Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale] 23-24-25 febbraio 2011
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO
C’È L’UTILIZZO DELLA PAROLA “OSPITE” NEI TESTI – “AI ROMANI”
E “AGLI EFESINI” – DELL’EPISTOLARIO DI PAOLO DI TARSO…
Riprendiamo il passo sul nostro sentiero che attraversa il territorio della “sapienza poetica ellenistica” e ci stiamo movendo, da ottobre, in quel vasto spazio di questo territorio che è stato chiamato: “di stampo evangelico”. Come sapete stiamo viaggiando in compagnia di Paolo di Tarso che è l’autore di una delle opere più significative della cultura ellenistica, un Epistolario, e sappiamo che l’Epistolario di Paolo di Tarso ha condizionato in modo determinante la Storia del Pensiero Umano e la Storia della Letteratura moderna e contemporanea.
In queste ultime settimane abbiamo studiato come Paolo di Tarso abbia partecipato con grande coinvolgimento – mentre viaggia da una ekklesìa all’altra (e noi sappiamo che sono le ekklesìe) –, al significativo dibattito in corso in età ellenistica sul tema della “condizione umana” (un tema sempre all’ordine del giorno) legato ad alcune domande fondamentali (che quotidianamente continuiamo a porci): come mai nel mondo domina il male? È possibile trovare una via di salvezza dal male? Il bene ha una sua forza propulsiva? In che cosa consiste il concetto che è stato denominato “Regno di Dio” o “Regno della Giustizia” da realizzare, possibilmente, su questa terra?
Paolo di Tarso è una persona che – nel corso del dibattito a cui partecipa con passione e con una sua linea di pensiero – sente la necessità e il bisogno intellettuale di raccogliere le sue posizioni “per iscritto” e di farle circolare: Paolo ha capito che la “scrittura” fa esistere le cose ed è convinto che quando scriviamo “usciamo dall’abisso della bestialità”. Questa frase – «Gli sembrava all’improvviso di essersi quasi strappato dall’abisso di bestialità in cui era sprofondato e di rientrare nel mondo dello spirito, compiendo questo atto sacro: scrivere» – l’abbiamo letta (come certamente ricordate) la scorsa settimana nel romanzo, di cui abbiamo letto due pagine, di Michel Tournier intitolato Venerdì o il limbo del Pacifico.
Paolo di Tarso è una persona che sente la necessità culturale e il bisogno intellettuale di raccogliere le sue posizioni per iscritto e di farle circolare e, oggi, la persona di Paolo di Tarso s’identifica con i testi delle sue Lettere.
E, a questo proposito, dobbiamo dire che le Lettere di Paolo di Tarso sono da considerarsi anche un importante “saggio”. L’Epistolario di Paolo di Tarso è da considerarsi un “saggio” perché è la più interessante testimonianza del significativo “dibattito culturale” che si è svolto nelle “ekklesìe” sul tema della “condizione umana”. Questa testimonianza, oggi, è molto preziosa, ed è uno dei motivi per cui è necessario studiare, nella Scuola pubblica, i testi di Paolo di Tarso. Le Lettere di Paolo sono state una testimonianza esemplare anche subito dopo la sua morte e sono state una guida, una bussola, per la generazione di Cristiani successiva a Paolo.
Noi sappiamo già (perché abbiamo già studiato questo tema) che i testi delle Lettere di Paolo, trent’anni dopo la sua morte, nelle mani dei cosiddetti Padri apostolici, a cominciare da Clemente Romano (dalla Scuola di sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico detta “Scuola Clementina”) e poi Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne (i cosiddetti Padri Apostolici), assumono nuovi connotati molto efficaci e fondamentali per lo sviluppo del pensiero e della dottrina del Cristianesimo, per cui la parola “ekklesìa” diventa una realtà “altra” e fortemente “propulsiva” rispetto a quella utilizzata da Paolo.
Nella Storia del Cristianesimo quando emerge la parola “ekklesìa” (chiesa)? La parola “ekklesìa (chiesa)” emerge, come se fosse una parola nuova, nel momento in cui si vuole dare un ruolo alla comunità degli Apostoli a Gerusalemme, ed è già una parola antica che raccoglie in sé tutta una tradizione culturale (un tema che abbiamo studiato). La “ekklesìa” di Gerusalemme, quella descritta dagli Atti degli Apostoli, è un’immagine mitica, è un concetto letterario, in realtà di questa comunità non c’è alcuna testimonianza storica precisa che affermi che sia esistita davvero: lo scrittore degli Atti degli Apostoli – e sappiamo che l’ultimo redattore di quest’opera viene dalla Scuola ellenistica di papa Clemente Romano e sappiamo che gli Atti degli Apostoli non sono un’opera storica ma un catechismo, il primo catechismo cristiano – utilizza il termine “ekklesìa” con intento apologetico per definire in modo autorevole, con la forza della tradizione, un’immagine significativa, quella degli “Apostoli riuniti in assemblea nel cenacolo (un’immagine che la Letteratura e l’Arte in generale ha codificato in molti modi)” e voi capite che questo termine non potrebbe essere più appropriato di così perché, attraverso l’uso di questa parola-chiave, “ekklesìa”, il Cristianesimo nascente s’incammina sulla scia di tutta la straordinaria storia su cui abbiamo puntato l’attenzione in queste settimane.
