Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale] 19-20-21 gennaio 2011
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO
C’È IL CONCETTO DELLA “DIASPORA”: LA “DIASPORA” È UNA RUOTA …
Stiamo viaggiando da tre mesi e mezzo sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico” in compagnia di Paolo di Tarso, autore di uno dei più significativi Epistolari della Storia del Pensiero Umano.
Paolo di Tarso – come sappiamo – ha studiato anche nelle Scuole di tradizione farisea dove ha imparato ad apprezzare lo straordinario lavoro degli scrivani di Israele in quanto artigiani del racconto cerimoniale, del midrash, che, durante e dopo l’esilio, hanno saputo (come abbiamo studiato nell’itinerario della scorsa settimana) dare un ruolo mitico a tutte le componenti della società giudaica, in modo da non scontentare nessuno, in modo che ogni componente si sentisse protagonista nell’occupazione della “terra promessa” (un concetto che si forma durante l’esilio babilonese). L’operazione culturale, politica e sociale che hanno promosso gli scrivani d’Israele durante e dopo l’esilio è straordinaria e porta – come sappiamo – alla stesura dei Libri che contengono la Legge e i Profeti, cioè lo zoccolo duro dell’Antico Testamento. I testi di questi Libri – e nello scorso itinerario abbiamo predisposto le chiavi per la lettura dei Libri di Esdra e di Neemia – sono un formidabile compromesso ideologico dal quale nasce un pensiero. E questo pensiero si fonda su un concetto basilare quello de “l’equilibrio dei meriti”. Naturalmente anche la riflessione che faremo questa sera costituisce un tassello in più per avvicinarci alla conoscenza del ruolo che hanno le “ekklesìe” al tempo di Paolo di Tarso.
Sappiamo che Paolo vive a stretto contatto con le ekklesìe, sappiamo che queste strutture, leggere e flessibili, preesistono al Cristianesimo e si sviluppano nell’ambito della “diaspora” ebraica sul territorio dell’Ellenismo. Il tema legato alla parola-chiave “ekklesìa” è complesso e ostico e, come sappiamo parte da lontano, e ora facciamo un altro passo avanti per arrivare a capire che cosa sono le ekklesìe.
Quando gli scrivani d’Israele parlano di “equilibrio dei meriti” vogliono affermare che hanno un “merito” tanto coloro i quali sono “tornati dall’esilio” di Babilonia – e i personaggi di Abramo e di Mosè sono la prefigurazione letteraria di questo “ritorno dall’esilio” – quanto coloro i quali, non deportati, sono stati costretti a rimanere su di una terra povera e inospitale. Per questo secondo gruppo gli scrivani hanno coniato il termine di “resto d’Israele” e questo “resto”, nel testo dei Libri dei Profeti ha la sua metafora letteraria nel famoso, e misterioso, personaggio del “servo di Yhwh”. Il “servo di Yhwh” raffigura l’umile, il diseredato, il sofferente che diventa la vittima immolata, attraverso il cui sangue e il cui sacrificio, il popolo sarà liberato. Potete leggere, o rileggere, questo famoso testo – formato da quattro poemetti – nel Libro di Isaia dal capitolo 49 al capitolo 55. Naturalmente Paolo di Tarso conosce bene il Libro di Isaia e, in particolare, il testo del poema dedicato al “servo di Yhwh”. Paolo di Tarso è anche consapevole del concetto di “resto” e riprenderemo questo argomento strada facendo. Su questa parola-chiave, ora, dobbiamo riflettere.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola “resto” va di pari passo con le parole: avanzo, rimanenza, residuo… Che cosa vi suggerisce la parola “resto”?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Certamente avete visto qualche volta i “resti”, cioè i ruderi, le rovine di qualche sito archeologico… Raccontate brevemente le vostre esperienze di osservatori di “resti”…
In funzione della didattica della lettura e della scrittura, visto che stiamo parlando del ruolo degli “scrivani” – degli “scrivani” antichi appartenenti alla Scuola di Isaia, di quelli ellenistici come Paolo di Tarso – non possiamo fare a meno di concederci una digressione che ci presenta anche uno “scrivano” contemporaneo il quale, sotto forma di personaggio letterario, ha assunto ormai il ruolo di un “classico”.
Mentre preparavo questo itinerario mi sono detto: ma vuoi presentare ancora una volta questo libro? Lo abbiamo incontrato anche due anni fa. Poi mi sono detto che un “classico” – come ci ricorda Italo Calvino – è un testo nel quale, tutte le volte che noi lo rileggiamo, troviamo qualcosa di nuovo che non avevamo notato prima. Difatti quando ho cominciato a rileggere il testo di questo romanzo mi sono accorto di quante citazioni di carattere paolino ci fossero, in esso, sotto traccia.
Il testo di cui stiamo parlando – e di cui si consiglia la lettura (non è detto che tutte le persone che sono qui questa sera l’abbiano letto o lo conoscano) o la rilettura – viene considerato uno dei più significativi “racconti” dell’800. Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta nel 1853 e il suo autore è conosciuto soprattutto per aver scritto uno straordinario romanzo che è diventato un “mito della letteratura” per le sue metafore intitolato Moby Dick. Lo scrittore in questione si chiama Herman Melville ed è nato a New York nel 1819. Melville ha vissuto in una famiglia agiata fino alla morte del padre, e poi la miseria si è abbattuta su di lui e, quindi, dopo essersi dedicato agli studi letterari, è stato costretto ad imbarcarsi nel 1841, come marinaio, su una baleniera. Per Melville i quattro anni di navigazione avventurosa nei mari del Sud sono stati molto formativi e hanno dato materia alla sua scrittura giornaliera. Ma Melville non si è mai guadagnato da vivere facendo lo scrittore: per mantenersi ha fatto l’impiegato al porto di New York, all’ispettorato delle Dogane. Ha sempre pubblicato a sue spese i suoi romanzi, i suoi racconti e le sue poesie, e sempre con un completo insuccesso editoriale, compreso Moby Dick. Melville muore nel 1891 e dopo cinquant’anni dalla sua morte, le lettrici e i lettori più attenti e i critici letterari riconosceranno in lui uno dei più significativi scrittori dell’800 e dell’età contemporanea.
Il racconto di Herman Melville (1819-1891) su cui vogliamo puntare l’attenzione s’intitola Bartleby lo scrivano (pubblicato nel 1853). La storia di Bartleby lo scrivano è anche frutto della sua delusione personale per essere uno scrittore incompreso: il pubblico dei lettori del suo tempo )non erano molti come oggi) voleva solo avventure senza riflessione, mentre Melville utilizza l’avventura allo scopo di riflettere sui valori della vita e sul senso dell’esistenza. Bartleby è uno scrivano un po’ comico che rivendica il silenzio e l’otium. Bartleby si ribella pacatamente, con compostezza e con grande educazione, contro tutte le pressioni che l’utilitarismo mette in atto su una società che fonda tutti i suoi rapporti di comunicazione unicamente su operazioni speculative. Questo racconto è un’importante parabola sul lavoro di scrivere, è un apologo sul valore che ha l’esercizio della scrittura, e questo apologo ha fatto “scuola”.
