Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale] 9-10-11 febbraio 2011
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO
C’È IL CONCETTO DELLA SACRALITÀ DELL’OSPITALITÀ …
Siamo sempre in cammino sull’impervio sentiero che attraversa il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico” e che conduce verso la parola-chiave “ekklesìa”. Il nostro compagno di viaggio Paolo di Tarso matura il suo pensiero spostandosi da un’ekklesìa all’altra e quindi noi dobbiamo sapere che cosa sono le “ekklesìe” (le assemblee): per ora sappiamo che si tratta di strutture leggere, flessibili, liquide, nate nell’ambito della diaspora ebraica.
Abbiamo capito che l’impervio sentiero che stiamo percorrendo ci serve per conoscere com’è strutturata la mente di Paolo di Tarso. A che punto ci troviamo del nostro cammino? Ci troviamo nel momento in cui prende forma lo “storico compromesso” tra la cultura dell’ellenismo e quella dell’ebraismo.
Lo “storico compromesso” tra la cultura dell’ellenismo e quella dell’ebraismo ha preso forma nel corso del dibattito sulla “perugìa” (separatezza) di cui ci stiamo occupando e abbiamo già affermato la scorsa settimana che non è un paradosso – come potrebbe sembrare – il fatto che un dibattito sulla “separatezza” porti ad un “compromesso”: sappiamo, infatti, che il concetto della “separazione” è diverso da quello della “separatezza” e difatti, in greco, si usano due parole diverse per definire questi due concetti. In greco la parola “separazione” corrisponde al termine “distemi, distemi” che rimanda all’idea di “divisione”, mentre la parola “separatezza” corrisponde al termine “diaspra, diaspra” ed è questa la parola con la quale è stato tradotto in greco il termine ebraico “perugìa”: con una parola che rimanda all’idea di “distinzione”, non tanto, quindi, al concetto del “dividersi” per “scontrarsi” ma del “distinguersi” per “confrontarsi”.
Abbiamo detto che lo “storico compromesso” tra la cultura dell’ellenismo e quella dell’ebraismo ha preso forma sulla scia di una domanda fondamentale che ha sempre accompagnato le varie fasi del dibattito sulla “perugìa (separatezza)”: «Ma perché noi Ebrei dobbiamo allontanare coloro i quali si avvicinano alle nostre comunità? La loro curiosità non mette a repentaglio le nostre tradizioni, anzi, è probabile che vengano esaltate». Non dobbiamo fare l’errore – abbiamo detto – di considerare questo interrogativo come se fosse una domanda banale perché non era così facile trovare una soluzione al problema (pensate a quanto sia difficile oggi far avvicinare culture diverse). La “separatezza integrale” delle comunità ebree dal resto della società ellenistica era considerata fondamentalmente un fatto negativo e, difatti, veniva considerato un atteggiamento negativo da parte della maggioranza, però non si potevano introdurre i “non-Ebrei” nella comunità a causa del testo di un midrash, a causa del racconto cerimoniale contenuto nei Libri della Genesi e dell’Esodo, in cui è chiaro il fatto che Dio aveva stipulato il patto (la berit) proprio con i membri di questo popolo. Il racconto definisce precisamente come “popolo eletto” i discendenti di Abramo e quando studieremo, strada facendo, – abbiamo detto – il testo della Lettera di Paolo di Tarso inviata ai Galati ci renderemo conto di come questo problema abbia un notevole peso e di come Paolo, con grande abilità, trovi una soluzione esaltando l’importanza di essere discendenti di Abramo e dilatando – estendo a tutti gli esseri umani – questa discendenza.
Gli Ebrei delle comunità della “diaspora”, anche se in maggioranza considerano un fatto negativo l’essere “separati” dalle società civili delle città nelle quali vivono, tuttavia si trovano però ideologicamente chiusi in questo recinto ideologico e capiscono anche che star chiusi in un recinto non è un fatto produttivo. E allora – si domandano – che fare?
I “non Ebrei”, le cittadine e i cittadini delle grandi città dell’Ellenismo che si avvicinano al recinto delle comunità della “diaspora” curiosi del midrash, interessati a conoscere il significativo racconto della storia – il grande romanzo della Genesi e dell’Esodo – che narra del “patto” stipulato con il Dio d’Israele, cominciano a “esistere” quando a queste persone – abbiamo detto – viene attribuito un nome che li definisce perché nella cultura beritica (biblica) le parole fanno esistere le cose (sapete che in ebraico i termini “parola” e “cosa” corrispondono alla stessa parola: dabar”) e, quindi, sono i nomi che fanno esistere le persone. E il nome con cui vengono chiamati i “non Ebrei” che si avvicinano, con rispettosa curiosità, alle comunità della “diaspora” corrisponde – come abbiamo studiato la scorsa settimana – ad una parola greca, la parola “metùentoi”, un termine che viene tradotto con l’espressione: “ospiti, timorati di Dio”. Ripetiamo l’etimologia di questa parola: il termine “metùentos”, al singolare, è una parola formata da “entos” che viene tradotto con l’espressione: “pensare di essere”. Poi troviamo, in testa alla parola, il termine “metùs” che deriva dal verbo “metèin” che significa “temere, avere timore”, quindi il “metùs” è una persona “timorosa, timorata”. Di conseguenza “metùentos” significa letteralmente: “colui – o colei – che pensa di essere timorato” cioè “sotto la protezione di Dio”. E perché, allora, a questo termine è stato dato, prima di tutto, il significato di “ospite”? Perché un “ospite” è una persona che, in nome di Dio, si affida alle cure di un’altra persona.
