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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA APPARE VIVA L’IDEA CHE “LA FEDE È L’EVIDENZA DELLE COSE MAI VISTE” ...

Lezione N.: 
23

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna    19–20-21  aprile 2017

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA

APPARE VIVA L’IDEA CHE LA FEDE È L’EVIDENZA DELLE COSE MAI VISTE...

     Ben tornate e ben tornati a Scuola. Inizia, con il ventitreesimo itinerario, la terza e ultima parte di questo Percorso che si svolge sul “territorio della sapienza poetica e filosofica rinascimentale agli albori dell’età moderna”, ma il cammino da fare è ancora lungo.

     Quindici giorni fa, all’interno della Cappella Sistina - dopo aver osservato la figura del profeta Zaccaria con il volto di papa Giulio II che ci accoglie all’ingresso - abbiamo continuato ad osservare le immagini affrescate da Michelangelo sul soffitto di questo famoso edificio puntando la nostra attenzione su alcune categorie di figure che servono soprattutto a garantire “l’unitarietà” [concetto rinascimentale di derivazione neoplatonica] dell’affresco e, disposti su “i dieci arconi” che danno un aspetto architettonico classico alla volta della Cappella, abbiamo osservato i venti Ignudi che tengono in tensione i dieci Medaglioni [sono i nodi, i punti di raccordo, di una struttura portante].

     Le storie [derivanti - come abbiamo studiato due settimane fa - dai Libri dei Re, dai Libri di Samuele e dal Libro della Genesi che legano insieme il personaggio di Alessandro Magno con la dinastia siriana dei Seleucidi e con la famiglia ebrea degli Asmonei detta poi dei Maccabei] dipinte all’interno dei dieci Medaglioni alludono ai due Libri dei Maccabei nei quali risaltano i concetti della “autonomia” [la parola-chiave più rappresentativa agli albori dell’Età moderna] e della “risurrezione” [la parola-chiave che richiama l’idea della necessità della riforma strutturale e culturale della Chiesa].

     I due Libri dei Maccabei - come sappiamo, “Maccabeo” è un soprannome il cui significato risulta oscuro [che potrebbe voler dire “valoroso” o “indomabile”, ed è bene ricordare che a papa Giulio II piace identificarsi con il condottiero resistente Giuda Maccabeo] -, appartenenti alla sezione deuterocanonica della Bibbia, evocati nei Medaglioni del soffitto della Sistina, raccontano la saga di una famiglia. A questo punto, la mente va a quei romanzi dell’800 e del ’900 che raccontano grandi saghe familiari e il tema della “saga familiare” domina nella Letteratura biblica e, di conseguenza, si rispecchia anche nelle immagini dipinte sul soffitto della Cappella Sistina.

     E a questo punto, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, sul nostro itinerario incontriamo un romanzo che narra una saga familiare ebraica e ci orienta anche per proseguire nell’osservazione delle immagini dipinte sul soffitto della Sistina e poi ci permette di segnalare un particolare evento editoriale: la pubblicazione per la prima volta in Italia delle opere di un determinato autore. Perché parliamo di un evento particolare?

     L’autore del romanzo di cui stiamo per leggere l’incipit, e che s’intitola La famiglia Karnowski, si chiama Israel Joshua Singer [1893-1944] e non è il Singer più famoso, Isaac Bashevis Singer [1904-1991], quello che ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura nel 1978, ma è il suo fratello maggiore che non è da meno come romanziere e poi nel novero degli scrittori della famiglia Singer c’è anche la sorella maggiore di entrambi, Esther Kreitman [1891-1954]. I tre Singer sono figli del rabbino chassidico Pinchos Menachem [autore di commentari rabbinici] e anche la loro madre Bathsheba è figlia di un rabbino e sono nati in Polonia, vicino a Varsavia, e poi Israel e Isaac si sono trasferiti negli Stati Uniti mentre Esther è emigrata a Londra. L’elemento particolare dei Singer è che scrivono i loro romanzi e i loro racconti in lingua yiddish [yiddish significa “giudeo-tedesco”] ed è una lingua di ceppo germanico scritta con i caratteri ebraici, e in yiddish è stato prodotto un grande patrimonio letterario fiorito in Europa orientale a partire dal XVII secolo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca e sulla rete potete documentarvi sulle numerose opere [sui romanzi e sui racconti] che hanno scritto Israel Joshua Singer, Isaac Bashevis Singer e Esther Kreitman… 

     Le opere di Israel J. Singer [morto nel 1944 a soli 51 anni] sono rimaste per lungo tempo dimenticate nel cono d’ombra del più celebre fratello minore Isaac. La traduzione e la pubblicazione in Italia de La famiglia Karnowski, un romanzo che è da considerare un classico della Letteratura del secolo scorso [pubblicato nel 1943], è stato nel 2013 un evento editoriale [anche gli altri importanti romanzi di Israel J. Singer sono stati via via pubblicati e li potete leggere, e li trovate in biblioteca].

     Il grandioso affresco della saga dei Karnowski si snoda attraverso tre generazioni e tre paesi [la Polonia, la Germania e gli Stati Uniti]. La narrazione inizia con David, il capostipite, il quale all’alba del Novecento lascia lo shtetl, il piccolo e periferico paese polacco di Melnitz in cui è nato, che ai suoi occhi rappresenta l’emblema dell’oscurantismo, per emigrare alla volta di Berlino, forte del suo tedesco impeccabile, attratto dall’ebraismo illuminista del rabbino Moses Mendelssohn [il fondatore dell’illuminismo ebraico] e ispirato dal principio secondo il quale bisogna «essere ebrei in casa e cittadini in strada». La saga, iniziata con la storia di David, prosegue con quella esaltante del figlio Georg, e poi con quella, meno esaltante, del nipote Jegor. Non è certo possibile raccontare la trama di un’opera narrativa così ricca come questa: bisogna leggerla.

     Noi adesso leggiamo solo l’incipit di questo romanzo per capire - ammesso che ce ne sia bisogno - di come il mondo ebraico sia, in ogni tempo, effervescente dal punto di vista culturale perché il perenne scontro intellettuale [spesso non indolore ma sempre redditizio] sull’interpretazione dei Libri della Bibbia [secondo l’eredità talmudica e cabalistica] tiene vivo il desiderio di investire in intelligenza e fa aumentare la volontà di imparare.

LEGERE MULTUM….

Israel Joshua Singer, La famiglia Karnowski

I Karnowski della Grande Polonia erano noti per il loro carattere testardo e provocatore, ma allo stesso tempo stimati per la vasta erudizione e l’intelligenza penetrante.

