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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È L’IDEA DELLA “SEPARATEZZA”, LA PERUGÌA …

Lezione N.: 
13

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza  poetica ellenistica  [evangelica e imperiale]     26-27-28  gennaio  2011

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È  L’IDEA DELLA “SEPARATEZZA”, LA PERUGÌA

     Stiamo viaggiando sul territorio della sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico in compagnia di Paolo di Tarso, autore di uno dei più significativi Epistolari della Storia del Pensiero Umano. Questa sera continueremo a riflettere procedendo – come stiamo facendo da settimane – lungo l’impervio sentiero che porta verso la parola ekklesìa. Su questo sentiero si cammina lentamente perché, strada facendo, s’incontrano molti intrecci filologici che, con pazienza – almeno in parte – devono essere dipanati. L’ultimo intreccio filologico che, in ordine di tempo, stiamo dipanando riguarda quel complesso avvenimento pluriepocale che si chiama diaspora: il tema della dispersione degli Ebrei nel mondo. Senza affrontare questo tema – con il catalogo di parole-chiave che contiene – non si può comprendere bene né il carattere, né la cultura, né l’opera di Paolo di Tarso e soprattutto non si può capire il complesso rapporto – di attrazione e di repulsione – che Paolo di Tarso ha con le ekklesìe.

     La scorsa settimana abbiamo affermato, e abbiamo capito, che con l’età ellenistica inizia quella che, possiamo chiamare, la seconda fase della dispersione dell’ebraismo, una fase dai forti connotati culturali. Ed è proprio in questa fase che all’interno della Letteratura biblica compare la parola diasporache in ebraico – come sappiamo – corrisponde al termine galutche significa ruotacon tutti i significati che questo termine porta con sé: volano, spirale, sequenza, macina. Quante volte diciamo: «La vita è una ruota». E quante volte pensiamo che la vita è diasporaperché spesso proviamo la sensazione di essere un po’ disperse e un po’ dispersi in questo mondo.

     E ora, a questo proposito, dobbiamo fare subito una digressione in funzione della didattica della lettura e della scrittura. L’idea che la vita abbia l’essenza stessa della diaspora diventa un concetto che, in tempi moderni e contemporanei, ha trovato spesso il suo sviluppo nei testi delle scrittrici e dagli scrittori di romanzi. A questo proposito adesso riprendiamo la lettura dell’incipit di un romanzo che abbiamo incontrato, in conclusione di itinerario, la scorsa settimana. Voi sapete che questo romanzo è stato scritto da una scrittrice che abbiamo seguito fin da quando, nell’anno 2005, è stata protagonista di un importante evento editoriale a livello internazionale: e gli eventi editorialiveramente significativi sono rari.

     La scrittrice di cui stiamo parlando si chiama Irène Némirovsky e credo che molte e molti di voi abbiano letto qualcuno dei suoi libri. L’evento editoriale che riguarda la scrittrice Irène Némirovsky è – come molte e molti di voi sanno – la pubblicazione del libro Suite francese (2005), di cui si consiglia vivamente la lettura o la rilettura. Sapete che l’interesse per questo romanzo è legato anche alla storia rocambolesca del manoscritto di quest’opera (dell’agenda in cui è contenuto): una storia in cui sono coinvolte le figlie bambine della scrittrice, salvate – insieme al prezioso testo – da due donne della Resistenza francese alle quali erano state affidate. Questa storia – avventurosa e commovente come un romanzo – del salvataggio del manoscritto di Suite francese viene descritta – e quindi la potete leggere – nella postfazione del libro stesso. Suite francese – sebbene non sia stata ultimata – è un’opera di grande valore narrativo: ne rimangono solo due parti intitolate: Temporale di giugno e Dolce.

     Ricordiamo che Irène Némirovsky è nata a Kiev nel 1903 in una ricca famiglia borghese, suo padre è un facoltoso banchiere ebreo che si chiama Arieh, ma si fa chiamare Leon, Leon Némirovsky (classe 1868), la madre si chiama Faiga ma si fa chiamare Fanny, è nata a Odessa nel 1887, è morta a Parigi nel 1989. Fanny ha concepito Irène controvoglia e solo per compiacere il marito, di conseguenza si disinteressa completamente della figlia che cresce allevata dalle governanti: Irène porta tutto il disprezzo che ha per la madre in un significativo racconto che s’intitola Il ballo di cui si consiglia la lettura. Irène è emigrata a Parigi nel 1919 – non è casuale il fatto che ironizzi nelle sue opere sul tema della diaspora– dove è diventata, negli anni ’30, una famosa scrittrice francese, e infine è morta ad Auschwitz – così come suo marito Michel Epstein – nel 1942.

     Di Irène Némirovsky sono in corso di pubblicazione tutte le opere: i romanzi e i racconti e la Scuola, strada facendo, ne ha già presentato alcuni e, questa sera, – come abbiamo detto – puntiamo ancora l’attenzione sul romanzo che s’intitola I cani e i lupi pubblicato nel 1940 dove il tema della separatezza– di cui questa sera parleremo – e della diasporasono in evidenza.

     Con il romanzo che s’intitola I cani e i lupi, Irène Némirovsky ci porta a Kiev dove la famiglia di Ada – la principale protagonista femminile del racconto – abita nella città bassa, quella degli ebrei poveri (gli ebionim), e suo padre fa parte della congrega dei meklers, gli intermediari, quegli umili e tenaci individui che si guadagnano da vivere comprando e vendendo di tutto, la seta come il carbone, il tè come le barbabietole. Fra le due città c’è separatezza e sembra non esserci altro rapporto che non sia il disprezzo degli uni e l’invidia degli altri.

     Però succede che il ragazzino Harry (rampollo di una ricca famiglia ebrea che vive sulla collina) quando si trova di fronte la bambina Ada ne sarà al tempo stesso – scrive Irène Némirovsky – «inorridito e attratto come un cagnolino, ben nutrito e curato, che sente nella foresta l’ululato famelico dei lupi, i suoi fratelli selvaggi». Il cane è l’integrazione, il lupo è la diasporae questa è la più importante chiave per leggere e per comprendere il senso di questo romanzo.

     Dobbiamo dire che pochi scrittori sono stati in grado di raccontare il mondo degli Ebrei venuti dall’Est, dall’Ucraina e dalla Polonia, con altrettanta passione così come lo ha raccontato – senza omettere né vizi né virtù – Irène Némirovsky.

     E ora leggiamo due pagine di questo romanzo di cui si consiglia la lettura.

LEGERE MULTUM ….