La scorsa settimana, al termine dell’itinerario, ci siamo domandate e domandati: la parola greca “metùentos”, “l’ospite timorato di Dio”, che storia ha? Questa parola – così come ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica – ha una storia interessante e complessa e per raccontarla dobbiamo percorrere un sentiero collaterale a quello principale e questa passeggiata filologica la faremo fra poco.
Ora, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, – sulla scia della parola “ospite” – puntiamo ancora l’attenzione sul testo di un romanzo che merita di essere letto. Questo romanzo – come sappiamo – è stato tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1989 e questo è stato un significativo evento letterario. Questo romanzo s’intitola Le braci ed è stato scritto nel 1942 dallo scrittore di origine ungherese Sándor Márai che conosciamo.
Sándor Márai (1900-1989) è uno scrittore di origine ungherese che va annoverato tra i grandi maestri della narrativa mitteleuropea del secolo scorso (insieme a Kafka, a Musil, a Roth, a Proust, a Canetti). Màrai ha scritto i suoi romanzi sempre in lingua ungherese anche se in Ungheria le sue opere hanno circolato per molti anni clandestinamente. Oggi molti romanzi di questo scrittore sono stati tradotti in italiano e li troviamo in biblioteca e, quindi, li possiamo leggere: e vale la pena leggerli.
Il romanzo Le braci – e questa è una caratteristica di tutti i romanzi di Sándor Márai –è uno straordinario monologo esistenziale: una profonda riflessione sul senso che ha la vita e la morte. Dopo quaratun anni due uomini, che da giovani sono stati inseparabili tornano ad incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi.
Noi abbiamo incontrato questo romanzo sulla scia della parola “ospite” perché i due principali personaggi sono “ospiti” nel senso più profondo che questo termine possiede: dobbiamo ricordare che si usa questo termine tanto per definire chi è ospitato quanto per definire chi ospita e dobbiamo anche tener conto del fatto che c’è ospite e ospite perché gli ospiti – nonostante la parola che li definisce sia sempre la stessa – non hanno tutti la medesima qualità.
Lo scrittore comincia proprio la sua narrazione – come abbiamo letto la scorsa settimana – operando una distinzione qualitativa sul significato di questa parola proprio come fa la lingua greca: in greco c’è la parola “xénos” che definisce un “ospite qualunque([considerato poco timorato sul quale si può anche infierire)” e poi – come sappiamo – c’è la parola “metùentos” che definisce “l’ospite timorato (da tutelare)”.
Nell’itinerario scorso abbiamo letto l’incipit de Le braci e abbiamo incontrato Nini (ve la ricordate?) – una straordinaria e potente figura che ricorda le donne bibliche per il modo in cui lo scrittore la descrive –: anche Nini è un’ospite, un’ospite “timorata”. Il personaggio di Konrad, per lettera, ha annunciato il suo arrivo ed è lui l’ospite atteso. E noi leggeremo il testo di questo romanzo fino all’arrivo dell’ospite al castello dove lo attende il generale, ma prima l’autore – con grande abilità narrativa – ci porta a conoscere la storia della famiglia del generale, dell’ospite ospitante, che si chiama Henrik.
Sándor Márai vuole mettere in evidenza che la condizione dell’attesa mette in moto la memoria: noi siamo ospiti della nostra memoria. E come facciamo ad ospitare la nostra memoria? Per esempio, scrivendo quattro righe al giorno di autobiografia.
E adesso leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Sándor Márai, Le braci (1942)
Fino alle cinque, dalla sua stanza non giunse alcun segno di vita. A quell’ora suonò per chiamare il valletto e gli chiese di preparargli un bagno freddo. Aveva mandato indietro il pranzo, accontentandosi di una tazza di tè freddo. Stava sdraiato sul sofà, nella stanza immersa nella penombra. Al di là delle pareti fresche ronzava e fermentava l’estate. Nel dormiveglia percepiva il ribollire della luce, lo stormire delle fronde avvizzite nelle folate calde e i mille rumori del castello.
… continua la lettura …
Continueremo a leggere questo significativo romanzo finché l’ospite non arriva.
La scorsa settimana, al termine dell’itinerario, ci siamo domandate e domandati che storia abbia la parola greca “metùentos” che significa “l’ospite timorato di Dio”. Questa parola – così come ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica – ha una storia interessante e complessa e per raccontarla dobbiamo percorrere un sentiero collaterale a quello principale che ci deve portare davanti al paesaggio intellettuale che contiene la parola-chiave “ekklesìa”, una parola che stiamo inseguendo da settimane e, fra un po’, probabilmente, raggiungeremo la meta e quindi facciamola questa passeggiata filologica!
La parola “metùentos, l’ospite timorato di Dio” – di cui abbiamo studiato l’etimologia – è stata utilizzata dai traduttori in greco del Libro della Genesi che con questa parola hanno tradotto il termine ebraico “gher toshav” che troviamo nel grande racconto della storia di Abramo. Con il termine “gher toshav” viene indicato “l’ospite non ebreo ma tuttavia degno di essere preso in grande considerazione perché l’ospitalità è sacra”. Ma ragioniamo con ordine.