La genialità era inscritta nelle alte fronti da studioso e negli occhi profondi e inquieti, neri come il carbone. Ostinazione e sfida si leggevano sui nasi forti e sproporzionati che spiccavano beffardi e arroganti nei loro volti scarni: poche confidenze! È per via di questa testardaggine che nessuno in famiglia era diventato rabbino, anche se non sarebbe stato difficile, e tutti avevano intrapreso la via del commercio. Per lo più trattavano legname, e conducevano zattere di tronchi sulla Vistola, spesso fino a Danzica. Nelle baracche costruite per loro dagli zatterieri sui tronchi galleggianti, si portavano pile di volumi del Talmud e altri testi sacri che studiavano con passione.

Sempre a causa del loro carattere, non erano devoti di nessun rabbino hassidico [movimento di tendenza mistica e conservatrice] e, accanto alla dottrina talmudica, coltivavano anche l’interesse per argomenti profani come la matematica e la filosofia e leggevano perfino libri in tedesco, stampati in aguzzi caratteri gotici. Per quanto non nuotassero nell’oro - si guadagnavano onestamente di che vivere e niente più -, i loro figli trovavano moglie tra le più ricche casate della Grande Polonia. Le più facoltose ragazze in età da marito si contendevano i prestanti ed eruditi rampolli della ramificata famiglia Karnowski intorno ai quali aleggiava il soave profumo del legno e dell’acqua. David Karnowski se l’era assicurato Leib Milner, il più grosso commerciante di legname di Melnitz.

Già il primo shabbat dopo le nozze, al momento della sua presentazione alla sinagoga, l’altezzoso genero forestiero ebbe uno scontro con il rabbino e i notabili della cittadina.

Benché egli stesso polacco, David Karnowski, da raffinato purista della grammatica ebraica, lesse il capitolo di Isaia della settimana con la pronuncia lituana e l’attenzione alla lingua tipica dell’intellettuale di stampo illuminista che non era certo nelle corde dei hassidim locali. Dopo la preghiera, il rabbino fece comprendere senza mezzi termini al giovane straniero che da lui a Melnitz, quell’ebraico da misnagdim lituani non godeva di grande considerazione [Misnaged - plurale misnagdim - letteralmente significa “oppositori”, nel caso specifico coloro che si opponevano al movimento hassidico e al suo orientamento mistico, a cui preferivano uno studio rigoroso dei sacri testi. Tra i misnagdim i più accesi erano gli ebrei lituani, a cui si fa riferimento anche nella frase che segue (litvak: lituano)].

«Capisci, giovanotto,» aveva detto in tono scherzoso «noi non pensiamo che il profeta Isaia fosse un litvak, e tanto meno un nemico dei hassidim».

«Ma è proprio il contrario, rabbino,» aveva risposto David Karnowski «era precisamente un litvak e un misnaged, e ve lo dimostrerò».

«E quale sarebbe la prova a sostegno di questa tesi, giovanotto?» domandò il rabbino, attorniato dai membri più in vista della comunità, curiosi di seguire la disputa con il colto forestiero.

«È molto semplice,» rispose David Karnowski «se il profeta Isaia fosse stato polacco e hassid, avrebbe ignorato la grammatica e infarcito il suo ebraico di errori, come tutti i rabbini hassidici».

Una simile replica da parte di un ragazzetto, e per giunta davanti a tutti i notabili, il rabbino non se l’aspettava. Era così sconvolto di essere stato reso ridicolo dallo straniero, che cominciò a balbettare, avrebbe voluto rispondere qualcosa ma non riusciva a mettere in fila due parole, e questo lo scombussolò ancor di più. David Karnowski fissava beffardo il rabbino umiliato.

A partire da quel momento, questi ebbe paura del giovane straniero. I notabili che occupavano i posti più prestigiosi vicino alla parete orientale della sinagoga, dove sedevano anche Karnowski e il suocero, presero a soppesare ogni parola che gli rivolgevano. Ma quando un sabato il giovane osò portare l’eresia nella casa di preghiera, i notabili misero da parte ogni timore e gli dichiararono guerra aperta.

Accadde durante la lettura della Torah, mentre gli uomini si erano voltati dalla parete orientale per guardare verso la tribuna e ripetevano fra sé, a voce bassa, le parole pronunciate dal loro concittadino chiamato alla lettura pubblica. Anche David Karnowski, con lo scialle da preghiera nuovo posato non sulla testa, ma sulle spalle alla maniera dei misnagdim, era immerso nel suo Pentateuco. A un tratto il libro gli cadde di mano. Senza fretta si chinò a raccoglierlo. Ma uno dei suoi vicini, un uomo tutto scialle e barba, lo anticipò. Baciò fugacemente il volume aperto per cancellare l’offesa della caduta, e mentre si accingeva a restituirlo al proprietario si accorse di aver appena baciato parole mai viste prima in nessuna Torah. Non era né il testo ebraico né la traduzione in yiddish. David Karnowski tese la mano per riavere il libro, ma l’altro, anziché restituirglielo, preferì portarlo al rabbino perché gli desse un’occhiata. Questi gettò un rapido sguardo ai caratteri, esaminò il frontespizio e divenne paonazzo per l’orrore e lo sbigottimento.

«È il Pentateuco di Moses Mendelssohn» si mise a urlare e poi sputò. «Il Bier di Moses di Dessau! È una profanazione del Nome! [Bier letteralmente “Spiegazione”. È il titolo della traduzione commentata del Pentateuco di Moses Mendelssohn, nato a Dessau (1729-1786), padre dell’illuminismo ebraico (Haskalah)]».

Nella casa di preghiera si udì un mormorio sempre più forte.

Il lettore picchiò la mano sul tavolo per ricordare che non aveva ancora terminato. Il rabbino in persona iniziò a battere sul pulpito perché i presenti ascoltassero la lettura sino in fondo. Ma il pubblico era agitatissimo. Ogni «ssst», ogni «allora», ogni colpo sul pulpito non facevano che accrescere il tumulto. Il lettore, vedendo che tanto nessuno lo ascoltava, finì di recitare in fretta la sezione settimanale della Torah. Il cantore concluse la preghiera senza dilungarsi in trilli e vocalizzi. Non appena il pubblico ebbe sputato alla menzione degli idoli in Alenu [è la prima parola e il nome di una delle preghiere quotidiane, «Dobbiamo» lodare il Signore di ogni cosa],  ancora prima di terminare la preghiera come si deve, nella sinagoga si levò un brusio come quello di un alveare.

«L’obbrobrio, l’abominio di Moses di Dessau,» gridava infiammato il rabbino indicando il Pentateuco di David Kamowski «non si era mai sentita una cosa simile a Melnitz  Non consentirò all’apostata di Berlino di mettere piede nella mia città».

«Che il suo nome e la sua memoria siano cancellati!» ribollivano i hassidim sputando per terra.

