Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale] 30-31 marzo e 1 aprile 2011
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO
C’È LA SENTENZA PAOLINA SECONDO CUI GESÙ È FIGLIO ADOTTIVO DI DIO…
La scorsa settimana, viaggiando sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico” insieme a Paolo di Tarso – che, come sappiamo, è l’autore dell’Epistolario più significativo della Storia del Pensiero Umano –, abbiamo cominciato ad affrontare un tema interessante che si presenta con una serie di interrogativi: quali notizie di carattere “storico” che riguardano Gesù di Nazareth circolano nell’ambiente delle ekklesìe? Che cosa si sa di lui? E, in particolare, che cosa sa Paolo di Tarso della vita, delle opere, delle parole, della passione, della morte e della risurrezione di Gesù?
La scorsa settimana, prima di dare delle risposte a questi interrogativi, abbiamo dovuto fare chiarezza su alcuni elementi propedeutici necessari alla comprensione dell’argomento che vogliamo trattare e, per questo motivo, abbiamo riflettuto su alcuni termini fondamentali: la storia, la leggenda, il mito, la tradizione e soprattutto abbiamo riflettuto sul genere letterario della “sentenza”, un fattore che risulta basilare nella composizione dei testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso e nella composizione dei testi che andranno, dagli anni 70, a formare la Letteratura dei Vangeli. Come tutte le grandi “predicazioni” dell’Età assiale della storia così anche la “predicazione” su Gesù di Nazareth – sebbene posteriore di circa cinquecento anni rispetto all’Età assiale della storia – si basa su dati storici irrilevanti: sulla nascita, sull’infanzia, sulla vita di Gesù di Nazareth, Paolo non sa nulla e ciò produce un processo di seminagione, cioè produce una coltura: e la cultura è coltura.
Paolo di Tarso viaggia da una ekklesìa all’altra anche per cercare informazioni sul rabbi Gesù di Nazareth e, in questa sua ricerca, si rende conto di poter accedere solo a notizie che hanno già subìto – in un brevissimo spazio di tempo (e questo è un fenomeno che ha sempre destato meraviglia tra le studiose e gli studiosi di antropologia culturale) – una sorta di elaborazione di carattere leggendario.
Le studiose e gli studiosi di filologia dicono che Paolo di Tarso raccoglie su Gesù di Nazareth solo notizie “sentenziate” (e voi sapete che cosa significa): Paolo si trova di fronte a informazioni che sono passate attraverso una stratificata rielaborazione orale di carattere propagandistico e, inizialmente, non è soddisfatto perché ritiene queste informazioni poco attendibili. Paolo di Tarso, nelle ekklesìe della diaspora ebraica, ascolta molti racconti su Gesù di Nazareth che hanno preso forma sulla scia dell’emigrazione dalla Palestina verso le metropoli dell’Ellenismo e che sono già stati elaborati – con uno stile tipico della cultura ellenistica (in modo particolare delle Scuole epicuree, stoiche e scettiche) – in funzione della creazione di una serie di “sentenze” utili alla predicazione della “buona notizia” della risurrezione. Quindi anche Paolo di Tarso capisce e prende atto – dopo aver maturato la sua vocazione da “apostolo (da promotore culturale, da inviato speciale)” – di dover partecipare alla elaborazione delle informazioni raccolte su Gesù usando la chiave della “sentenza”, e diventa un maestro di quest’arte.
A questo proposito, nell’itinerario della scorsa settimana, abbiamo visto come Paolo predispone sotto forma di “sentenza” la notizia centrale che riguarda la predicazione su Gesù di Nazareth, il così detto “kerigma” (il nòcciolo del messaggio di salvezza): l’annuncio della passione, della morte e della risurrezione di Gesù. E, in particolare, abbiamo puntato la nostra attenzione (vi ricordate?) sull’ultimo versetto del brano che contiene il “kerigma”, che contiene l’annuncio della passione, della morte e della risurrezione di Gesù, cioè il versetto 11 del capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinti. In questo versetto Paolo scrive: «Questo è il nòcciolo del messaggio (kerigma) che io e gli altri vi annunziamo. E voi avete accettato questa sentenza (gnòme)». Quindi Paolo dichiara esplicitamente che il messaggio della salvezza trova il suo fondamento dottrinale nel genere letterario della “sentenza” perché i riferimenti storici mancano e questa carenza non può tuttavia essere di ostacolo allo sviluppo della storia della salvezza anche perché – secondo il pensiero di Paolo – la “storia” di Gesù e la “storia della salvezza” coincidono, proprio perché la persona di “quel Gesù della storia” – il quale anche se non conosciamo direttamente i fatti: è nato, è cresciuto, ha parlato, ha operato, ha patito, è morto ed è risorto – corrisponde comunque alla figura del “Cristo della fede”.
