzato ben 65 volte, e questa parola greca Paolo la conosce già perché, dal I secolo a.C., è presente nella traduzione in greco dei Libri dell’Antico Testamento e Paolo conosce bene il testo dei Libri dell’Antico Testamento tradotti in greco (la traduzione chiamata dei Settanta) attraverso una grande operazione culturale (che abbiamo studiato a suo tempo), iniziata nel III secolo a.C. e che è ancora in corso al tempo di Paolo. Sappiamo che il più importante artefice di questa operazione di traduzione e di riordino dei Libri dell’Antico Testamento tradotti in greco – soprattutto dei primi cinque Libri, il Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) – è un grande intellettuale di Alessandria, contemporaneo di Paolo che si chiama Filone Alessandrino di cui abbiamo parlato più volte e che abbiamo incontrato nella primavera scorsa.
La prima domanda che dobbiamo porci è: quale termine traduce, nella versione greca dei Libri dell’Antico Testamento, la parola "ekklesìa"? Nella versione greca dell’Antico Testamento il termine "ekklesìa" serve a tradurre la parola ebraica "qahal", che significa "il popolo convocato in assemblea". La parola ebraica "qahal" è una parola molto significativa e contiene una radice che proviene dalla cultura mesopotamica, dalla cultura sumera o akkadica, perché la terra dei Sumeri si chiamava "terra di Akkad". Gli oggetti culturali più preziosi di questa cultura – come tutte e tutti voi sapete perché li abbiamo studiati a suo tempo – sono il testo dell’Epopea di Gilgamesh e i frammenti dell’Enuma Elish (Lassù, nell’alto dei cieli) uno dei poemi più antichi sulla creazione. L’Epopea di Gilgamesh – come sapete – è un poema epico concepito nel III millennio a.C. e via via scritto su migliaia di tavolette d’argilla scoperte dagli archeologi alla metà del 1800 in Mesopotamia, nella terra dei Sumeri, alla confluenza dei fiumi Tigri ed Eufrate.
Che cosa racconta l’Epopea di Gilgamesh? Molte e molti di voi, che sono in viaggio da tempo su questi Percorsi, conoscono bene le forme e i contenuti di questo apparato letterario e, quindi, per un certo numero di voi, quello che diciamo ora può servire da ripasso, ma ci può essere chi non conosce ancora le forme e i contenuti di quest’opera. L’Epopea di Gilgamesh racconta la storia di un personaggio che possiamo considerare il primo eroe della Storia della Letteratura. Che significato ha, nella Storia del Pensiero Umano, questo significativo racconto mitico? Possiamo dire che la storia di Gilgamesh è una metafora eloquente della vita di ogni persona e, quindi, questa storia ci appartiene.
Gilgamesh è il re della città di Uruk, ed è un re molto ingiusto e violento, è un usurpatore, e gli abitanti della città – dopo averlo scelto (erano rimasti infatuati) –chiedono agli dèi di poter essere liberati da lui. Gli dèi ascoltano la preghiera dei cittadini di Uruk e decidono di creare la figura di Enkidù. Chi è Enkidù? Enkidù è, prima di tutto, la prima "spalla" della Storia della Letteratura, è il primo personaggio che completa il protagonista e con il quale forma una coppia indissolubile, e questo modello letterario diventerà fondamentale soprattutto nel genere del romanzo. Enkidù è il gemello di Gilgamesh, è il suo doppio che rappresenta la parte naturale e selvaggia dell’essere umano. Quando Gilgamesh ed Enkidù s’incontrano lottano furiosamente tra loro per una giornata intera senza che nessuno dei due prevalga. Mentre si trovano abbracciati nella lotta, ormai sfiniti dopo una giornata di combattimenti, si guardano negli occhi, scoprono di assomigliarsi e non si riconoscono più come nemici e diventano compagni inseparabili e vogliono fare ciò che, in seguito, tutti gli eroi vorranno fare: sconfiggere il male, liberare il mondo dal male. Gilgamesh ed Enkidù compiono insieme delle imprese straordinarie (uccidono Humbaba il guardiano della foresta dei cedri, uccidono il Toro del cielo) che sono anche però degli atti trasgressivi nei confronti degli dèi che – in quanto gestori del potere – sono in complicità col male. E così Enkidù, per punizione, secondo il volere degli dèi, si ammala e dopo una straziante agonia, amorevolmente assistito da Gilgamesh, muore. E naturalmente gli dèi, facendo morire Enkidù, vogliono soprattutto punire Gilgamesh. Gilgamesh, difatti, soffre molto per questa perdita (ha capito quali sono i veri valori) e sebbene sia disposto a tutto per ridare la vita all’amico, si rende conto che il male, che ha il suo tragico epilogo nella morte, è più potente. Gilgamesh cerca allora di conquistare il fiore dell’immortalità per riportare in vita il suo compagno (per ridare vita all’amicizia) ma non gli è possibile e capisce che il "destino" di ogni persona è quello di "non essere immortale" e comprende che questo limite esistenziale, la morte, è drammaticamente importante perché è l’elemento, è la componente, è il principale fattore che dà valore alla vita. Gilgamesh spera anche che ci sia un "al di là" ma riflette sul fatto che il nostro "destino" ce lo giochiamo in questa vita.