Le persone semplici tendevano l’orecchio alle parole degli eruditi, per capire di che cosa si trattasse. L’uomo tutto scialle e barba turbinava per la sinagoga come un uragano.

«Appena l’ho visto, ho capito subito che c’era sotto qualcosa,» raccontava per l’ennesima volta «l’ho afferrato al volo».

«Bel genero vi siete procurato, reb Leib,» accusavano i notabili «non c’è che dire!».

Leib Milner era sconcertato. Nonostante lo scialle da preghiera con il bordo d’argento, la bella barba bianca e gli occhiali cerchiati d’oro, nonostante l’aspetto imponente e l’aria signorile, egli non aveva la minima idea del motivo per cui il rabbino tuonasse contro suo genero e che cosa volessero da lui gli altri fedeli esagitati. Di umili origini e lui stesso un nuovo ricco, a parte le preghiere non conosceva nulla della Torah. Aveva colto la parola «Bier», ma di che razza di birra si trattasse, e cosa avesse a che fare con lui e suo genero proprio non riusciva a comprenderlo.

«Signor rabbino, che cosa succede?» implorò.

Il rabbino furibondo puntò il dito, indicando il Pentateuco.

«Vedete, reb Leib, quel Moses Mendelssohn di Dessau, che il suo nome sia cancellato, era un empio, una vergogna per Israele!» gridò. «Ha condotto gli ebrei all’apostasia con la sua Torah eretica».

Benché Leib Milner non avesse ancora afferrato esattamente chi fosse quel Moses di Dessau e in che cosa consistessero di preciso le sue malefatte, dalle grida del rabbino suppose che fosse una sorta di ebreo missionario che aveva rifilato a suo genero, come capita spesso con quella gente, un libro condannato dall’ortodossia. Si adoperò per calmare il tumulto e ristabilire la pace nella casa di preghiera.

«Signori, mio genero, possa vivere a lungo, di sicuro non sapeva che tipo fosse quel Moses là,» lo difese «e non è il caso di litigare in questo santo luogo. Torniamo piuttosto a casa a recitare il kiddush».

Ma suo genero non aveva alcuna intenzione di tornare a casa per il kiddush. Si fece strada in mezzo ai notabili e raggiunse il rabbino.

«Rendetemi il mio Pentateuco,» lo apostrofò iroso «lo rivoglio immediatamente».

Il rabbino non voleva saperne di restituirlo, benché non avesse idea di che cosa farne.

Se si fosse trattato soltanto di un testo profano, e non fosse stato shabbat, avrebbe chiesto allo scaccino di accendere la stufa e di gettare nel fuoco il libro impuro davanti a tutti, come prescrive la legge. Ma era shabbat. E poi i commentari eretici di Moses di Dessau erano stampati insieme alla Torah. Impurità e santità fianco a fianco. Gli bruciavano le mani a reggere quella santità violata, ma restituirla al suo proprietario era fuori discussione.

«No, giovanotto, questo libro non vedrà più la luce del giorno!» gridò.

Leib Milner cercò nuovamente di mettere pace.

«David, mio caro genero,» implorò «quanto vuoi che costi un Pentateuco? Ti comprerò le edizioni più pregiate. Lascialo qui e vieni a casa».

David Karnowski non voleva sentir ragioni.

«No, suocero,» rispose furibondo «non glielo lascio. Non ci penso nemmeno».

Leib Milner tentò un’altra strada.

«David, Lea ti aspetta a casa per il kiddush,» gli disse «starà morendo di fame».

Ma David Karnowski era tanto accalorato dalla disputa che si era completamente dimenticato della moglie. I suoi occhi fiammeggiavano. Il naso sembrava il becco di uno sparviero che sta per dilaniare la sua preda. Era pronto a una guerra senza quartiere. Per cominciare sfidò il rabbino a trovargli anche una sola espressione eretica in quel libro, poi sfoderò tutta la sua erudizione per dimostrare che né il rabbino né i notabili conoscevano una parola degli scritti di Mendelssohn, e non erano in grado di comprenderli. Dopodiché fu colto da un tale accesso di collera da proclamare che c’erano più dottrina, saggezza e devozione nel dito mignolo del suo maestro Moses Mendelssohn, di benedetta memoria, di quanta ne avessero il rabbino e tutti gli altri maestri hassidici messi insieme.

Questo fu troppo. Sentir insultare in quel modo il rabbino e i saggi maestri e chiamare un miscredente «maestro di benedetta memoria» in un luogo santo fece uscire dai gangheri i hassidim. Senza tanti complimenti afferrarono il giovanotto per le braccia e lo buttarono fuori dalla casa di preghiera.

«Vattene al diavolo, insieme al tuo maestro, sia maledetto il suo nome!» gli gridarono dietro. «Va’ a raggiungere l’apostata di Berlino, che non trovi mai pace!».

David Karnowski seguì il loro consiglio.

     Il nome di David costituisce un elemento importante per continuare ad osservare l’affresco dipinto sul soffitto della Cappella Sistina. Se l’intento del committente, del pittore e del consulente librario è quello di comporre, attraverso le immagini, un messaggio che promuova il pensiero legato all’Umanesimo, al neoplatonismo e alla tolleranza universale, il tema della “casata di Davide” si presenta in modo idoneo: di che cosa si tratta? Il tema della “casata di Davide” è determinante anche per dare una risposta alla critica che i membri del Sant’Uffizio rivolgono al papa, al pittore e al consulente librario per il fatto che sul soffitto della Cappella non compare, almeno apparentemente in modo esplicito, nessuna figura che richiami il cristianesimo.

     Il tema della “casata di Davide” permette inequivocabilmente di affermare che l’immagine di Gesù Cristo, che doveva campeggiare al centro del soffitto della Cappella, non è materialmente visibile ma il suo spirito [l’afflato divino] è ben presente e aleggia in tutto l’affresco. Se fosse stato realizzato, come era stato annunciato, un affresco contenente le immagini de “la gloria di Gesù Cristo” sarebbe stato [sostiene il papa] un gesto di grande incoerenza che avrebbe dato ulteriormente addito al “trionfalismo [alla supponenza, all’alterigia, all’arroganza] della Chiesa” [atteggiamento contenuto nell’affermazione, decretata dal Sant’Uffizio, che il cristianesimo è l’unica religione depositaria della Verità], ma questa immagine, secondo il pensiero evangelico, avrebbe messo in mostra una serie di difetti perché Gesù Cristo non vuole il trionfalismo ma ama la modestia, la semplicità, l’umiltà e, quindi, il rispetto per la figura del Salvatore consiste nell’alludere alla sua presenza perché la sua essenza - secondo la Letteratura dei Vangeli - è quella del “lievito nascosto dentro la farina”: di conseguenza, l’idea che guida la realizzazione della volta della Sistina è quella secondo la quale tutte le vicende e i personaggi rappresentati devono prefigurare la venuta di Gesù e, quindi, in nome dell’Universalismo umanistico, devono essere le figure della tradizione ebraica e della cultura classica pagana a giocare un ruolo da protagonisti nell’affresco.