Sta di fatto che, alla fine del I secolo d.C., la parola “ekklesìa” rimane in eredità al Cristianesimo e ci rimane con ben tre secoli di storia alle spalle, con la storia eccezionale dell’incontro, della contiguità culturale tra Ebraismo ed Ellenismo. Quindi l’eredità culturale che il Cristianesimo riceve si accumula attraverso un’operazione intellettuale che dura lungamente nel tempo, un’operazione complessa e importantissima. Dobbiamo prendere coscienza del fatto che il substrato, l’humus della Letteratura europea (e mondiale) è costituito dai modelli che hanno preso forma nel corso di questa grande operazione culturale dalla quale è nato il pensiero, la cultura e la multiforme struttura del Cristianesimo. “Dobbiamo tirare giù – così come hanno detto i Padri Conciliari durante i lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II – il Cristianesimo dall’alto dei Cieli e metterci seriamente a studiare i temi del fenomeno culturale che ha rappresentato”. E il terreno di coltura del Cristianesimo è costituito – come stiamo studiando – dal vivacissimo dibattito che si sviluppa all’interno delle “ekklesìe”. E allora è fondamentale continuare a capire e a conoscere come si articola questa operazione culturale nei suoi vari segmenti.
Per fare questo è ancora necessario ritornare sui nostri passi per continuare ad osservare che cosa succede in questi laboratori culturali – in queste “assemblee” dove la cultura ebraica e la cultura ellenistica s’incontrano – che sono le “ekklesìe”. Dobbiamo conoscere i prodotti della cultura ebraica “che parla il greco” perché è all’interno di questo movimento culturale che nascono le Lettere di Paolo di Tarso. Prima di proseguire nello studio dei risultati raggiunti dalla cultura ebraica “che parla il greco” dobbiamo fare – secondo le regole dello studio – un esercizio di ripasso per (come si suol dire) rinfrescare la nostra memoria. Dobbiamo prendere atto di come una parola-chiave che abbiamo imparato a conoscere in queste ultime settimane sia passata da un testo all’altro determinando una situazione nuova: contribuendo a generare un paesaggio intellettuale rinnovato. Ci stiamo riferendo alla parola “ospite”.
Prima di andare avanti però dobbiamo dire che questa parola ci fa ricordare che, attraverso il testo di un romanzo, noi siamo in attesa dell’arrivo di un’ospite. Il romanzo in questione, come sapete, s’intitola Le braci scritto da Sándor Márai nel 1942 e tutte e tutti voi, ormai, conoscete tanto la fisionomia del romanzo quanto le caratteristiche dell’autore. Noi – come già sappiamo – leggeremo il testo di questo romanzo fino all’arrivo di Konrad che è l’ospite atteso al castello dove lo aspetta il generale che si chiama Henrik.
Sándor Márai vuole mettere in evidenza che la condizione dell’attesa mette in moto la memoria: noi siamo ospiti della nostra memoria. E come facciamo ad ospitare la nostra memoria? Scrivendo quattro righe al giorno di autobiografia. Sappiamo che l’autore, con grande abilità narrativa – prima che Konrad arrivi e i due protagonisti si rincontrino dopo quarantun’anni di lontananza e diano inizio a una lunga conversazione (ad un duello che ha il carattere del monologo) – ci porta a conoscere la storia del loro incontro, le vicende del loro intenso sodalizio giovanile, le caratteristiche della loro amicizia e anche i lati del carattere e le inclinazioni dei due protagonisti. Konrad è un artista (è anche parente di Chopin da parte di madre) e, quindi, non potrà mai essere un vero soldato: leggiamo.
LEGERE MULTUM ….
Sándor Márai, Le braci (1942)
Ma Konrad possedeva un rifugio dove l’amico non poteva seguirlo: la musica. Era come se disponesse di un nascondiglio segreto dove la mano del mondo non poteva raggiungerlo. Henrik non aveva orecchio musicale, si accontentava della musica zigana e dei valzer viennesi.