Irène Némirovsky, I cani e i lupi  (1940)

Ada aveva da poco compiuto cinque anni e cominciava a percepire la realtà circostante; fino allora aveva vagato in un universo così sproporzionato rispetto alla sua minuscola persona che quasi non ne aveva preso coscienza: il mondo la sovrastava. Ada non se n’era curata più di quanto avrebbe fatto un insetto in mezzo all’erba. Ma adesso era cresciuta e perciò iniziava a conoscere la vita: quei giganti immobili davanti ai portoni, con le stalattiti attaccate ai baffi e l’alito puzzolente di alcol (strano come il fiato si trasformi in uno sbuffo di vapore e poi in piccoli aghi gelati), quei giganti erano uomini qualunque, dvorniki, semplici portieri. Aveva familiarizzato anche con alcuni esseri la cui testa sembrava perdersi fra le nuvole e che si trascinavano appresso sciabole luccicanti. Venivano chiamati «ufficiali». Dovevano mettere paura, perché suo padre, scorgendoli, pareva farsi ancora più piccolo e camminava rasente ai muri; ma lei riteneva che, nonostante tutto, fossero comuni mortali; da qualche tempo osava guardarli: alcuni avevano la sopravveste grigia foderata di rosso (a volte la stoffa scarlatta, insegna del loro grado di generale, faceva capolino mentre salivano in slitta) e una lunga barba bianca come quella di suo nonno.

Passando dalla piazza, Ada indugiava qualche istante per ammirare i cavalli, che d’inverno erano bardati di coperte verdi o rosse ornate di pompon, affinché la neve che calpestavano con gli zoccoli non schizzasse loro addosso. Era il centro della città, con bei palazzi, negozi, ristoranti, luci, rumori; ma subito padre e figlia si addentravano di nuovo in un dedalo di vicoli che scendevano verso il fiume, che avevano il selciato sconnesso ed erano a malapena rischiarati dalla luce fioca dei fanali, per fermarsi infine davanti all’abitazione di un possibile cliente.

In una stanza piena di fumo, in penombra e col soffitto basso, cinque o sei uomini strepitavano come galline cui stessero tirando il collo. Avevano il colorito paonazzo, le vene della fronte gonfie, e alzavano le braccia al cielo o si battevano il petto, dicendo: «Che Dio mi fulmini all’istante se sto mentendo! ».

A volte indicavano Ada: «Giuro sulla testa di questa bambina innocente che la seta era intatta, quando l’ho comprata! Che colpa ne ho io, povero ebreo, padre di famiglia, se lungo la strada i topi ne hanno rosicchiato una partita?».

Si arrabbiavano, fingevano di andarsene sbattendo la porta; si fermavano sulla soglia, tornavano indietro. Gli acquirenti, ostentando indifferenza, bevevano il tè in boccali dal manico d’argento. Gli intermediari (ce n’erano sempre cinque o sei che si presentavano tutti insieme, appena fiutavano un affare) si accusavano reciprocamente di frode, furto, truffa, dei peggiori crimini; sembravano pronti a divorarsi l’un l’altro. Poi l’atmosfera si placava: l’affare era concluso.

Israel Sinner prendeva per mano la figlioletta e usciva. In strada traeva un sospiro profondo e scuoteva la testa, gemendo accorato: «Oh, mio Dio, Signore mio Dio!». A volte perché il gesheft, l’affare, non era riuscito, e gli sforzi, le settimane di discussioni e trattative erano andati in fumo; altre volte perché l’aveva spuntata sui rivali. Ma bisognava lamentarsi e sospirare comunque: Dio, immobile e onnipresente, spiava l’uomo come un ragno al centro della tela, pronto a punirlo se si mostrava orgoglioso della sua fortuna. Dio non si distraeva mai, era instancabile e permaloso; bisognava averne timore e, pur rendendo grazie alla sua benignità, non lasciargli credere di aver esaudito tutti i voti della sua creatura, affinché non l’abbandonasse e continuasse a proteggerla.

Poi andavano in un’altra casa, e in un altra ancora. Talvolta salivano fino alle residenze dei ricchi. Ada, allora, aspettava in anticamera, e la sontuosità dell’arredamento, il numero dei domestici, lo spessore dei tappeti la emozionavano al punto che non osava muoversi; se ne stava seduta sull’orlo della sedia, con gli occhi sgranati e il fiato sospeso; a volte si pizzicava le guance per non addormentarsi. Infine tornavano a casa in tram, silenziosi, tenendosi per mano.

     Nella fase finale dell’itinerario della scorsa settimana abbiamo detto che dal III secolo a.C., le comunità della diaspora – soprattutto in Mesopotamia, in Egitto, fino a Roma – cominciano ad avviare al loro interno un dibattito molto serrato su un tema di grande importanza: sul concetto della separatezza, in ebraico perugìa. Questo è un tema che abbiamo trattato più volte perché è un argomento importante per l’acquisizione di chiavi di lettura utili per poter capire molti testi del genere letterario del romanzo.

     In che cosa consiste questo dibattito e che cosa s’intende per separatezza, per perugìa? Ci sono, all’interno delle  comunità della diaspora, diverse correnti di pensiero in proposito, i membri della corrente più intransigente affermano: Siamo un popolo diverso (un popolo privilegiato), quindi dobbiamo vivere separati dagli altri per non contaminarci né materialmente né religiosamente né culturalmente. Questo è il dettato di chi sostiene in modo fondamentale l’idea di perugìa, di separatezza. Ma noi sappiamo che, nonostante questo dettato, le comunità della diaspora sono – nel bene e nel male – socialmente ed economicamente integrate alla perfezione nei paesi dove si trovano.

     Il diffondersi dell’Ellenismo, poi, ha ancora di più – come abbiamo studiato la scorsa settimana – fatto cessare i fenomeni di insicurezza e di perdita di identità religiosa in relazione alla lontananza dal Tempio e dalle terre di Israele. Sappiamo bene che le comunità della diaspora non hanno particolari nostalgie della terra promessa, del Tempio: le nostalgie le recitano attraverso un rituale che si trasforma, tradotto in scrittura, in sapienza poetica.

     A mano a mano che il serrato dibattito prende corpo, prevale l’idea di dover, quindi, attenuare la separatezza, la perugìa. Anche perché, il sistema della separatezza vissuto in modo integralista, crea dei guai. Per esempio, ad Alessandria, si erano scatenate contro gli Ebrei alcune sollevazioni popolari, perché gli Ebrei non volevano aprirsi, si chiudevano, per non contaminarsi: uno dei problemi è quello dei matrimoni misti. L’Ellenismo – come sappiamo – favorisce la cultura dei matrimoni misti, tra cittadini di etnie diverse. La perugìa ebraica descriveva come intollerabile, come blasfema, la mescolanza del sangue e, quindi, il modo di comportarsi, le regole e i riti religiosi ebraici in Mesopotamia, in Egitto, nell’Ellade, a Roma, dove la mentalità faceva riferimento all’ideologia politeista – basata sull’accettazione di tante divinità diverse – finivano per suscitare una diffidenza profonda.

     E voi sapete che la gente di quei posti che abbiamo citato – la Mesopotamia, l’Egitto, l’Ellade, Roma – non tollerava la separatezza. Perché? Perché la cultura politeista mesopotamica, egizia, ellenica, romana, aveva la caratteristica di essere sincretica, di mettere insieme opinioni diverse: si pregavano, si adoravano, ci si interessava di più divinità religiose contemporaneamente. Sincretismo e separatezzasi presentano, quindi, come due termini antitetici.