Nel testo dell’Epopea di Gilgamesh ad un certo punto del racconto leggiamo che il popolo della città di Uruk, di cui Gilgamesh è il re, si "riunisce in assemblea" e chiede con forza agli dèi che la città venga liberata da questo re ingiusto, violento e usurpatore di ogni diritto. Gli dèi di Uruk – come sappiamo – ascoltano questa preghiera e decidono di creare Enkidù, il gemello antagonista di Gilgamesh, in cui si dovrà rispecchiare. Nel testo dell’Epopea di Gigamesh la parola in lingua accadica, scritta in caratteri cuneiformi, che esprime il significato di "assemblea del popolo che prega per chiedere giustizia" è la parola "qihl".
E allora – per capire il concetto – seguiamo la trafila filologica: la parola sumera "qihl", che significa "assemblea del popolo che prega per chiedere giustizia", è la radice più antica della parola "chiesa". E se è vero che le parole sono cose, noi capiamo che, già in origine, la radice della parola "chiesa" non rappresenta un edificio, un oggetto architettonico, ma la radice originaria della parola "chiesa" rappresenta una struttura umana: il popolo riunito in assemblea. La parola sumera "qihl" significa "assemblea del popolo che chiede giustizia", e la parola ebraica "qahal" significa "l’assemblea del popolo davanti a Dio". La parola greca che traduce queste due parole non poteva che riprendere questo concetto e, difatti, "ekklesìa" significa "assemblea di popolo". Paolo di Tarso, nelle sue Lettere, riprende questo termine conosciuto, "ekklesìa", e comincia ad utilizzarlo per definire la comunità di coloro che credono nella resurrezione di Gesù Cristo.
Naturalmente per Paolo di Tarso il concetto di "ekklesìa" – l’idea di "chiesa" – si identifica con le persone, e uno degli esempi tipici in cui Paolo esprime questo concetto lo troviamo nel famoso capitolo 16 della Lettera ai Romani. Il brano di cui stiamo parlando lo abbiamo già incontrato l’anno scorso e – come ci ricordano le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica –, abbiamo detto che il capitolo 16 della Lettera ai Romani è un frammento di una Lettera a parte che è stato aggiunto. Il famoso capitolo 16 della Lettera ai Romani, l’ultimo capitolo di questa Lettera, è un brano di una delle tante Lettere che Paolo ha scritto (decine di Lettere) e che sono andate perdute perché ritenute troppo personali e poco dottrinali.
Il capitolo 16 della Lettera ai Romani è un testo che viene chiamato dagli esperti la Lettera per Febe: "Vi raccomando Febe – così comincia questo brano –, nostra sorella, diaconessa". Paolo presenta Febe come una donna molto importante della comunità di Cencre, a sud di Corinto, (e abbiamo già incontrato lo scorso anno questo personaggio) che egli definisce sua protettrice perché Febe ha sostenuto economicamente e affettivamente Paolo (c’è materia per un romanzo e di racconti su questo argomento ne sono stati scritti molti). Febe è una "diaconessa" (esercitare una "diakonìa", significa svolgere un "servizio a vantaggio della comunità") e quindi in origine le donne rivestono ruoli istituzionali nell’istituzione ecclesiastica ma, in origine, la chiesa non è un’istituzione.
Questo brano ci fa riflettere soprattutto sull’essenza della parola "ekklesìa". Le relazioni nelle ekklesìe e tra le ekklesìe si allacciano non attraverso la gestione del potere gerarchico, ma si intraprendono attraverso le relazioni tra le persone, indipendentemente dal loro sesso, dalle loro condizioni sociali ed economiche, indipendentemente dal loro ruolo gerarchico.
