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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È, NEL TESTO DELL’EPISTOLARIO DI PAOLO DI TARSO, LA PAROLA-CHIAVE “TYPOS”…

Lezione N.: 
19

Prof. Giuseppe Nibbi      Lo sapienza  poetica ellenistica  [evangelica e imperiale]      9-10-11  marzo  2011

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È, NEL TESTO DELL’EPISTOLARIO DI PAOLO DI TARSO, LA PAROLA-CHIAVE “TYPOS”…

     Da cinque mesi stiamo viaggiando sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico” e nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo messo a confronto la Lettera di Aristea e la Saggezza di Salomone: come sapete questi sono i titoli di due opere scritte ad Alessandria da intellettuali ebrei che operano nelle ekklesìe. I testi di queste due opere sono stati composti intorno al 140 a.C.. Qual è la natura di queste due opere? Sono due opere di propaganda: la prima, la Lettera di Aristea, a favore dell’integrazione dell’ebraismo con la cultura greca, mentre la seconda, la Saggezza di Salomone, è schierata contro. Abbiamo incontrato e stiamo utilizzando queste due opere perché rappresentano due termini opposti per capire quale significativo dibattito sul tema dell’integrazione sia in corso nelle ekklesìe dal III secolo a.C..  Chi vince – ci siamo chieste e ci siamo chiesti – in questo scontro epocale? Nel porci questa domanda abbiamo capito che il problema non è di stabilire chi vince, perché in questo caso ha vinto la cultura o la coltura che dir si voglia: vale a dire che “si è seminato e si è raccolto”!

     Difatti nel corso di questo serrato dibattito culturale sono state prodotte opere che hanno lasciato il segno nella Storia del Pensiero Umano e che risultano utili – se fossero studiate – per capire molti aspetti della realtà attuale. Il grande risultato ottenuto da questo investimento in intelligenza – e qui sta la vittoria – sono i “frutti” che sono stati prodotti nel corso del vivace confronto intellettuale che si è sviluppato: e tra i “frutti” (di cui la Scuola ha proposto l’assaggio) ci sono i testi dei due Libri dei Maccabei – mi auguro che ne abbiate letto qualche riga – che  propongono uno straordinario racconto epico. Poi, tra i “frutti” (di cui la Scuola ha proposto l’assaggio), c’è il Libro della Sapienza – che abbiamo incontrato la scorsa settimana in chiusura di itinerario –, formato da 19 capitoli nei quali si susseguono una serie di “riflessioni esistenziali” descritte mediante l’utilizzo del genere letterario della poesia, e spero proprio abbiate letto qualche riga di questo straordinario testo.

     È evidente che adesso – nel riprendere il passo – dobbiamo chiederci ancora: ma concretamente su che cosa si dibatte, su che cosa si concentrano le discussioni nelle ekklesìe e qual è l’oggetto del contendere sul tema dell’integrazione tra culture? Quali sono i nodi culturali che caratterizzano queste dispute che durano anni e anni e alle quali partecipa anche Paolo di Tarso? Sappiamo che Paolo di Tarso porta a maturazione le sue idee proprio prendendo parte a questo dibattito di importanza epocale. I nodi e i temi del dibattito che si svolge nelle ekklesìe sono la “materia prima (se così possiamo dire)” con cui sono composti i testi delle Lettere contenute nell’Epistolario di Paolo di Tarso.

     La prima questione che ci si pone di fronte, e alla quale accenniamo soltanto, ma della quale dobbiamo tener conto, riguarda le dimensioni dello scontro culturale, della polemica intellettuale in atto: ad Alessandria c’è uno scontro in atto tra gli intellettuali che si riuniscono in Biblioteca e quelli che frequentano il Museo.

     La Biblioteca è uno spazio più aperto e più libero e difatti l’ekklesìa si riunisce e trova la sua collocazione nella Biblioteca – l’ekklesìa, come sappiamo, è un’assemblea ed ha una struttura “liquida (diremmo oggi)”, è come un’onda che ha bisogno di uno spazio ampio per esprimere la sua energia, e diventa aperta a tutti nel momento in cui, al suo interno, si discute (come abbiamo studiato) se questa struttura possa essere davvero aperta a tutti quelli che vogliono dar voce ad un’idea – mentre il Museo, come sappiamo, è un’istituzione simile ad una università: il Museo di Alessandria è una spaziosa e confortevole costruzione dove, intorno al tempio delle Muse, i letterati, i filosofi, gli scienziati si dedicano, a spese dello Stato, allo studio, alla ricerca e all’insegnamento ed è evidente che gli intellettuali che vengono assunti nel Museo – dove c’è un numero chiuso – si sentano in dovere di essere riconoscenti nei confronti del monarca che li sta gratificando e, quindi, sono piuttosto succubi, piuttosto devoti verso il potere e di conseguenza – come dicono gli intellettuali da Biblioteca – finiscono per fare gli “scarabocchiatori libreschi che vivono in gabbia”, nella “gabbia delle Muse”.