La storia di Bartleby ce la racconta l’avvocato che lo assume nel suo studio a Wall Street: siamo nel centro della finanza. Quest’uomo cerca di farsi una ragione del comportamento di Bartleby, cerca di capire perché lo scrivano, da un certo momento in avanti, decida di smettere di scrivere. Perché Bartleby smette di scrivere? L’avvocato sembra credere sia perché gli è diminuita la vista a furia di copiare notte e giorno. Ma Bartleby non vuole spiegare nulla e si presenta – pallido, mite, laconico – come un personaggio tagliato sul modello della Letteratura dei Profeti che Melville conosce molto bene. Bartleby, come la figura di un profeta, incarna l’opposizione assoluta ad un mondo che usa la scrittura – questo meraviglioso strumento che è la “scrittura” – solo per giustificare “interessi”, per imbastire legalmente “imbrogli”. Bartleby appare simile alla figura del “servo di Jhwh”, si presenta come la figura della povertà, del poco, del nulla, del resto, del diseredato, dell’ebionim. Il fatto è che se non si conosce la Letteratura biblica – compreso l’Epistolario di Paolo di Tarso – non si possiedono le “chiavi” che permettono di leggere le Letterature contemporanee.
La figura incantata di Bartleby ispira una grande tenerezza sia perché parla pochissimo, sia perché è in continua meditazione, sia perché riduce tutto il suo parlare a un’unica frase, usata come un ritornello, un’unica frase che è diventata celebre per il modo di negare le cose, dice Bartleby: «Avrei preferenza di no». Questa frase non suona, infatti, come un vero e proprio rifiuto, ma è piuttosto un modo per declinare un invito ad essere efficiente per lanciare, piuttosto un ammonimento a riflettere.
Con Bartleby non si riesce a litigare, non si riesce a contrastare il suo rifiuto, ma – come ci dice l’avvocato – non si può far altro che domandarci: «Ma che cosa gli passa per la testa? Che cosa sta pensando?». La frase «Avrei preferenza di no» chiude la porta della conversazione ma apre le finestre della riflessione, e Melville ci vuole dire che questo fenomeno vale anche per la “scrittura”: la “scrittura” è un esercizio che predispone la mente alla riflessione. La potenza della scrittura non sta in questa o in quella cosa da dire, bensì nel poco o nel niente da dire, cioè nella condizione in cui si annulla il dovere di scrivere per lasciare il posto al piacere di scrivere. La potenza della scrittura sta nell’essere senza aspettative, nel rimanere sospesa soltanto come “preferenza”, dice Bartleby. Quindi dobbiamo cogliere l’occasione per ribadire che dobbiamo scrivete senza aspettative, e questo è lo stesso ragionamento che abbiamo sentito fare dallo scrittore Robert Walser (molte e molti di voi se lo ricordano) quando scrive che “la scrittura è la domenica della vita”. L’avvocato chiede a Bartleby: «Vuoi tu essere un po’ ragionevole?». E Bartleby risponde: «Avrei preferenza di no, a non essere un po’ ragionevole”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Voi, in quale occasione, avete detto: “Avrei preferenza di no”…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora leggiamo due pagine di questo racconto:
LEGERE MULTUM ….
Herman Melville, Bartleby lo scrivano (1853)
Sono un uomo piuttosto anziano. La natura della mia professione, negli ultimi trent’anni, mi ha portato ad avere contatti fuori del comune con ciò che si direbbe un interessante ed alquanto singolare genere di individui, dei quali fino ad ora, ch’io sappia, nulla è stato scritto: mi riferisco ai copisti legali, agli scrivani. In gran numero ne ho conosciuti, sia per pratica di lavoro che a titolo personale, e, quando volessi, potrei narrare svariate storie, che forse farebbero sorridere le persone benevole, e forse farebbero piangere le anime sentimentali. Ma rinunzio alla biografia di ogni altro scrivano per pochi momenti della vita di Bartleby, che fu scrivano, il più stravagante di quanti abbia mai veduto, o di cui abbia avuto notizia. Laddove, di altri scrivani, potrei scrivere l’intera vita, nulla del genere è possibile nel caso di Bartleby. Ritengo non esistano documenti per una completa e soddisfacente biografia di quest’uomo. Il che, per le lettere, è senz’altro una perdita irreparabile. Era Bartleby uno di quegli esseri, dei quali nulla è possibile accertare, salvo ricorrere a fonti originali, che, in tal caso, sono molto scarse. Quanto i miei occhi attoniti videro di Bartleby, questo è tutto ciò che so di lui, oltre, in effetti, ad una vaga notizia che verrà riferita in seguito. Prima d’introdurre lo scrivano, com’egli apparve ai miei occhi per la prima volta, sarà opportuno accennare a me, ai miei impiegati, al mio lavoro, ai miei uffici, e all’ambiente in generale; poiché qualche descrizione al riguardo è indispensabile per un’adeguata comprensione del personaggio principale che verrà presentato. In primis: io sono un uomo che, fin dalla giovinezza, è stato sempre profondamente convinto che la via più facile sia la migliore. Quindi, benché svolga una professione proverbialmente inquieta, agitata, a volte persino turbolenta, tuttavia nulla del genere ho mai tollerato venisse a turbare la mia tranquillità. Sono uno di quegli avvocati privi d’ambizioni, che mai fanno appello a una giuria, o tentano con ogni mezzo di strappare l’applauso del pubblico; che, invece, nella pacata atmosfera di un tranquillo rifugio, tranquillamente trafficano con i titoli azionari di gente ricca, e ipoteche, e titoli di proprietà. Chiunque mi conosca mi considera persona eminentemente cauta … Qualche tempo prima del periodo in cui ha inizio questa piccola storia, il mio lavoro era notevolmente aumentato. Mi era stato conferito quel buon vecchio incarico, ora abolito nello stato di New York, di Magistrato della Cancelleria. Non era incarico troppo arduo, bensì gradevolmente remunerativo. Raramente vado in collera, e ancor più raramente indulgo in pericolose indignazioni per torti e soprusi; ma, qui, mi sia consentito di essere temerario, e di dichiarare ch’io considero l’improvvisa e violenta abrogazione della carica di Magistrato della Cancelleria, ad opera della nuova Costituzione, un … un atto prematuro: in quanto, avendo io fatto il conto di godere a vita di quei profitti, ne