     Il nucleo centrale dell’ideologia giudaica si caratterizza, invece, per un esclusivo rapporto con un Dio unico (“Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altro Dio all’infuori di me”…) e questo rigoroso monoteismo risulta incomprensibile alla cultura pagana, fondata sul sincretismo che è un concetto legato all’idea di apertura. I pagani si raccomandavano contemporaneamente a Iside, a Mitra, a Demetra e ad altri dèi e l’adorare protettori divini differenti non suscitava scandalo, anzi offriva più possibilità.

     Dobbiamo ricordare che questo atteggiamento sincretico verrà poi ben tollerato nel Cristianesimo e, durante la sua diffusione nel III secolo d.C., soprattutto nelle campagne, il paganesimo avrà una sua continuità culturale nel culto dei Santi cristiani e nel culto della Gran Madre, Maria di Nazareth; difatti quante immagini della Madonna ci sono!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La figura di Maria di Nazareth si è diversificata nel corso della storia della diffusione del cristianesimo e anche con il contributo della Storia dell’ArteC’è una figura di Maria, della Madonna, che vi interessa particolarmente?… 

Scrivete quattro righe in proposito

     Le popolazioni egizie, greche, romane, avrebbero gradito che gli Ebrei si fossero avvicinati alle loro divinità e dimostrassero qualche segno di rispetto nei confronti dei loro riti, ma gli Ebrei mostravano una sprezzante separatezza. Soprattutto – e questo provocava forti contrasti – erano assai sospettosi nei confronti di quei pagani che avrebbero voluto avvicinarsi ai loro riti e che mostravano interesse nei confronti del loro Dio Unico.

     Gli Ebrei, in genere, e quelli della diaspora in questo caso, non volevano fare del proselitismo, non volevano condividere con altri la fede che avevano nei confronti del loro Dio, e molti pagani – i Greci, i Latini – non capivano questo atteggiamento e si offendevano. «Ma come? – dicevano – Io vorrei onorare il vostro Dio e voi me lo vietate?». Per giunta, l’invisibilità del Dio d’Israele e il divieto di rappresentarlo sotto forma di immagini suscitava da una parte grande curiosità e dall’altra grandi sospetti. Molti pagani sospettavano che non esistesse affatto questo Dio invisibile e che gli Ebrei fossero gente senza Dio, fossero atei pericolosi e – in seguito – questa accusa verrà formulata anche contro i Cristiani.

     Gli Ebrei della diaspora erano particolarmente sospetti anche al potere politico perché – come sappiamo – i sovrani di Mesopotamia, d’Egitto e Alessandro Magno e poi gli imperatori Romani, esigevano un culto come se fossero delle divinità, e gli Ebrei respingevano tenacemente questi culti imperialie, per questo, venivano guardati con irritazione e con diffidenza e finivano per essere considerati come se fossero dei ribelli pericolosi.

     Quindi capiamo bene che, sebbene fossero sottomessi ai Babilonesi, ai Persiani, ai Greci e poi ai Romani, gli Ebrei non cessarono mai di considerarsi un popolo a parte, una nazione speciale: gli Ebrei della diaspora, sebbene abitassero come disciplinati cittadini nelle capitali degli Stati ellenistici che li ospitavano, guardavano tuttavia a Gerusalemme e, non tanto come un punto di riferimento politico, ma bensì come a un faro spirituale. E noi sappiamo che, dopo la morte di Alessandro, nel 323 a.C., lo Stato unitario dell’Ellenismo si spacca e la Palestina viene governata prima dai Tolomei, poi dai Seleucidi e poi dagli Erodiadi, e, con queste dinastie estranee, gli Ebrei della diaspora non vogliono proprio avere nulla da spartire.

     Ora noi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo imboccare un sentiero collaterale che ci porta nei pressi di un paesaggio intellettuale nel quale, ancora una volta, individuiamo un intreccio filologico da dipanare. La conoscenza di questo intreccio filologico serve per verificare la consistenza del dibattito in corso sulla separatezza (sulla perugìa) che è l’argomento su cui stiamo riflettendo mentre – come sapete – camminiamo sull’impervio sentiero che ci sta portando verso la parola-chiave ekklesìa.

     Nel paesaggio intellettuale che stiamo per osservare troviamo un significativo documento letterario che è costituito dai testi di due celebri Libri della Letteratura beritica che si sono formati in età ellenistica: il Primo e il Secondo Libro dei Maccabei.

     Il Primo e il Secondo Libro dei Maccabei sono due testi biblici che abbiamo già incontrato nel Percorso sulla “sapienza poetica beritica” quando abbiamo affrontato l’importante tema dello scontro epocale tra “filotraduzionisti” e “controtraduzionisti”, un argomento di cui ora non possiamo fare il riassunto e, quindi, a questo proposito chi vuole può utilizzare, iscrivendosi all’aria riservata, i nostri siti – www.inantibagno.it e www.scuolantibagno.net – per leggere e anche ascoltare le Lezioni sul Percorso della “sapienza poetica beritica”. Comunque tutte voi e tutti voi avrete certamente sentito nominare i due Libri dei Maccabei e siccome tutti possediamo una Bibbia possiamo anche facilmente prendere visione dei testi che compongono questi due Libri.

     I testi di questi due Libri sono molto affascinanti. La prima cosa che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo far notare è che questi due Libri, nonostante le apparenze, non sono uno la continuazione dell’altro, e si presentano come due midrash epici, scritti da due scrivani, di cui non conosciamo nulla. Il Secondo Libro dei Maccabei, in particolare, è stato scritto certamente da un’intellettuale ebreo di Alessandria, quindi da un appartenente alla diaspora egiziana ed è il riassunto – il compendio epico-romanzesco – di un’altra opera, e questa è un tipica operazione realizzata secondo lo stile dei grammatici ellenistici che frequentano la Biblioteca di Alessandria. Il Secondo Libro dei Maccabei è il riassunto (un compendio) dei cinque volumi scritti da uno storico che si chiama Giasone di Cirene del quale conosciamo soltanto il suo nome. Giasone di Cirene, in cinque libri, racconta i complicati avvenimenti della storia ebraica del II secolo a.C..