     Difatti un capitolo del libro intitolato La biblioteca scomparsa di Luciano Canfora s’intitola proprio “Nella gabbia delle muse” e adesso ne leggiamo l’incipit – una decina di righe – tanto per prendere coscienza del fatto che esiste questa situazione: una situazione che serve per accentuare ancor di più le polemiche culturali, ma, in questo caso, la polemica (e verrebbe da dire: senza l’abuso del sistema mediatico che trasforma la “polemica” in sceneggiata) è un motore che produce energia intellettuale.

     Leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM ….

Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa  Capitolo VIII

Nella gabbia delle muse

Dentro il Museo però la vita non era affatto tranquilla. «Nella popolosa terra d’Egitto - ghignava un poeta satirico contemporaneo - vengono allevati degli scarabocchiatori libreschi che si beccano eternamente nella gabbia delle Muse». Timone, il filosofo scettico cui si debbono queste parole, sapeva che ad Alessandria, lui dice vagamente «in Egitto», c’era il favoloso Museo: e lo chiama «la gabbia delle Muse» alludendo appunto alla sembianza di uccelli rari, remoti, preziosi, dei suoi abitatori. Dei quali dice che «vengono allevati» anche alludendo ai privilegi materiali concessi loro dal re: il diritto ai pasti gratuiti, lo stipendio, l’esenzione dalle tasse.

Li chiamava charakitai intendendo «che fanno scarabocchi» sui rotoli di papiro, con un voluto gioco di parole con charax, «il recinto», dietro il quale quegli uccelli da voliera di lusso vivevano nascosti e di loro se ne poteva fare a meno perché tutto il mistero e la riservatezza che li circondava copriva in realtà il vuoto, il nulla

     Difatti la leggenda sulla traduzione in greco dei Libri del Pentateuco racconta che i mitici settantadue saggi traduttori non vengono ospitati nel Museo per svolgere il loro lavoro creativo ma nell’Isola di Faro. Potete ultimare voi la lettura del capitolo VIII de La biblioteca scomparsa.

     Noi capiamo – ed è utile che si sappia – che in età ellenistica c’è uno scontro in atto tra “intellettuali di Biblioteca” e “intellettuali di Museo” ma c’è anche uno scontro in atto tra intellettuali all’interno del Museo e tra intellettuali di Biblioteca tra loro e tra intellettuali che partecipano all’animata attività culturale che si svolge nelle ekklesìe: ed è proprio lo scontro culturale – che porta a mettere in luce le molte divergenze intellettuali – che procura grande vivacità al dibattito e che fa aguzzare l’ingegno a chi vi partecipa.

     Il primo argomento di scontro e di dibattito nelle ekklesìe – dove incontriamo Paolo di Tarso e dove si riuniscono Ebrei e non Ebrei (i Gentili) considerati “ospiti” (e noi conosciamo bene questo argomento) – è di natura letteraria e di carattere filologico ed esegetico, e questo primo argomento di scontro corrisponde ad una serie di interrogativi che possiamo sintetizzare così: come vanno interpretati i testi dei Libri dell’Antico Testamento e, soprattutto, come va interpretato il testo della toràh? I testi dei Libri dell’Antico Testamento vanno letti come se fossero una struttura “fondamentalmente” rigida, cioè, quello che c’è scritto va considerato “vero” alla lettera? Oppure la “scrittura” va letta come se fosse una struttura di carattere “allegorico” che si sviluppa per “metafore” e, quindi, la verità è contenuta in immagini simboliche che vanno interpretate?

     Il secondo argomento di scontro e di dibattito nelle ekklesìe è di natura antropologica e riguarda la disputa su come manifestare concretamente la propria appartenenza alle ekklesìe: la partecipazione alla vita delle ekklesìe va regolamentata? L’appartenenza alle ekklesìe si deve manifestare in forme di carattere “religioso”, attraverso riti che onorino la tradizione e, quindi, che prevedano il rispetto della regola della circoncisione, delle regole alimentari e della pratica delle abluzioni quotidiane prescritte? Oppure l’appartenenza alle ekklesìe si deve manifestare in forme “culturali” che presuppongono nuovi comportamenti più laici e più secolarizzati? C’è anche, naturalmente, una corrente di pensiero trasversale che vuole trovare una “mediazione” affermando che si può appartenere alle ekklesìe manifestando sia comportamenti di carattere “religioso” che comportamenti di carattere “culturale”.

     E allora facciamo il punto della situazione in modo molto più concreto: all’inizio del I secolo a.C., nelle ekklesìe, la discussione verte su una serie di temi significativi. Quali temi? Cataloghiamoli in funzione della lettura dell’Epistolario di Paolo di Tarso.

     Il primo tema può essere formulato così: gli Ebrei e i non Ebrei (i Gentili) hanno gli stessi diritti davanti a Dio?

     Il secondo tema può essere formulato così: ai non Ebrei (i Gentili) va imposta la regola della circoncisione, del patto di sangue con Dio?

     Il terzo tema può essere formulato così: ai non Ebrei (i Gentili) non deve proprio essere concessa la circoncisione – anche se volessero usufruirne – perché è un “patto” esclusivo, riservato solo agli Ebrei?