     E in quale spazio dell’affresco viene espresso questo concetto: il tema della “casata di Davide”, il tema degli Antenati di Gesù? Questo concetto viene espresso nei pannelli delle [cosiddette] Lunette situate lungo la parte più alta delle pareti in concomitanza con l’arco dei finestroni. A loro volta le Lunette sono sormontate da otto triangoli ai quali è stato dato il nome di Vele che dall’estremità della parete s’insinuano nella volta.

     Michelangelo introduce nella composizione dell’affresco realizzato sul soffitto della Cappella Sistina i pannelli de “gli Antenati di Cristo” situandoli lungo la parte più alta delle pareti tutto intorno alla struttura centrale della volta. Questi pannelli, in concomitanza con l’arco dei finestroni, hanno forma semicircolare e per questo motivo sono stati chiamati Lunette e sono in tutto quattordici [due nella parete d’ingresso, sei nella parete di destra e sei in quella di sinistra]; al centro di ogni Lunetta, a dividerla in due parti, c’è una tabella [o un cartiglio] con sopra scritti dei nomi, anche se questi nomi [Eleazar e Mathan, Iocob e Ioseph, Achim e Eliud, Azor e Sadoch, Zorobabel e Abiud e Eliachim, Iosias e Ieconias e Salathiel, Ozias e Ioatham e Achaz, Ezechias e Manasses e Amon, Roboam e Abias, Asa e Iosaphat e Ioram, Salmon e Booz e Obeth, Iesse e David e Salomon, Aminabad, Naason] nomi non corrispondono necessariamente ai personaggi dipinti ai lati del cartiglio ma indicano a quale generazione di Antenati di Gesù Cristo appartengono, e fanno riferimento all’incipit del Vangelo secondo Matteo, ai primi 17 versetti del capitolo 1 che contengono l’elenco degli antenati di Gesù partendo da Abramo per arrivare a Giuseppe di Nazareth, il falegname, lo sposo di Maria. Il primo versetto del capitolo 1 del Vangelo secondo Matteo fa però preciso riferimento a “la casata di Davide” e dice: «Gesù Cristo è discendente di Davide, il quale a sua volta è un discendente di Abramo. Ecco l’elenco degli antenati della sua famiglia.» e di seguito cita i quaranta nomi di coloro che, di padre in figlio, portano fino a Giuseppe, il padre putativo di Gesù.

     Michelangelo, quindi, traccia la genealogia di Gesù Cristo secondo l’incipit del Vangelo di Matteo consapevole del fatto che si tratta di una serie di nomi quasi tutti poco visibili e, a parte qualcuno [come Davide, Salomone, Giuseppe], privi di qualsiasi immagine nella tradizione cristiana.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete i primi 17 versetti del capitolo 1 del Vangelo secondo Matteo dove l’elenco degli antenati di Gesù comprende quaranta nomi mentre sul soffitto della Sistina, nelle Lunette, ne restano trentatré, perché?

     La raffigurazione degli Antenati di Gesù, e dei cartigli con il loro nome, non procede secondo un ordine cronologico perché lo scopo del progetto è quello di illustrare il concetto secondo cui “l’evoluzione” del mondo precristiano conduce comunque a Gesù Cristo e il mondo precristiano [in particolare la cultura ebraica e la cultura greca e latina] ha un ruolo fondamentale nella Storia della salvezza.

     Per giunta i nomi dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuda, Fares, Esrom, Aram che si trovavano sulla parete di fronte all’ingresso, sopra l’altare maggiore, sono stati cancellati da Michelangelo ventitré anni dopo quando ha usato anche lo spazio di quelle Lunette per dipingere il Giudizio Universale e per questo gli Antenati di Gesù si sono ridotti a trentatré.           

     Osservando le Lunette con gli Antenati si nota subito che sopra di esse si trovano otto triangoli, che dall’estremità della parete s’insinuano nella volta, ai quali è stato dato il nome di Vele. Nelle Vele sono rappresentati dei gruppi di famiglia con personaggi che non hanno una loro identità. Le figure in primo piano sono rappresentate con colori brillanti mentre quelle in secondo piano sono dipinte con minor grado di definizione e questo accorgimento produce un effetto di profondità allo spazio angusto nel quale queste figure si trovano, figure che, nel complesso, sembrano simboleggiare la storia di sofferenza degli Ebrei, costretti a un doloroso esilio perpetuo [la condizione dell’ebreo errante], nell’attesa di una redenzione. La maggior parte delle figure dipinte nelle Vele [nei triangoli sopra le Lunette] non sembra però particolarmente malinconica: sono otto gruppi di figure che appaiono come esiliate nei loro angusti spicchi di soffitto e ogni scena è dominata da una figura materna, sono figure pensierose, concentrate, vigili ma solo una madre [della famiglia sopra la Lunetta di Iesse, Davide e Salomone] sembra palesemente disattenta per il semplice motivo che è immersa in un sonno tranquillo. La figura della madre è il fulcro da cui la famiglia dipende per la propria sopravvivenza e continuità.

     Nella Vela sopra i cartigli di Ozias, Ioatham e Achaz la madre è rappresentata nell’atto di allattare il suo bambino mentre ha in mano un filone di pane, il fondamento della vita. Nella Vela sopra la Lunetta di Zorobabel la madre vigila mentre il marito e il figlio dormono pacificamente. In una delle ultime Vele, quella sopra la Lunetta di Salmon, Booz e Obeth, la madre sorride apertamente e usa un paio di forbici per scucire il bordo dal suo mantello e questa era un’azione che gli Ebrei erano soliti praticare mentre viaggiavano in territori ostili, per nascondere gli oggetti di valore nei propri vestiti e il sereno sorriso della madre ci comunica che tutti sono giunti incolumi alla fine del viaggio, e questa è una metafora della redenzione che, come afferma Paolo di Tarso, è già avvenuta per tutti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le figure di “due madri con il loro bambino” - ritratte nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina - le potete trovare su un Catalogo reperibile in biblioteca e navigando in rete...

Vela sopra Ozias, Ioatham e Achaz

Vela sopra la Lunetta di Zorobabel, Abiud e Eliachim

Vela sopra la Lunetta di Salmon, Booz e Obeth

Probabilmente tutte e tutti noi abbiamo delle foto che ci traggono con nostra madre: descrivetene una, bastano quattro righe in proposito...