Abbiamo riflettuto sul fatto che in greco la parola “sentenza” si traduce con il termine “gnome gnòme” che significa anche “opinione” e “conoscenza”. Paolo di Tarso, utilizzando esplicitamente questo termine, è perfettamente consapevole dell’operazione “mitologica” che sta compiendo e, per giunta, con l’uso di questa parola-chiave, “sentenza (gnòme)”, allude al fatto che lui sta formulando – con grande autorevolezza (con l’uso della scrittura) – la sua “opinione (gnòme)” in proposito. Dobbiamo fare bene attenzione al fatto che – come c’insegnano le studiose e gli studiosi di filologia – Paolo costruisce la propria “autorevolezza” con un accorto uso delle parole e con le sue doti di scrivano e, quindi, dagli anni 90, l’opinione (gnòme) di Paolo di Tarso diventa sentenza (gnòme) per la Chiesa dei Vescovi, dei Padri Apostolici, i quali, sul piano della dottrina, “sentenzieranno”, a loro volta, sul modello dell’Epistolario paolino. Quindi si capisce che la creazione delle “sentenze” è, senza dubbio, l’operazione intellettuale che dà la maggiore forza propulsiva al propagarsi della “buona notizia” della risurrezione di Gesù. Ed è proprio in quest’ottica culturale che noi dobbiamo domandarci: che cosa sa Paolo di Tarso della vita, delle opere, delle parole, della passione, della morte e della risurrezione di Gesù?
La prima cosa importante, ed anche condizionante, che, nelle ekklesìe, si sa di Gesù di Nazareth è che “nacque sotto la Legge di Mosé”. Come affronta Paolo di Tarso questo tema fondamentale per la divulgazione della “buona notizia” della risurrezione di Gesù? Nelle ekklesìe si sa che Gesù di Nazareth “nacque sotto la Legge di Mosè” e che, di conseguenza, secondo il rito ebraico “otto giorni dopo fu circonciso”, e questo dato lo leggeremo nella successiva Letteratura dei Vangeli. La prima riflessione che dobbiamo fare sulla natura delle “informazioni” che riguardano la persona di Gesù di Nazareth è che le “notizie” più attendibili su di lui sono quelle di carattere “consequenziale” e non “documentale” perché documenti scritti non ce ne sono: ci sono molte testimonianze orali, spesso contraddittorie. È chiaro che se Gesù è nato in Galilea la sua nascita è stata influenzata di “conseguenza” dalle Leggi, dagli usi e dai costumi di quella regione.
Come interpreta Paolo di Tarso questa notizia di carattere “consequenziale” secondo il suo pensiero? Nel testo della Lettera ai Galati – al capitolo 4 versetto 4 – Paolo fa un’interessante affermazione in proposito e scrive: «Egli (Gesù) nacque da una donna e fu sottoposto alla Legge». Come possiamo constatare Paolo è capace a trasformare una notizia di carattere “consequenziale” in una “sentenza”.
Utilizziamo subito questo esempio per riflettere sul fatto che intorno alle “sentenze” contenute nell’Epistolario di Paolo – che si presentano spesso come enunciati sintetici, scarni, ma solidissimi e costitutivi (sono la prima pietra) della base dottrinaria del Cristianesimo – prende forma, nei decenni a venire, la Letteratura dei Vangeli: il testo della “sentenza” fa da fondamento per sostenere storie – narrate intorno al nucleo della “sentenza” stessa – che contengono pochi dati reali e molti elementi leggendari. Paolo si limita a scrivere: «nato secondo la Legge» e facciamo attenzione al fatto che il “si limita” non è un’espressione riduttiva ma è una “sintesi concettuale” ed è altrettanto significativo il fatto che un fariseo come lui non citi, in proposito, la parola-chiave “circoncisione”. Perché Paolo non tira in ballo l’elemento sostanziale che riguarda i maschi che nascono secondo la Legge di Mosè? Noi sappiamo che Paolo sta sostenendo, nelle ekklesìe – con grande scandalo degli ebioniti –, che il rito della circoncisione non è necessario per salvarsi e quindi ritiene non sia il caso di “sentenziare” il fatto che Gesù «otto giorni dopo la nascita è stato circonciso». Non è quindi una semplice omissione ma è una “elaborazione di carattere sentenziale” che contiene una precisa scelta che sarà determinante per l’evoluzione del Cristianesimo. Paolo di Tarso, nelle ekklesìe, è schierato con gli appartenenti a quei gruppi che sostengono e “sentenziano” che non si possono imporre i riti, gli usi e i costumi ebraici ai non Ebrei, non si deve imporre la Legge di Mosè a coloro che sono stati chiamati con il termine strategico di“ospiti”.
Poi nel primo segmento di questa sentenza Paolo scrive: «Egli Gesù) nacque da una donna…», questa semplice dicitura ci fa capire che Paolo di Tarso, molto probabilmente, non ha notizie sulla “madre di Gesù” oppure possiamo ritenere che, anche se lui è in possesso di qualche informazione in proposito, non pensa sia opportuno né divulgarla né parlarne. Il fatto che Gesù, il figlio di Dio, sia “nato da una donna” – e Paolo si limita a “sentenziare” questo fatto – costituisce un tema scabroso che, in questi anni, abbiamo studiato in molti suoi aspetti: ci sono voluti secoli prima che la figura di Maria di Nazareth – dopo un lungo processo dottrinale chiamato “iperdulìa (divinizzazione)” – sia stata proclamata, con un’affermazione molto azzardata, “Madre di Dio”. La parola “madre” c’induce a riflettere anche sul fatto che Paolo di Tarso nel suo Epistolario non fa nessun accenno alla sua famiglia e anche di sua madre non dice nulla: chi era la madre di Paolo di Tarso? Questa è una domanda a cui nessuno è in grado di rispondere, non si possono neppure fare delle ipotesi perché non c’è neanche un dato al quale ci si possa riferire.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Questa parola importante ci fa pensare a nostra “madre”: provate a descrivere con un enunciato, con poche parole, vostra madre, bastano quattro righe in proposito: scrivetele…
Il fatto è che in questa sentenza, «Egli (Gesù) nacque da una donna…», – che può sembrare un’affermazione ovvia e banale – c’è una precisa presa di posizione ideologica da parte di Paolo di Tarso su un tema importantissimo, che, negli anni 50, comincia ad essere dibattuto nelle ekklesìe, ed è il tema della “natura di Gesù di Nazareth”, un tema complesso e di enorme portata nell’ambito della Storia del Pensiero Umano. Al dibattito molto acceso su questo tema – Gesù è di natura umana, è di natura divina, ha in sé tutte e due le nature e in che modo è figlio di Dio? – Paolo di Tarso dà il primo fondamentale contributo dottrinale.