Il termine greco “metùentoi, gli ospiti timorati di Dio” diventa, quindi, il nome che definisce quelle cittadine e quei cittadini non-ebrei che guardano con interesse alla cultura beritica (biblica) e che, alla fine del III secolo a.C., in età ellenistica, costituiscono una categoria influente che si colloca intorno alle sinagoghe, intorno alle comunità ebraiche. Molti membri di questa categoria si avvicinano sempre di più alla cultura “beritica” fino ad assumere le caratteristiche dei proseliti anche se l’ebraismo – secondo la logica della “separatezza” – non vuole fare proselitismo.
Questi sedicenti proseliti o semiproseliti – che mantengono la loro mentalità sincretica – guardano con favore alle idee della cultura beritica e ai rituali del mondo ebraico, anche se, naturalmente, non si permette loro di accedere al rito della circoncisione, né al rispetto del riposo del Sabato, né vengono ammessi alla frequentazione della Sinagoga per la lettura e la spiegazione della torah. Questi elementi non vengono loro concessi perché sono considerati patrimonio esclusivo degli Ebrei e i metùentoi, in verità, non sentono la necessità di seguire queste regole. Dobbiamo dire però che i traduttori in greco dei Libri dell’Antico Testamento compiono un vero e proprio salto di qualità a designare queste cittadine e questi cittadini non-Ebrei con l’espressione ebraica “gher toshav”.
Abbiamo detto che l’espressione “gher toshav” – che conferisce un ruolo di qualità alla categoria dei proseliti che si avvicinano alla cultura dell’ebraismo – viene dal Libro della Genesi e dal Libro dei Salmi. Perché questa espressione, “gher toshav” – che definisce le cittadine e i cittadini non-Ebrei che si avvicinano alla cultura “beritica” – viene definita un salto di qualità, un atto di emancipazione e un grande riconoscimento? Intanto abbiamo detto che l’espressione “gher toshav” significa l’ospite che non appartiene propriamente al popolo ebreo ma che va trattato col massimo rispetto perché dietro alle “sembianze dell’ospite”, spesso – e qui entriamo nel terreno del mito –, si cela l’immagine del soprannaturale, del divino, del sacro, di Dio stesso. L’uso di questa espressione, utilizzata per definire i non-ebrei che si ritengono proseliti dell’ebraismo, serve per attribuire un “riconoscimento forte” della loro identità e della loro presenza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole – elogio, ricompensa, segno di stima, premio, contraccambio, compenso – mettereste per prima accanto alla parola “riconoscimento”?…
Scegliete e scrivete quattro righe in proposito sul tema della “riconoscenza”…
E adesso – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – andiamo a leggere un brano nel quale si trova espressa in modo significativo la parola-chiave “gher toshav”: leggendo questo testo si capisce perfettamente quale importanza, nel II secolo a.C., in età ellenistica, viene data alle persone che si avvicinano alla cultura “beritica” e che nutrono una rispettosa curiosità per la Letteratura biblica che, nel frattempo, viene tradotta o composta in greco. Leggendo questo brano ci rendiamo conto che gli “ospiti (non-Ebrei) timorati di Dio” vengono ad assumere un ruolo dando origine ad una vera e propria categoria: una categoria alla quale, più di due secoli dopo, si rifà Paolo di Tarso quando pensa che il muro della “separatezza” tra Ebrei e non-Ebrei debba essere abbattuto del tutto.
Il primo brano in cui troviamo l’espressione “El, gher toshav” – un’espressione che va tradotta letteralmente con le parole: “Signore, mio ospite” – fa parte del capitolo 18 del Libro della Genesi. Questo, di cui stiamo parlando, è un testo letterario bellissimo – che abbiamo, a suo tempo, già preso in considerazione più di una volta – dove si racconta la seconda promessa che Abramo e Sara ricevono dal Signore (El) di avere un figlio, e il Signore-Dio appare, come un “ospite sotto le sembianze di tre viandanti”, che nel capitolo successivo, il capitolo 19 del Libro della Genesi, diventano “due angeli col Signore”.
È questo un esempio formidabile di “racconto cerimoniale”, mitico, che non può avere una coerenza logica perché il genere letterario di cui fa parte è quello della “fiaba (il genere letterario più potente che ci sia, come ci ha insegnato lo studioso Vladimir Propp)” ma gli scrivani che hanno costruito questo testo dimostrano anche di possedere già un fortissimo senso per il costruire il “romanzo”. Troviamo, difatti, in questo racconto delle sfumature umane, psicologiche, che diventeranno patrimonio dello stile del genere letterario del romanzo moderno e contemporaneo, e la Scuola non insisterà mai abbastanza sull’importanza di studiare e di leggere i testi della Letteratura beritica (biblica) come esercizio propedeutico alla lettura dei “romanzi”: e tutto ciò per ribadire, ancora una volta, che questa offerta formativa fatta dalla Scuola pubblica degli Adulti è – per sua natura istituzionale – un Percorso di alfabetizzazione culturale in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
E adesso leggiamo questo brano – dal capitolo 18 del Libro della Genesi – nel quale emerge la parola-chiave “gher toshav” che viene tradotta col termine greco “metùentos” che significa “l’ospite timorato di Dio, sotto la protezione della divinità”, da trattare come se fosse Dio stesso. Questa pagina è famosa anche per l’ironia che rasenta la comicità di taglio romanzesco.