     Michelangelo [così come la pensa Giulio II], nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina, vuole mettere in evidenza il fatto che anche gli Ebrei sono “salvi”, anche gli Ebrei sono stati “salvati” ma questa affermazione non viene accettata perché, in questo momento, nei confronti dei “perfidi” Ebrei, da parte dei tribunali dell’Inquisizione, tira un’aria di persecuzione [nel 1492 gli Ebrei e i Mussulmani sono stati espulsi dalla penisola Iberica dalla cristianissima regina Isabella e a migliaia sono morti durante le operazioni di trasferimento]. Bisogna ricordare che in questi anni, agli albori dell’Età moderna, nei paesi europei, il Talmud e i Libri della Bibbia vengono spesso - tutte le volte che scatta una forma di repressione - messi al rogo. E anche se, nel 1512, non sono ancora costretti a vivere nei ghetti [il primo ghetto è sorto a Venezia nel 1515], gli Ebrei sono considerati in molti paesi europei cittadini di seconda classe con ridotti diritti civili. Nel 1215, trecento anni prima, il Quarto Concilio Lateranense, presieduto da Innocenzo III, aveva decretato che gli Ebrei dovessero indossare un particolare segno di riconoscimento in modo tale da distinguerli dai buoni cristiani, e questo simbolo di riconoscimento doveva essere giallo [il colore della perfidia], e in tempi recenti, per opera dei nazisti, gli Ebrei sono stati costretti a indossare la stella gialla.

     E Michelangelo ci fa riflettere con un dettaglio che [sostenuto dal papa] ha voluto mettere in evidenza per sottolineare che anche gli Ebrei “marchiati” sono già salvi.

     Nell’ultima Lunetta della parete destra Michelangelo ritrae il personaggio di Aminadab [uno degli Antenati di Gesù, a sinistra nel riquadro sottostante] il quale, come è scritto nel Talmud, è un padre esemplare e i suoi figli sono persone altrettanto encomiabili. Di questi figli il più celebre è Naason, ritratto da Michelangelo nell’ultima Lunetta della parete sinistra (a destra nel riquadro sottostante), e la sua fama dipende dal fatto che, quando gli Ebrei in fuga dall’Egitto si sono trovati intrappolati tra il Mar Rosso e l’armata del faraone, non è stato solo il bastone alzato di Mosè a separare le acque ma, secondo il Midrash, Dio non è intervenuto fino a quando Naason, figlio di Aminadab, si è gettato in acqua gridando: «Sono [fedele] come te, o Dio?» e solo in quel momento le acque del Mar Rosso si sono divise perché Naason, con la sua prova di fede [l’evidenza delle cose non viste], ha dimostrato di credere che Dio avrebbe mantenuto la sua promessa di liberazione.

     I sapienti del Talmud attribuiscono la fede di Naason all’educazione ricevuta da suo padre Aminadab che viene raffigurato da Michelangelo come una persona aitante, in abiti orientali, con una ribelle chioma rossiccia, con una espressione di disappunto e con gli occhi arrossati dal pianto, e questa è anche una delle poche figure umane che Michelangelo, nel corso della sua carriera, abbia dipinto seduta con la schiena perfettamente dritta, un segnale come per dire a chi guarda: fate attenzione a questa immagine! Dobbiamo pensare anche che in questa immagine ci sia un aspetto autobiografico: in questo momento Michelangelo trasporta la sua sofferenza sul corpo e sul volto di Aminadab perché sta facendo una fatica sovrumana nell’affrescare l’enorme soffitto con la testa piegata e la polvere dell’intonaco che gli cade negli occhi causandogli seri problemi alla vista, e mentre dipinge questo ritratto [lo scrive anche] l’artista è esasperato.

     Ma quale particolare salta agli occhi con la figura di Aminadab? Sul suo avambraccio sinistro possiamo notare un cerchio di colore giallo brillante: un anello di stoffa cucito sulla tunica di Aminadab, ed è il simbolo che corrisponde al marchio che il Quarto Concilio Lateranense e l’Inquisizione hanno imposto agli ebrei d’Europa. In ebraico Aminadab significa “dalla mia gente nascerà un principe” e questa frase, oltre a riferirsi al figlio Naason, indirizza la mente anche verso la persona di Gesù Cristo che è figlio del popolo ebreo. E il messaggio è inviato [da parte del papa che coltiva da sempre l’amicizia con gli Ebrei] ai tribunali dell’Inquisizione per dire: «È questo il modo in cui trattate la famiglia di Nostro Signore Gesù Cristo?».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La figura di Aminadab - ritratta nell’ultima Lunetta della parete di destra del soffitto della Cappella Sistina - la potete trovare su un Catalogo reperibile in biblioteca e navigando in rete...

Lunetta di Aminadab

Quale simbolo vorreste scegliere per accogliere piuttosto che per discriminare? ...

Bastano poche righe per descriverlo ...

     Le immagini suggestive contenute nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Sistina le potete osservare una per una sui Cataloghi che le riportano [che trovate in biblioteca] e sui siti della rete ma bisogna avere la consapevolezza che queste immagini rimandano ad una visione complessiva che è piuttosto complessa da leggere e sulla quale non possiamo non riflettere perché sta nelle corde del committente [Giulio II], del pittore [Michelangelo] e del consulente librario [Fedra Inghirami] i quali sono intellettualmente legati alla corrente pedagogico-filologica del neoplatonismo e la loro cultura possiede l’imprinting proveniente dalle opere di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, che, come sappiamo, sono i maestri del pensiero filosofico rinascimentale.

     Come sappiamo, le opere esegetiche e teologiche di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola sono state messe all’Indice dal Sant’Uffizio soprattutto per una ragione fondamentale che si trascina dal IV secolo [dal Concilio di Nicea] e che riguarda l’argomento principale della dottrina: il tema della natura di Gesù Cristo.

     Il problema è stato solo apparentemente risolto a Nicea nel 325 per volontà di Costantino che vuole la creazione di uno strumento [il Simbolo niceno, il Credo, una professione di fede non solo nel cristianesimo ma anche una dichiarazione di fedeltà all’imperatore] in modo che possa governare l’Occidente tramite la Chiesa di Roma [lui a Roma non ci vuole stare e si è fatto ristrutturare una città che porta il suo nome, Costantinopoli]. Ma il vescovo di Roma, papa Silvestro, non ha partecipato al Concilio di Nicea perché ufficialmente è vecchio e malato [invia i suoi rappresentanti Osio di Cordova e i romani Vito e Vincenzo] però si capisce che non vuole governare Roma al posto dell’imperatore [il papa deve fare il pastore e non il re] e, soprattutto, diffida dell’imposizione di una definizione univoca della natura di Gesù [sulla natura di Gesù c’è una discussione in corso fin dalle origini della Chiesa e le varie tesi hanno tutte valide basi riscontrabili nella Letteratura dei Vangeli] e papa Silvestro, sulla scia di papa Clemente Romano che all’inizio del II secolo ha scritto gli Atti degli Apostoli, il primo catechismo della Chiesa romana] ritiene debba prevalere non l’idea che l’unità della Chiesa [o delle Chiese, come si dice nel IV secolo, al plurale] dipenda da “un’unica formula di compromesso” ma da “la fraterna comunione dei fedeli pur nella diversità di vedute” che è già presente nella Letteratura dei Vangeli [non a caso i Vangeli canonici sono quattro per tener conto delle differenze tra diverse tradizioni ecclesiali che sono andate formandosi nel tempo].