Ma prima di occuparci di questo tema molto significativo – di un frammento di questo tema di vasta portata –, visto che abbiamo toccato l’argomento della “maternità”, cogliamo l’occasione per continuare la lettura di un romanzo che, in queste ultime settimane, abbiamo preso in considerazione. Sapete che il romanzo in questione, di cui abbiamo letto un certo numero di pagine, è stato scritto nel 1977 da Mario Vargas Llosa e s’intitola La zia Julia e lo scribacchino: di questo romanzo la Scuola consiglia la lettura integrale.
Sappiamo anche che La zia Julia e lo scribacchino è prima di tutto un grande romanzo sul tema dell’esercizio della scrittura ma è anche un significativo romanzo sul tema dell’amore. In questo testo s’intrecciano molte narrazioni nelle quali emergono una serie di elementi di carattere mitico che vanno colti e assaporati intellettualmente. Sappiamo ormai che la trama di questo romanzo ruota intorno a due straordinari personaggi: il primo di questi si chiama Pedro Camacho il quale è un prolifico autore di radiodrammi (di drammoni) per Radio Central di Lima – e questo è stato il primo pretesto che ha messo questo romanzo in sintonia con il nostro Percorso –, mentre il secondo personaggio si chiama Mario ed è uno studente che coltiva un’ambizione letteraria e che s’innamora della zia divorziata – la zia Julia appunto – con la quale finirà per convogliare a nozze con grande scandalo dei famigliari. In questo romanzo – abbiamo detto – ci sono tanti personaggi “collaterali” che hanno una certa importanza nell’economia generale di quest’opera narrativa.
La scorsa settimana, prendendo spunto dall’ambiguità che spesso si annida nella celebrazione di un matrimonio, abbiamo incontrato uno di questi significativi personaggi “collaterali”: il dottor Alberto de Quinteros il quale è un celebre luminare della medicina ed è destinato, senza volerlo, a fare una diagnosi che porta una situazione – che a lui sembrava lineare – a complicarsi in modo tragico. Ormai abbiamo capito che quasi sempre le “storie” s’intrecciano con le narrazioni leggendarie, con le tradizioni mitiche e allora sono guai perché “mito” e “tragedia” sono strettamente legati insieme (come abbiamo studiato nel Percorso dell’anno scolastico 2003-2004).
Leggendo quest’opera ad un certo punto ci si rende conto che le storie della trama del romanzo sono le stesse dei drammoni composti da Pedro Camacho e trasmessi alla radio. Nelle pagine che abbiamo letto la settimana scorsa da La zia Julia e lo scribacchino, dopo aver fatto conoscenza con il dottor Alberto de Quinteros e dopo aver preso atto delle sue doti morali di medico, di uomo e di ginnasta, abbiamo partecipato, insieme a lui (anche noi siamo state invitate e invitati), al matrimonio di Elianita che è la nipote prediletta del dottor Alberto de Quinteros, ed è la sorella di un giovane che si chiama Richard – l’altro nipote del dottore – che, come abbiamo potuto constatare, ha assunto un atteggiamento di grande disappunto nei confronti di ciò che sta avvenendo, del matrimonio della sorella. Zio e nipote sono d’accordo nel ritenere che lo sposo, Rossetto Antùnez, sia, tra i tanti pretendenti di Elianita, il meno adeguato a ricoprire questo ruolo.
Ma ora riprendiamo la lettura da dove l’abbiamo lasciata la scorsa settimana: siamo nel bel mezzo della suntuosa e movimentata festa di nozze – i genitori di Elianita, Roberto, il fratello del dottor Quinteros, e Margarita, non hanno fatto economia anche perché se lo possono permettere – e stiamo per assistere ad un colpo di scena:
LEGERE MULTUM ….
Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino
Un gruppo di ragazzi aveva circondato il Rossetto Antùnez e si alternava per brindare con lui. Lo sposo, più rosso che mai, ridendo un po’ allarmato, tentava di ingannarli bagnando le labbra nel suo bicchiere, ma i suoi amici protestavano e pretendevano che lo vuotasse. Il dottor Quinteros cercò Richard con lo sguardo, ma non lo vide al bar, né nel settore di giardino che mostravano le finestre.
… continua la lettura …
Spesso la maternità e il mistero vanno di pari passo e allora il racconto fa presto ad entrare nel recinto del “mito”. Anche nei racconti della nascita di Gesù – che la Letteratura dei Vangeli ci ha lasciato in eredità e che hanno, in modo straordinario, influenzato la Storia dell’Arte di ogni tempo – la maternità e il mistero (nel senso di “oggetto della fede”) vanno di pari passo.