… continua la lettura …
Prima di proseguire nello studio dei risultati raggiunti dalla cultura ebraica “che parla il greco” dobbiamo fare – secondo le regole dello studio – un esercizio di ripasso per (come si suol dire) rinfrescare la nostra memoria. Dobbiamo prendere atto di come una parola-chiave che abbiamo imparato a conoscere in queste ultime settimane sia passata da un testo all’altro – un significativo “intreccio filologico” – determinando una situazione nuova: contribuendo a generare un paesaggio intellettuale rinnovato. Ci stiamo riferendo – come sappiamo – alla parola “ospite”.
Dove abbiamo osservato per la prima volta la parola “ospite”: vi ricordate? L’abbiamo trovata nel testo del Libro della Genesi in uno dei capitoli, il capitolo 18, che racconta la storia di Abramo, uno dei personaggi più importanti della Storia della Letteratura: Dio appare ad Abramo sotto forma di tre viandanti e Abramo si rivolge a Dio con il termine “gher toshav” che – come sapete – significa “mio ospite” e, a questo punto, anche Abramo, soprattutto Abramo (la figura letteraria di Abramo) diventa “l’ospite di Dio”. Ed è così che Abramo diventa il “capostipite” del popolo eletto (e sarà Paolo di Tarso nel suo Epistolario a far diventare Abramo il capostipite dell’Umanità intera) e questo non perché si è circonciso ma perché ha “ospitato Dio” credendo che fosse un semplice viandante, uno straniero, uno sconosciuto.
L’ospite – in tutte le tradizioni culturali dell’Età assiale della Storia – è “sacro” e si presenta sotto le mentite spoglie di Dio (abbiamo anche letto da “Le metamorfosi” di Ovidio la significativa fabula di Filemone e Bauci), l’ospite è “sacro” e gode della protezione di Dio: l’ospite è una persona che confida nell’assistenza di Dio e che si affida alla benevolenza di chi lo accoglie. Quando, dal III secolo a.C., i saggi scrivani ebrei, ad Alessandria, realizzano la traduzione del testo del Libro della Genesi in greco, traducono – come sappiamo – l’espressione ebraica “gher toshav, l’ospite” con la parola “metùentos”. Abbiamo studiato che letteralmente “metùentos” significa “la persona che pensa di essere sotto la protezione di Dio e ne è timorosa” e noi conosciamo anche l’etimologia del termine “metùentos”. Ora dobbiamo aggiungere un tassello nello studio filologico di questa parola: il termine greco “metùentos” è uno di quei termini che, in età ellenistica, entrano nella lingua latina e, in latino, il termine “metuens, metuentes” indica “la persona timorata di Dio” che si affida alla protezione di Dio”, quindi, “l’ospite”. Questo fatto ci fa capire come il concetto dell’ospitalità emerga in tutti i vari settori culturali dell’Ellenismo: l’ebraico, il greco, il latino, l’indo-ellenistico, delle cento Scuole cinesi.
E allora continuiamo a dipanare il nostro “intreccio filologico”: nel II secolo a.C. quando nelle ekklesìe – e noi conosciamo questo tema – bisogna dare un nome a quelle persone non ebree, ma greche, egizie, siriache, romane, le quali si sono avvicinate, con rispettosa curiosità, ai testi dei Libri dell’Antico Testamento tradotti in greco – tradotti nella lingua della koiné – e, di conseguenza, queste persone cominciano ad entrare in relazione con la figura letteraria (perché non si mostra se non attraverso la scrittura) del “Dio di Abramo”, gli intellettuali della “diaspora” ebraica “che parlano il greco”, cominciano a chiamare queste persone con il termine “metùentoi”, cioè “gli ospiti timorati di Dio”. Questa categoria raggiunge così una dignità: non sono propriamente “figli di Abramo”, ma sono “ospiti di Abramo” come lo era stato Dio, addirittura. E voi sapete che nelle ekklesìe – a questo proposito – si sviluppa un vivace dibattito che dura circa un secolo e che fa emergere molteplici temi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
A proposito della parola “dignità”: in quale occasione pensate di aver agito con dignità?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E, ora, dopo aver dipanato – per rinfrescare la nostra memoria – questo interessante intreccio filologico, facciamo un passo avanti.
Negli anni 50 come si comporta Paolo di Tarso quando si trova a dover utilizzare questa parola, la parola “metùentos”? Per rispondere a questa domanda dobbiamo farcene subito un’altra, dobbiamo domandarci quale sia, a questo proposito, l’obiettivo che persegue Paolo di Tarso.