      Il quarto tema può essere formulato così: le regole alimentari tradizionali dettate dalla Legge di Mosè vanno imposte ai non-Ebrei perché le rispettino?

     Il quinto tema può essere formulato così: si possono introdurre nella comunità ebraica abitudini alimentari e di costume provenienti dalle altre culture come la greca, l’egizia, la mesopotamica, la pagana?

     Il sesto tema può essere formulato così: la lingua, le parole e le idee della filosofia greca coltivate sul territorio dell’Ellenismo possono o non possono entrare nello stile di vita e nei percorsi scolastici frequentati dagli Ebrei?

     Il settimo tema può essere formulato così: la lingua, le parole e le idee dell’Ellenismo possono essere usate per commentare la toràh?

     Questo è il catalogo dei temi (i sette temi a cui allude Paolo nel suo Epistolario) più importanti su cui si sviluppa la discussione, una discussione che produce una frantumazione all’interno delle ekklesìe in gruppi contrapposti e in correnti di pensiero che si fronteggiano accanitamente. Questo dibattito molto acceso – e bisogna sempre sottolineare il fatto che il dibattito è molto acceso ma non è improduttivo – nasce non solo dall’esigenza che ogni persona e ogni gruppo sente di affermare le proprie idee, ma scaturisce da una situazione di inquietudine più profonda per cui si discute, e ci si mette in discussione, soprattutto perché non si è soddisfatti di quello che si è e di quello che si ha, e si vorrebbero definire, nel modo più preciso possibile, delle identità. La cultura dell’Ellenismo diffonde un forte bisogno di ricerca di un messaggio di salvezza e di redenzione. Il periodo dell’Ellenismo è caratterizzato dalla ricerca di “punti di riferimento” che sappiano produrre un forte senso “dell’attesa”, che sappiano creare una grande aspirazione verso il cambiamento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Secondo voi, oggi, nella società in cui viviamo, ci sono dei punti di riferimento che sappiano provocare il “senso dell’attesa”, che sappiano far nascere un’aspirazione al cambiamento ?

Scrivete quattro righe in proposito

     In età ellenistica il sentimento dell’attesa e l’aspirazione al cambiamento trovano spazio nel teatro, nel cosiddetto teatro popolare, nei testi di quelli che sono stati chiamati i drammonidel  “teatro popolare. Abbiamo fatto riferimento a questo tema quando la scorsa settimana abbiamo letto il capitolo VII  de La biblioteca scomparsa di Luciano Canfora intitolato “Il simposio dei sapienti”. In questo capitolo – come ricorderete – si fanno alcune considerazioni sullo sviluppo di quel grande fenomeno che è il teatro popolare in età ellenistica. Nel capitolo intitolato Il simposio dei sapientide La biblioteca scomparsa di Luciano Canfora si legge: «Intanto nei teatri di Alessandria (ancora al tempo in cui vi si insediarono gli Arabi ve n’erano circa quattrocento) si susseguivano in gaia promiscuità drammoni storici adatti al gusto dei vari popoli che si mescolavano nella variopinta metropoli». E si legge inoltre che le sceneggiature di questi drammoniprendono spunto soprattutto da due apparati che noi abbiamo studiato in questi anni: i racconti tratti da Le storie di Erodoto (un argomento che molte e molti di voi conoscono bene) e quelli tratti dalle narrazioni romanzesche contenute nei Libri della Genesi e dell’Esodo.

     Ma, a questo proposito,  rileggiamo un frammento del capitolo intitolato “Il simposio dei sapienti” da La biblioteca scomparsa di Luciano Canfora.

LEGERE MULTUM ….

Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa  Capitolo VII

Il simposio dei sapienti

Nei teatri frequentati dagli Ebrei furoreggiavano le cosiddette «tragedie» di un bravo manovale della scena, tale Ezechiele, che drammatizzavano, in una serie di quadri scanditi da cori, gli episodi più celebri e commoventi dell’Antico Testamento: la storia di Mosè, la fuga dall’Egitto, la cattività babilonese. Erano materia ben altrimenti affascinante che le storie di harem ricavate da Erodoto, ed anche qualche autore greco osava metterle in scena. Per esempio ci provò Teodette di Faselide, ma gli scese una cataratta.

Ora però che i saggi di Gerusalemme, il fior fiore della dottrina rabbinica, erano ad Alessandria, e oltre tutto mostravano di non gradire questa mescolanza di sacro e profano, si cercò di impedire che fosse inscenata la storia sacra nei teatri. Oltre tutto la si recitava, come ovvio, in greco, la lingua cui erano assuefatti anche gli Ebrei che frequentavano tali spettacoli. E sembrava quasi offensivo che, mentre si poneva mano con tanto sacrale solennità alla auspicata traduzione greca del Pentateuco, circolassero queste surrettizie e poco affidabili traduzioni per le scene.