     Ebbene, papa Giulio II, seguendo le orme dei suoi predecessori Clemente Romano e Silvestro, vuole, come già ben sapete, la demolizione della basilica costantiniana di San Pietro in nome dall’autonomia della Chiesa auspicando che si debba liberare la dottrina da qualsiasi mira imperiale e imperialista [con le nuove scoperte geografiche le nazioni colonialiste europee pensano subito di poter utilizzare “l’ideologia dell’unica religione vera” per giustificare i massacri di infedeli] e, quindi, il papa preferisce, da filosofo rinascimentale [con l’apporto di Michelangelo e di Fedra Inghirami], ribadire, con la dovuta cautela, che nella Chiesa dovrebbe valere “la fraterna comunione nella diversità di vedute”, un concetto già presente nella Letteratura dei Vangeli, e detesta il diktat del Sant’Uffizio che tiene ferma la dottrina imperialista [l’ideologia dell’unica religione vera] ancorata sui decreti del Concilio di Nicea.

     Ma che nesso c’è tra questo discorso e l’affresco del soffitto della Sistina? Procediamo con ordine.

     Come sapete, al Concilio di  Nicea si è verificato lo scontro tra due linee di tendenza sul tema della natura di Gesù, la questione è: Gesù è figlio di Dio per “filiazione diretta” oppure perché “è stato adottato da Dio”? Costantino, che ha una mentalità pagana, fondata sul mito delle divinità greco-romane, fa sì che nel documento finale [il Simbolo niceno, il Credo] prevalga la formula della “filiazione diretta” [come se Gesù fosse il mitico figlio di un dio pagano], una formula che messa per iscritto definisce Gesù Cristo “della stessa sostanza del Padre” [omooùsios, secondo la prima categoria di Aristotele]. Ma c’è una nutrita e agguerrita corrente contraria, la corrente “adozionista”, che - in base al testo del Vangelo secondo Marco [che inizia con il battesimo di Gesù, che è un chiaro atto di adozione] e, soprattutto, in base all’Epistolario di Paolo di Tarso [dove si parla esplicitamente di adozione] - propone una formula che definisce Gesù Cristo “di sostanza simile, somigliante, a quella del Padre [omoioùsios]. Costantino impone con la spada la formula nicena che dà adito a un sanguinoso conflitto di religione che si trasforma in guerra di conquista sul territorio mediorientale.

     Le immagini suggestive contenute nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Sistina rimandano ad una visione complessiva che si rifà alle opere esegetiche e teologiche di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola che, come sappiamo, sono state messe all’Indice dal Sant’Uffizio perché fanno professione di “adozionismo”: Gesù di Nazareth è un rabbi ebraico che è stato adottato da Dio [nel battesimo] per le sue qualità umane e perché ha avuto fede, e questo concetto [scrive Pico della Mirandola nel Trattato sulla dignità umana] viene enunciato da Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani dove l’Apostolo afferma che “la fede è l’evidenza delle cose mai viste” [è far vivere le cose che non esistono ancora (Romani 4, 17)] e Dio ha adottato Gesù come figlio perché è la persona umana [nato da donna] che ha fatto suo un ideale [che ha avuto fede] senza bisogno di avere un riscontro o di usufruire di un tornaconto.

     Con le immagini suggestive contenute nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Sistina si tesse questo discorso che non procede sulla linea dell’ortodossia ma rispetta una tendenza che, per quanto possa essere considerata eretica, non ha mai cessato di esistere nella Chiesa: Gesù Cristo è figlio adottivo di Dio nello spirito, e nella carne è figlio di Davide [nato e cresciuto in una casata, in una normale famiglia umana] e, quindi, non è casuale il fatto che nelle Vele siano rappresentate in primo piano “le madri con i loro bambini” e nelle Lunette ci siano personaggi [gli Antenati di Gesù] in ascolto e in attesa.

      Nell’ultima Lunetta della parete sinistra, Michelangelo ritrae la figura di Naason, figlio esemplare di Aminadab, che si distingue per la sua fede intesa come “l’evidenza delle cose mai viste” [Paolo di Tarso cita il figlio di Aminadab come “persona dalla fede esemplare”] ed è a questo personaggio che Paolo di Tarso pensa quando riflette sul concetto della fede nella Lettera ai Romani dove afferma che “ci si salva per fede” e che “Gesù è stato adottato da Dio per la sua fede”. Se osservate l’immagine di Naason [nella parte destra del riquadro nel punto 3 del REPERTORIO...] - anche se è buia e di poco effetto - potete tuttavia prendere atto del fatto che Michelangelo rappresenta con l’ombra del giovane Naason [e il tratto dell’ombra, assai strana, è ben visibile] la figura di Paolo di Tarso, e, per giunta, per avvalorare questo fatto, per dargli continuità, quando più di vent’anni dopo Michelangelo affrescherà il Giudizio Universale darà alla testa del personaggio di San Paolo una conformazione simile a quella dell’ombra dipinta nella Lunetta di Naason. La presenza dell’ombra di Paolo di Tarso è avvalorata dal fatto che il giovane e riccioluto Naason è ritratto, tutto avvolto da un mantello rosso, in una posizione in cui si allunga con studiata disinvoltura [potrebbe sembrare uno studente un po’ snob] in modo da formare - con la testa, il busto e le gambe - la lettera greca lambda, posta in posizione orizzontale, e questa postura corrisponde al fatto che sul leggio c’è il volume dell’Epistolario di Paolo di Tarso aperto sulla pagina della Lettera ai Romani che contiene il capitolo 4 [con il tema delle promesse di Dio in relazione alla fede] e dove si riesce a leggere [con grande difficoltà, su indicazione del filologo Fedra Inghirami] una sola parola, la parola-chiave “lamprotes”, che significa “l’evidenza”, ed è il termine con cui inizia la definizione paolina della fede: “la fede è l’evidenza delle cose mai viste”. E questa affermazione è uno dei manifesti del movimento “adozionista” [Dio ha adottato Gesù Cristo come figlio perché ha avuto fede e la fede è l’evidenza delle cose mai viste].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La figura di Naason - ritratta nella prima Lunetta a sinistra a partire dall'altare del soffitto della Cappella Sistina - la potete trovare su un Catalogo reperibile in biblioteca e navigando in rete...