Quando la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth comincia a circolare sempre più frequentemente – nel corso del vivace dibattito che si tiene nelle “ekklesìe” sui temi esistenziali che le cittadine e i cittadini si pongono in età ellenistica – nasce lo stesso problema che era sorto qualche secolo prima. Molte persone che frequentano le “ekklesìe” accolgono la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth e tra queste persone che si evangelizzano ci sono Ebrei che pretendono di essere considerati superiori perché Gesù di Nazareth è un “rabbi ebraico” e ci sono non Ebrei – greci, egizi, siriaci, romani – che rivendicano pari dignità. Ebbene, quale obiettivo si pone Paolo di Tarso nei confronti di questo problema? Paolo di Tarso si propone di “unificare” i vari gruppi di persone che si “evangelizzano” e che, nelle “ekklesìe”, cominciano a litigare tra loro per guadagnarsi una posizione di privilegio. Paolo di Tarso – e questo è l’obiettivo del suo Epistolario –, quando scrive, cerca di disegnare un orizzonte comune per chi coltiva la fede in Gesù risorto. Paolo di Tarso s’impegna nel costruire una “dottrina”, nel tracciare un perimetro all’interno del quale Ebrei e non Ebrei si sentano, a pieno titolo, tutti appartenenti alla stessa “comunità”. Questa non era – e non è mai stata – una operazione facile!
Paolo di Tarso muore senza vedere la soluzione del problema ma la sua “scrittura”, l’uso delle parole-chiave del Glossario di stampo ellenistico che ha composto, è stato utile ed è stato fondamentale per cominciare a superare – per lo meno in parte – lo stato di grande frammentazione (i tre canali – ebionita, gnostico e familista – attraverso i quali avviene l’evangelizzazione) in cui il “cristianesimo delle origini” è subito venuto a trovarsi. Ma noi non dobbiamo meravigliarci: sappiamo che il “cristianesimo delle origini” si sviluppa all’interno del vivace dibattito che avviene in seno alle “ekklesìe” e questo dibattito è, come sappiamo – e Paolo di Tarso ne è il maggiore testimone –, fortemente condizionato dal tema della “divisione”, della “separatezza”, della “perugìa”, quindi, la frammentazione in gruppi, e la ricerca di una posizione di privilegio dei vari gruppi, è una condizione consequenziale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Che cosa bisogna possedere, secondo voi, per potersi sentire una persona privilegiata?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Naturalmente Paolo di Tarso – fedele alla formazione culturale che ha ricevuto e di cui noi conosciamo i contenuti – utilizza nel suo Epistolario tutta la forza intellettuale contenuta nella parola “metùentos (l’ospite timorato di Dio)” gettando le basi per una riflessione molto importante che andrà al di là del dibattito in corso nelle “ekklesìe”. Questa riflessione mette in incubazione un nuovo pensiero: un pensiero che va oltre l’Ebraismo e oltre l’Ellenismo.
Prima di cominciare ad occuparci del processo di incubazione di questo pensiero facciamo un altro passo avanti nella lettura del testo del romanzo intitolato Le braci di Sándor Márai. Noi abbiamo affermato che non dobbiamo meravigliarci se il “cristianesimo delle origini” si è sviluppato all’interno di un vivace dibattito – assai conflittuale – che avviene in seno alle “ekklesìe” e che è fortemente condizionato dal tema della “divisione”, della “separatezza”, della “perugìa” e, quindi, la frammentazione e la ricerca di una posizione di privilegio da parte delle persone all’interno dei vari gruppi è una condizione consequenziale: vivere in comunità è difficile anche quando, e soprattutto, c’è un legame più forte tra le persone. Sándor Márai ci fa riflettere su questo tema portandoci anche a spasso per Vienna, durante il Carnevale, quando Vienna era ancora la capitale di un grande impero: ma anche i grandi imperi, così come le grandi amicizie – e anche Paolo di Tarso nel suo Epistolario allude in continuazione a questo concetto – sono destinati a finire.
Leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Sándor Márai, Le braci (1942)
Sappiamo sempre qual è la verità, quella verità diversa che viene occultata dai ruoli, dalle maschere, dalle circostanze della vita. I due ragazzi furono educati insieme, prestarono giuramento lo stesso giorno e abitarono insieme durante gli anni in cui rimasero a Vienna, perché l’ufficiale della guardia fece in modo che suo figlio e Konrad trascorressero i loro primi anni di servizio nelle vicinanze della corte.
… continua la lettura …
Naturalmente Paolo di Tarso – fedele alla formazione culturale che ha ricevuto – utilizza nel suo Epistolario tutta la forza intellettuale contenuta nella parola “metùentos” in modo da gettare le basi per una riflessione molto importante che andrà poi al di là del dibattito in corso nelle “ekklesìe” perché questa riflessione mette in incubazione un nuovo pensiero: un pensiero che va oltre l’Ebraismo e oltre l’Ellenismo.
Nella Lettera ai Romani, il cui testo è stato proprio dettato da Paolo, troviamo uno degli esempi più significativi in cui Paolo usa la parola “metùentoi, gli ospiti”. Se noi non avessimo sviluppato tutto questo complesso ragionamento progressivo, di carattere filologico sulla scia del termine “metùentos”, noi non saremmo in grado di capire il senso del significato di questa “parola” e, di conseguenza, non saremmo in grado di cogliere il contenuto di uno dei temi presenti nel testo della Lettera ai Romani: un’opera straordinaria che osserveremo da vicino a suo tempo. Facciamo questo esempio, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, per affermare che se vogliamo imparare a leggere dobbiamo “studiare”.