LEGERE MULTUM ….
Libro della Genesi 18, 1-15
Abramo abitava presso le querce di Mamre. Un giorno, nell’ora più calda, mentre stava seduto all’ingresso della sua tenda, gli apparve il Signore sotto le sembianze di tre viandanti. Abramo alzò gli occhi e vide tre uomini in piedi, davanti a lui. Appena li vide dall’ingresso della tenda, subito corse loro incontro, si inchinò fino a terra e disse: «Signore [El], mio ospite [gher toshav], ti prego, non andare oltre. Fermati. Sono qui per servirti. Vi farò subito portare dell’acqua per lavarvi i piedi. Intanto riposatevi sotto quest’albero. Poi vi darò qualcosa da mangiare. Dopo esservi ristorati potrete continuare il vostro viaggio. Non dovrete essere passati di qui inutilmente». «Va bene, risposero, fa come hai detto». Abramo entrò in fretta nella tenda, da Sara. «Presto, le disse, impasta tre razioni di fior di farina e prepara alcune focacce». Poi corse dove teneva gli animali, scelse un vitello tenero e buono e lo diede a un servitore che subito si mise a prepararlo. Prese del burro, del latte, la carne che era stata preparata e portò tutto agli ospiti. Mentre essi mangiavano sotto l’albero, egli stava in piedi accanto a loro. Alla fine gli chiesero: «Dov’è tua moglie Sara?» «Nella tenda», rispose Abramo. Il Signore disse: «Io ritornerò sicuramente da te l’anno prossimo e allora tua moglie Sara avrà un figlio». Sara stava ascoltando all’ingresso della tenda, dietro ad Abramo. Essa si mise a ridere tra sé, perché sia lei che il marito erano molto vecchi. Sara sapeva che il tempo di aver figli era passato, e si domandava: «Posso ancora mettermi a fare l’amore? E mio marito, vecchio com’è, anche lui?». Allora il Signore disse ad Abramo: «Perché Sara ride? Pensa davvero di non poter aver figli nella sua vecchiaia? Vi è forse qualche cosa di impossibile per il Signore? Quando tornerò da te, fra un anno. Sara avrà un figlio!».
Sara ebbe un po’ di paura e perciò disse una bugia: «Non ho riso», affermò. «E invece sì, hai proprio riso», le rispose l’altro. …
Nascerà Isacco, “Colui che ride, che ha riso, che riderà”.
La lettura del brano contenuto nei primi quindici versetti del capitolo 18 del Libro della Genesi ci serve per sintetizzare tutto il ragionamento progressivo che abbiamo elaborato, itinerario dopo itinerario, in diverse settimane di cammino. Questa riflessione ci ha portate e ci ha portati a capire che le persone, appartenenti alla categoria dei simpatizzanti della cultura dell’ebraismo, le quali, dal III secolo a.C., decidono di avvicinarsi alle comunità e alle sinagoghe, vengono “integrate con onore”, ma non vengono “assimilate” all’ebraismo, quindi, non può essere la sinagoga il punto di incontro tra Ebrei e “Gher toshav, ospiti timorati di Dio”; però, siccome ad un certo punto diventa necessario incontrarsi tutti insieme – e poi questo incontrarsi diventerà periodico, diventerà un avvenimento costante di carattere cultuale e anche rituale – ecco che si sente l’esigenza di far nascere una “nuova struttura” perché Ebrei e “Gher toshav, ospiti (non Ebrei) timorati di Dio” possano incontrarsi “in assemblea”.
Questa “cosa”, questa “struttura di incontro”, che non è una comunità ebraica (perché all’interno della comunità ebraica i non-Ebrei non possono entrare), che non è un luogo di culto pagano (perché in un luogo di culto pagano gli Ebrei non entrano per non contaminarsi), si presenta come “qualcosa di nuovo (un nuovo germoglio)” che affonda però le sue radici nella tradizione, in un antico strato (di coltura) culturale: e difatti la nuova “struttura di incontro” tra Ebrei e “Gher toshav, ospiti (non-Ebrei) timorati di Dio” si forma gradualmente (ci vuole circa un secolo) un po’ come se fosse “l’assemblea del popolo davanti a Dio” e questa significativa immagine proviene dal Libro dell’Esodo e, come ben ricordate, abbiamo già studiato questo tema. Infatti sappiamo che nel Libro dell’Esodo “l’assemblea del popolo riunito davanti a Dio” corrisponde al termine ebraico “qahal” e la parola ebraica “qahal” verrà tradotta in greco con la parola “ekklesìa”. Quindi, in età ellenistica, dal III secolo a.C., le “assemblee” formate da Ebrei della “diaspora” e da non-Ebrei che si avvicinano, con rispettosa curiosità, alla cultura “beritica (biblica)” prendono il nome di “ekklesìe”. Finalmente, dopo un lungo e complicato itinerario, siamo giunte e siamo giunti davanti al paesaggio intellettuale che contiene la parola-chiave “ekklesìa”…