Lunetta di  Naason

     E questo messaggio, tipico esempio dello stile del “decorar mostrando”, emerge dalla visione complessiva delle scene affrescate ad arte nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Di fronte a quale situazione avete dovuto fare i conti con l’evidenza, e avete dovuto cedere all’evidenza?...     

Scrivete quattro righe in proposito...    

     È evidente che le immagini suggestive contenute nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina rimandano ad un pensiero di carattere antagonista rispetto alla concezione ortodossa che privilegia l’icona mitica [nicena e costantiniana] di Gesù Cristo. Con le immagini suggestive contenute nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina il committente [il papa], il pittore [Michelangelo] e il consulente librario [Fedra Inghirami] vogliono far trasparire, con la dovuta circospezione [per evitare di fomentare guerre di religione sempre in agguato], un’immagine che corrisponde al modo in cui Paolo ha definito Gesù da quando è stato adottato da Dio: Gesù è “il Cristo della fede” [l’Unto del Signore, lo stesso titolo che ricevono i re di Israele].

     Perché Paolo di Tarso, da circa tre secoli, è stato emarginato da chi detiene il potere di controllo sull’ortodossia? Abbiamo già ricordato il fatto che Paolo [in tutte le sue sette più sette Lettere] considera Gesù di Nazareth “figlio adottivo di Dio” e, secondo Paolo, un figlio adottivo  valorizza l’atto della filiazione perché, una volta caduto il mito del legame di sangue, amare una persona adottata comporta un maggior impegno, e poi “il metodo adozionista di Dio” avvalora il fatto che ad ogni persona, se ha fede, è data la possibilità effettiva di diventare figlia e figlio di Dio. Ma, oltre “al metodo adozionista”, sta di fatto che è tutta l’ideologia di Paolo di Tarso a essere in contrasto con la svolta trionfalistica che, soprattutto a partire dal 1198 [che succede in questo anno? Lo vedremo], investe la Chiesa ai suoi vertici per cui il pensiero di San Paolo diventa scomodo.

     Scrive Paolo nel primo capitolo [1, 17-31] della Prima Lettera ai Corinti: «Gesù Cristo, per noi che siamo stati chiamati, è la potenza e la sapienza di Dio. Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza umana, e la debolezza di Dio è più forte della forza umana. E Dio ha scelto coloro che vengono considerati insignificanti, per coprire di vergogna i potenti; ha scelto quelli considerati deboli, per buttar giù quelli che si credono forti». Paolo, da buon fariseo conoscitore della Scrittura, sta pensando a un debole pastorello che armato solo della sua fionda, quando viene a trovarsi di fronte ad un gigantesco guerriero, lo butta giù perché ha fede. Questo pastorello, destinato a governare, si chiama Davide, e quando Paolo, nel suo Epistolario, deve dare una definizione riguardo alla nascita di Gesù, di cui lui materialmente non riesce a sapere quasi nulla, scrive: «[Io diffondo] la buona notizia che riguarda Gesù Cristo nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne».

     E nell’affresco del soffitto della Cappella Sistina c’è anche la figura di Davide: dove si trova, come viene dipinta e perché? Il perché, in parte, già lo sapete ma ne sapremo di più la prossima settimana.

     Adesso, a proposito di Davide, concludiamo questo itinerario leggendo le restanti due pagine dell’incipit de La famiglia Karnowski perché David Karnowski è il primo protagonista della narrazione.

LEGERE MULTUM….

Israel Joshua Singer, La famiglia Karnowski

Nonostante secondo il contratto di matrimonio avesse il diritto di vivere mantenuto ancora a lungo nella ricca dimora del suocero, David Karnowski non voleva più restare nella città dove era stato costretto a subire in pubblico un simile affronto. Il suocero cercò di convincerlo, gli promise che non avrebbe più messo piede nella casa di preghiera dei hassidim ma sarebbe andato a pregare con lui in un’altra sinagoga, dove i fedeli avevano un atteggiamento più moderno e ragionevole. Poteva perfino riunire lui stesso il numero prescritto di dieci uomini per pregare a casa sua, se ci teneva tanto. Lea, la moglie, lo supplicò di non strapparla ai suoi genitori. David Karnowski non volle intendere ragioni.

«Non resterò un giorno di più in mezzo a quei selvaggi e bifolchi,» dichiarò «nemmeno per tutto l’oro del mondo».

Nella sua collera affibbiò ai notabili di Melnitz tutti gli epiteti ingiuriosi che aveva appreso nei suoi libri secolari: oscurantisti, retrogradi, idolatri.

Non voleva andarsene solo dalla città che lo aveva umiliato, ma dall’intera Polonia, immersa nelle tenebre dell’arretratezza. Già da tempo era attirato da Berlino, la città dove il suo maestro, il grande Moses Mendelssohn, aveva vissuto e scritto e dalla quale aveva diffuso la sua luce nel mondo. Quando, ragazzino, studiava il tedesco sulla traduzione della Torah di Mendelssohn, si era sentito attratto dal paese al di là della frontiera, da cui veniva tutto ciò che era buono, illuminato, razionale. Quando poi, diventato più grande, aveva cominciato ad aiutare il padre nel commercio del legname, gli era spesso capitato di dover leggere lettere in tedesco provenienti da Danzica, Brema, Amburgo e Berlino. Ogni volta la magia di quei nomi stranieri gli aveva procurato una fitta di dolore.

Anche i francobolli colorati con l’effigie dell’imperatore straniero risvegliavano in lui una nostalgia per quella terra, al tempo stesso estranea e familiare. Berlino rappresentava per lui la cultura, sapienza, nobiltà, bellezza, luce attingibili solo in sogno. Ora vedeva l’occasione di realizzare il suo desiderio, e prese a insistere con il suocero perché gli versasse la cospicua dote di Lea e lo lasciasse andare laggiù, oltre frontiera.