E allora leggiamo un frammento tratto dal capitolo 3 della Lettera ai Romani:
LEGERE MULTUM ….
Paolo di Tarso, Lettera ai Romani 3, 27-31
Dio infatti ha presentato Gesù che muore in croce come mezzo di perdono per quelli che credono in lui. Dio così dimostra che è sempre giusto: sia nel passato quando, in vista del perdono, tollerava pazientemente i peccati commessi, sia nel tempo presente, perché ora egli accoglie come suoi coloro che credono in Gesù. Ci sono ancora motivi per insuperbirsi? No! Sono stati tutti eliminati, perché non vale più la legge delle opere ma vale quella della fede. Noi riteniamo infatti che Dio accoglie come suoi quelli che credono, indipendentemente dalle opere della legge. Dio è forse soltanto il Dio degli Ebrei? No! Egli è anche il Dio di tutti gli altri popoli. È chiaro perciò che vi è un solo Dio che mette nella giusta relazione con sé tutti quelli che sono suoi ospiti [metùentoi] e credono in lui. Ebrei e non Ebrei. Ma allora, mediante la fede, togliamo ogni valore alla legge? No di certo! Anzi diamo alla legge il suo vero valore. …
Dopo aver studiato la storia e l’etimologia della parola “metùentoi” voi capite benissimo che il modo in cui Paolo di Tarso utilizza questo termine non è casuale: noi capiamo a chi voglia rivolgersi con questo termine. Paolo con l’uso della parola “metùentoi” entra in una delle dispute più accese che si siano mai scatenate tra le varie correnti che, nelle “ekklesìe”, si fronteggiano nel definire la figura, nel disegnare l’icona di Gesù di Nazareth. Paolo utilizza la parola “metùentoi” per sostenere una ben precisa posizione ideologica: una posizione con la quale rivendica l’integrazione totale dei non-Ebrei nella comunità di coloro che accolgono la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth.
In origine coloro i quali accolgono la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth e la diffondono sul territorio dell’Ellenismo (ebioniti, gnostici, provenienti dalle Sinagoghe) sono tutti Ebrei e, naturalmente, conservano una mentalità al centro della quale permane il concetto della “separatezza”. Sappiamo che i Greci, gli Egizi, i Siriaci, i Romani, i Pagani (quelli che, con un termine latino, sono chiamati i Gentili) che frequentano le “ekklesìe”, e che si avvicinano al messaggio contenuto nella “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth, vengono considerati come “ospiti (metùentoi)” – così come nel passato, nei secoli precedenti, venivano considerati “ospiti (metùentoi)” quei Greci, quegli Egizi, quei Siriaci, quei Romani, quei Pagani che nutrivano una rispettosa curiosità per i testi dei Libri della Bibbia tradotti in greco – e, quindi, anche questi nuovi “ospiti (metùentoi)” che accolgono la “buona notizia” vengono accettati molto benevolmente ma non sono ritenuti come se fossero “di famiglia (Ebrei)”. Ebbene, Paolo utilizza la parola “metùentoi” per sostenere una precisa posizione ideologica, una posizione con la quale rivendica – nonostante lui abbia una formazione farisea – l’integrazione totale dei non-Ebrei nella comunità di coloro che accolgono la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth: l’Ebraismo, secondo Paolo di Tarso, deve superare la chiusura in se stesso, deve andare al di là della frontiera della “separatezza” se vuole – attraverso la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth – far risaltare i suoi valori pervasi di Umanesimo. Paolo di Tarso pensa e ribadisce che le persone – i cittadini romani, in particolare (come abbiamo letto poco fa) – se accettano di credere nel messaggio della risurrezione di Gesù, non abbiano bisogno, per salvarsi, di diventare anche Ebrei ma sostiene che sono già “di famiglia”, sono già, come Abramo: “ospiti privilegiati che temono il Signore”. Come avete notato Paolo scrive che: «la fede non toglie ogni valore alla legge», perché la legge – per il “fariseo” Paolo di Tarso – non è fatta solo di precetti e di proibizioni ma contiene anche la “promessa di Dio”, contiene i termini della “berit”, del patto, dell’alleanza tra Dio e l’Umanità e così anche il concetto vetero-testamentario di “patto”, di “alleanza” tra Dio e l’Umanità contenuto nella parola “berit” comincia a diffondersi in modo nuovo sul territorio dell’Ellenismo. Paolo di Tarso usa la parola “metùentoi, gli ospiti” perché questa parola ha una straordinaria forza evocativa e contiene una “tradizione” e, quindi, chi legge, capisce che cosa intende dire Paolo con questa sentenza: «Vi è un solo Dio che mette nella giusta relazione con sé tutti quelli che sono suoi ospiti»!