ebbi soltanto l’utile di pochi anni. Ma ciò sia detto di sfuggita. Erano i miei uffici ad un piano rialzato, al numero…di Wall Street. Ad un’estremità, essi si affacciavano su un bianco muro all’interno d’un vasto pozzo d’aerazione, che penetrava nel palazzo da cima a fondo. Tale veduta avrebbe potuto esser considerata senz’altro insipida, mancante di ciò che i pittori paesaggisti chiamano “vita”. Ma, se così era, la veduta sull’altro lato dei miei uffici offriva, quanto meno, un buon contrasto. In quella direzione le mie finestre presentavano la libera vista d’un alto muro, annerito dagli anni e dall’ombra perenne: il quale muro non richiedeva l’uso di alcun cannocchiale per rivelare le sue occulte bellezze, bensì, a beneficio d’ogni miope spettatore, ergevasi a soltanto dieci piedi dalle mie finestre. Grazie alla grande altezza dei fabbricati attorno, e al fatto che i miei uffici erano al secondo piano, lo spazio tra quel muro e il mio somigliava non poco a una enorme e quadrata cisterna. Nel periodo che immediatamente precedette l’avvento di Bartleby, avevo alle mie dipendenze due persone, quali copisti, e un fanciullo, quale fattorino. Il primo, Turkey, ovvero “Tacchino”; il secondo, Nippers, ovvero “Chele”; il terzo, Ginger Nut, ovvero “Zenzero”. Si direbbero nomi, questi, non molto facili da trovarsi sulle pagine di un annuario. In verità si trattava di nomignoli che i miei impiegati s’erano mutuamente attribuiti, ed erano ritenuti esprimere le loro rispettive persone e caratteri … Ora il mio lavoro iniziale di legale commercialista, incettatore di titoli, redattore d’ogni sorta d’oscuri documenti, s’era notevolmente accresciuto per aver io ricevuto l’incarico di magistrato. V’era adesso molto lavoro per gli scrivani. Non solo dovevo sollecitare gli impiegati alle mie dipendenze, ma pure procurarmi altri aiuti. In risposta a un’inserzione, un immobile giovanotto comparve un bel mattino sulla soglia del mio ufficio, essendo la porta aperta perché era d’estate. Rivedo ancora quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta! Era Bartleby. Dopo pochi cenni sulle sue qualifiche, lo assunsi, lieto d’aver nel mio corpo di copisti una persona dall’aspetto così singolarmente composta, che, pensai, avrebbe potuto influire in modo benefico sull’indole caotica di Turkey, nonché su quella impetuosa di Nippers. Avrei dovuto dire, prima, che porte pieghevoli di vetro molato dividevano i miei locali in due zone, una delle quali era occupata dai miei scrivani, l’altra da me medesimo. In conformità col mio umore, a volte spalancavo tali porte, oppure le richiudevo. Stabilii di assegnare a Bartleby un angolino presso i battenti pieghevoli, ma sul mio lato, così da aver quell’uomo tranquillo a portata di mano, nel caso si presentasse qualche difficoltà di minor conto. Collocai il suo scrittoio accanto a una piccola finestra su quel lato della stanza, finestra che all’origine s’apriva su una veduta laterale di certi scuri cortili e muri in mattone, ma che, essendo stati eretti altri fabbricati, al momento attuale non permetteva alcuna veduta, benché lasciasse penetrare un po’ di luce. A tre piedi dai vetri della finestra si trovava un muro, e, da molto in alto scendeva la luce, filtrando tra due alti edifici, quasi come da una piccola apertura in una cupola. A rendere tale sistemazione vieppiù soddisfacente, procurai un alto e verde paravento, che poteva riparare Bartleby dai miei sguardi, quantunque senza allontanarlo dalla mia voce. E così, in certo qual senso, la privatezza e lo stare assieme si davan la mano. All’inizio Bartleby svolse una straordinaria quantità di lavoro scritturale. Quasi fosse da lungo tempo affamato di cose da copiare, egli pareva pascersi con ingordigia dei miei documenti. Non si concedeva pausa per la digestione. Si dava da fare notte e dì, copiando sia con la luce del sole che al lume di candela. Mi sarei senz’altro compiaciuto di tanta solerzia, fosse egli stato allegramente operoso. Invece continuava a scrivere in silenzio, con moto scialbo e meccanico. Parte inevitabile del lavoro d’uno scrivano è, ben s’intende, la verifica dell’accuratezza delle sue copie, parola per parola. Ove vi siano due o più scrivani in un ufficio, essi s’assistono l’un l’altro in tale esame, l’uno leggendo la copia, l’altro controllando l’originale. È questo un lavoro molto insipido, tedioso e letargico. Non ho difficoltà a immaginare che, per qualche indole sanguigna, esso sarebbe affatto intollerabile. Ad esempio, non riesco a credere che quel famoso poeta, il Byron, si sarebbe adattato di buon grado a sedere insieme a Bartleby onde esaminare un documento legale di, poniamo, cinquanta pagine fittamente vergate in minuta calligrafia. Talora, nell’urgenza del lavoro, avevo l’abitudine di prestare il mio aiuto nell’esame di qualche breve documento, chiamando Turkey e Nippers allo scopo. Una tra le mie mire, nel collocare Bartleby a portata di mano dietro il paravento, era di ricorrere ai suoi servigi in simili banali evenienze. Credo fu il terzo giorno dacché egli era con me, il primo nel quale fosse sorta la necessità di fargli esaminare le sue scritture, che, avendo io premura di sbrigare una faccenda di poco conto che m’impegnava al momento, bruscamente detti una voce a Bartleby. Posta la fretta e la mia naturale attesa d’immediata obbedienza, sedevo col capo chino sul documento originale posto sul mio scrittoio, e la mano destra obliquamente protesa a porgere in modo un po’ nervoso la copia, così che, appena emerso dal suo riparo, Bartleby potesse afferrarla e procedere all’opera senz’alcun indugio. In tale esatta posizione sedevo, quando lo chiamai, spiegando in fretta cosa desiderassi da lui, ovvero, che esaminasse con me un breve documento. Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo privato, Bartleby con voce singolarmente mite, ma ferma, replicò: «Avrei preferenza di no». Rimasi per qualche istante seduto in perfetto silenzio, cercando di riavermi dallo sbigottimento che m’aveva preso. Lì per lì m’accadde di pensare che le mie orecchie non avessero udito bene, o che Bartleby avesse del tutto frainteso ciò ch’io intendevo dire. Ripetei la mia richiesta con voce più chiara che potei, ma, con tono altrettanto chiaro, mi giunse la medesima risposta dianzi udita: «Avrei preferenza di no». «Preferenza di no?» gli feci eco, alzandomi in grande eccitazione, e attraversando la stanza d’un balzo. «Come sarebbe a dire? Cosa vi prende? Voglio che m’aiutiate a esaminar codesto foglio, prendetelo,» e glielo gettai. «Avrei preferenza di no,» disse egli. Lo guardai impietrito. Il suo volto era smunto e composto, gli occhi grigi tranquilli e velati. Non un segno di turbamento lo animava. Vi fosse stata, nei suoi modi, la minima traccia d’inquietudine, collera, impazienza o impertinenza; in altre parole vi fosse stato in lui alcun tratto d’ordinaria umanità, senza meno l’avrei cacciato di forza dai miei uffici. Ma, per come stavano le cose, non mi sarebbe parso altrimenti che cacciar dalla porta il mio pallido busto in gesso di Cicerone, situato sulla mia scrivania. Rimasi a scrutarlo per qualche attimo, mentre egli continuava diligentemente a scrivere, indi tornai a sedermi al mio scrittoio. Tutto ciò è molto strano, pensavo. Qual è la miglior cosa da fare? Ma avevo fretta di sbrigare il mio lavoro. Decisi di trascurare l’accaduto, per il momento, rinviando la sua considerazione ad un momento di tranquillità. Così, chiamato Nippers dall’altra stanza, lo scritto venne rapidamente controllato. Alcuni giorni dopo, Bartleby terminò la stesura di quattro prolissi documenti, il quadruplicato di una settimana di testimonianze raccolte in mia presenza nell’alta Corte di Cancelleria. Divenne necessario esaminarli. Si trattava di una causa importante, e una grande accuratezza era indispensabile. Avendo tutto predisposto, chiamai dalla stanza attigua Turkey, Nippers e Ginger Nut, intendendo metter le mie quattro copie in mano ai miei quattro impiegati, mentre io avrei dovuto legger l’originale. Di conseguenza, Turkey, Nippers e Ginger Nut avevano preso posto in una fila di seggiole, con in mano ciascuno il proprio documento, quando chiamai Bartleby perché s’unisse a questo interessante gruppo. «Bartleby! Presto, sto aspettando». Udii il lento stridere della sua sedia sul nudo pavimento, e presto egli apparve sostando all’ingresso del suo eremo. «Cosa si comanda?» disse in tono mansueto. «Le copie, le copie,» diss’io in tutta fretta. «Dobbiamo esaminarle. Ecco…» e gli allungai il quarto dei duplicati. «Avrei preferenza di no,» disse egli, e silenziosamente sparì dietro il paravento. Per alcuni istanti fui trasformato in una statua di sale, in piedi alla testa della mia colonna di impiegati seduti. Riprendendomi, mi mossi verso il paravento, e gli chiesi ragione dell’inusitata condotta. «Perché vi rifiutate?» «Avrei preferenza di no». Con chiunque altro sarei andato su tutte le furie; bandita ogni altra chiacchiera, l’avrei senza scrupoli cacciato via. Ma v’era qualcosa in Bartleby che, non soltanto stranamente mi disarmava, ma anche, in modo assai sorprendente, mi toccava e sconcertava. Presi a discutere con lui, e dissi …
Continuate voi a leggere questo racconto per conoscere come si evolvono – anche se parlare di “evoluzione” è un po’ anacronistico – le cose.
E ora riprendiamo il nostro cammino sul nostro sentiero specifico. Voi sapete – lo abbiamo studiato nel Percorso dello scorso anno scolastico – che, nel 331 a.C., quel personaggio affascinante e contraddittorio che si chiama Alessandro Magno, il Mega Alexandros, assoggetta, con la battaglia di Gaugamela, l’Impero Persiano e fonda un grande Stato di cui la Palestina entra a far parte (vi ricordo che noi stiamo sempre rincorrendo – su questo sentiero lungo e impervio – la parola “ekklesìa”). Lo Stato fondato da Alessandro il Macedone comprende un vastissimo territorio che – come sappiamo – prende il nome di “Ecumene” che, letteralmente, significa “tutta la Terra abitata”: questo territorio, procedendo da ovest verso est, va dal Mar Mediterraneo fino al fiume Indo, e questa vasta entità statale – come sappiamo – mette in relazione tra loro popoli con usi, costumi e culture diverse e questo fenomeno di contaminazione prenderà il nome di “Ellenismo”.
Alessandro – e i suoi consiglieri (sappiamo che Alessandro ha avuto come precettore anche Aristotele con il quale ha avuto un rapporto molto conflittuale) – pensa che sia utile e sia possibile far convivere tutta questa gente insieme nel vasto spazio dell’Ecumene dove si sviluppa una civiltà di carattere non più nazionale ma universale, dove si esaltano le diversità mettendole “in rete”, diremmo oggi. Mettendo “in rete” le reciproche diversità si sarebbe dovuto innescare un processo di conoscenza perché conoscersi significa instaurare una comunicazione, cioè creare dei linguaggi per potersi capire di più, creare degli alfabeti comuni, interculturali (a questo proposito pensiamo all’arte dell’Ellenismo, un argomento che spesso prendiamo in considerazione). Sappiamo che su questo vasto territorio vengono abolite le frontiere, si costruiscono una serie di strade (di piste) a lunga percorrenza che collegano oriente e occidente (nasce il fenomeno del pellegrinaggio intellettuale verso oriente), e vengono fondate decine di città (le Alessandrine) provviste di strutture di aggregazione (l’agorà, il foro, il tempio) e soprattutto provviste di biblioteche. Alessandria d’Egitto – e la conosciamo bene questa città – si caratterizza come la capitale dell’Ellenismo proprio per la sua Biblioteca con i suoi settecentomila volumi che attirano le studiose e gli studiosi da tutta l’Ecumene. E non è casuale il fatto che le Scuole di Alessandria, nel corso dei secoli, abbiano fatto “scuola”. Insomma, lo sappiamo e lo abbiamo studiato, l’Ellenismo è uno straordinario laboratorio intellettuale, politico, culturale, interculturale e artistico.
I territori della Palestina, occupati dalle tribù di Israele, finiscono in questo grande calderone e, per gli Ebrei finisce anche il sogno di uno Stato indipendente. Mentre gli Ebrei della “diaspora” che vengono a trovarsi dentro a questo grande calderone finiscono per trovarsi più a loro agio.
E, a questo punto, dobbiamo cominciare a fare una serie di ragionamenti che ci possano permettere di procedere, in modo più consapevole, sul nostro cammino di avvicinamento verso la parola “ekklesìa”.