Stavamo dicendo che nella sentenza – tratta dal versetto 4 del capitolo 4 dalla Lettera ai Galati –, dove Paolo scrive: «Egli (Gesù) nacque da una donna…», c’è una precisa presa di posizione ideologica su un tema importantissimo che, alla metà del I secolo, comincia ad essere dibattuto nelle ekklesìe, ed è il tema della “natura di Gesù di Nazareth”, un tema complesso e di enorme portata nell’ambito della Storia del Pensiero Umano. Al dibattito che dura dei secoli) molto acceso su questo tema – che presenta una serie di interrogativi fondamentali per determinare la linea dottrinaria del Cristianesimo: Gesù è di natura umana? È di natura divina? Ha in sé tutte e due le nature? E in che modo è figlio di Dio? – Paolo di Tarso dà il primo fondamentale contributo dottrinario proprio con questa sentenza che dice: «Egli (Gesù) nacque da una donna…». Con questa affermazione – che può sembrare ovvia e banale – quale posizione ideologica assume Paolo di Tarso in relazione al dibattito sulla “natura di Gesù”? …
Secondo Paolo di Tarso “quel Gesù” – della vita del quale non si sa quasi nulla – può essere considerato il “Cristo della fede” solo e proprio perché ha una “natura umana” ed è per questo motivo che Paolo cerca informazioni sulla vita umana di Gesù di Nazareth e quando Paolo pensa a Gesù come “figlio di Dio” dà a questa affermazione un forte connotato simbolico di carattere culturale attingendo alla tradizione della Letteratura dell’Antico Testamento dove si attribuisce il titolo di “figlio di Dio” ad una persona che “Dio ama particolarmente”, ad una persona che “Dio vuole salvare”, ad una persona che “Dio vuole adottare”.
Nei testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso quando troviamo, in italiano, l’espressione “figlio di Dio” dobbiamo sapere che deriva dalla traduzione latina di Gerolamo. Gerolamo nel tradurre – siamo nell’anno 420 – tutta la Sacra Scrittura in latino (la cosiddetta “vulgata”) segue la linea dottrinaria del Concilio di Nicea del 325 e, quindi, traduce con le parole “figlio di Dio” una formula che nei testi greci dell’Epistolario di Paolo di Tarso corrisponde, letteralmente, all’espressione “colui che Dio ama”, “colui in cui Dio si compiace”, “colui che Dio adotta”. Sulla linea dottrinaria del Concilio di Nicea torneremo fra poco: dobbiamo procedere con ordine perché l’argomento è complesso.
La “buona notizia”, secondo Paolo, è che “Gesù è un essere umano che è stato adottato da Dio come figlio”, non è pensabile, da parte di Paolo di Tarso, che Gesù possa essere “figlio naturale” di Dio perché questa idea sconvolgeva la mentalità ebraica ed era considerata blasfema. Il pensiero di Paolo sulla natura di Gesù è che questa persona sia un “figlio adottivo” e questa è stata anche la prima posizione dottrinaria sulla natura di Gesù che viene codificata dalla Letteratura dei Vangeli negli anni 70.
Su questo argomento così importante, e anche molto complesso, dobbiamo imbastire una riflessione, ma prima di tutto dobbiamo riflettere sul concetto dell’adozione a livello autobiografico tenendo conto del fatto che siamo tutte e siamo tutti portati verso la pratica dell’adozione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete mai adottato un oggetto, un metodo, un animale, una persona?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Per imbastire la nostra riflessione dobbiamo domandarci ancora: che cosa si sa d’altro di Gesù di Nazareth nelle ekklesìe, oltre alla notizia “consequenziale” che ««Egli (Gesù) nacque da una donna e fu sottoposto alla Legge»?
Nelle ekklesìe si sa – e, naturalmente, lo sa anche Paolo di Tarso – che Gesù si chiama Gesù. E voi direte: ma che razza d’informazione è questa? Che significato ha questo gioco di parole? Non è un gioco di parole: nelle ekklesìe si avvalora il fatto che Gesù si chiami, in lingua ebraica, Yèshua. E perché è importante che venga avvalorato questo fatto: il fatto che questo “rabbi” si chiami Yèshua?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo procedere con ordine dicendo subito che anche Paolo di Tarso partecipa a questo processo di valorizzazione del nome (i nomi sono più che mai importanti, potenti, nel contesto del genere letterario della “sentenza”) e di questo “rabbi” – di cui si sta diffondendo la “buona notizia” della risurrezione sul vasto territorio dell’Ellenismo – non viene, in origine (siamo negli anni 50), messo in evidenza il fatto che egli sia per natura “figlio di Dio” ma viene messo in evidenza soprattutto il fatto che si chiami Yèshua.
L’impresa dottrinale attraverso la quale Gesù comincia ad assumere (sappiamo che la “dottrina” viene costruita attraverso un lungo processo culturale che implica la storia, la leggenda, il mito e la tradizione) gradualmente il titolo di “figlio di Dio” si sviluppa nel corso degli anni 90 e il testo del Vangelo secondo Luca – compreso il testo dei primi due capitoli che sono un’opera introduttiva chiamata Vangelo deutero-lucano (messo a punto a Roma dalla Scuola ellenistica di papa Clemente Romano, la Scuola ellenistica Clementina, e siamo ben informate e ben informati su questo argomento molto significativo) – è il contenitore di questa importante iniziativa intellettuale che disegna la figura di Gesù come “figlio di Dio” utilizzando i colori della storia, della leggenda, del mito e della tradizione e che avviene ormai in un contesto politico e culturale molto diverso da quello degli anni 50 in cui è vissuto Paolo di Tarso.