     I due Libri dei Maccabei mettono al centro di questi avvenimenti le gesta eroiche di Giuda Maccabeo: il soprannome Maccabeo risulta oscuro nel significato, ma è il termine che dà il nome a tutta la saga. Giuda Maccabeo, con i suoi fratelli Gionata e Simone, lotta, compiendo imprese leggendarie, non tanto per l’indipendenza della patria (il concetto di patria, per lo scrivano che compone il testo, è aleatorio) ma per amore della Legge di Mosé (della torah), del Tempio di Gerusalemme (il faro spirituale) e dell’Alleanza con Dio (la berit). L’identità storica degli avvenimenti meravigliosi narrati nella saga dei Maccabei è molto incerta perché si tratta di un’epopea e, chi ha scritto, lo ha fatto con l’obiettivo di narrare non avvenimenti storici ma bensì episodi di carattere apologetico.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per entrare in contatto con i due Libri dei Maccabei il primo esercizio da fare è quello di constatare in quale parte della Bibbia sono collocati: se prendete l’indice dei Libri della Bibbia che trovate in fondo al volume potete appurare che i due Libri dei Maccabei si trovano nel catalogo dei Libri cosiddetti “deuterocanonici”, cioè del “secondo canone”, vale a dire quei Libri composti in età ellenistica… Quali altri Libri – oltre ai due Libri dei Maccabei – fanno parte del catalogo dei Libri “deuterocanonici”?…Trascrivete la lista…

Che cosa attira la vostra attenzione osservando questa lista?…

     Se leggiamo la presentazione, l’entrata in scena, di Giuda Maccabeo nel capitolo 3 del Primo Libro dei Maccabei ci rendiamo subito conto che l’autore compone un carme elogiativosullo stile della cultura ellenistica, come quando vengono presentati gli eroi greci e, leggendo questo testo, viene in mente l’Iliade e la figura di Achille come se fossero trattati da Apollonio Rodio,  l’autore delle Argonautiche, che abbiamo incontrato nel Percorso dell’anno scorso.

Leggiamo questo brano:

LEGERE MULTUM ….

Primo Libro dei Maccabei   3, 1-9

Elogio di Giuda Maccabeo

Il figlio di Mattatia, Giuda soprannominato Maccabeo, succedette al padre.

Tutti i suoi parenti e quelli che si erano uniti a suo padre lo aiutarono

e con grande entusiasmo combattevano per Israele. Egli accrebbe la gloria

del suo popolo, rivestì la corazza come gigante e si cinse con le armi da guerra,

scese in battaglia  e difese l’accampamento con la spada.

Nelle sue imprese fu come un leone, come leoncello ruggente sulla preda.

Inseguì gli empi braccandoli, i perturbatori del popolo distrusse con il fuoco.

Gli empi sbigottirono per paura di lui e tutti i malfattori furono confusi.

Sotto la sua guida la lotta di liberazione ebbe successo.

Diede filo da torcere a molti re e con le sue imprese rallegrò i discendenti

di Giacobbe.  Chi lo ricorda lo loderà sempre. Egli passò per le città di Giudea

e disperse gli empi e distolse l’ira da Israele. Divenne celebre fino all’estremità

della terra perché radunò quelli che erano dispersi

     Chi scrive vuole mostrare, nel dibattito in corso sulla perugìa (sulla separatezza) che, alcuni ebrei coraggiosissimi hanno saputo lottare per difendere la memoria delle antiche tradizioni del popolo, delle sue feste che devono continuare ad essere celebrate, soprattutto quella della dedicazione e della purificazione del Tempio, da celebrare anche nella diaspora perché il Tempio – come sappiamo – è un pretesto metaforico, è una figura allegorica che serve per avvalorare il concetto della memoria condivisa. Quindi nei due Libri dei Maccabei, sotto forma di epopea, di midrash, c’è uno straordinario richiamo al popolo della diaspora perché sappia integrarsi senza però dimenticare le proprie radici, le proprie tradizioni, i propri riti perché la memoria, la memoria condivisa, è l’essenza dell’esistenza.

     I due Libri dei Maccabei rappresentano uno straordinario documento, prima di tutto perché sono le opere di due intellettuali ebrei fortemente radicati nella cultura dell’Ellenismo. E i testi di questi due Libri sono composti in perfetto stile ellenistico secondo uno straordinario paradosso, un paradosso che molte e molti di voi conoscono: questi scrivani ebrei di cultura alessandrina scrivono opere in perfetto stile ellenistico per difendere la cultura ebraica dall’invadenza dell’Ellenismo stesso. Le studiose e gli studiosi di filologia definiscono questa operazione intellettuale un esercizio preventivo di vaccinazione culturale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La Scuola propone, per esercizio, di leggere dal Secondo Libro dei Maccabei  i capitoli 7 e 8… In particolare nel testo del capitolo 7 si parla di “martirio”, di “sacrificio” e di “risurrezione” come premio per quelle persone che hanno lottato e che sono state capaci di sacrificarsi per salvaguardare un principio e per garantire un diritto… 

Leggete il testo dei capitoli  7 e 8 del Secondo Libro dei Maccabei…

     I testi dei Libri dei Maccabei – che Paolo di Tarso conosce bene – ci danno la possibilità di riflettere su tre argomenti significativi ma prima di affrontare questa riflessione diamo ancora spazio, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, al romanzo I cani e i lupi di Irène Némirovsky. Il testo di questo romanzo contemporaneo ci permette di riflettere – in modo spregiudicato come fa l’autrice – su quel complesso avvenimento pluriepocale che si chiama la diaspora e ci fa ragionare – con tutto l’acume tipico della cultura dell’ebraismo – sul fatto che è sempre questione di raffronti a questo mondo!: che cosa significa questa affermazione?

     Leggiamo:

LEGERE MULTUM ….

Irène Némirovsky, I cani e i lupi  (1940)

«Simon Arkadievič,» stava dicendo il padre di Ada «mi sento come quell’ebreo che era andato a chiedere consiglio a un uomo giusto, uno zadik, lagnandosi della sua povertà».

Israel Sinner inscenò la conversazione tra il povero e il giusto:

«“Vivo nella miseria, ho dieci figli da mantenere, una moglie bisbetica e una suocera in buona salute, piena di vigore e di appetito Che devo fare? Mi aiuti!.

«“Prendi in casa dodici capre gli rispose il giusto.

«“E che me ne faccio? Già stiamo accalcati gli uni sugli altri come aringhe in un barile, e dormiamo tutti insieme su un pagliericcio. Soffochiamo. Dove le metto, le capre?.

«“Dammi ascolto, uomo di poca fede. Accogli le capre in casa tua, e renderai gloria al Signore.

«Dopo un anno il povero si ripresentò: «“Allora, sei più felice? chiese il giusto.

«“Felice? La mia vita è un inferno. Preferisco morire piuttosto che avere ancora tra i piedi quelle maledette capre!.

«“Ecco! Adesso puoi sbarazzartene, così apprezzerai la fortuna che prima non riconoscevi. La tua povera stamberga, senza le loro cornate e la loro puzza, ti sembrerà una reggia. È sempre questione di raffronti, a questo mondo.

«Anch’io, Simon Arkadievič, borbottavo contro la Provvidenza» concluse il padre di Ada. «Avevo mio suocero a carico e una figlia da crescere. Lavoravo sodo e li mantenevo a stento, ma è questa la condizione naturale dell’essere umano: spargere molto sudore per guadagnarsi un tozzo di pane. Sbagliavo a lagnarmi. Ora mi giunge la notizia che mio fratello è morto; e la vedova, mia cognata, verrà a stare da me con i due figli. Tre bocche in più da sfamare. Sgobba, fatica come un disgraziato, povero ebreo! Ti riposerai sotto terra ».