Gli Ebrei della “diaspora” sono sì in esilio, in difficoltà, in sofferenza, ma nel grande laboratorio intellettuale che è l’Ellenismo si trovano, dal punto di vista culturale, in condizioni favorevoli perché vivono nell’Ecumene con una “cultura ben strutturata” che ha acquisito (un canone) una forma ben articolata basata su tre elementi culturali forti di riferimento. Per inciso dobbiamo subito dire che, successivamente, Paolo di Tarso avrà modo di affermare, con un suo tipico paradosso, che questi elementi sono forti proprio perché sono deboli e questa affermazione la si capisce soprattutto riflettendo sul primo di questi elementi.
Il primo elemento forte di riferimento per gli Ebrei della “diaspora” è il Tempio di Gerusalemme che si presenta come un oggetto da evocare come mito perché è un oggetto lontano che quasi nessuno di loro ha mai visto realmente, ma che serve, come metafora, a mantenere vivo il senso dell’unità, il senso della coesione politica ed etnica; ma soprattutto il Tempio diventa un allegorico “faro spirituale” che serve per dare un significato alla “diaspora”: non tanto per pensare “realmente” di ritornare ma per “coltivare l’idea di ritornare” perché continuare a “coltivare l’idea di ritornare” serve come motore per integrarsi meglio nel posto dove si sta con la speranza di non disperdersi perché l’immagine allegorica del Tempio contiene il concetto del “raccogliersi insieme”, contiene l’idea che – nonostante l’eterogeneità dei pensieri – è necessario ci siano dei valori condivisi.
E, a proposito di motore, in ebraico il termine che definisce la “diaspora” corrisponde alla parola “galut” che significa “ruota”: quindi l’idea del Tempio – per gli Ebrei che vivono sul territorio dell’Ellenismo – è un motore che dà senso alla “diaspora” che è una “ruota, galut” con tutti i significati che questo termine porta con sé: volano, spirale, sequenza, macina.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di questi termini – affini alla parola “ruota” – vi piace di più?…
Scrivetelo…
Sappiate che queste parole rimandano soprattutto all’esercizio della scrittura e anche la scrittura, nella sua apparente immobilità, è come se fosse una “ruota”…
E ora, sulla scia della parola “diaspora, galut, ruota”, – per cui se non ci fosse la “dispersione” non ci sarebbe la “scrittura” – facciamo una digressione a proposito della didattica della lettura e della scrittura incontrando ancora il romanzo che, da qualche settimana, stiamo leggendo e che s’intitola Il fucile da caccia, che – come sappiamo – è un romanzo scritto, nel 1949, dallo scrittore giapponese Inoue Yasushi (1907-1991). In questo romanzo – abbiamo detto – compaiono le parole-chiave più importanti del Glossario giudaico-ellenistico di Paolo di Tarso e lo scrittore, utilizzando queste parole, tiene legati i destini di quattro personaggi, un uomo e tre donne.
Questo è un romanzo epistolare formato da tre lettere scritte da ciascuna di queste tre donne (la nipote, la moglie e l’amante) al personaggio maschile. Le lettere della nipote Shōko e della moglie Midori le abbiamo già lette nello scorso anno e ora continuiamo a leggere la lettera dell’amante (Saìko) che si presenta come un vero e proprio testamento perché lei, infatti, è già morta.
Ciò che coinvolge nel testo di queste lettere – come abbiamo detto – non è la trama, ma sono le riflessioni che intessono i tre personaggi femminili sul tema del senso da dare alla vita e alla morte, a ciò che è simbolico e a ciò che è reale. Lo scrittore Inoue Yasushi costruisce un testo nel quale ciò che nella vita rimane nascosto, perché inconfessabile (frutto di una colpa) viene svelato e, quindi, questa consapevolezza di dire finalmente la verità si lega all’esercizio della scrittura autobiografica (questa idea viene elaborata da Paolo di Tarso nella Seconda Lettera ai Corinti) e con questa consapevolezza l’orgoglio dei personaggi diventa umiltà, la loro forza diventa debolezza, la loro ironia diventa inquietudine, la loro gioia si trasforma in nostalgia e il loro buon gusto in delusione e in tristezza.
Anche i ricordi formano una “ruota (un volano, una spirale, una sequenza, una macina)” che gira nella nostra mente – non c’è diaspora (ruota, galut: e tutte le persone vivono delle diaspore nella loro vita) senza memoria – e, ogni tanto, per qualche ragione, la ruota si ferma e un frammento di ciò che è conservato nella memoria viene messo a fuoco: in questo caso il brano che stiamo per leggere parte da un ricordo di Saiko che si riferisce ad un avvenimento il quale, per la sua tragicità, è entrato a far parte della memoria collettiva.
E allora terminiamo di leggere la “Lettera-testamento di Saiko”: con queste pagine ultimiamo anche la lettura – e lo abbiamo letto tutto intero – del romanzo Il fucile da caccia.
LEGERE MULTUM ….
Inoue Yasushi, Il fucile da caccia (1949)
LETTERA DI SAIKO
(Testamento)
Ah, se ricordo la notte del 6 agosto, quando tutta la zona tra Ōsaka e Kōbe si era trasformata in un mare di fuoco, provo una terribile fitta al cuore. Quella sera io e Shōko eravamo nel rifugio antiaereo, quello che tu avevi fatto costruire ma, quando il rombo di un B29 sorvolò per l’ennesima volta il cielo sopra di noi, tutt’a un tratto mi sentii precipitare in una tristezza senza fondo, contro la quale ero del tutto impotente. Una tristezza indescrivibile, annichilente. Ero disperatamente sola. A un certo punto non resistetti più a starmene lì ferma e immobile. Barcollando, uscii dal rifugio.
… continua la lettura …
E ora, dopo aver concluso la lettura di questo romanzo che potete rileggere con calma per conto vostro perché ne possedete tutto il testo, torniamo sul nostro sentiero specifico.
Stavamo parlando di quel significativo oggetto materiale ed allegorico che è il Tempio di Gerusalemme e che – come sappiamo – ha un ruolo in tutta la Letteratura dei Vangeli. Il Tempio di Gerusalemme, per giunta, è e sarà sempre in via di ristrutturazione (noi che abbiamo studiato il Libro di Esdra lo sappiamo) e, per questo motivo, gli Ebrei della “diaspora” fanno la colletta: versano periodicamente (brontolando sotto voce) mezzo sheqel, l’equivalente di due dracme greche, per la ricostruzione del Tempio. Questa colletta – con la quale ci si mette la coscienza a posto – dà l’idea che si stia accumulando un tesoro comune a vantaggio della costruzione dello Stato futuro ma, per gli Ebrei della “diaspora” questa è solo un’idea remota.