     Il non gradimento della mescolanza di sacro e di profanoda parte dell’autorità rabbinica dipende soprattutto dal fatto che le cosiddette «tragedie» di quel bravo manovale della scena che si chiama Ezechielesminuiscono e annacquano dal punto di vista ideologico il concetto dell’attesadi cui ci occuperemo fra un po’.

     Prima vogliamo riflettere sul fatto che questi drammoniellenistico-alessandrini rappresentano un fenomeno molto importante sul piano della comunicazione mediatica perché sono gli antenati di quelli che saranno poi, in età contemporanea, i radiodrammi (chi di noi non ha seguito il teatro alla radio?) e, in seguito, le telenovelle (finzioni che prendono spunto dalla realtà). Non c’è dubbio che le telenovelle (finzioni che prendono spunto dalla realtà), che sono eredi dei drammoniellenistico-alessandrini, servano a tutt’oggi per surrogare il senso dell’attesa e per trasformare in sogno l’aspirazione verso il cambiamento e su questo loro aspetto alienante si è sempre riflettuto.

     A questo proposito cogliamo l’occasione per aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Dobbiamo subito dire che la Scuola – mettendolo in REPERTORIO – ha portato bene allo scrittore che stiamo per incontrare perché proprio quest’anno ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura. Lo scrittore di cui stiamo parlando si chiama Mario Vargas Llosa ed è nato nel 1936 ad Arequipa in Perù il quale, dopo essersi laureato a Lima, ha vinto un dottorato di ricerca all’Università di Madrid e, quindi, si è trasferito in Europa ed ha vissuto a lungo a Parigi, a Londra, a Barcellona dove ha collaborato a numerosi giornali. Nel 1963 Vargas Llosa viene conosciuto in campo letterario a livello internazionale per il romanzo La città e i cani e il successo che ha ottenuto – gli sono stati assegnati molti premi – gli ha permesso di dedicarsi a tempo pieno all’attività letteraria e all’attività di conferenziere. Nel 1990 Vargas Llosa è stato candidato in Perù alle elezioni presidenziali ma è stato sconfitto. I romanzi più famosi di questo scrittore – che meritano di essere letti – sono, oltre a La città e i cani, La Casa Verde (1965), I cuccioli (1967), Conversazione nella cattedrale (1969), Pantaleon e le visitatrici (1973), L’orgia perpetua (1975), Storia di Mayta (1984), Chi ha ucciso Palomino Molero? (1968), Il narratore ambulante (1987), Elogio della matrigna (1988), Il caporale Lituma sulle Ande (1993), I quaderni di Don Rigoberto (1997), La festa del caprone (2000), il saggio La verità delle menzogne (1990) e poi il romanzo di cui ci occupiamo questa sera che è stato scritto nel 1977 e che s’intitola La zia Julia e lo scribacchino.

     La zia Julia e lo scribacchino è soprattutto un grande romanzo sul tema dello scrivere ma è anche un significativo romanzo sul tema dell’amore. La trama di questo romanzo ruota intorno a due straordinari personaggi: il primo di questi si chiama Pedro Camacho il quale è un prolifico autore di radiodrammi (di drammoni) per Radio Central di Lima – e questo è il pretesto che mette questo romanzo in sintonia con il nostro Percorso –, mentre il secondo personaggio si chiama Mario ed è uno studente un po’ svogliato che coltiva, però, un’ambizione letteraria e che s’innamora, ricambiato, della zia divorziata – la zia Julia appunto – con la quale finirà per convogliare a nozze, in modo rocambolesco, con grande scandalo dei famigliari. Pedro Camacho a poco a poco scivola in una dolce e inconcludente follia in cui confonde sempre più gravemente le trame dei suoi drammoni sceneggiati finché, infine, si autocondanna al silenzio. Mario, invece, diventerà uno scrittore di successo e quando incontrerà di nuovo Pedro Camacho che era stato per lui, in passato, un modello, avrà un presentimento e capirà, vedendo l’oblio in cui è caduto l’ormai ex famoso autore, quale potrà essere il suo futuro e quale sarà il suo destino che, poi, è il destino che tocca a tutte le persone.

     L’elemento più importante di questo romanzo – che lo scrittore sa dominare alla perfezione – è il complesso e ricchissimo rapporto fra la storia principale e quella dei radiodrammi che è poi il motivo per cui questo testo c’interessa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ricordate quando nelle case c’era la radio come unico strumento mediatico?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     E ora leggiamo l’incipit di questo romanzo, ma prima dell’incipit leggiamo la citazione che lo scrittore ha posto prima dell’inizio e che è tratta da un’opera intitolata El Grafógrafo di Salvador Elizondo.

LEGERE MULTUM ….

Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino

Scrivo. Scrivo che scrivo. Mentalmente mi vedo scrivere che scrivo e posso anche vedermi vedere che scrivo. Mi ricordo che già scrivevo e anche che mi vedo scrivere che scrivevo. E mi vedo che ricordo che mi vedo scrivere e mi ricordo che mi vedo ricordare che scrivevo e scrivo vedendomi scrivere che ricordo di avermi visto scrivere che mi vedevo scrivere che ricordavo di avermi visto scrivere che scrivevo. Posso anche immaginarmi che scrivo che già avevo scritto che mi sarei immaginato che scrivevo che avevo scritto che mi immaginavo che scrivevo che mi vedo scrivere che scrivo.