Fu così che Ada apprese dell’esistenza e dell’imminente arrivo dei cugini. Cercava di immaginarseli. Si lasciò assorbire da questo gioco per ore e smise di vedere e sentire quel che le accadeva intorno, poi parve svegliarsi come da un sogno. Udì il padre dire a Simon Arkadievič: «Mi hanno parlato di un carico d’uva passa proveniente da Smirne. Le interessa?».

«La smetta di seccarmi! Cosa vuole che me ne faccia dell’uva passa?».

«Non si arrabbi, non si arrabbi Potrei procurarle a buon prezzo della cotonina di Nižnij Novgorod, che ne dice?».

«Vada al diavolo, lei e la sua cotonina!».

«Allora un lotto di cappellini per signora creati a Parigi? Sono solo un tantino rovinati a causa di un incidente ferroviario e si trovano in un deposito alla frontiera; posso averli a metà costo».

«Uhm Quanto?».

Quando furono in strada, Ada chiese: «La zia e i cugini verranno a vivere con noi?».

«».  Camminavano lungo un ampio viale deserto. Alcune strade nuove tagliavano la città secondo un ambizioso piano urbanistico; erano costeggiate di tigli e grandi abbastanza da consentire le manovre di uno squadrone di cavalleria, ma solo il vento le percorreva da un capo all’altro, con folate pungenti e vivaci che sollevavano la polvere. Era una sera d’estate, con il cielo limpido e rosato.

«Ci sarà una donna in casa» disse infine il padre, guardando con tristezza Ada «per prendersi cura di te …».

«Non voglio che qualcuno si prenda cura di me».

Israel Sinner scosse la testa: «E anche per evitare che la domestica rubi e che tu debba venirmi dietro tutto il giorno».

«Perché, non ti fa piacere?» chiese Ada con il pianto nella voce.

Il padre le accarezzò delicatamente i capelli: «Certo che mi fa piacere, ma devo camminare piano per non stancarti, e noi intermediari ci guadagniamo il pane correndo. Più veloci andiamo, prima arriviamo dai ricchi. Molti concludono affari migliori perché vanno più in fretta di me: loro possono lasciare i figli a casa, al calduccio».

E aggiunse tra sé: «Con la madre …».

Ma non bisognava parlare dei morti, per il timore superstizioso di attirarsi addosso la malattia, la disgrazia (il male era perennemente in agguato) e per non rattristare la bambina. Ada avrebbe avuto tutto il tempo di imparare quanto è difficile e incerta la vita, sempre pronta a riprendersi i beni più preziosi E poi, il passato è passato. Stare a pensarci su serve soltanto a sprecare le energie necessarie per andare avanti. Ada sarebbe dunque cresciuta conoscendo appena il nome della madre morta, senza aver mai fatto visita alla sua tomba o sentito una parola su di lei, sulla sua breve esistenza. In casa c’era una fotografia sbiadita che raffigurava una giovinetta in uniforme scolastica, con lunghi capelli neri che le ricadevano in disordine sulle spalle. Seminascosto nell’ombra di una cortina, il ritratto pareva seguire i vivi con uno sguardo di rimprovero: «Anch’io sono stata come voi,» sembravano dire i suoi occhi «perché avete paura di me?». Ma per quanto dolce e timida fosse, suscitava ugualmente inquietudine, perché abitava in un regno senza fame né sonno, senza preoccupazioni né controversie, senza niente, insomma, di tutto ciò che costituisce la vita delle persone sulla terra.

Il padre di Ada era preoccupato per l’arrivo della cognata e dei nipoti, ma la casa era davvero troppo trascurata, troppo sporca, e per occuparsi della bambina ci voleva una donna. Quanto a lui, era rassegnato a rimanere un poveraccio, senza educazione benché quando si era sposato sognasse ben altro. Ma a se stesso, ai suoi desideri, dava ormai poca importanza. Si lavora, si vive, si spera per i figli, carne della propria carne, sangue del proprio sangue. Per essere contento gli sarebbe bastato che Ada avesse più beni terreni di quelli toccati in sorte a lui. La immaginava ben vestita, con un grazioso abito ricamato e un nastro fra i capelli come i figli dei ricchi. Che ne sapeva, lui, di abbigliamento infantile? Ada aveva un aspetto antiquato e malaticcio, con quei vestiti troppo larghi e troppo lunghi che il padre le comprava per la qualità del tessuto; e non sempre i colori erano ben assortiti Israel lanciò un’occhiata alla sottana scozzese sulla quale la bambina indossava una casacca di velluto nero cucita da Nataša, la cuoca. Non gli piaceva neanche la pettinatura del figlia, con la frangia spessa che le copriva la fronte fino alle sopracciglia e i riccioli neri tagliati in modo irregolare sul collo. Povero piccolo collo esile Lo prese fra le dita, stringendolo appena, con il cuore traboccante di tenerezza. Ma poiché era ebreo, non gli bastava immaginare la figlia ben nutrita, ben curata e, in seguito, felicemente sposata. Gli sarebbe piaciuto trovare in lei un talento, un dono straordinario. Chissà, poteva diventare una musicista, o una grande attrice Le sue aspirazioni erano per forza di cose limitate, perché aveva solo una figlia. Oh, desiderio deluso, speranza vana! Un figlio! Un maschio! Dio non aveva voluto! Ma Israel si consolava pensando ai suoi amici i cui eredi maschi, anziché essere la gioia della loro vecchiaia, ne erano l’afflizione, la vergogna, il castigo visibile del Signore: alcuni si occupavano di politica, erano finiti in prigione o condannati all’esilio dal governo, altri vagabondavano lontano, in città straniere. Non che lui avesse nulla in contrario a mandare in futuro Ada a studiare in Svizzera, in Germania o in Francia Ma bisognava lavorare, mettere da parte il più possibile. Consultò il piccolo taccuino unto sul quale annotava il tipo di mercanzie da proporre e affrettò il passo.

     Ci sono tre elementi – abbiamo detto – contenuti nei testi dei Libri dei Maccabei su cui dobbiamo riflettere.

     Il primo elemento significativo è rappresentato dal concetto della risurrezione. Il concetto della risurrezione come premio per quelle persone che hanno lottato e che sono state capaci di sacrificarsi per salvaguardare un principio e per garantire un diritto è presente nel settimo capitolo del Secondo Libro dei Maccabei: andate a leggere questo capitolo! Leggiamone insieme un frammento: i versetti 7 e 8 del capitolo 7: «Morto il primo fratello portarono anche il secondo al supplizio. Gli strapparono dalla testa la pelle con i capelli e gli chiesero: Sei disposto a mangiare questa carne [di maiale]? Se no, tortureremo il tuo corpo membro per membro. Ma egli rispose in ebraico: No!. Perciò anche lui subì gli stessi tormenti del primo. Quando ormai era all’ultimo respiro disse: Tu, o scellerato [Antioco Epifane, re d’Egitto], ci togli dalla vita presente. Ma il re dell’universo ci farà risorgere per una vita che non finisce, dato che moriamo per le sue leggi». Non è casuale, quindi, il fatto che questo Libro sia stato uno degli oggetti culturali che hanno contribuito alla formazione di Paolo di Tarso – e, probabilmente, anche di Gesù di Nazareth – e sicuramente Paolo di Tarso quando elabora la sua idea di anastasia (la risurrezione) vuole richiamare all’attenzione di chi legge le sue Lettere su questo testo che è conosciutissimo nell’area della diaspora.