Leggiamo questo capitolo, questa Lettera nella Lettera, perché contiene una riflessione significativa sulla natura – umana, personale e corporea (dicono le studiose e gli studiosi di filologia) – della "ekklesìa". Tutte le persone nominate in questo brano sono sconosciute (le studiose e gli studiosi di Storia non sanno dare delle risposte) ma non è solo un catalogo di nomi – greci, romani, giudaici – ma bensì rappresentano la dimostrazione che le ekklesìe sono assemblee culturalmente eterogenee. Questo testo mette in evidenza l’esistenza di una comunità di persone, di gente qualunque, di soggetti umani, i quali, però, si sono assunti delle responsabilità, senza lasciarsi condizionare dal fatto di essere greci o romani o ebrei, o di essere donne o uomini, o di essere singoli oppure in coppia. L’Epistolario di Paolo di Tarso mette bene in evidenza il fatto che devono essere le persone ad assumersi delle responsabilità senza bisogno di essere investite di una carica particolare: sono le persone che fanno la "ekklesìa", sono le persone l’essenza dell’ekklesìa.
E ora leggiamo questo brano dal capitolo 16 della Lettera ai Romani:
LEGERE MULTUM ….
Paolo di Tarso, Lettera ai Romani 16, 1-16
Vi raccomando la nostra sorella Febe, diaconessa al servizio della ekklesìa di Cencre. Accoglietela come è bene che si faccia tra credenti e aiutatela in qualsiasi cosa abbia bisogno. Anch’essa ha aiutato molta gente, e anche me. Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori. Essi hanno rischiato la loro testa per salvare la mia. Non io soltanto ma anche tutte le ekklesìe dei timorati non ebrei devono essere loro grate. Salutate anche la ekklesìa che si raduna in casa loro. Salutate il mio caro Epèneto che è stato il primo timorato nella provincia dell’Asia. Salutate Maria che ha lavorato molto per voi. Salutate Andronico e Giunia, miei compaesani, che sono stati in prigione con me. Sono molto stimati tra coloro che vengono inviati e sono diventati timorati prima di me. Salutate Ampliato che mi è caro. Salutate Urbano, nostro compagno nel servizio e il mio caro Stachi. Salutate Apelle che è stato messo alla prova per la sua fede. Salutate la famiglia di Aristobulo. Salutate il mio connazionale Erodione. Salutate quelli della casa di Narciso. Salutate Trifèna e Trifòsa che lavorano molto, e la mia cara Pèrside che pure ha molto lavorato. Salutate Rufo degno di lode, e sua madre che è come se fosse una madre anche per me. Salutate Asìncrito, Flegònte, Ermete, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. Salutate Filologo e Giulia, Nèreo e sua sorella Olimpias, e tutti i timorati che si riuniscono in casa loro. Salutatevi tra di voi con un bacio. Tutte le ekklesìe di Cristo vi salutano. …
Qui compare la dicitura "le ekklesìe di Cristo": una dicitura che comincia a qualificare un gruppo specifico. In questo brano si cita il termine "i timorati": un termine che equivale alla parola "ospite" e che incontreremo strada facendo.
Nel capitolo 16 della Lettera ai Romani troviamo un lungo elenco di persone che partecipano con impegno alla vita delle ekklesìe: sono loro stesse l’essenza delle ekklesìe. Della vita di queste persone – abbiamo detto – non sappiamo quasi nulla. Di una coppia, Aquila e Prisca o Priscilla, abbiamo qualche notizia perché questi due personaggi compaiono nel testo del libro degli Atti degli Apostoli. Sappiamo che il libro degli Atti è un libro apologetico e dottrinale, è il primo catechismo composto a Roma alla fine del I secolo da Clemente Romano, quindi, non conosciamo il grado di attendibilità di queste notizie, ma non ha nessuna importanza perché gli Atti degli Apostoli è anche un avvincente "romanzo degli albori" e può essere letto come un romanzo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Leggete il capitolo 18 degli Atti degli Apostoli e potrete incontrare aquila e Priscilla; da quelle brevi notizie è possibile anche immaginare il “romanzo” della loro vita, una vita molto movimentata… Come ve li immaginate questi due personaggi?...
Descriveteli brevemente, bastano quattro righe in proposito…
E adesso – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – apriamo una parentesi interessante.
Leggiamo un brano che è tratto da una raccolta di racconti di un narratore di talento, un narratore americano che si chiama Raymond Carver, nato nell’Oregon nel 1939 e morto alcuni anni fa. Questo scrittore – e la Scuola consiglia la lettura dei suoi racconti – è considerato il maestro di quella corrente letteraria che viene chiamata "minimalismo". Le storie che Carver racconta sono storie brevi che nascono intorno a semplici oggetti della quotidianità, oggetti di "minimo valore" (di qui nasce il nome "minimalismo"): una scatola di surgelati, una dentiera in un bicchiere, una decorazione su una torta di compleanno. Carver comincia a scrivere quotidianamente quando, a ventisette anni, inizia a lavorare come portiere di notte in un ospedale. Questo scrittore è molto bravo a trasformare le situazioni banali in qualcosa di inquietante e a farci riflettere sul fatto di quanto la banalità, a volte, possa essere inquietante.