Abbiamo appena detto che Paolo di Tarso, nei testi del suo Epistolario, quando si esprime con la dicitura “figlio di Dio” intende dire – secondo la mentalità della Scuola farisea e secondo la cultura dell’Antico Testamento – che Gesù (Yèshua) è stato “adottato da Dio”. Questo concetto – l’idea che Gesù sia “figlio adottivo di Dio” – si afferma nelle comunità cristiane degli anni 60 e 70 ed è codificato – in modo molto autorevole – nel testo canonico del Vangelo secondo Marco.
Il testo del Vangelo secondo Marco è il più arcaico dei quattro vangeli canonici e contiene “sentenze” che sono databili alla fine degli anni 50, dal 58 in avanti, e il testo – così come noi lo possediamo – è stato composto all’inizio degli anni 70 sulla scia della tradizione che si è andata formando attorno alle idee contenute nel Glossario ellenistico di Paolo di Tarso. Il personaggio di Marco, a cui questo testo è dedicato – ricordiamoci che il nome degli evangelisti non corrisponde al nome degli autori ma fa riferimento ad una corrente di Pensiero – è stato compagno di Paolo, molto probabilmente è con lui a Roma all’inizio degli anni 60, e il testo del Vangelo che porta il suo nome fa riferimento al pensiero di Paolo che Marco, insieme ad altri, ha tramandato. Gli scrivani – legati alla tradizione filtrata attraverso la mediazione di Marco probabilmente ad Alessandria – hanno, quindi, all’inizio degli anni 70, messo a punto il testo di questo Vangelo utilizzando idee e sentenze contenute anche nei testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso. Il testo del Vangelo secondo Marco è l’opera della Letteratura dei Vangeli che include le idee più importanti del pensiero paolino e con questo testo si stabilisce una continuità tra l’Epistolario di Paolo di Tarso e la Letteratura canonica dei Vangeli.
In proposito la Scuola – con un’affermazione di carattere interlocutorio – non può non proporre un utile esercizio in funzione della didattica della lettura e della scrittura: sapete come inizia il testo del Vangelo secondo Marco? Il testo del Vangelo secondo Marco – il testo più antico della Letteratura canonica dei Vangeli – inizia, dopo aver presentato la figura di Giovanni il Battezzatore, con il famoso episodio del “battesimo di Gesù”. Nel testo più arcaico della Letteratura canonica dei Vangeli la nascita, o la rinascita di Gesù in quanto “Cristo della fede” (secondo il pensiero di Paolo), corrisponde al momento in cui viene battezzato da Giovanni nel fiume Giordano: è questa l’occasione straordinaria in cui – attraverso un brano di carattere “mitico”, attraverso una “sentenza” – Gesù viene presentato come “figlio adottivo di Dio”. Dobbiamo leggere i versetti 9 10 e 11 del primo capitolo del Vangelo secondo Marco facendo molta attenzione alla traduzione delle parole: che cosa significa? Significa che la traduzione – come abbiamo detto – uniforma le parole alla disciplina del Concilio di Nicea che stabilisce, nel 325, in modo molto autoritario – con un autoritarismo non alieno, però, dai compromessi – la linea dottrinaria della Chiesa di Roma che diventa la linea dottrinaria della Chiesa Universale.
Tutte e tutti noi abbiamo in mente la scena del battesimo di Gesù secondo il testo del Vangelo secondo Marco – anche perché le raffigurazioni artistiche di questo avvenimento sono innumerevoli –: subito dopo che Gesù è stato battezzato nel fiume Giordano, Giovanni il Battezzatore vede che si aprono i cieli e che scende lo Spirito sotto forma di colomba, e Gesù sente una voce che – secondo la traduzione latina di Gerolamo in linea con la disciplina del Concilio Niceno – dice: “Tu sei mio figlio”; ma il testo greco del Vangelo secondo Marco letteralmente dice: “Tu sei quello che amo, in cui mi sono compiaciuto (che io ho adottato)”, che è la stessa espressione utilizzata da Paolo nel suo Epistolario.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La Scuola consiglia di leggere il primo capitolo del Vangelo secondo Marco dal versetto 1 al versetto 11 tenendo conto delle osservazioni di carattere filologico che abbiamo fatto…
C’è una raffigurazione del battesimo di Gesù che è rimasta particolarmente impressa nella vostra mente, quale?… Scrivetelo…
E voi avete raccolto delle testimonianze intorno al vostro battesimo?… Che cosa avete potuto sapere di questo avvenimento della vostra vita?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Abbiamo detto che nei testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso – e nei testi della Letteratura dei Vangeli – quando, in italiano, troviamo l’espressione “figlio di Dio” attribuita a Gesù, dobbiamo sapere che questa dicitura deriva dalla traduzione latina di Gerolamo. Gerolamo nel tradurre tutta la Sacra Scrittura in latino (la cosiddetta “vulgata”) – egli termina questo lavoro colossale nell’anno 420 – segue (come abbiamo ripetuto più volte) la linea dottrinaria del Concilio di Nicea del 325 e, quindi, traduce con le parole “figlio di Dio” una formula che nei testi greci dell’Epistolario di Paolo di Tarso e della Letteratura dei Vangeli corrisponde, letteralmente, all’espressione “colui che Dio ama”, “colui in cui Dio si compiace”, “colui che Dio adotta”.