Dobbiamo sapere che dal II secolo a.C., il Tempio di Gerusalemme comincia ad essere chiamato il “Secondo Tempio”, proprio perché, il primo, quello di Salomone, era stato distrutto dai Babilonesi (nel VI secolo a.C.) e, tutto l’evento, era ormai ben collocato nel midrash e, per la precisione, nel testo del Primo Libro dei Re.
Il Tempio, per gli Ebrei della “diaspora”, compreso Paolo di Tarso, è sostanzialmente una figura letteraria, una potente figura letteraria come sa essere potente la “scrittura” . La grande narrazione, l’efficace midrash, della progettazione, della costruzione e della consacrazione del “Primo Tempio” la si trova nel Primo Libro dei Re dal capitolo 5 al capitolo 8.
Il “Primo Tempio” risulta essere un “oggetto culturale” che trova posto nella memoria – una memoria leggendaria più che storica – delle tribù di Israele, e gli Ebrei delle comunità della “diaspora” ne coltivano il mito. L’idea mitica e il concetto culturale che gli Ebrei delle comunità della “diaspora”, durante l’Ellenismo, si sono fatti del “Primo Tempio di Salomone” è assolutamente svincolato da legami di carattere etnico e politico (la Palestina viene via via occupata e governata da “estranei”): il Tempio è un’immagine che assume una valenza spirituale. Su questo argomento, poi, nella tradizione delle cosiddette Storielle ebraiche si ironizza pesantemente – da parte degli Ebrei della “diaspora mitteleuropea” – sul fatto che sia necessario continuare a “cacciare dei soldi” per ristrutturare un Tempio che è “spirituale” e quindi in uno di questi gustosi racconti si legge che l’astuto Sholem vorrebbe sostituire il mezzo sheqel della colletta con un sospiro devoto: «Non versi il mezzo sheqel della colletta per la ristrutturazione del Tempio, Sholem?» «Ma, rabbino, se si tratta di una ristrutturazione spirituale, come ha mirabilmente detto nel suo sermone, è senz’altro più appropriato un sospiro devoto rivolto all’Altissimo piuttosto che un materiale mezzo sheqel!».
Quindi il “Secondo Tempio” è l’immagine spirituale del “Primo Tempio” che è stato materialmente distrutto e di cui – senza nessuna convinzione reale, bensì rituale – si auspica la ristrutturazione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Si consiglia la lettura o la rilettura del capitolo 5 del Primo Libro dei Re [tutte e tutti noi abbiamo una Bibbia a portata di mano] dove Salomone prepara la costruzione del Tempio organizzando il lavoro obbligatorio di grandi masse di operai: si sente, in questo racconto, l’influenza della cultura egizia, e viene in mente anche la descrizione che Erodoto (che è stato, ultimamente, nostro compagno di viaggio per due anni) fa nel II libro de Le Storie della costruzione delle piramidi…
Il Tempio, quindi, più che nella storia si colloca nella memoria, nell’immaginario mitico degli Ebrei della “diaspora”. E Anche Paolo di Tarso, naturalmente, coltiva questa idea di carattere “mitico” nei confronti del Tempio, ed è, quindi, assolutamente svincolato da legami etnici e politici nei confronti di questo oggetto.
Dobbiamo ricordare che il Tempio di Gerusalemme, il cosiddetto “Secondo Tempio”, subirà una massiccia ristrutturazione, molti anni dopo, intorno al 37 a.C., con il regno di Erode il Grande, re di Giudea: un fantoccio nelle mani dei Romani, che stanno diventando i nuovi padroni di tutta l’area mediorientale. Questo Erode (morto nel 4 d.C.) lo conosciamo bene per via del testo del Vangelo Secondo Matteo, un testo che, al capitolo 2, racconta il celebre episodio della “strage degli innocenti”. I Romani favoriranno la costruzione di queste “opere pubbliche” di Erode per cercare di rendersi un po’ simpatici agli Ebrei ma non ci riusciranno mai.
Il Tempio cosiddetto di Erode, è quello della storia della predicazione su Gesù di Nazareth (della Letteratura dei Vangeli), è quello degli Atti degli Apostoli e delle Lettere di Paolo di Tarso. C’è da dire che gli Ebrei si riconosceranno soprattutto in questo Tempio nel 64 d.C. – Paolo di Tarso è già morto, probabilmente – quando ci sarà la grande sollevazione popolare contro i Romani che porta alla liberazione della città di Gerusalemme e all’inizio della terribile guerra giudaica: un avvenimento che ci è stato raccontato dallo storico ellenistico ebreo-romano Giuseppe Flavio; ebbene, il Tempio sarà il quartier generale della resistenza contro un nemico troppo potente. E difatti quando, nel 70 d.C., i Romani sconfiggeranno definitivamente gli Ebrei, l’imperatore Tito, farà radere al suolo (con un gesto deprecabile) il Tempio che era stato, in origine, di Salomone. Oggi, di quel tragico momento, rimane in piedi il “muro del pianto”.
Ma torniamo sul nostro sentiero che ci porta nella direzione della parola “ekklesìa”: stavamo dicendo che gli Ebrei della “diaspora” possiedono una cultura ben strutturata che si fonda su tre elementi forti. Il primo di questi elementi, abbiamo visto, è il Tempio di Gerusalemme.
Il secondo elemento forte di riferimento per gli Ebrei della “diaspora” è rappresentato dalle Sinagoghe e noi abbiamo già studiato che cosa significa il concetto di “sinagoga”: la sinagoga è una struttura dove – come dice la parola – ritrovarsi “insieme (syn)” per “condurre (agogein)” una vita nel rispetto della Legge di Dio. Sono soprattutto le Sinagoghe delle numerose e influenti comunità della “diaspora” in Mesopotamia e in Egitto che si distinguono per la loro vitalità culturale.
Il terzo elemento forte di riferimento per gli Ebrei della “diaspora” è certamente il più importante, anche perché lega gli altri due, e questo elemento è costituito, da quel grande apparato culturale che chiamiamo la Scrittura. Nell’età dell’Ellenismo – come abbiamo già detto – per Scrittura s’intende la Torah e i nebiyim cioè la Legge e i Profeti. I Libri della Legge e dei Profeti, in questo periodo ellenistico, dal II secolo a.C., fanno da base a un terzo grande blocco di Scrittura che si sta formando. Gli scrivani, in età ellenistica, danno vita ad un nuovo formidabile blocco di Scrittura e, per fare questo, raccolgono testi antichi, li rivisitano, scrivono commenti alla Legge e ai Profeti e compongono nuovi testi originali, scritti in greco in compiuto stile ellenistico. Noi, in questi anni, abbiamo studiato molti Libri di questo terzo blocco che si chiama “ketubim”, e questo termine significa gli “scritti”, gli “scritti sapienziali e poetici”, e questo blocco contiene opere formidabili per la Storia del Pensiero Umano.