SALVADOR ELIZONDO, El Grafógrafo

In quel tempo remoto, io ero molto giovane e vivevo con i miei nonni in una villa dai muri bianchi di calle Ocharàn, a Miraflores [Centro residenziale alla periferia di Lima].

Studiavo all’università di San Marcos, legge, mi sembra, rassegnato a guadagnarmi più tardi la vita da libero professionista, anche se, in fondo, mi sarebbe piaciuto di più riuscir a diventare uno scrittore.

… continua la lettura …

     La cultura dell’Ellenismo – abbiamo detto – diffonde un forte bisogno di ricerca di un messaggio di salvezza e di redenzione (questo bisogno lo diffondono le Scuole epicuree, le Scuole stoiche, le Scuole scettiche e questi argomenti li abbiamo studiati durante il viaggio dello scorso anno scolastico). L’età dell’Ellenismo – soprattutto il periodo che va dal I secolo a.C. al I  secolo d.C. – è caratterizzato dalla ricerca di “punti di riferimento” che sappiano produrre un forte senso “dell’attesa”, che sappiano creare una grande aspirazione verso il cambiamento (o verso l’idea della “trasformazione” e non è casuale il fatto che questo sia il tempo de Le metamorfosi di Ovidio).

     Dal punto di vista ideologico, negli ambienti culturali della “diaspora ebraica”, il concetto de “l’attesa di un cambiamento” (questo continua ad essere un tema di grande attualità) prende il nome di “messianismo” (“mescìa”, in ebraico, significa “unto” e questo termine fa riferimento alla speranza di avere un re che sappia ben governare o ad un “profeta” che instauri il regno di Dio in terra) e sul tema del “messianismo” – in principio legato ad uno stato d’animo e, in seguito, corroborato da una significativa riflessione intellettuale – si sviluppa nelle ekklesìe un serrato dibattito sui significati da dare a questa idea. L’idea del “messianismo” – e tutte e tutti noi sappiamo di che cosa si tratta – si sviluppa e si manifesta attraverso un dibattito vivacissimo e intensissimo su come dovesse avvenire e si dovesse realizzare il cambiamento. A questo dibattito partecipa, con passione, Paolo di Tarso e noi sappiamo già che “il tema dell’attesa (insieme a quello della “salvezza” e della “colpa”) è uno degli argomenti principali che risaltano nei testi del suo Epistolario.

     E, a questo proposito, dove possiamo trovare un riscontro? Possiamo trovare un riscontro dell’idea “dell’attesa di un cambiamento” – un’idea accompagnata dal dubbio, coltivato da Paolo, che il “cambiamento” non sia imminente – nel testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi (il testo di questa Lettera lo abbiamo studiato lo scorso anno scolastico e, in parte, abbiamo già trattato il tema dell’attesa incontrando la parola-chiave “parousia”, il “ritorno glorioso) e poi l’idea “dell’attesa di un cambiamento” emerge (e questo argomento è legato alla parola “exousìa”, la manifestazione della potenza e della sapienza) nei testi delle due Lettere ai Corinti. In questi testi si coglie tutta la passione e tutta la vis-polemica che Paolo di Tarso mette nel dibattito in corso nelle ekklesìe intorno a questo tema.

     Paolo di Tarso nel dibattito sul tema “dell’attesa del cambiamento” introduce un elemento significativo che troverà nei secoli successivi un grande sviluppo nella Storia del Pensiero Umano. Paolo di Tarso ritiene che il nòcciolo del problema “dell’attesa del cambiamento” sia legato ad una domanda fondamentale che implica, in primo luogo, la volontà delle persone al cambiamento e che comporta, soprattutto, una presa di coscienza individuale della necessità del cambiamento che richiede la capacità di capire in che senso vogliamo cambiare e, in relazione a queste considerazioni – afferma Paolo di Tarso – dobbiamo domandarci: come ci si salva? In che senso vogliamo salvarci? Si domanda Paolo, e lo domanda ai suoi interlocutori che aspettano il cambiamento e la salvezza come se dovesse provenire dall’esterno e non da una scelta e da una “maturazione” individuale. Paolo ragiona in un ambito filologico in cui la parola ebraica “meshìa” contiene anche la radice di un verbo che significa “portare a maturazione”: per Paolo l’idea messianica corrisponde al concetto di “portare a maturazione la scelta di cambiare il proprio stile di vita” perché “l’attesa deve essere una fase attiva”.