All’inizio Leib Milner non ne voleva sapere. Desiderava vivere insieme ai figli e ai generi. Sua moglie, Nehama, si tappava le orecchie per non sentire quei discorsi. Ci mancava soltanto che lasciasse partire la sua Lea per un paese straniero! Neanche per tutto l’oro del mondo. Scuoteva la testa con tale energia che i lunghi orecchini le frustavano le guance. Ma David Karnowski tirò dritto per la sua strada. Con un fiume di parole, facendo ricorso a tutta la propria erudizione, a un’infinità di argomenti ragionevoli e alla testardaggine dei Karnowski, dimostrò al suocero e alla suocera che dovevano lasciargli fare ciò che gli stava tanto a cuore. Giorno dopo giorno, parlò, insistette, discusse fino a quando il suocero si arrese. Leib Milner non poteva far fronte all’intelligenza e ai discorsi del genero. Ma Nehama, la suocera, non si lasciava piegare. No e no, ripeteva, a costo di arrivare a un divorzio, Dio non voglia. A questo punto però, fu la stessa Lea a intervenire.

«Mamma,» le disse «io andrò dove mi dirà il mio David».

Nehama abbassò la testa e scoppiò in lacrime. Lea l’abbracciò e pianse con lei.

David Karnowski aveva ottenuto quello che voleva, come sempre. Leib Milner gli versò l’intero ammontare della dote, ventimila rubli in biglietti da cento nuovi di zecca. Riuscì anche a convincere il suocero a mettersi in società con lui e a mandargli legname in Germania, via zattera e con il treno. La suocera preparò una montagna di dolci e biscotti, bottiglie di sciroppo e barattoli di marmellata, come se la figlia partisse per un viaggio nel deserto e avesse bisogno di provviste per anni. David Karnowski si accorciò la barba nera, indossò una bombetta, una giacca lunga solo fino alle ginocchia, si comprò un cilindro per lo shabbat e i giorni festivi e si fece perfino confezionare una redingote di panno con i risvolti di seta.

In pochi anni David Karnowski conseguì diversi importanti risultati nella capitale straniera dove si era stabilito. Prima di tutto, imparò a parlare bene il tedesco rispettando tutte le regole grammaticali, non il tedesco del Pentateuco di Mendelssohn, ma quello dei commercianti di legname, dei banchieri e dei funzionari. In secondo luogo, ebbe successo nella sua attività e divenne un personaggio importante del settore. Terzo, nel tempo libero, con l’aiuto di manuali, studiò da autodidatta l’intero programma della scuola superiore, come desiderava fin dalla giovinezza. Quarto, grazie alla sua erudizione e alla sua cultura secolare, strinse rapporti con i membri più in vista della Nuova Sinagoga dove pregava, che non erano immigrati miserabili, appena giunti dall’Est, ma la crema della società ebraica, radicata nel paese da molte generazioni.

Il suo appartamento, situato in un edificio signorile non lontano dalla Grosse Hamburgerstrasse dove si innalzava il monumento in memoria di Moses Mendelssohn, divenne un luogo di incontro per eruditi. Le pareti del suo vasto studio erano coperte, da terra sino al soffitto intagliato, di libri religiosi e profani, soprattutto testi antichi e rari che si procurava da Efraim Walder, un libraio della Dragonerstrasse, nel quartiere ebraico. La sera, nelle sue comode poltrone di cuoio, sedevano spesso non solo il rabbino della sua sinagoga, il dottor Spayer, ma altri sapienti ed eruditi, bibliotecari, insegnanti della facoltà rabbinica e perfino il decano, che si riunivano da lui per discutere di Torah e di scienza del giudaismo.

Quando, dopo tre anni di matrimonio, la moglie Lea gli diede il primo figlio, David Karnowski gli impose due nomi: Moshe, in onore di Mendelssohn, il nome ebraico col quale l’avrebbero chiamato alla lettura della Torah quando fosse stato più grande, e Georg, un nome tedesco che ricordava quello di suo padre Gershom, da usare nella vita di tutti i giorni.

«Sii un ebreo a casa tua e un cittadino quando ne esci» disse in ebraico e in tedesco David Karnowski al bimbo appena circonciso, come se la traduzione potesse rendere più chiaro al neonato l’ammonimento espresso nella lingua santa.

Gli invitati alla cerimonia, tutti in redingote nera e cilindro, approvarono le parole del padre con un cenno della testa.

«Sì, sì, egregio signor Karnowski,» commentò il dottor Spayer accarezzandosi la barbetta sottile e aguzza come una matita ben temperata «sempre l’aurea via di mezzo, ebreo fra gli ebrei e tedesco fra i tedeschi».

«La buona, vecchia, aurea via di mezzo» approvarono i notabili infilandosi i tovaglioli candidi nei colletti alti e rigidi, per partecipare al banchetto in onore della circoncisione.

     La figura di Davide, dipinta sul soffitto della Cappella Sistina, richiama il tema della fede secondo l’enunciato di Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani dove l’Apostolo afferma che “la fede è l’evidenza delle cose mai viste, delle cose sperate” [la fede è far vivere le cose che non esistono ancora (Romani 4, 17)].

     Come sappiamo, in epoca rinascimentale agli albori dell’Età moderna nasce un grande interesse per lo studio dell’Epistolario di Paolo di Tarso: Marsilio Ficino quando muore aveva appena cominciato a commentare l’Epistolario paolino, Pico della Mirandola nel Trattato sulla dignità umana cita spesso l’Epistolario paolino, Erasmo da Rotterdam facendo l’esegesi dell’Epistolario paolino elogia la saggezza che sta nella follia e la forza che sta nella debolezza, poi qualcuno [che incontreremo a suo tempo] prendendo spunto dalla definizione che Paolo dà della fede [l’evidenza delle cose mai viste] conia il termine “utopia” perché da cosa nasce cosa. E, inoltre, si studiano anche le ragioni per cui Paolo definisce Gesù “figlio di Davide, nella carne”. E come si traducono queste ragioni sul soffitto della Cappella Sistina? Dove si trova e come viene dipinta da Michelangelo la figura di Davide e perché la sua immagine si collega con quella di Giuditta, di Ester e di Mosè?

     Per rispondere a queste domande bisogna procedere sul nostro cammino con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, ma prima di dire [come è tradizione] che “non bisogna mai perdere la volontà d’imparare” vorrei leggere dodici versi:

LEGERE MULTUM….

Trilussa, La fede

Quella vecchietta cieca, che incontrai
la notte che mi persi in mezzo al bosco,
mi disse: - Se la strada non la sai,
ti ci accompagno io, ché la conosco.
Se hai la forza di venirmi appresso,
di tanto in tanto ti darò una voce,
fino là in fondo, dove c’è un cipresso,
fino là in cima, dove c’è la Croce  
Io risposi: - Sarà   ma trovo strano
che mi possa guidar chi non ci vede  -
La cieca allora mi prese per la mano
e sospirò: - Cammina! -  Era la Fede.

     E la fede, come scrive Paolo nella Lettera ai Romani, è “l’evidenza delle cose mai viste” [non ancora viste] e lo scrive proprio per ribadire che non bisogna mai perdere la volontà di imparare…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 21, 2017