Questi tre elementi che abbiamo descritto – il Tempio, le Sinagoghe e la Scrittura (formata dalla torah, dai nebiyim e dai ketubim) – stimolano la vitalità culturale delle comunità della “diaspora” ed è per questo motivo che la cultura ebraica ha influenzato notevolmente la cultura europea, soprattutto la Storia della Letteratura.
Le studiose e gli studiosi di filologia affermano che le comunità della “diaspora”, proprio perché sono sorte sulla scorta di sconfitte e di tragedie, hanno maturato, per reazione, una particolare effervescenza culturale. E Paolo di Tarso, non dimentichiamolo, si porta dentro l’impronta di questa cultura: uno stile che emerge chiaramente nella sua scrittura.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il termine “effervescenza” è molto significativo… Quale di queste parole – ebollizione, fermentazione, vivacità, brio, impeto, agitazione – mettereste per prima accanto alla parola “effervescenza”…
Scrivete, basta una parola…
Con l’Ellenismo inizia quella che, possiamo chiamare, la “seconda fase” della dispersione dell’ebraismo, una fase dai forti connotati culturali: non ci dimentichiamo che noi stiamo – insieme a Paolo – seguendo sempre (Quante settimane sono? Ma questi sono i tempi dello studio!) il sentiero impervio che ci porta a riflettere sulla parola-chiave “ekklesìa”. E allora dobbiamo cominciare ad osservare il paesaggio culturale di questa “seconda fase” della dispersione dell’ebraismo nell’Ecumene: naturalmente ora abbiamo appena il tempo di avviare il discorso che approfondiremo la prossima settimana.
Dal III secolo a.C., le comunità della “diaspora” – soprattutto in Mesopotamia, in Egitto, fino a Roma – cominciano ad avviare al loro interno un dibattito molto serrato su un tema di grande importanza: sul concetto della “separatezza”, in ebraico “perugìa”. Questo è un tema che abbiamo trattato più volte perché è un argomento importante per l’acquisizione di chiavi di lettura utili per poter capire molti testi del genere letterario del romanzo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola “separatezza” è molto significativa e ci fa subito riflettere sul fatto che nel separarsi, nel distaccarsi da qualcuno o da qualcosa, si può provare o dolore o sollievo…
E, in considerazione di questo fatto, scrivete quattro righe in proposito…
In che cosa consiste questo dibattito e che cosa s’intende per “separatezza”, per “perugìa”? Ci sono, all’interno delle comunità della “diaspora”, diverse correnti di pensiero in proposito. I membri della corrente più intransigente affermano: “Siamo un popolo diverso (un popolo privilegiato), quindi dobbiamo vivere separati dagli altri per non contaminarci né materialmente né religiosamente né culturalmente”. Questo è il “dettato” di chi sostiene in modo “fondamentale” l’idea di “perugìa”, di “separatezza”. Ma noi sappiamo che, nonostante questo “dettato”, le comunità della “diaspora” sono socialmente ed economicamente integrate alla perfezione nei paesi dove si trovano.
Ma ora dobbiamo fare una pausa di riflessione in funzione della didattica della lettura e della scrittura a proposito di come, nel tempo, si sia evoluto questo concetto della “separatezza” all’interno stesso dell’ebraismo della “diaspora”. La “separatezza” – soprattutto per motivi economici – diventa un elemento fondamentale della vita delle comunità degli Ebrei della “diaspora” in tempi moderni e contemporanei e questa realtà ci viene raccontata, spesso con grande acutezza, dalle scrittrici e dagli scrittori di romanzi. A questo proposito questa sera, in conclusione di itinerario, incontriamo una scrittrice che abbiamo seguito fin da quando, nell’anno 2005, è stata protagonista di un importante evento editoriale a livello internazionale: e gli “eventi editoriali” veramente significativi sono rari.
La scrittrice di cui stiamo parlando – l’avete già capito – si chiama Irène Némirovsky e credo che molte e molti di voi abbiano letto qualcuno dei suoi libri. L’evento editoriale a cui abbiamo fatto riferimento è – come molte e molti di voi sanno – la pubblicazione del libro di Irène Némirovsky che s’intitola Suite francese (2005), di cui si consiglia vivamente la lettura o la rilettura. Sapete che l’interesse per questo romanzo è legato anche alla storia rocambolesca del manoscritto di quest’opera (dell’agenda in cui è contenuto): una storia in cui sono coinvolte le figlie bambine della scrittrice, salvate – insieme al prezioso testo – da due donne della Resistenza francese. Questa storia – avventurosa e commovente come un romanzo – del salvataggio del manoscritto di Suite francese, che abbiamo raccontato (ora non la possiamo ripetere) sotto lo “sguardo di Erodoto” nel dicembre del 2006, viene descritta – e quindi la potete leggere – nella “postfazione” del libro stesso. Suite francese è un’opera di grande valore narrativo, e peccato non sia stata ultimata, ne rimangono solo due parti intitolate: Temporale di giugno e Dolce.
Irène Némirovsky è nata a Kiev nel 1903 in una ricca famiglia borghese, suo padre è un facoltoso banchiere ebreo che si chiama Arieh, ma si fa chiamare Leon, Leon Némirovsky (classe 1868), la madre si chiama Faiga ma si fa chiamare Fanny, è nata a Odessa nel 1887, è morta a Parigi nel 1989. Fanny ha concepito Irène controvoglia: solo per compiacere il marito e, quindi, si disinteressa completamente della figlia che cresce allevata dalle governanti. Irène è poi emigrata a Parigi (dopo la Rivoluzione russa) nel 1919 dove è diventata, negli anni ’30, una famosa scrittrice francese, e infine è morta ad Auschwitz – così come suo marito Michel Epstein – nel 1942.
Di Irène Némirovsky sono in corso di pubblicazione tutte le opere: i romanzi e i racconti e la Scuola, strada facendo, ne ha già presentato alcuni e, questa sera, vogliamo puntare l’attenzione su un romanzo che mette bene in evidenza il tema di cui ci stiamo occupando: questo romanzo s’intitola I cani e i lupi pubblicato nel 1940. Irène Némirovsky ci porta a Kiev dove la famiglia di Ada – la principale protagonista femminile del racconto – abita nella città bassa, quella degli ebrei poveri (gli ebionim), e suo padre fa parte della congrega dei meklers, gli intermediari, quegli umili e tenaci individui che si guadagnano da vivere comprando e vendendo di tutto, la seta come il carbone, il tè come le barbabietole. Fra le due città c’è separatezza e sembra non esserci altro rapporto che non sia il disprezzo degli uni e l’invidia degli altri. Però succede che il ragazzino Harry (rampollo di una ricca famiglia ebrea – i sadducei? – che vive sulla collina) quando si trova di fronte la bambina Ada ne sarà al tempo stesso – scrive Irène Némirovsky – inorridito e attratto come «un cagnolino, ben nutrito e curato, che sente nella foresta l’ululato famelico dei lupi, i suoi fratelli selvaggi».