Quante settimane sono che rincorriamo questa parola-chiave per comprenderne la storia? Ma questi sono i tempi necessari allo studio e alla riflessione intellettuale: non ci sono, sui sentieri culturali di carattere filologico in funzione della didattica della lettura e della scrittura, delle scorciatoie: noi abbiamo semplificato molti passaggi dove il dibattito tra specialiste e specialisti in materia ci porta lontano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola “scorciatoia” sul piano della riflessione intellettuale ha un significato, ha però anche un significato sul piano materiale e geografico e, in questo caso, spesso le “scorciatoie” sono utili…: Chissà quante “scorciatoie” avete preso nel corso della vostra vita sul territorio dove avete vissuto: quante “scorciatoie” ci sono nei vostri ricordi?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Riprendiamo il cammino sulla strada maestra dicendo che gli Ebrei che si oppongono alla traduzione in greco dei Libri dell’Antico Testamento – i cosiddetti “controtraduzionisti” che osteggiano i “filotraduzionisti” (i temi legati a questo scontro epocale li abbiamo studiati nel Percorso sulla “sapienza poetica beritica” nell’anno 2007-2008) – non sono scandalizzati tanto per l’uso di una lingua che non è l’ebraico (sappiamo che gli autori controtraduzionisti hanno composto opere meravigliose scritte in greco e qualcuna di queste opere la incontreremo strada facendo), ma soprattutto sono scandalizzati per l’apertura che, certe parole, creano con il mondo dell’Ellenismo e temono di perdere l’identità. Bisogna prendere atto che il tradurre la parola “qahal” – che significa “l’assemblea del popolo eletto che si riunisce davanti a un Dio che ha scelto proprio quel popolo” –con la parola “ekklesìa”, che definisce “un’assemblea” di Ebrei e di non-Ebrei, di circoncisi e di non circoncisi, di monoteisti e di sincretici, risulta essere assai trasgressiva da parte degli scrivani che hanno condotto l’esercizio della traduzione. Dobbiamo capire, ancora una volta, quanto straordinaria e coraggiosa sia stata l’operazione culturale (e ne parleremo ancora, perché è sicuramente l’iniziativa intellettuale più importante dell’Ellenismo) di traduzione in greco dei Libri dell’Antico Testamento.
Abbiamo percorso un lungo e impervio sentiero per giungere dinnanzi a questo paesaggio: ci rendiamo conto che studiare è un continuo itinerario di ricerca frutto di un ragionamento progressivo utile per legare l’uno all’altro diversi frammenti intellettuali e per dipanare significativi intrecci filologici. Tutte le idee che sono emerse strada facendo, tutti i diversi “frammenti culturali” che abbiamo ricucito insieme per costruire la trama che ci ha portate e che ci ha portati davanti al paesaggio intellettuale che contiene la parola “ekklesìa”, sono ben presenti nella mente di Paolo di Tarso. Tutti i temi del ragionamento su cui, punto per punto, abbiamo riflettuto – nel tempo che va dalla morte di re Salomone(nel X secolo a.C.) fino alla morte di Alessandro Magno (nel IV secolo a.C.) – sono i temi che hanno contribuito alla formazione culturale di Paolo di Tarso: il tema del riunirsi in “assemblea” per discutere di dottrina, il tema di discussione sulla differenza tra la “separazione” e la “separatezza”, il tema del rapporto con i non-Ebrei e il tema della sacralità dell’ospitalità, tanto per citare i temi più caldi. Se leggiamo Le lettere di Paolo di Tarso senza percorrere un itinerario propedeutico che metta al centro della riflessione questi temi – lo sapete – rischiamo di non conoscere il significato delle parole-chiave fondamentali, di non capire il senso delle idee più significative e, di conseguenza, di non avere motivi per applicarci nell’esercizio della lettura, della scrittura e della ricerca.
A proposito di “frammenti intellettuali” e di “intrecci filologici” in funzione dell’esercizio della lettura, della scrittura e della ricerca in relazione al tema che stiamo affrontando (e di grandissima attualità) della “sacralità dell’ospitalità” non possiamo, questa sera, rinunciare a fare dell’esegesi letteraria riproponendo un oggetto culturale che quasi tutte e quasi tutti voi, immagino, ben conoscete ma il desiderio di ripassare è patrimonio psicologico di chi studia, di chi si prende cura. Ma come dicevano gli ellenisti latini? Dicevano, proprio nell’età dell’Ellenismo: «Repetita iuvant (questo modo di dire è tipico dell’età ellenistica), le cose ripetute sono di giovamento per l’intelletto».
Avete sicuramente già visto che in REPERTORIO… c’è il testo di un brano che tante volte abbiamo preso in considerazione e che adesso ci è utile per fare un esercizio di Letteratura comparata sul grande tema della “sacralità dell’ospitalità”, un tema sul quale le Letterature ci hanno lasciato una testimonianza umana molto forte: l’ospite è sacro! Questo è uno dei princìpi che l’Umanità, dall’Età assiale della Storia, si è dato. Questo principio, che viene insegnato come un “comandamento”, va rispettato! Dopo aver letto, nel capitolo 18 del Libro della Genesi, il racconto (tratto dalla saga di Abramo e di Sara) che rende sacra l’ospitalità nella cultura mesopotamica ed ebraica, vediamo ora come questo tema venga ripreso “similmente” dalla cultura ellenistica. Per fare questo esercizio ci rifacciamo ad uno dei 246 episodi che ci racconta (uno dei nostri abituali compagni di viaggio) il poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera intitolata Le metamorfosi.