     Il secondo elemento di riflessione è legato al fatto che gli scrivani del Primo e del Secondo Libro dei Maccabei vogliono, con la composizione di questi testi autorevoli, intervenire nel grande dibattito in corso sulla separatezza (la perugìa), e compiono una straordinaria operazione intellettuale. Perché? Perché intervengono nel dibattito con grande raffinatezza culturale: il Secondo Libro dei Maccabei – andate a constatare personalmente – inizia con una Lettera indirizzata agli Ebrei dell’Egitto, e poi ne segue anche un’altra. Lo stile epistolare – e ci stiamo occupando dell’Epistolario di Paolo di Tarso – è un classico modello letterario ellenistico di carattere retorico che viene usato soprattutto per dare raccomandazioni. Che cosa c’è scritto in questa Lettera? «Cari ebrei della diaspora dell’Egitto, noi ebrei di Gerusalemme – attenzione perché l’autore scrive da Alessandria d’Egitto non da Gerusalemme – vi raccontiamo queste meravigliose avventure (la saga dei Maccabei) perché, se le leggerete e vi rifletterete, il re del Cielo (non si nomina mai il nome di Dio nel testo originale-greco) farà aprire il vostro cuore». Questa tecnica – sullo stile della retorica dei grammatici alessandrini – di intervenire per Lettera per orientare le lettrici e i lettori diventa, nel corso dell’Ellenismo, un efficace metodo di persuasione e noi possiamo capire, quindi, a quale modello letterario s’ispiri Paolo di Tarso nel comporre il suo Epistolario.

     Il terzo elemento di riflessione che emerge dalla lettura del testo del Secondo Libro dei Maccabei riguarda un altro tratto essenziale che caratterizza l’Ellenismo: il primato che deve avere la cultura nella società. E questo riferimento fondamentale lo si trova nel Secondo Libro dei Maccabei al capitolo 2 nei versetti 13, 14 e 15. Questi tre versetti raccontano quando Giuda Maccabeo costruisce la Biblioteca d’Israele: una classica scelta di carattere ellenistico! Sarà anche la guerra santa a riscattare un popolo oppresso, ma, molto più importante, per un popolo oppresso, è conservare la sua cultura. Paolo di Tarso, sulla scia di questa idea che ha maturato nel corso della sua formazione, è convinto del fatto che la divulgazione della buona notiziadella risurrezione di Gesù di Nazareth non possa attuarsi se non per via culturale.

     Leggiamo questi tre versetti – i versetti 13, 14 e 15 del secondo capitolo del Secondo Libro dei Maccabei – perché esprimono in modo significativo una delle caratteristiche dell’Ellenismo: quella di riservare alla cultura il primo posto nella società:

LEGERE MULTUM ….

Secondo Libro dei Maccabei  2, 13-15

Queste stesse notizie si trovano anche negli scritti e nelle memorie di Neemia (un libro apocrifo che è andato perduto). Egli (Giuda Maccabeo) fondò pure una biblioteca e vi raccolse libri riguardanti i re e i profeti, gli scritti di Davide e le lettere dei re relative ai doni votivi. Allo stesso modo anche Giuda Maccabeo raccolse tutti i libri andati perduti a causa della guerra che ci capitò ed essi sono ora presso di noi. Perciò se ne avete bisogno mandateci qualcuno che ve li porti.

     E la cultura dell’ebraismo non solo si è conservata ma, attraverso il processo della dispersione e dell’integrazione è diventata il substrato fecondo della cultura europea: in modo particolare la Letteratura mitteleuropea trova nei testi dell’Antico Testamento la sua linfa vitale.

     Il catalogo degli esempi è lungo e noi questa sera abbiamo, ancora una volta, messo in repertorio un classico. In un Percorso di didattica della lettura e della scrittura succede che spesso si mettano da una parte certi testi pensando che, essendo famosi, siano già stati letti da tutte le persone e quindi sia superfluo presentarli o ripresentarli: magari sono stati anche letti, ma sappiamo che i classici si rileggono in continuazione proprio perché un classico  è un testo che continua a dire e continua a farsi scoprire. Un classico dei classici, che puntualmente citiamo, è il Libro di Giobbe: un testo del blocco ellenistico dei ketubim, gli Scritti sapienziali e poetici della Bibbia. Il Libro di Giobbe è un testo fondamentale del pensiero dell’esistenzialismo moderno, quindi è un testo, non solo letto e riletto, ma anche riscritto in continuazione da chi vuole riflettere sulla condizione umana, sul destino delle persone e sul senso che ha questa vita che siamo chiamati a vivere. La figura di Giobbe è, ed è diventa – in età moderna e contemporanea – il modello di una riflessione universale sempre attuale. Il Libro di Giobbe – formato da quarantadue capitoletti scritti in poesia – andrebbe riletto annualmente.

     Conoscete l’incipit del Libro di Giobbe?

LEGERE MULTUM ….

Libro di Giobbe 1, 1-3  1, 6-22

Nella regione di Uz viveva un uomo chiamato Giobbe. Era onesto e giusto, rifiutava il male perché rispettava Dio. Aveva sette figli e tre figlie. Possedeva settemila pecore, tremila cammelli, mille buoi, cinquecento asine e aveva moltissimi servitori. Era l’uomo più importante tra quelli che vivevano a est d’Israele.

Un giorno le creature celesti si presentarono davanti al Signore. In mezzo a loro c’era anche Satana. Il Signore gli chiese: - Da dove vieni? 

Satana rispose: - Sono stato qua e là, in giro per la terra.

- Hai notato il mio servo Giobbe? - chiese ancora il Signore. Poi aggiunse: - In tutta la terra non c’è nessuno onesto e giusto come lui. Egli rifiuta il male perché serve Dio.

Satana rispose: - Gli conviene rispettarti, lo credo bene! Tu proteggi lui, la sua famiglia e tutto quel che possiede! Benedici tutto quel che fa, e così il suo bestiame cresce a vista d’occhio. Ma prova a toccare le sue proprietà e vedrai come bestemmierà anche lui.

Il Signore disse a Satana: - D’accordo, fa’ quel che vuoi delle sue proprietà, ma non toccare la sua persona.

E Satana si allontanò.

Un giorno, mentre i figli e le figlie di Giobbe banchettavano a casa del fratello maggiore, un uomo venne a dire a Giobbe: «I predoni sabei sono piombati addosso a me e agli altri tuoi servitori; hanno rubato i buoi che aravano e le asine che pascolavano là vicino. Hanno ucciso tutti. Solo io sono riuscito a salvarmi, per venirtelo a dire».

Mentre quest’uomo stava ancora parlando, un altro servo venne a dire a Giobbe: «È caduto un fulmine che ha ucciso il tuo gregge e i tuoi pastori. Solo io sono riuscito a salvarmi per venirtelo a dire».