Ora leggiamo un racconto tratto da un libro che è una raccolta formata da dodici storie, e questo libro prende il nome dal dodicesimo racconto che s’intitola Cattedrale. Il termine "ekklesìa" – ed ecco perché leggiamo questo racconto – ci rimanda a quel grande oggetto culturale che è la "cattedrale". E Carver nel suo racconto usa spesso la parola "chiesa" nei suoi molteplici significati, anche per farci capire come questa parola sia diventata "banale" se non la collochiamo nel suo contesto storico e culturale.
Ma c’è un’immagine molto significativa in questo racconto: la mano di un non-vedente, di un cieco, che giuda quella di un vedente. Non è forse una cosa "banale" – si domanda Raymond Carter – il vederci, per chi ci vede? Non basta, infatti, vederci: bisogna saper "osservare" e spesso un non-vedente sa osservare meglio di chi ci vede. Il "vedere" dovrebbe essere una cosa straordinaria: eppure finiamo per considerare una cosa sconvolgente solo il non poterci vedere.
Leggiamo ora una parte di questo racconto, tutto intero sarebbe diventato troppo lungo da leggere questa sera. I racconti di Raymond Carver li trovate in biblioteca.
Nel racconto che stiamo per leggere c’è un uomo che narra: che cosa ci racconta? Dice: "Mia moglie ha un amico, cieco, che non incontra da dieci anni … Lei, in un momento di difficoltà economica, aveva lavorato per lui: gli leggeva i testi di cui lui aveva bisogno per il suo lavoro … Poi, dopo avermi conosciuto e avermi sposato, mia moglie ha lasciato questo lavoro ma si è tenuta in contatto con questa persona: si spediscono periodicamente dei messaggi registrati e continuano a raccontarsi la loro vita …Parlano anche di me, e lui, è come se mi conoscesse …Ora questa persona ha perso la moglie ed è andato a visitare i parenti di lei che abitano nel nostro Stato e, quindi, ha telefonato che viene a trovarci, che viene a passare una notte qui …Mia moglie è molto contenta, ha insistito perché si fermasse da noi, ma per me è una bella seccatura: io non ho nessuna esperienza di ciechi e per di più sono diffidente nei confronti di quest’uomo, e mi viene voglia di metterlo in difficoltà, di ironizzare pesantemente".
Ma ora, dopo questa premessa, leggiamo il testo:
LEGERE MULTUM ….
Raymond Carver, Cattedrale (1981)
E adesso quel cieco se ne veniva a dormire in casa mia. "Forse potrei portarlo al bowling" dissi a mia moglie. Lei era in cucina che preparava il gratin di patate. Mise giù il coltello e si voltò a guardarmi. "Se mi vuoi bene" disse, "questo favore me lo puoi anche fare: Se non mi vuoi bene, allora okay. Ma se tu avessi un amico, un qualsiasi amico, e lui venisse a trovarti, cercherei di metterlo a suo agio."
... continua la lettura ...
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Qual è la cattedrale che vi piace di più?...
Scrivete quattro righe in proposito…
Questa sera ci siamo occupate, ci siamo occupati dell’essenza e della natura della parola "ekklesìa", e abbiamo affrontato l’argomento dal punto di vista "filologico". Ma le "ekklesìe" esistevano già da molto tempo ed erano attive dal I secolo a.C. come espressione, abbiamo detto, della diffusione dell’ebraismo sul territorio dell’Ellenismo. Quando nascono, e come si sviluppano le "ekklesìe"? Per rispondere a questa domanda bisogna studiare, a grandi linee, un tema di grande portata storica e culturale: il tema della dispersione degli ebrei fuori dalla Palestina, quella che si chiama la "diaspora ebraica". Per studiare questo tema dobbiamo fare qualche passo indietro: qualche passo indietro fino al 935 a.C. ma c’è chi dice fino al 922 a.C.. Come vedete ci sono addirittura due correnti di pensiero che si affrontano già in partenza su questo tema. Ma che cosa è successo in quegli anni, nel 935 a.C. o nel 922 a.C.? È questo un argomento che abbiamo affrontato altre volte nei nostri Percorsi perché è importante nella Storia del Pensiero Umano, ed è importante anche in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Il viaggio continua: la Scuola è qui e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona proprio perché ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…