     Ed è proprio con questo elemento interlocutorio, l’idea del “come ci si salva?” – elemento che lega insieme i temi dell’attesa, della salvezza e della colpa –, che Paolo di Tarso introduce, in modo originale, nelle ekklesìe, la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth. Questa linea non trova spazio nelle ekklesìe al tempo di Paolo (la grande eterogeneità degli anni 50 60 70 è sì un motore che favorisce la diffusione della “buona notizia” ma regna anche una grande confusione dottrinaria) e l’impostazione – messa per iscritto da Paolo nel suo Epistolario – troverà gambe per camminare negli anni 90 e sarà elemento di sintesi con i primi Padri della Chiesa, i cosiddetti Padri Apostolici (Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, di cui lo scorso anno scolastico abbiamo studiato le Opere); l’impostazione paolina sarà elemento di sintesi con la Chiesa dei Vescovi, ed è da questo momento, dalla fine del I secolo, che si può cominciare a parlare di “Chiesa cristiana”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Paolo di Tarso ritiene che il “tema dell’attesa e del cambiamento” vada affrontato a partire da una domanda fondamentale: “come ci si salva ?”…

Quale parola vi viene in mente, per prima, di fronte a questa domanda ?…

Scrivetela…

Secondo voi: da che cosa bisogna “salvarsi” oggi prima di tutto?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Quali sono le scelte intellettuali che Paolo compie in relazione al tema dell’attesa e del cambiamento? Abbiamo detto che il tema dell’attesa e del cambiamento per Paolo di Tarso deve essere affrontato a partire da una domanda fondamentale: come ci si salva?. E questa domanda – che troverà nei secoli successivi un grande sviluppo nella Storia del Pensiero Umano – rimanda, secondo Paolo, a quello che è il nostro rapporto con il tempo. Perché entra in ballo il concetto del tempo?

     Prima di affrontare, prossimamente, questo tema significativo diciamo che il concetto del tempo s’impone all’attenzione perché l’idea de l’attesa del cambiamento è legata in modo inequivocabile – secondo Paolo – alla volontà che le persone hanno di perseguire il cambiamento, alla presa di coscienza individuale sulla necessità del cambiamento e, di conseguenza, la volontà e la presa di coscienza non possono che esplicitarsi nella massima espressione del tempo: il presente. L’attesa – secondo Paolo – è una fase attiva che si manifesta nel presente: nel tempo che resta, nel tempo che è, non nel tempo che fu né in quello che sarà. Questo tema, che abbiamo trattato altre volte e che rincontreremo strada facendo, non è semplice da affrontare, quindi, dobbiamo procedere con ordine.

     Le studiose e gli studiosi di filologia e di psicologia ci suggeriscono che, molto probabilmente, Paolo di Tarso è una persona predisposta per carattere a vivere nell’attesa di un cambiamento: Paolo di Tarso possiede – e lo si coglie nei testi delle sue Lettere – una predisposizione esistenziale speciale all’attesa e al cambiamento

     “L’incontro sulla via di Damasco – un episodio (raccontato in due modi diversi da Paolo nell’Epistolario) che lo scorso anno abbiamo studiato – è la metafora letteraria con la quale Paolo descrive la sua predisposizione esistenziale verso l’attesa e verso il cambiamento. Ed è proprio questa predisposizione esistenziale verso l’attesa e verso il cambiamento che porta Paolo ad essere un protagonista (un apostolo, un inviato speciale) all’interno del serrato dibattito in corso nelle ekklesìe ad Antiochia, a Tessalonica, a Corinto, ad Atene, a Efeso, a Roma.

     Quali sono le opzioni intellettuali e, di conseguenza, le scelte pratiche e materiali che Paolo fa in relazione al tema dell’attesa del cambiamento? Per rispondere a questa domanda dobbiamo conoscere il pensiero di Paolo in relazione ai grandi temi che vengono dibattuti all’interno delle ekklesìe e che abbiamo catalogato all’inizio di questo itinerario.

     Il primo grande argomento di dibattito (e di scontro) sappiamo che è di carattere letterario ed esegetico e questo argomento risponde alla domanda: come si devono leggere i Libri dell’Antico Testamento? I testi dei Libri dell’Antico Testamento devono essere letti in modo fondamentale cioè alla lettera, così come sono stati scritti? I testi dei Libri dell’Antico Testamento esprimono una verità alla lettera oppure sono stati scritti in forma allegorica e, quindi, il contenuto di questi testi è di carattere metaforico e, di conseguenza, vanno interpretati perché dicono delle cose che vogliono suggerirne altre?

     Ebbene, Paolo di Tarso, nell’animato dibattito che si svolge nelle ekklesìe, si schiera con i gruppi che leggono i testi in modo allegorico, e abbiamo saputo, durante gli itinerari  dello scorso anno scolastico che Paolo, secondo la tradizione riportata dagli Atti degli Apostoli, avrebbe studiato, a Gerusalemme, nella Scuola farisaica del rabbi Gamaliele: il rabbi Gamaliele I è un pensatore dell’ala progressista del fariseismo che ha fama di essere un cultore della lettura allegorica dei testi biblici. Questa scelta intellettuale – questa posizione culturale di Paolo di Tarso a favore della lettura allegorica dei testi biblici – risulta fondamentale per la costruzione del suo pensiero e, di conseguenza, per la costruzione della dottrina del Cristianesimo. Paolo definisce una serie di concetti che diventano le categorie con le quali noi, oggi, pensiamo la realtà: queste categorie sono diventate concetti fondamentali nella Storia del Pensiero Umano e anche – come sappiamo – idee-guida per la Storia della Letteratura.