Comprendere il senso di questo testo non è facile fuori dall’ambito dell’alfabetizzazione culturale e funzionale: per capire, nella sua essenza, il significato della parola “ospite, ospiti” dobbiamo seguire un ragionamento progressivo sul terreno della Storia del Pensiero Umano ed un itinerario in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ed è compiendo questa riflessione che ci accorgiamo della necessità di “imparare a leggere”. “Imparare a leggere” significa rendersi conto che le “parole” sono “paesaggi intellettuali” da osservare con attenzione e con curiosità. La parola “ospite, ospiti” fa parte di un bel “paesaggio intellettuale” e noi non abbiamo ancora finito di ammirare questo paesaggio perché in esso possiamo scorgere anche il testo della Lettera agli Efesini.
La Lettera agli Efesini è deuteropaolina e quindi non è stata scritta da Paolo di Tarso, anzi, è una di quelle Lettere dove la differenza linguistica con i testi scritti o dettati da Paolo è proprio netta: le studiose e gli studiosi di filologia affermano che questo testo è stato composto a Roma da uno scrivano – o da più scrivani – della Scuola di Clemente Romano alla fine degli anni 90 e questo fatto è dimostrato anche dal modo in cui le “parole-chiave” vengono usate. Questo testo, quindi, è stato scritto quando Paolo di Tarso è morto da più di trent’anni e le comunità cristiane – nella loro eterogeneità – si sono date un loro assetto e, soprattutto, al loro interno si è ormai concretizzata l’integrazione tra Ebrei e Pagani auspicata da Paolo ed è nata e si sta configurando una nuova figura: quella del “cristiano”, una figura che è destinata ad andare al di là dell’Ebraismo e dell’Ellenismo ma che, senza la tradizione e la cultura dell’Ebraismo e dell’Ellenismo, non avrebbe mai potuto prendere forma. Naturalmente nel Glossario del cristianesimo nascente c’è e si usa ancora la parola “metùentoi” ma adesso la si utilizza per affermare che gli “ospiti” non devono più essere considerati tali perché, ormai, nella comunità tutte le persone sono “uguali”, tutte le persone sono comprese in una nuova categoria universale: quella dei “figli di Dio”. Basterebbero già queste semplici chiavi per capire il testo della Lettera agli Efesini, di cui si consiglia la lettura: quest’opera è composta da sei capitoletti!
Nella Lettera agli Efesini si sente parlare Paolo di Tarso ma si capisce, leggendo, che è come se non fosse lui a parlare di se stesso. Si dice, nel testo di questa Lettera, che Paolo è stato investito della missione di “apostolo dei non-Ebrei”, ma Paolo – ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia – molto probabilmente non si sarebbe riconosciuto nei termini di questa formula. Sappiamo che Paolo di Tarso vuole divulgare la “buona notizia” della risurrezione di Gesù sul territorio dell’Ellenismo e sappiamo che litiga fortemente (studieremo questi avvenimenti strada facendo) con quei discepoli (Pietro e Giacomo, il fratello del Signore) che lui è andato ad incontrare a Gerusalemme i quali non approvano assolutamente che si esporti la figura di Gesù fuori dal campo del Giudaismo. Paolo nel testo della Lettera ai Romani (che è autentico) scrive che la Legge di Mosé ha ormai esaurito il suo “slancio propulsivo” e che un nuovo impulso, un impulso riformatore nei confronti di questo grande apparato legislativo, può venire solo dalla persona di Gesù di Nazareth, il rabbi ebraico che Dio ha voluto far risorgere, dopo averlo costituito come “vittima immolata”, per ripristinare il “patto” con l’Umanità e per additare a tutti gli esseri umani la via della salvezza. Quindi – e lo abbiamo studiato lo scorso anno e lo abbiamo appena letto nella Lettera ai Romani – Paolo di Tarso si sente “molto ebreo”, è orgoglioso di essere un “fariseo (come lo è stato Gesù di Nazareth)” e dal tono si capisce, quando l’autobiografia nei testi delle Lettere si fa più evidente, che Paolo di Tarso si batte e vuole l’emancipazione degli “ospiti, metùentoi” ma si percepisce anche il fatto – come ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia – che non è convinto del tutto che tra gli Ebrei e gli altri non ci sia proprio nessuna “differenza”. Paolo di Tarso sa bene che deve tenere conto del fatto che Gesù di Nazareth è nato “sotto la Legge di Mosé” ma ne tiene sempre conto con le dovute precauzioni perché non sono molte le cose che Paolo sa di Gesù di Nazareth, e questo è un argomento molto delicato che dobbiamo studiare prossimamente, strada facendo.