Quest’uomo non aveva finito di parlare quando un altro venne a dire a Giobbe: «Tre bande di predoni babilonesi si sono gettate sui tuoi cammelli, li hanno presi e hanno ucciso i tuoi uomini. Solo io sono riuscito a salvarmi, per venirtelo a dire».

Quest’uomo stava ancora parlando con Giobbe quando un altro venne a dirgli: «I tuoi figli e le tue figlie banchettavano a casa del fratello maggiore e, d’un tratto, un vento fortissimo, che soffiava dal deserto, ha fatto crollare la casa. Sono morti tutti. Solo io sono riuscito a salvarmi, per venirtelo a dire».

Udito questo, Giobbe si alzò, stracciò il suo mantello e si rase i capelli in segno di lutto. Poi gettatosi a terra pregò così: «Nudo sono venuto al mondo e nudo ne uscirò; il Signore dà, il Signore toglie, il Signore sia benedetto».

Nonostante tutto, Giobbe non peccò, non se la prese con Dio.

     Andate avanti voi a leggere il Libro di Giobbe.

     Una delle riscritture classiche, che prende spunto dal Libro di Giobbe, è il famoso romanzo di Joseph Roth, che si intitola appunto Giobbe. Romanzo di un uomo semplice. Anche questo romanzo dovrebbe essere periodicamente riletto.

     Penso che tutte e tutti voi abbiate, almeno, sentito nominare il grande scrittore mitteleuropeo Joseph Roth. Joseph Roth viene definito uno scrittore viennese anche se non è nato a Vienna bensì è nato, nel 1894, in Galizia orientale, da madre russa e padre austriaco, ed è morto il 23 maggio 1939 in un caffè di Parigi. Joseph Roth non era a Parigi per turismo ma in esilio dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Questo caffè parigino dove Joseph Roth è morto era un punto di ritrovo dei profughi ebrei e antinazisti in fuga: quel giorno Roth aveva ricevuto la tragica notizia del suicidio del suo amico più caro, il grande poeta viennese Ernst Toller, il quale si era suicidato per protesta e questo personaggio ci fa pensare al Secondo Libro dei Maccabei.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate una piccola ricerca su Ernst Toller, utilizzate l’enciclopedia o la rete: certe figure rimangono ingiustamente nell’ombra e, invece, è bene conoscerle…

     In questo caffè, nel quartiere latino, Roth scrive sulla tovaglia di carta di un tavolino il suo ultimo testo: «Penso a volte che la natura sia benigna nello screditare talmente la vita da far apparire desiderabile la morte. Bruceranno i nostri libri, intendendo così bruciare noi, ma nessun tiranno riuscirà mai a fermare il volo del pensiero».

     Se prendete un libro dove è stampato il testo di uno qualunque dei famosi romanzi di Roth, trovate la sua biografia, che rappresenta, anche quella, un’interessante lettura come se fosse un romanzo. Voi sapete che, di Roth, almeno sei romanzi sono considerati dei classici che devono essere letti: metteteli, quindi, nella vostra lista di lettrici e lettori per il vostro quotidiano esercizio di dieci minuti al giorno. Come sono intitolati questi romanzi? Sono intitolati: La tela del ragno (1923), Fuga senza fine (1927), La cripta dei cappuccini (1938), La milleduesima notte (1939) e, quando muore, Roth, nella tasca della giacca, ha un quaderno sul quale c’è scritto il testo della sua ultima opera intitolata La leggenda del santo bevitore che, pochi mesi dopo, nell’ottobre del 1939 viene pubblicata. Forse avrete visto il film tratto da quest’opera!

     Noi ora però puntiamo la nostra attenzione su due pagine tratte da Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (1930). Giobbe. Romanzo di un uomo semplice è considerato uno dei capolavori della scrittura ironica: è un romanzo sulla dispersione dell’ebraismo ed è per questo che lo incontriamo sul nostro itinerario.

     Questo romanzo racconta la storia di un uomo insignificante, di una persona che non lascia traccia nella storia del mondo. Questa persona è un ebreo che si chiama Mendel Singer e che fa il maestro talmudico, il maestro di catechismo e che si considera devoto e timorato di Dio. Il tono di questo racconto è dimesso, è colloquiale, è semplicissimo così come la vita che quest’uomo trascorre, in un villaggio della Volinia russa. Mendel ha una moglie che si chiama Deborah – un formidabile personaggio femminile creato da Roth –, la quale è stata benedetta da Dio perché ha partorito tre figli e un quarto è in arrivo: questo quarto figlio avrà dei problemi seri, sarà disabile e, per questo motivo, verrà amato più degli altri. Su questa semplice e povera famiglia si abbattono, come un uragano, molti mali – per questo motivo lo scrittore fa esplicito riferimento a Giobbe –, e ci sarebbe da disperarsi, da ribellarsi, da vendicarsi, ma Mendel, novello Giobbe, con una saggezza equilibrata, con un rispetto per Dio che equivale al rispetto per la vita, riesce a non perdere mai la fiducia e a mantenere una grande forza vitale. Come fa Mendel Singer a comportarsi così? Mendel Singer per resistere al male usa la memoria del bene: parla con Dio, che è il suo principale interlocutore, e si affida al ricordo degli affetti, delle semplici gioie della vita quotidiana, delle abitudini infantili, dell’intimità goduta con sua moglie. Il ricordo del bene che ha ricevuto – nella mente e nelle parole di Mendel Singer – diventa un grande midrash, un grande racconto mitico, fiabesco, che lo consola. Tutto il racconto è tenuto insieme con una straordinaria ironia perché – come sappiamo – c’è del comico anche nella tragedia e, alla fine, Mendel Singer, anche quando rimane solo e si trova ad essere un po’ abbandonato a se stesso, conclude che, nonostante tutto, è valsa la pena vivere.

     Per concludere – e per celebrare la Giornata della memoria – leggiamo due pagine da Giobbe. Romanzo di un uomo semplice:

LEGERE MULTUM ….

Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (1930)

Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo che si chiamava Mendel Singer. Era devoto, timorato di Dio e simile agli altri, un comunissimo ebreo. Esercitava la semplice professione del maestro. Nella sua casa, che consisteva tutta in un’ampia cucina, faceva conoscere la bibbia ai bambini. Insegnava con onesto zelo e senza vistosi successi [Queste parole ci fanno pensare alle Lettere di Paolo di Tarso]. Migliaia e migliaia prima di lui avevano vissuto e insegnato nello stesso modo.

Insignificante come la sua esistenza era il suo viso pallido. Una grande barba di un nero simile a quello degli altri lo incorniciava tutto. La bocca era coperta dalla barba. Gli occhi erano grandi, neri, seriosi e mezzo nascosti da palpebre pesanti. Sulla sua testa stava un berretto nero di reps di seta, una stoffa con la quale si fanno talvolta cravatte fuori moda e a buon mercato. Il corpo era infilato nell’usuale caffettano ebraico di media lunghezza, le cui falde svolazzavano quando Mendel Singer andava svelto per la via e battevano con un colpo d’ala secco e regolare sui gambali degli stivaloni di cuoio.