     Paolo di Tarso costruisce l’idea che c’è una relazione tra le storie (la cronologia) raccontate nei testi dei Libri dell’Antico Testamento e il messianismo, cioè tutte le storie – da Adamo ed Eva, Caino e Abele, Noè e i suoi figli, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè – non sono altro che allegorie, metafore, figure, prefigurazioni del messia; e, a questo proposito, Paolo fa un passo avanti: comincia a considerare queste storie come prefigurazioni della risurrezione di Gesù. E così Paolo di Tarso definisce il tempoche va dalla creazione del mondo fino alla risurrezione di Gesù come una prefigurazione, una figura, una allegoria: e quale parola greca utilizza Paolo di Tarso per definire questo concetto? Paolo, per definire questo concetto, utilizza la parola typos: un termine proveniente dal Glossario pre-ellenistico di Platone e di Aristotele. Nel vocabolario ellenico di Platone e di Aristotele la parola typos significa modello, figura, metafora.

     Paolo di Tarso spiega la sua posizione culturale, la sua visione intellettuale delle cose, in tutta una serie di brani che sono diventati un punto di riferimento fondamentale: un termine tipico – inteso in linea con la parola typos – per la lettura cristiana dei testi dei Libri dell’Antico Testamento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le studiose e gli studiosi di filologia ribadiscono che ci sono quattro coppie di parole - la voce e la libertà - la penna e la passione - la notizia e l’attesa - la strada e la volontà - che rappresentano in modo “tipico” la figura di Paolo di Tarso… Leggete con attenzione queste quattro coppie di parole e fate la vostra scelta: quale di queste quattro coppie di parole, secondo voi, definisce meglio il personaggio di Paolo di Tars0?…

Scrivetela…

     E adesso ne incontriamo uno di questi brani “tipici” che è tratto dal testo della Prima Lettera ai Corinti: qui – nei primi undici versetti del capitolo 10 della Prima Lettera ai Corinti – Paolo rievoca una serie di episodi della storia di Israele visti come “figure”, come “metafore” che lui considera utili per dare, nel “presente”, una cornice appropriata alla “buona notizia” della risurrezione di Gesù: “Queste cose – afferma Paolo – furono scritte per la nostra istruzione”, quindi, secondo il suo pensiero la “lettura tipica (metaforica, allegorica)” è “istruttiva” mentre la lettura fondamentale può essere “distruttiva”.

     Leggiamo questo significativo frammento dove Paolo utilizza in modo “tipico ” (allegorico) alcune significative “figure” (la nube, il mare, la manna, l’acqua scaturita dalla roccia) presenti nel testo del Libro dell’Esodo (andate a leggervi o a rileggervi, come ha fatto Paolo, i capitoli 14 15 16 17 del Libro dell’Esodo) ma noi non facciamo fatica a risalire a queste “figure” perché queste straordinarie immagini sono comunque presenti nella nostra mente.

LEGERE MULTUM ….

Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Corinti  10, 1-11

Fratelli e sorelle, non dovete ignorare che i nostri padri furono tutti sotto la nube e tutti attraversarono il mare [capitolo 14 del Libro dell’Esodo] e tutti in Mosè furono immersi nella nube e nel mare [capitolo 15 del Libro dell’Esodo, il Cantico di trionfo] e tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale [capitolo 16 del Libro dell’Esodo] e tutti bevvero la stessa bevanda spirituale [capitolo 17 del Libro dell’Esodo]: bevevano infatti da una roccia spirituale che era il messia, era Cristo. Ma nella maggioranza di loro Dio non si compiacque, ed essi furono prostrati nel deserto. Queste cose avvennero molto tempo fa. Esse sono come figure [typoi] di noi stessi perché non desiderassimo cose cattive, come anch’essi le desiderarono Queste cose avvennero sotto forma di figure [typicòs] e furono scritte per la nostra istruzione, per noi, nei quali le estremità dei tempi stanno l’una di fronte all’altra.

     Questa concezione “figurale ” (o tipica) – così viene chiamata dalle studiose e dagli studiosi di filologia –, questa concezione “metaforica, allegorica” sostenuta ed elaborata da Paolo di Tarso è, a poco a poco, entrata nella tradizione e, difatti, Gerolamo (uno dei famosi Padri del deserto del V secolo) quando traduce (siamo nel 420) dal greco in latino (con un occhio all’ebraico) tutti i Libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, comprese le Lettere dell’Epistolario di Paolo, – questa famosa traduzione, come sapete, è stata chiamata la “vulgata” (come dire resa “nel linguaggio popolare” e il latino cominciava ad assumere, dal punto di vista linguistico, nuovi connotati che lo indirizzavano verso le cosiddette lingue “neo-latine”) –, traduce la parola “typoi” con l’espressione “in figura”: ed ecco da dove viene il titolo di “concezione figurale” dato a questa operazione intellettuale avviata da Paolo di Tarso perché “istruttiva” per proporre a tutti, sul territorio dell’Ellenismo, non solo agli Ebrei, “la buona notizia” della risurrezione  di Gesù come “figura (typos)” del compimento dell’attesa e della possibilità del cambiamento.