Duemilacinquecento anni fa la cultura dell’ebraismo di stampo mesopotamico e la cultura ellenica di stampo ionico trattano già il “tema dell’ospitalità” negli stessi termini per dichiarare che “l’ospitalità è sacra”. Questo concetto lo troviamo espresso in molte della grandi opere dell’Età assiale della Storia: nel Libro della Genesi, nel Libro dell’Esodo, nell’Iliade, nell’Odissea, nelle Opere di Esiodo, tanto per citarne qualcuna. Ovidio, ne Le metamorfosi – quest’opera è stata scritta nel 3 d.C., e Ovidio (lo sappiamo) è contemporaneo di Paolo di Tarso – ci riporta anche, tradotta in latino (in esametri), la tradizione greca sul “comandamento dell’ospitalità”: l’ospitalità è sacra, l’ospite va accolto chiunque esso sia, e chi non rispetta questo comandamento, chi non riconosce questo principio, chi non dà credito a questo valore, sarà punito.
Non credo sia il caso di parlare a lungo (è possibile che qualcuna o qualcuno di voi lo gradisca ma non mancheranno altre occasioni per farlo) de Le metamorfosi di Ovidio perché da un quarto di secolo facciamo l’esegesi di quest’opera! Le metamorfosi di Ovidio è un’opera di bellissima poesia latina in XV libri, scritta con lo stile del romanzo: non è un’opera di facile lettura e ci si deve avvicinare ad essa con le dovute precauzioni. Ovidio è un vero artista nel tradurre le “passioni umane” e il testo de Le metamorfosi corrisponde a uno dei più grandi romanzi che siano stati scritti, dal quale, nel corso dei secoli, tutte le scrittrici e tutti gli scrittori hanno preso spunto in modo esplicito. Quasi tutte e tutti noi siamo stati poi con Ovidio – che è nato a Sulmona nel 43 a.C., – in esilio a Tomi sul mar Nero (vicino alla città di Costanza, in Romania): lì Ovidio è stato esiliato da Augusto nell’anno 8 d.C. e lì è dovuto rimanere fino alla sua morte avvenuta intorno al 17 d.C.. Ovidio è stato esiliato per un motivo di cui non si hanno notizie certe.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
A questo proposito molte e molti di voi hanno letto il bellissimo romanzo intitolato Dio è nato in esilio scritto dall’ antichista rumeno [esiliato a Parigi] Vintila Horia e se ne consiglia la lettura e la periodica rilettura…
Il brano che adesso, ancora una volta, vogliamo leggere è il famosissimo episodio di Filemone e Bauci, tratto dal Libro VIII de Le metamorfosi dal verso 624 al verso 720. Più di una volta abbiamo raccontato questa “fabula” dove si narra che due anziani coniugi, Filemone e Bauci, semplici e poveri, sanno onorare il “comandamento dell’ospitalità” che i loro concittadini benestanti invece non rispettano. Soprattutto sono due persone che sanno onorare l’ospitalità l’una nei confronti dell’altra dando una lezione perfino agli dèi: ricordate come si conclude questo bellissimo racconto? Ora lo rileggiamo.
In questa “fabula” si racconta che Zeus (o Iuppiter in latino, o Giove in italiano), accompagnato da Ermes (Mercurio), per mettere alla prova gli esseri umani sulla loro capacità di accoglienza, si presentano in una cittadina della Frigia, sotto mentite spoglie, nei panni – poco rassicuranti – di due mendicanti e vengono scacciati in malo modo da tutti gli abitanti ai quali si presentano a chiedere ospitalità. Solo Filemone e Bauci, che vivono dei prodotti del loro campicello ai margini del villaggio in una casetta molto pittoresca (un rustico che tutti vorremmo abitare nei fine settimana) li accolgono con favore: gli abitanti di quel posto vengono puniti severamente e i due anziani coniugi vengono premiati e quando vengono invitati dagli dèi a scegliersi il premio scelgono di esaltare il concetto di “ospitalità” privilegiando il fatto che l’idea dell’ospitalità deve evidenziare un elemento fondamentale: l’argine contro la dispersione, la possibilità di potersi comunque ritrovare, nonostante la morte.
Ma lasciamo che sia Ovidio a narrarci questa “fabula” – dai risvolti inattesi – che ci fa riflettere:
LEGERE MULTUM ….
Publio Ovidio Nasone, Le metamorfosi Libro VIII, 624-720
In Frigia c’è uno stagno, che si stende su una terra che un giorno fu abitata.
Oggi questa terra dalle acque è invasa e da uccelli palustri è frequentata.
Qui, un giorno, dopo aver preso un umano aspetto, si presentano Giove e Mercurio.
Bussano a tutte le case per domandare l’ospitalità, per poter riposare una notte
al coperto, protetti dai rigori del freddo e dall’umidità, ma tutti la porta in faccia chiudono loro senza alcuna pietà.
Sono accolti soltanto in una piccola casa da due vecchietti, Filemone e Bauci,
che han sempre poveramente vissuto, ma che,
con animo sereno, accettano la loro condizione, perché è stato sempre bello vivere lì,
affrontando insieme giorno per giorno, nel bene e nel male, ogni situazione.