Singer sembrava avere poco tempo e tutte mete urgenti. Certamente la sua vita era una perpetua fatica e alle volte perfino un tormento. Doveva vestire e sfamare una moglie e tre bambini. Un quarto era in arrivo. Dio aveva concesso fertilità ai suoi lombi, equanimità al suo cuore e povertà alle sue mani. Non avevano oro da pesare, né banconote da contare. Eppure la sua vita continuava a scorrere alla meglio, come un povero piccolo ruscello fra magre sponde.

Ogni mattina Mendel ringraziava Dio per il sonno, per il risveglio e il giorno nascente. Quando il sole tramontava, pregava un’altra volta. Quando spuntavano le prime stelle, pregava per la terza volta. E prima di mettersi a dormire, bisbigliava una frettolosa preghiera con labbra stanche ma fervide. Il suo sonno era senza sogni. La sua coscienza era pura. La sua anima era casta. Non aveva da pentirsi di nulla e nulla c’era ch’egli bramasse. Amava sua moglie e provava piacere vicino alla sua carne. Con un sano appetito consumava in fretta i pasti. I suoi due bambini, Jonas e Schemarjah, li picchiava se disobbedivano. Ma la più piccola, Mirjam, l’accarezzava spesso. Aveva i suoi capelli neri e i suoi occhi neri, seriosi e dolci. Le sue membra erano delicate, le giunture fragili. Una giovane gazzella.

A dodici scolari di sei anni egli insegnava a leggere e a imparare a memoria la bibbia. Ciascuno dei dodici gli portava ogni venerdì venti copechi. Erano le uniche entrate di Mendel Singer. Aveva solo trent’anni, ma le sue prospettive di guadagnare di più erano minime, forse addirittura inesistenti. Come gli scolari crescevano, andavano da altri maestri più sapienti. La vita rincarava di anno in anno. I raccolti diventavano sempre più scarsi. Le carote rimpicciolivano, le uova erano vuote, le patate gelate, le minestre acqua, le carpe striminzite e i lucci piccoli, le anatre magre, le oche dure e i polli un niente.

Così suonavano le lagnanze di Deborah, la moglie di Mendel Singer. Era una donna e qualche volta aveva il diavolo addosso. Occhieggiava le proprietà dei benestanti e invidiava i guadagni della gente di commercio. Era troppo tapino Mendel Singer ai suoi occhi. Gli rimproverava i bambini, la gravidanza, il carovita, i bassi onorari e spesso perfino il brutto tempo. Il venerdì lavava il pavimento finché diventava giallo come zafferano. Le sue larghe spalle ballavano su e giù ritmicamente, le forti mani strofinavano le assi in lungo e in largo, una per una, e le unghie passavano lungo i correntini e negli interstizi raschiando via il sudicio che le ondate del mastello annientavano definitivamente. Come una grossa montagna, mobile e poderosa, andava carponi per la stanza vuota tinta in azzurro. Fuori, davanti alla porta, i mobili prendevano aria, il letto di legno marrone, i pagliericci, un tavolo piallato, due panche lunghe e strette, semplici assi orizzontali inchiodate ciascuna su due verticali. Non appena il primo crepuscolo alitava alla finestra, Deborah accendeva le candele nei candelieri di alpaca, si copriva il viso con le mani e pregava. Suo marito arrivava nel suo abito nero di seta, il pavimento gli splendeva incontro, giallo come sole fuso, il suo viso riluceva più bianco del solito, più nera che nei giorni feriali s’abbuiava anche la barba. Si sedeva, intonava un canto, poi genitori e figli sorseggiavano la minestra calda, sorridevano ai piatti e non dicevano una parola. Il calore saliva nella stanza. Si levava dalle pentole, le scodelle, i corpi. Le candele da pochi soldi nei candelieri di alpaca non resistevano, cominciavano a piegarsi. Sulla tovaglia rosso mattone a quadri azzurri gocciolava stearina e in un attimo si rapprendeva. Veniva spalancata la finestra, le candele si rinfrancavano e ardevano tranquille incontro alla loro fine. I bambini si stendevano sui pagliericci vicino alla stufa, i genitori restavano ancora a sedere e fissavano con preoccupata solennità le ultime fiammelle azzurre che guizzavano dalle cavità dei candelieri e ricadevano mollemente ondulate, un gioco d’acqua fatto col fuoco. La stearina bruciava lentamente, esili fili di fumo azzurro salivano dai residui carbonizzati degli stoppini verso il soffitto. Ah! sospirava. Non sospirare! le ricordava Mendel Singer. Tacevano. Dormiamo. Deborah! raccomandava. E cominciavano a mormorare una preghiera serale.

Così alla fine di ogni settimana iniziava il sabbat, con silenzio, candele e canto. Ventiquattr’ore più tardi sprofondava nella notte che guidava il grigio corteo dei giorni feriali, una ridda di affanni.

Un giorno caldo nel colmo dell’estate, verso le quattro del pomeriggio, Deborah partorì. Le sue prime grida investirono la cantilena dei dodici scolaretti. Andarono tutti a casa. Cominciarono sette giorni di vacanza. Mendel ebbe un altro bambino, il quarto, un maschio. Otto giorni dopo fu circonciso e chiamato Menuchim.

Menuchim non ebbe una culla. Penzolava in un cesto di vimini nel mezzo della stanza, fissato con quattro canapi a un gancio nel soffitto, come un lampadario. Mendel Singer di quando in quando toccava con un dito leggero, non indifferente, il cesto sospeso, che subito cominciava a dondolare. Questo movimento a volte placava il neonato. Talora però non serviva affatto contro la sua voglia di piagnucolare e strillare. Il gracidio della sua voce sormontava le voci dei dodici scolaretti, suoni profani e sgraziati che si sovrapponevano ai sacri versetti della bibbia. Deborah saliva su uno sgabello e tirava su il neonato. Bianchi, turgidi e colossali erompevano i suoi seni dalla blusa aperta e attiravano prepotentemente gli sguardi dei ragazzi. Sembrava che Deborah allattasse tutti i presenti. I suoi stessi tre figli maggiori le stavano intorno, gelosi e avidi. Scendeva il silenzio. Si sentiva il neonato succhiare.

I giorni si allungarono in settimane, le settimane diventarono mesi, dodici mesi fecero un anno e

     Proseguite per conto vostro la lettura o la rilettura di questo bel romanzo che s’inserisce a pieno titolo sul nostro sentiero. Come si articola il dibattito sulla separatezza, sulla perugìa, come si evolve e quali sono le conclusioni a cui porta? E dove conduce questo sentiero sul quale stiamo, da settimane, rincorrendo la parola ekklesia? Vedete, l’alfabetizzazione culturale e funzionale propone percorsi didattici che vanno affrontati con pazienza! Con la proverbiale pazienza di Giobbe!

     Il viaggio continua: la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 28, 2011