Di conseguenza, leggendo il testo della Lettera agli Efesini, si capisce che siamo negli anni 90 e che le differenze tra gli Ebrei e i Pagani stanno sfumando: non c’è più l’atmosfera conflittuale degli anni 60 su questo tema e chi scrive il testo della Lettera agli Efesini rievoca la figura di Paolo, a circa trent’anni dalla morte, come se lui fosse vivo e vuole dare a lui un riconoscimento postumo mettendo in evidenza il fatto che la linea ideologica (l’idea) di Paolo, alla fine, si è imposta.
L’autorità riconosciuta che nella Chiesa di Roma dirige questa operazione intellettuale è Clemente Romano e c’è una logica di carattere pastorale, c’è un’intenzione catechetica nei comportamenti del primo papa storico della Chiesa di Roma. Clemente Romano raccoglie a Roma i testi delle Lettere di Paolo che riesce a reperire sul territorio dell’Ellenismo – anche con la collaborazione di Ignazio di Antiochia e di Policarpo di Smirne – e comincia (la Scuola ellenistica Clementina) ad ordinarne l’Epistolario. I cosiddetti Padri Apostolici (Clemente Romano, Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne) hanno costruito le strutture di base della Chiesa (la gerarchia, l’ideologia, la pastorale, la gestione dello stato sociale) utilizzando le argomentazioni contenute nei testi delle Lettere di Paolo siano esse autentiche o deuteropaoline.
Le studiose e gli studiosi di filologia ci fanno notare che gli scrivani della Scuola di Clemente Romano sono intervenuti a dare una forma ai testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso e non c’è da scandalizzarsi – per giunta le interpolazioni e gli assemblaggi che sono stati fatti su questi testi sono tutti perfettamente riconoscibili – se negli anni 90 si utilizzino le idee di Paolo per avvalorare nuove situazioni che Paolo aveva auspicato, ma che, negli anni 60, quando era vivo, non avrebbero potuto essere realizzate.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quali frammenti di Letteratura, di poesia, avete utilizzato per comunicare qualcosa che vi stava a cuore?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora, dopo questa riflessione, leggiamo due brani della Lettera agli Efesini. Nel primo brano possiamo constatare come la parola “metùentoi, gli ospiti” venga usata per dichiarare che, negli anni 90, questo termine a Roma non definisce più una categoria perché nella ekklesìa di Roma non c’è più alcuna differenza tra “timorati di Dio” ebrei e “timorati di Dio” pagani, ormai sono tutti uguali perché è nata una nuova figura, una nuova categoria: quella del “cristiano”.
Il testo della Lettera agli Efesini – ci ricordano le studiose e gli studiosi di filologia – è stato scritto negli anni 90 a Roma dalla Scuola di Clemente Romano perché a Efeso ci sono ancora dei problemi di divisione ed è probabile che coloro i quali vengono ancora considerati come “ospiti, metuèntoi” nella Chiesa di Efeso abbiamo scritto per chiedere un parere sull’argomento al vescovo di Roma, al quale viene riconosciuta un’autorità particolare e il vescovo di Roma, il papa (il padre di tutti), risponde utilizzando l’autorità di Paolo di Tarso proprio perché Paolo utilizza la parola “metùentoi” per sostenere una ben precisa posizione ideologica: una posizione con la quale rivendica l’integrazione totale dei non-Ebrei nella comunità di coloro che accolgono la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth.