Dobbiamo dire che pochi scrittori sono stati in grado di raccontare il mondo degli Ebrei venuti dall’Est, dall’Ucraina e dalla Polonia, con altrettanta passione così come lo ha raccontato – senza omettere né pregi né difetti – Irène Némirovsky.
E ora per concludere leggiamo l’incipit di questo romanzo di cui si consiglia la lettura:
LEGERE MULTUM ….
Irène Némirovsky, I cani e i lupi (1940)
Agli occhi degli ebrei che vi abitavano, la città ucraina, culla della famiglia Sinner, era divisa in tre aree distinte, come certi quadri antichi: in basso i dannati, fra le tenebre e le fiamme dell’inferno; al centro della tela i comuni mortali, rischiarati da una luce pallida e quieta; in alto il regno degli eletti.
Nella città bassa, vicino al fiume, viveva la marmaglia - ebrei infrequentabili, piccoli artigiani e commercianti in squallide botteghe a pigione, vagabondi, frotte di bambini che si rotolavano nel fango e parlavano solo yiddish, vestiti di stracci, con enormi berretti sui colli esili e sui lunghi boccoli neri. Molto lontano da questi, in cima alle colline coperte di tigli, fra le abitazioni degli alti funzionari russi e quelle degli aristocratici polacchi, c’erano alcune belle case appartenenti a ricchi israeliti. Avevano scelto quella zona per l’aria pura che vi si respirava, ma soprattutto perché in Russia, all’inizio del secolo, sotto il regno di Nicola II, la presenza degli ebrei era tollerata solo in determinate città, e in certi rioni, in certe strade, a volte addirittura su un solo lato della via, mentre l’altro restava loro proibito. Tuttavia i divieti esistevano solamente per i poveri: era noto che allungando un po’ di denaro sottobanco era possibile aggirare le norme più severe. Gli ebrei si facevano un punto d’onore di sfidare tali norme non per vano spirito di contraddizione o per orgoglio, ma per dimostrare agli altri ebrei di valere più di loro, di aver guadagnato più soldi, di essere stati più abili nel vendere partite di barbabietole o di frumento. Era un modo efficace per rendere nota l’entità del proprio patrimonio. Un tale era nato nel ghetto. A vent’anni, messo insieme un piccolo gruzzolo, saliva di un gradino nella scala sociale: traslocava e andava a stare lontano dal fiume, nei pressi del mercato, al confine della città bassa; al momento del matrimonio abitava già dall’altro lato (quello proibito) della strada; e avrebbe continuato a salire arrivando fino al quartiere dove, secondo la legge nessun ebreo ha il diritto di nascere, di vivere, di morire. Si conquistava così il rispetto della sua gente, per la quale era a un tempo oggetto d’invidia e simbolo di speranza: scalare la vetta non era un’impresa impossibile. La fame, il freddo, la sporcizia non contavano niente davanti a un simile esempio e dalla città bassa molti sguardi si sollevavano verso le fresche colline dei ricchi.
Fra quelle due regioni estreme si situava una zona temperata, un clima piatto nel quale non attecchivano né la grande ricchezza né la miseria, e in cui convivevano senza troppe tensioni borghesi russi, polacchi ed ebrei.
Anche questa, però, era divisa al suo interno in piccoli clan, animati da rivalità e disprezzo reciproci. Ai gruppi più in vista appartenevano medici, avvocati, amministratori di grandi proprietà, mentre il ceto inferiore era composto di commercianti, sarti, farmacisti.
A mettere in relazione fra loro i diversi quartieri c’era una categoria sociale che si guadagnava faticosamente il pane correndo da una casa all’altra, dalla città bassa alla città alta. Il padre di Ada, Israel Sinner, apparteneva alla cosiddetta congrega dei meklers, gli intermediari. Il loro mestiere consisteva nel comprare e vendere, per conto altrui, barbabietole, zucchero, grano, macchine agricole, tutti i prodotti più diffusi sul mercato ucraino, ma la lista poteva allungarsi con seta e tè, rahat lokum e carbone, caviale del Volga e frutti asiatici, a seconda delle esigenze della clientela. Questuavano, supplicavano, denigravano le merci della concorrenza, si lamentavano, spergiuravano, e per ottenere una commessa facevano appello a tutte le risorse della loro immaginazione e della loro sottile dialettica. La parlantina sciolta, la tendenza a gesticolare, ad andare di fretta - in un’epoca e in un Paese in cui nessuno aveva fretta -, l’umiltà, la tenacia e altre simili qualità li rendevano subito riconoscibili.
Fin da piccola Ada accompagnava spesso nei suoi giri il padre, un tipo mingherlino dagli occhi tristi, che le voleva bene e che trovava conforto nel tenerla per mano. Rallentava per adattare il passo a quello della figlia, si chinava su di lei con sollecitudine, le sistemava il pesante scialle di lana grigia sul vecchio cappotto e sul copricapo di velluto marrone con il paraorecchie; in inverno, quando soffiava il vento, le riparava la bocca con la mano: agli angoli delle strade la pungente tramontana sembrava divertirsi a cogliere di sorpresa i passanti schiaffeggiandoli con violenza. «Sta’ attenta. Hai freddo? » chiedeva il padre. E le raccomandava di respirare attraverso lo scialle, affinché la lana riscaldasse l’aria gelida; ma era impossibile: Ada si sentiva soffocare e, non appena il padre distoglieva lo sguardo, allargava con le unghie una maglia e vi infilava la punta della lingua cercando di raggiungere i fiocchi di neve. Era talmente imbacuccata che a distanza si scorgeva solo una piccola massa quadrata in equilibrio sulle gambe esili, e da vicino, tra il cappello scuro e lo scialle grigio, un paio di grandi occhi neri - resi ancora più grandi dalle occhiaie -, il cui sguardo era scontroso e attento come quello di un animaletto selvatico. …
La prossima settimana leggeremo ancora qualche pagina di questo romanzo di cui si consiglia la lettura perché in questo testo emerge, tra altri significativi argomenti, il tema della “separatezza”, della “perugìa” su cui nel prossimo itinerario continueremo a riflettere procedendo lungo il sentiero che porta verso la parola “ekklesìa”, per capire che cosa sono le “ekklesìe”.
Il viaggio continua: la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…