     La “concezione figurale” – vale a dire: leggere il testo in modo allegorico – dal VI secolo (siamo già in età medioevale) diventa, in tutta Europa, il modo principale per interpretare, non solo la Sacra Scrittura, ma per interpretare il mondo e tutta la realtà. La concezione “figurale” nel Medioevo dà dei risultati straordinari; e ora da qui noi potremmo imboccare il largo e affascinante sentiero della Storia dell’Arte medioevale che si sta aprendo davanti a noi.

La Storia dell’Arte medioevale – che produce una enorme quantità di meravigliosi oggetti di ogni tipo che “raffigurano” la “buona notizia” – prende le mosse, trova il suo impulso dottrinale nell’espressione “in figura” che Gerolamo utilizza nel tradurre i versetti dal capitolo 10 della Prima Lettera ai Corinti che abbiamo letto.

     Questa concezione – l’utilizzo delle grandi “figure” contenute nei testi dei Libri dell’Antico Testamento (in particolare dei Libri della Genesi e dell’Esodo) – comincia ad essere chiamata “tipica” (secondo il greco ellenistico utilizzato da Paolo di Tarso) in corrispondenza della nascita della filosofia del Cristianesimo, un evento culturale che introduce la Storia del Pensiero Umano in quella che viene chiamata l’età di mezzo (tra antichità e modernità). Chi studia teologia e chi si dedica all’esegetica – negli albori dell’età di mezzo – usa questa concezione per dare forma ad una teoria generale sull’interpretazione allegorica dei testi (sacri o profani che siano): questo è un tema che affronteremo quando entreremo nei vasti territori medioevali e le considerazioni che stiamo facendo ora sono quindi propedeutiche per i viaggi futuri.

     Quindi torniamo sul nostro sentiero e facciamo il punto della situazione culturale, del tema che abbiamo studiato: attraverso il concetto di “typos (figura, metafora, allegoria)” Paolo stabilisce una relazione che viene chiamata “tipica” cioè una relazione tra ogni evento del passato e il “tempo di Cristo” che Paolo comincia a chiamare – come abbiamo letto prima – il “tempo messianico”. Il concetto del “tempo messianico” nel pensiero di Paolo di Tarso costituisce un tema che, naturalmente, dobbiamo approfondire e per farlo dobbiamo procedere con cautela e con determinazione e lo faremo la prossima settimana nel prossimo itinerario.

     Ora, per concludere, a proposito di situazioni che avvengono “sotto forma di figure (con l’ausilio della metafora)” – tanto che siano i radiodrammi di Pedro Camacho, oppure il Canzoniere del Petrarca o le poesie dei trovatori provenzali – torniamo sul testo del romanzo che stiamo leggendo intitolato La zia Julia e lo scribacchino di Mario Vargas Llosa.

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Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino

Arrivai a Radio Panamericana giusto in tempo per evitare che Pascual dedicasse tutto il bollettino delle tre alla notizia di una battaglia campale, nelle strade esotiche di Rawalpindi, fra becchini e lebbrosi, pubblicata da «Ùltima Hora». Dopo aver preparato pure i bollettini delle quattro e delle cinque, uscii a prendere un caffé. Sulla soglia di Radio Central incontrai Genaro-fìglio, euforico. Mi trascinò per il braccio fino al Bransa: - Devo raccontarti una cosa fantastica -. Era stato qualche giorno a La Paz, per via di affari, e lì aveva visto all’opera quell’uomo multiforme: Pedro Camacho.

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     E lo conosceremo anche noi Pedro Camacho tra otto giorni.

     Nel prossimo itinerario ci soffermeremo anche dinnanzi ad un paesaggio intellettuale che contiene il capitolo 5 della famosa Lettera ai Romani dove Paolo ci fornisce l’esempio più significativo della sua concezione figuraleo tipica, e questo elemento è destinato a cambiare i connotati della Storia del Pensiero Umano. Paolo – nel capitolo 5 della Lettera ai Romani – prende in considerazione la figura di Adamo attraverso il quale il peccato è entrato nel mondo. Paolo costruisce il fondamentale parallelo tra la figura di Cristo che ci ha salvato e la figura di Adamo che ci ha portato alla perdizione. Paolo definisce in modo tipico la figura di Adamo: Adamo è il typos (la metafora, l’allegoria)che prefigura l’immagine dell’uomo peccatore. Paolo definisce in modo tipico la figura di Cristo: Cristo è il typos (la metafora, l’allegoria)che prefigura l’immagine del messia, Cristo è – afferma Paolo – il nuovo Adamo che introduce nel mondo la charis, la graziadi Dio.

     Il tema è complesso ma interessante perché ha condizionato il nostro modo di pensare sui temi dell’attesa, della salvezza e della colpa.

     E, quindi, il viaggio continua e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 11, 2011