In che cosa consiste la “linea dottrinaria” del Concilio di Nicea? Ora noi possiamo occuparci solo di un aspetto di questo importante avvenimento che è il Concilio di Nicea. Più volte abbiamo trattato questo argomento e non mancheranno certo le occasioni, strada facendo, per studiarne altri aspetti significativi. Ora facciamo un’incursione a Nicea (fuori Percorso) con l’obiettivo di definire meglio l’argomento che stiamo studiando cioè il tema per cui, nelle ekklesìe, negli anni 50, circola la notizia – e anche Paolo di Tarso la conosce – che Gesù si chiama Gesù, si chiama Yèshua: che tipo di riflessione comporta questa informazione?
Il tema del nome di Gesù di Nazareth è strettamente legato a quello della “natura” di Gesù Cristo e il tema della “natura” di Gesù Cristo rimanda, inevitabilmente, al Concilio di Nicea. Il Concilio di Nicea, prima di tutto, definisce qual è la “natura di Gesù Cristo”, stabilisce in quale modo Gesù Cristo è “figlio di Dio”, portando a compimento un procedimento che – tra storia, leggenda, mito e tradizione – era iniziato negli anni 90, a Roma, con la Scuola ellenistica Clementina. Naturalmente in questi secoli – il II, il III, il IV – si erano sviluppate più linee interpretative su questo tema fondamentale e questo fatto non è stato indolore perché ha prodotto scontri cruenti, perché ha generato una guerra di religione tra le varie anime del Cristianesimo funestandone la storia.
Nel 325 l’imperatore Costantino impone ai Vescovi di tutte le Chiese sparse sul territorio dell’Ellenismo – se ne contano più di trecento di una certa importanza – di riunirsi in un Concilio a Nicea per porre fine ai violenti scontri ideologici che stanno investendo la Cristianità e che sono un elemento di turbamento in tutto l’impero: Costantino vuole che il Cristianesimo – che lui ha accolto come religione ufficiale dello Stato romano per dare una forma di santificazione alla sua autorità – trovi un’unità dottrinale intorno al Vescovo della Chiesa di Roma. Costantino, che non vuole abitare più a Roma – si è fatto ristrutturare la bella, tranquilla e ospitale città di Bisanzio che ha preso il nome di Costantinopoli perché Roma è nel caos – vuole lasciare a Roma un’autorità a lui fedele, con cui è in sintonia, sulla quale vuole anche scaricare tutte le gatte da pelare che agitano la ormai ex capitale di un impero che, soprattutto in Occidente, è in profonda crisi politica, economica, morale, esistenziale.
Al primo Concilio di Nicea (a Nicea si terrà anche un secondo Concilio nel 787, il settimo Concilio Ecumenico, per porre fine alla lotta iconoclasta, contro le immagini sacre) – dal 20 maggio fino, forse, al 19 giugno del 325 – partecipano circa trecento Vescovi sotto la presidenza onoraria dell’imperatore Costantino che fa le veci del vecchio papa Silvestro I che, per motivi di salute, è assente e ha delegato a presiedere i lavori i suoi più fedeli collaboratori: Osio, vescovo di Cordova e i suoi due segretari, i presbiteri Vito e Vincenzo. A Nicea i Vescovi quando s’incontrano (Costantino ce li porta volenti o nolenti) si guardano in cagnesco e sono divisi in gruppi che rappresentano pensieri diversi e, da subito, lo scontro divampa insanabile prima di tutto sul tema della “natura di Gesù” e, quindi, sulla “figura del Dio cristiano”, una figura che è andata configurandosi – con la complicità del Neoplatonismo – in tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Uno dei gruppi più forti a Nicea è quello dei Vescovi “adozionisti” – e voi conoscete questo termine e sapete che questo è il pretesto per cui stiamo facendo questa incursione a Nicea – e i Vescovi “adozionisti”, che rappresentano un pensiero fortemente radicato nelle comunità del IV secolo, al Concilio danno battaglia ma non riescono a spuntarla, vengono sconfitti anche perché l’imperatore parteggia per la tesi “compromissoria” – nella quale si deve trovare una sintesi tra la natura umana e la natura divina di Gesù Cristo –, un tesi che, dagli anni 90, è andata formandosi nella Chiesa di Roma.
A loro volta i Vescovi “adozionisti” sono divisi tra loro o, per meglio dire, il “concetto adozionista” viene interpretato in vari modi ma questa è materia specifica di un paesaggio intellettuale che si trova su un altro Percorso che faremo in futuro. Nella corrente “adozionista” emerge la posizione di Ario, presbitero di Alessandria, il quale elabora una sua dottrina (l’arianesimo) che rinterpreta completamente l’adozionismo. Secondo Ario – che al Concilio difende con impeto il suo pensiero sostenuto da ventidue Vescovi – Gesù Cristo è la “prima creatura di Dio Padre” ed è quindi un “dio minore” rispetto al Padre, un “dio di seconda categoria”, in questo caso abbiamo un Dio-Padre più potente che adotta un Dio-figlio più fragile. Ario viene sconfessato anche dai Vescovi “adozionisti” più intransigenti secondo i quali “Gesù è un uomo, un rabbi ebraico, adottato da Dio” secondo la linea del testo del Vangelo secondo Marco e secondo i testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso.
I legati pontifici – Osio, vescovo di Cordova e i due presbiteri romani Vito e Vincenzo – respingono tanto la tesi “adozionista” quando la “dottrina” di Ario. L’imperatore Costantino – che vuole sedare gli scontri ideologici – auspica e invita energicamente i Vescovi a trovare un compromesso su tutti i temi di scontro che emergono anche perché tutte le tesi in conflitto sono già rappresentate nella Letteratura dei Vangeli, e la tesi “adozionista” è già presente a cominciare dall’Epistolario di Paolo di Tarso che viene ritenuto canonico (Parola del Signore) all’unanimità dal Concilio.