Filemone invita subito gli ospiti a prendere posto sulla loro unica panca scomoda,
sulla quale, prontamente, Bauci ha steso una vecchia coperta, morbida, anche se
un poco logora. Poi Bauci attizza il fuoco, rimovendo la cenere tiepida, e comincia
a darsi da fare per preparare la cena. Intanto chiacchierano in modo tale che
gli ospiti non sentano la noia fatale che procura l’attesa del pasto a chi è stanco per il cammino
ed ha fame. Bauci sistema la tavola, ma siccome una gamba è più corta, lei
ci mette sotto un coccio per renderla pari alle altre in modo da non farla ballonzolare
quando ci si voglia sedere. Filemone pulisce la tavola con un mazzetto di erbe aromatiche: il rosmarino, la salvia e la menta e poi la imbandiscono con tutte le cose che la loro dispensa poteva fornire a chi, ora, il morso sgradevole della fame
sullo stomaco senta. Depongono in tavola, con cura, i barattoli di olive nere e verdi,
delle corniole d’autunno sotto aceto, e un piatto con l’indivia e uno col radicchio leggermente amaro,
due piccole forme di cacio dolciastro, una tazza col latte cagliato un po’ asprino, e le uova cotte,
per un tempo giusto, nella cenere perché siano rapprese a puntino.
E poi, nelle scodelle, i fumanti legumi, appena cotti e insaporiti con un tocchetto di carne affumicata di suino che pende da un trave del soffitto.
Poi Filemone sulla tavola depone un cesto con le noci, i fichi secchi, i datteri,
le prugne, le mele cotogne e i grappoli di dolce uva fatta appassire sotto il tetto,
e infine un favo di miele profumato che dona la dolcezza al cuore ed al palato.
Al centro del tavolo da una caraffa di coccio si può attingere il vino nei bicchieri intagliati nel faggio,
ed è Bauci ad accorgersi per prima che la caraffa, sebbene non trasudi, si riempie da sé
tutte le volte che quasi sta per rimanere vuota, e lo dice
a Filemone che lì per lì non se lo sa spiegare e poi cominciano insieme a percepire
un intenso timore sacrale. Guardano gli ospiti e preoccupati chiedono perdono
del poco cibo e della frugale apparecchiatura. Filemone comincia a inseguire l’unica oca che, con cura,
faceva la guardia alla loro umile dimora, in modo da offrila ancora agli ospiti, ma essa,
svolazzando impaurita come se volesse dire che non ne vale
la pena perché la sua carne è oramai troppo dura, è più lesta di lui e si rifugia
tra le gambe degli dèi, speranzosa, mentre loro si manifestano in tutto lo splendore
che solo la forza divina sa dare a ogni cosa. Gli dèi ringraziano i due vecchi
per la loro meravigliosa semplice ospitalità, e maledicono i loro vicini inospitali
meritevoli di un severo castigo per non sapere che cosa sia la pietà.
Gli dèi invitano Filemone e Bauci a seguirli sulla cima dell’altura. Ed essi li seguono, pian pianino,
aiutandosi con i loro leggeri bastoni di mirto marino. Di lassù vedono che tutte le case
sono state sommerse in una palude infeconda e soltanto la loro casetta emerge dall’acqua stagnante che tutta la circonda.
Si rattristano molto per la sorte dei loro vicini e mentre li compiangono vedono la loro capanna
trasformarsi in un tempio per i vaticini. Allora Giove, sorridendo, chiede a loro che cosa desiderino davvero.
Filemone e Bauci si consultano e poi esprimono il loro pensiero. Domandano di poter diventare
i custodi del tempio e poi chiedono, quando l’ora fatale arriverà, di poter morire insieme nello stesso momento,
per non dover soffrire della perdita l’uno dell’altro che toglie la gioia e porta soltanto sgomento.
La loro richiesta è esaudita e un giorno Filemone e Bauci si vedono mentre l’un l’altro cominciano
a metter le fronde e vedono sui loro volti allungarsi la cima
di un albero e i loro piedi si radicano ben bene sul fianco della collina, allora
si prendono per mano e si scambiano parole d’affetto sincero fin quando non sono trasformati
ciascuno in un albero vero, e sono ancora là, a fare ombra a chi passa
per lo stagno di Tinta poco ospitale perché si sappia che Filemone e Bauci
l’ospitalità anche agli dèi, potenti ed eterni, hanno saputo insegnare. …
Credo non ci sia bisogno di sottolineare le affinità tra questa “fabula” che abbiamo letto ora e il racconto del Libro della Genesi che abbiamo letto poco fa: Filemone e Bauci sono, in un certo senso, eredi di Abramo e Sara.
E ora, prima di concludere, torniamo sul testo del romanzo di Sándor Márai, che stiamo leggendo, intitolato Le braci. Abbiamo detto che leggeremo il testo di questo romanzo fino all’arrivo di Konrad, l’ospite atteso al castello dove lo aspetta il generale.
L’autore – prima che Konrad arrivi e con grande abilità narrativa – ci porta a conoscere la storia della famiglia del generale, dell’ospite ospitante, che si chiama Henrik. Non sempre l’ospitalità è gradita, a volte crea seri problemi: Henrik, bambino, ha vissuto un’esperienza negativa in proposito ed è Nini, la balia, l’ospite timorata, che lo salva.