E ora leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Paolo di Tarso, Lettera agli Efesini 2,14-22
Infatti Cristo è la nostra pace: egli ha fatto diventare un unico popolo i pagani e gli Ebrei; egli ha demolito quel muro che li separava e li rendeva nemici. Infatti, sacrificando se stesso, ha abolito la legge giudaica con tutti i regolamenti e le proibizioni. Così ha creato un popolo nuovo, e ha portato la pace fra loro; per mezzo della sua morte in croce li ha uniti in un solo corpo, e li ha messi in pace con Dio. Sulla croce, sacrificando se stesso, egli ha distrutto ciò che li separava. Come dice la Scrittura: “Egli è venuto ad annunciare il messaggio di pace: pace a voi che eravate lontani e pace a quelli che erano vicini [Isaia 52,7]. Per mezzo di Gesù Cristo, noi tutti, Ebrei e pagani, possiamo presentarci a Dio Padre, uniti dallo stesso Spirito Santo. Di conseguenza ora voi non siete più stranieri né ospiti [metùentoi], anche voi, insieme con gli altri appartenete al popolo e alla famiglia di Dio. Siete parte di quell’edificio che ha come fondamenta gli apostoli e i profeti, e come pietra principale lo stesso Gesù Cristo. È lui che dà solidità a tutta la costruzione, e la fa crescere fino a diventare un tempio santo per il Signore. Uniti a lui, anche voi siete costruiti insieme con gli altri, per essere la casa dove Dio abita per mezzo dello Spirito Santo. …
Il secondo brano che leggiamo è ancora più significativo perché, in un certo senso, chiude il nostro ciclo di studio sulla parola-chiave “ekklesìa”. Nel capitolo 3 della Lettera agli Efesini la parola “ekklesìa” non corrisponde più alle “assemblee” che raccoglievano persone di cultura ebraica e di cultura pagana, quelle assemblee eterogenee di cui abbiamo percorso la storia e dove Paolo di Tarso ha vissuto la sua affascinante esperienza. Negli anni 90 nel testo della Lettera agli Efesini la parola “ekklesìa” definisce la Chiesa di Roma come una “assemblea” tutta formata da gruppi di “timorati di Dio” tutti cristiani: litigiosi quanto vogliamo ma tutti “cristiani”. È il pastore, il vescovo della Chiesa cristiana di Roma, che, con la sua autorità scaturita anche dalle Lettere di Paolo di Tarso, scrive alla Chiesa di Efeso per dare delle direttive che devono essere applicate in tutte le comunità cristiane. La Lettera di Paolo di Tarso agli Efesini è uno straordinario documento scritto al tempo dei Padri Apostolici, un documento che utilizza il Pensiero di Paolo di Tarso per costruire le strutture della Chiesa “cristiana”.
Leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Paolo di Tarso, Lettera agli Efesini 3, 7-11
Per grazia di Dio, per un gesto della sua potenza, mi è stato fatto il dono di diventare servitore della parola del Signore. A me, che sono l’ultimo di tutti i cristiani, Dio ha dato la grazia di annunciare ai pagani le infinite ricchezze di Cristo. Dio, creatore dell’universo, mi ha incaricato di far conoscere a tutti come egli realizza quel progetto che aveva sempre tenuto nascosto dentro di sé. Così, per mezzo della Chiesa, anche le autorità e le potenze presenti nel cielo, ora conoscono la misteriosa sapienza di Dio: quella che egli ha manifestato, compiendo il suo eterno progetto per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore. …
La Scuola consiglia di leggere il testo della Lettera agli Efesini perché è uno straordinario documento della nostra storia culturale. In particolare potete leggere i capitoli 5 e 6 nei quali vengono trattati temi di grande attualità: i rapporti di coppia, i rapporti tra genitori e figli, i rapporti tra i padroni e gli schiavi.
Nel capitolo 6 della Lettera agli Efesini c’è un brano dedicato alle armi del cristianesimo”. Le armi in dotazione al guerriero vengono trasformate in concetti intellettuali tutti volti a costruire la pace e la solidarietà e a combattere contro il male.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Leggete l’elenco delle “armi del cristiano” e scegliete quale, secondo voi, è l’arma più efficace per combattere il “male morale”…
E ora, per concludere questo itinerario, facciamo un altro passo avanti nella lettura del testo del romanzo intitolato Le braci di Sándor Márai. Sándor Márai ci ha fatto riflettere su questo tema significativo: vivere in comunità è difficile anche quando, e soprattutto, c’è un legame più forte tra le persone. Ci ha fatto riflettere portandoci anche a spasso per Vienna durante il Carnevale, quando Vienna era ancora la capitale di un grande impero: ma anche i grandi imperi, così come le grandi amicizie sono destinati a finire e sappiamo che anche Paolo di Tarso nel suo Epistolario allude in continuazione a questo concetto. E se non ci fosse la Letteratura forse anche “i famosi cappelli di paglia di Firenze” non avrebbero lasciato traccia di sé: che cosa c’entrano i cappelli di paglia di Firenze?
Leggiamo, per concludere, queste due pagine:
LEGERE MULTUM ….
Sándor Márai, Le braci (1942)
La «diversità» di cui aveva parlato il padre quando Konrad e la contessa avevano suonato la Fantaisie polonaise conferiva a Konrad un certo potere sull’animo dell’amico. Qual era il significato di questo potere?
… continua la lettura …
La prossima settimana continueremo a domandarci: quali sono i “frutti” più significativi della cultura ebraica “che parla il greco”? Per continuare a rispondere a questo quesito dobbiamo costruire con pazienza un nuovo ragionamento progressivo: ora possiamo solo dire che i centri più vivi della cultura ebraica “che parla il greco” e che si integra con la cultura dell’Ellenismo sono Antiochia, Smirne, Roma, e il centro che assume l’importanza maggiore: Alessandria d’Egitto. La prossima settimana torneremo a fare quattro passi per Alessandria d’Egitto: sapete che cosa scopriremo, chi incontreremo e quali sensazioni potremo provare?
Il viaggio continua e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…