A Nicea – dopo lunghe e violente discussioni – i Padri conciliari vengono invitati dall’imperatore (il quale presiede con la spada in mano) a siglare uno storico compromesso. Il compromesso prevede che si definisca la “natura” di Gesù Cristo in modo che le varie componenti si possano riconoscere nelle definizioni conciliari. Il documento che a Nicea viene stilato da Osio, vescovo di Cordova e dai presbiteri Vito e Vincenzo è quello che prevale e noi lo conosciamo tutti a memoria: è intitolato “Simbolo niceno”, ed è meglio conosciuto con il nome liturgico di “Credo”. Il testo del “Simbolo niceno (il Credo)” contiene un significativo “mitico compromesso” che dovrebbe soddisfare le esigenze delle varie correnti in conflitto: Gesù Cristo viene definito contemporaneamente “vero Dio” e “vero Uomo”, Gesù Cristo ha, quindi, una natura completamente umana – e questo dovrebbe raccogliere l’istanza “adozionista” – ma la “sostanza” di questa natura umana è completamente divina. Gesù Cristo è un uomo, “un Figlio, nato da una donna”, generato della “stessa sostanza divina” di Dio-Padre.
Tutte e tutti noi conosciamo a memoria questa frase del Credo e sappiamo anche che questo concetto di “sostanza”, in greco “ousìa”, è la “prima categoria” di Aristotele. Aristotele usa le “categorie” – che sono dieci idee generali – per descrivere tutta la realtà, per descrivere come è fatto il mondo. A Nicea, dopo il pensiero di Platone (Gesù è un’idea di Dio), che era già entrato in gioco nei secoli precedenti con il pensiero “adozionista”, anche Aristotele entra nella tradizione (Gesù è della stessa sostanza del Padre) del Cristianesimo.
L’assemblea del Concilio vota il 12 giugno del 325 sulle varie tesi presentate e il “Simbolo niceno” viene approvato a grande maggioranza (lo votano anche molti Vescovi “adozionisti”) e noi pensiamo che, a questo punto, possa finalmente fiorire la pace e invece scoppia ancor più cruenta di prima la guerra perché Ario e i ventidue Vescovi che sostengono la sua tesi non ci stanno ad accogliere il compromesso del “Simbolo niceno” – lo ritengono una forzatura anacronistica – e su di loro si abbatte l’anatema dell’imperatore che inizia a perseguitarli e, naturalmente, loro si difendono perché nella base hanno un buon seguito, ma questa è un’altra storia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Interrompiamo la nostra incursione a Nicea non prima però di aver consigliato di fare una visita a questa città che oggi si chiama Ìznik e si trova in Turchia nella regione delle Terre del Mare di Marmara, sulle rive di un bel lago che nell’antichità si chiamava Lago Ascanio…
È interessante soprattutto visitare i resti della polis ellenistica di Nikeia, in particolare la chiesa di Santa Sofia dove si sono tenute le sedute del secondo Concilio Ecumenico nel 787… Anche la città ellenistica di Nicea è stata fondata, su un sito già preesistente, durante le guerre di successione dopo la morte di Alessandro Magno e, a questo proposito: sapete perché si chiama Nikaea?… Andate a fare una piccola ricerca… Se consultate l’enciclopedia, l’atlante, una guida della Turchia e navigate sulla rete potete fare una significativa escursione virtuale a Nicea per preparare un eventuale visita reale… Buon viaggio…
E ora che – nella nostra incursione a Nicea abbiamo acquisito alcuni dati che ci servono – possiamo tornare sul nostro sentiero specifico.
Molti Vescovi “adozionisti”, dopo essere tornati nelle loro comunità, decidono di non sottomettersi al dettato imperiale del Concilio di Nicea e, rimanendo sotto traccia per evitare scontri dolorosi, rimettono a punto la loro dottrina sulla natura di Gesù rifacendosi ai testi delle Lettere dell’Epistolario di Paolo di Tarso che intanto, insieme ai quattro Vangeli canonici e agli Atti degli Apostoli, sono state dichiarate dal Concilio “parola del Signore”, e se questi testi sono stati canonizzati dall’autorità del Concilio anche le “tesi adozioniste” che sono contenute in questi testi dovrebbero avere valore canonico.
Quindi, i Vescovi “adozionisti” conservano e trasmettono sotto traccia – perché molte cose sono sempre avvenute sotto traccia nella Storia della Chiesa – quella che ormai è una tradizione radicata nel testo canonico del Vangelo secondo Marco e continuano a considerare più importante il fatto che Gesù si chiami Gesù, che si chiami Yèshua, piuttosto che sia il “figlio di Dio” .
E allora riprendiamo la nostra riflessione ritornando nelle ekklesìe degli anni 50 quando prende forma il pensiero “adozionista” che Paolo codifica nelle sue “sentenze”. La corrente “adozionista” è a tutt’oggi attiva nel modo cristiano. Secondo la teoria “adozionista” Gesù di Nazareth viene visto in prospettiva metafisica non perché è “figlio di Dio”: la vicinanza a Dio di Gesù è garantita dal suo “nome”, Dio è vicino a Gesù proprio perché si chiama Gesù, e questo avviene in linea con la cultura dell’Antico Testamento per cui la potenza (o il destino) di una persona sta, prima di tutto, nel suo nome.