Inoltre dobbiamo ripetere che Sándor Márai vuole mettere in evidenza che la condizione dell’attesa mette in moto la memoria: noi siamo ospiti della nostra memoria. E come facciamo ad ospitare la nostra memoria? Scrivendo quattro righe al giorno di autobiografia. E ora leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Sándor Márai, Le braci (1942)
Il castello era un mondo a sé stante, come quei grandi e sfarzosi mausolei di pietra in cui languono le ossa di intere generazioni e si dissolvono le vesti funebri di seta grigia o panno nero di donne e uomini vissuti in altri tempi. Esso racchiudeva in sé il silenzio, come un recluso che vegeti esanime sulla paglia marcescente di un sotterraneo, con la barba lunga, vestito di stracci e coperto di muffe. Racchiudeva anche la memoria, la memoria dei defunti, che si annidava nei recessi più occulti, così come i funghi, le mucillagini, i pipistrelli, i ratti, gli insetti si annidano nelle cantine umide dei vecchi edifici. Le maniglie delle porte conservavano il tremito di una mano, l’emozione dell’attimo in cui essa aveva esitato a completare il suo gesto. Ogni dimora in cui le passioni abbiano investito con violenza le persone si riempie di questa sostanza caliginosa.
… continua la lettura …
Due cose dobbiamo dire: la prima riguarda la forma e la seconda il contenuto.
Per quanto riguarda la forma, lo stile di Sándor Márai ci fa capire bene – molto meglio di quanto facciano altre scrittrici e altri scrittori contemporanei – quale sia il risultato in Letteratura della fusione tra il racconto cerimoniale ebraico (il midrash) e l’elegia greca e latina: una fusione che comincia a svilupparsi in età ellenistica.
Per quanto riguarda il contenuto – e sempre a proposito di ciò che abbiamo detto per la forma – è significativo quello che abbiamo letto nell’ultima riga di questo brano: «Il fanciullo e la balia pensavano che a questo mondo vi era qualcosa in comune fra tutte le cose» e la cultura ebraica e la cultura greca entrano in contatto, sul territorio dell’Ellenismo, proprio perché “a questo mondo vi era qualcosa in comune fra tutte le cose”, e che cos’è questo “qualcosa” in comune? Questo “qualcosa in comune” – per noi che ragioniamo in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è “l’albero genealogico lessicale”, quel catalogo di parole-chiave e di idee-significative che sono, dal principio, patrimonio comune dell’Umanità: questo oggetto culturale – lo sapete – rappresenta la nostra bussola sul terreno dell’Apprendimento permanente, un terreno sul quale tutte le persone hanno il diritto e il dovere di viaggiare. Continueremo a leggere il significativo romanzo intitolato Le braci finché l’ospite atteso, Konrad, non arriva.
Questa sera, finalmente, abbiamo raggiunto il paesaggio intellettuale che contiene la parola-chiave “ekklesìa”. A questo proposito dobbiamo fare una ulteriore riflessione perché questo fatto – la comparsa delle ekklesìe sul territorio dell’Ellenismo – è molto importante per tutta una serie di motivi: culturali, sociali, politici, antropologici. Questo avvenimento – che si sviluppa e si concretizza nel giro di circa un secolo – ha delle ripercussioni che arrivano fino a Gerusalemme tanto da determinare un cambiamento nell’assetto della struttura del Tempio.
Il Tempio di Gerusalemme non può più rimanere tutto chiuso in se stesso e il Sinedrio – il Consiglio dei settantuno saggi con il Sommo Sacerdote – delibera sulla costruzione (sulla recinzione) del cosiddetto “cortile dei Gentili”: in questo spazio, come “ospiti (gher toshav)”, possono entrare anche i non-Ebrei. Questo spazio avrà un rilievo con la Letteratura dei Vangeli: Gesù di Nazareth – secondo la Letteratura dei Vangeli – agisce in questo spazio e Paolo di Tarso, nel suo Epistolario, ha rimarcato prima di tutti questo fatto.
Questa sera, finalmente, abbiamo raggiunto il paesaggio intellettuale che contiene la parola-chiave “ekklesìa” e qual è il rapporto che, nel I secolo d.C., ha Paolo di Tarso con le “ekklesìe” e che cosa conosce Paolo di Tarso della grande stagione culturale che si sviluppa dentro le “ekklesìe”? Possediamo alcuni testi, ci sono alcune opere letterarie, frutto di questa stagione di contiguità tra la cultura dell’Ellenismo e quella dell’Ebraismo. Nei testi di queste opere si possono trovare le forme e i contenuti che favoriscono il processo di formazione degli Ebrei della “diaspora” che la pensano come Paolo di Tarso. Ed è proprio studiando le forme e i contenuti di queste opere, scritte nell’ambito delle “ekkiesìe”, che Paolo di Tarso potrà elaborare le sue idee e il suo pensiero.
Quale cultura bolle nel pentolone delle “ekkiesìe”? E quali sono i testi e le idee che maturano nei grandi e vivacissimi dibattiti che si svolgono all’interno delle “ekkiesìe (delle assemblee che raccolgono Ebrei e non-Ebrei)” dove la cultura dell’Ellenismo e dell’Ebraismo si incontrano?
Ora è tardi per rispondere a queste domande che – proprio perché sono belle e sostanziose domande – presuppongono risposte complesse ed articolate. Cosa bolle nel pentolone delle “ekklesìe” lo scopriremo strada facendo perché il viaggio continua, e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…