Il nome di Gesù, Yèshua’, è stato tradotto in greco con Iesus ma mantiene intatto il suo speciale significato ebraico: che cosa significa in ebraico Yèshua’? Yèshua’ in ebraico significa “Dio salva”. E Paolo di Tarso, con grande intelligenza filologica, utilizza al meglio questo strumento semantico e noi – facendo questa riflessione – capiamo che cosa significa la dicitura (la sentenza) che Paolo ripete continuamente ai suoi interlocutori i quali comprendono perfettamente che cosa Paolo vuole dire quando afferma: “nel nome di Gesù siete stati salvati”, “Non c’è un nome più grande di quello di Gesù”. Negli anni 50, nelle ekklesìe, non arriva la notizia che Gesù è “figlio di Dio” per il semplice motivo che questo concetto – così come lo abbiamo noi in mente – non è stato ancora elaborato culturalmente: l’elaborazione che porta alla definizione della natura divina di Gesù Cristo comincia, come sappiamo, negli anni 90 e si conclude ufficialmente nel 325 con i documenti del primo Concilio di Nicea.
Negli anni 50 l’espressione “figlio di Dio” – l’idea che in Gesù ci sia una natura divina – procura grande disturbo alla mentalità degli Ebrei della diaspora, compreso Paolo. Nelle ekklesìe, negli anni 50, arriva la “buona notizia” che Gesù è stato risuscitato da Dio perché “Dio lo ha adottato e si è compiaciuto nel suo nome”. Quindi Dio salva – è portatore di salvezza per l’Umanità – attraverso il “nome” di Gesù, Yèshua’ che significa “Dio salva”.
Paolo di Tarso – ed ecco che si dimostra d’importanza fondamentale l’informazione che Gesù si chiama Gesù, si chiama Yèshua’ – è l’artefice della costruzione di quelle “sentenze” che orientano verso la speranza della salvezza: l’avere fede, l’avere fiducia, per Paolo, sta nel pensare di «essere salvati nel nome di Gesù», perché Gesù ha meritato di essere adottato da Dio, e Gesù (Yèshua’), con i suoi gesti umani e le sue parole umane è l’immagine di “Dio che salva (Yèshua’)”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Abbiamo detto che secondo la cultura dell’Antico Testamento la potenza [o il destino] di una persona sta, prima di tutto, nel suo nome… E voi sapete per quale motivo siete state chiamate e chiamati con il nome, o con i nomi, che portate?…
Scrivete almeno due righe in proposito…
Questo clima culturale si manifesta in una delle Lettere di Paolo di Tarso e la prossima settimana riprenderemo il filo di questo argomento fermandoci dinnanzi al paesaggio intellettuale che contiene il testo di questa altra importante Lettera.
Ora, per concludere, leggiamo ancora alcune pagine dal romanzo La zia Julia e lo scribacchino. Abbiamo detto che questo romanzo esalta – non senza ironia – l’esercizio dello scrivere e tutti e due i principali personaggi – Mario e Pedro Camacho – esistono in funzione di questa operazione che l’autore, Mario Vargas Llosa, vuole compiere.
Mario, dopo un incontro piuttosto burrascoso con Pedro Camacho che, con la complicità dell’editore Genaro-figlio, s’impossessa della sua macchina da scrivere (e abbiamo letto questo episodio), inizia un dialogo con il famoso autore di radiodrammi – ricordiamoci che anche il testo di un radiodramma, per essere efficace, deve mettere insieme la storia, la leggenda, il mito e la tradizione – e così Mario può vedere finalmente al lavoro questo moderno scrivano di successo in mezzo a mille difficoltà che non ne limitano la creatività, ma quello che lo colpisce – e che colpisce anche noi – è come il geniale Pedro Camacho si esprima inesorabilmente per “sentenze”, anche perché, per lui, la scrittura è comunque la celebrazione di un rito, di qualcosa di sacro.
E ora leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino
Rividi Pedro Camacho pochi giorni dopo l’incidente. Erano le sette e mezza della mattina, e, dopo aver preparato il primo bollettino, stavo andando a prendere un caffelatte al Bransa, quando, passando davanti alla finestrella della portineria, scorsi la mia Remington. La sentii funzionare, udii il suono dei grossi tasti contro il rotolo, ma non vidi nessuno lì dietro. Infilai la testa attraverso la finestra e il dattilografo era Pedro Camacho. Gli avevano installato un ufficio nel cubicolo del portiere. Nella stanza, dal soffitto basso e dalle pareti rovinate per l’umidità, la vecchiaia e i graffiti, c’era adesso una scrivania in sfacelo ma appariscente come la macchina che troneggiava sul piano.
… continua la lettura …
La prossima settimana leggeremo ancora – e c’è un motivo – qualche pagina da questo romanzo e poi riprenderemo il filo dell’argomento di cui ci stiamo occupando legato alle domande: che cosa si sa nelle ekklesìe di Gesù di Nazareth e che cosa sa Paolo di Tarso di Gesù di Nazareth? Abbiamo capito che Paolo utilizza ogni informazione utile, anche se “consequenziale” e non “documentale”, per costruire “sentenze”, che sono gli strumenti costitutivi della nascente Letteratura dei Vangeli.
Nel prossimo itinerario ci fermeremo dinnanzi al paesaggio intellettuale che contiene il testo di un’altra importante Lettera paolina, la Lettera ai Filippesi: perché c’interessa il testo di quest’opera? Lo scopriremo la prossima settimana perché il viaggio continua e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…