Autorizzazione all'uso dei cookies

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È LA SENTENZA PAOLINA SECONDO CUI GESÙ “HA LA FORMA DI DIO” …

Lezione N.: 
23

Prof. Giuseppe Nibbi         La sapienza  poetica ellenistica  [evangelica e imperiale]       6-7-8 aprile 2011

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È LA SENTENZA PAOLINA SECONDO CUI GESÙ HA LA FORMA DI DIO

     In queste due ultime settimane – percorrendo il sentiero con il quale stiamo attraversando il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico” – siamo arrivate e siamo arrivati a ridosso di un significativo paesaggio intellettuale che contiene un tema interessante che ha dato modo alle studiose e agli studiosi di filologia di lavorare molto; questo tema è legato ad alcune domande importanti che ci siamo poste e ci siamo posti già più d’una volta: che cosa si sa nelle ekklesìe di Gesù di Nazareth e, soprattutto, quali informazioni ha Paolo di Tarso su Gesù di Nazareth?

     La scorsa settimana abbiamo detto che la natura delle “notizie” riguardanti la persona di Gesù di Nazareth è di carattere “consequenziale” e non “documentale” perché documenti scritti non ce ne sono: su Gesù ci sono molte testimonianze orali, spesso contraddittorie. Che cosa s’intende – in campo filologico – per “notizia consequenziale”? La prima notizia “consequenziale” che circola nelle ekklesìe – e lo abbiamo studiato già la scorsa settimana – è che Gesù di Nazareth “nacque sotto la Legge di Mosè” e che, di conseguenza, secondo il rito ebraico “otto giorni dopo fu circonciso”. È chiaro che se Gesù è nato in Galilea la sua nascita è stata influenzata di “conseguenza” dalle Leggi, dagli usi e dai costumi di quella regione. Ecco che cos’è una notizia “consequenziale”: si presume, secondo un ragionamento logico legato alla consuetudine, che quel fatto sia potuto avvenire.

     Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo studiato che nel testo della Lettera ai Galati – al capitolo 4 versetto 4 – Paolo fa un’interessante affermazione a proposito di questa notizia “consequenziale” e scrive: «Egli (Gesù) nacque da una donna e fu sottoposto alla Legge». Abbiamo detto che Paolo di Tarso è stato capace – e questo è uno dei suoi più grandi meriti di “scrivano” – di trasformare una notizia di carattere “consequenziale” in una “sentenza”. E il genere letterario della “sentenza” è alla base di tutte le Letterature dell’Età assiale e anche della Letteratura ellenistica dei Vangeli.

     La “sentenza” è un breve testo che puntualizza, che codifica una situazione portandola dal piano passeggero della cronaca a quello duraturo della Tradizione. Le “sentenze” di Paolo di Tarso si presentano spesso come enunciati sintetici, scarni, ma solidissimi e costitutivi (sono la prima pietra) della base dottrinaria del Cristianesimo, ed è proprio intorno alle “sentenze” contenute nell’Epistolario di Paolo di Tarso che prende forma, nei decenni a venire, la Letteratura dei Vangeli: il testo della “sentenza” fa da fondamento per sostenere dei racconti (preferibilmente sotto forma di “parabola”) – narrati intorno al nucleo della “sentenza” stessa – che contengono pochi dati reali (poca cronaca) e molti elementi leggendari che favoriscono la spiegazione del messaggio di salvezza il quale procede sulla strada della Tradizione.

     Ripetiamo che la parola “legenda” (con una g sola) è la perifrastica del verbo latino “legere” e significa “da leggersi”: gli elementi leggendari rimandano, quindi, alla lettura di miti utili per creare la via della Tradizione (Paolo nel costruire le sue sentenze fa riferimento soprattutto ai grandi racconti mitici contenuti nella Letteratura dell’Antico Testamento)   

     Sappiamo che in questa sentenza, « Egli (Gesù) nacque da una donna…», – che può sembrare un’affermazione ovvia e banale – c’è una precisa presa di posizione ideologica da parte di Paolo di Tarso su un tema importantissimo, che, negli anni 50, comincia ad essere dibattuto nelle ekklesìe, ed è il tema della “natura di Gesù di Nazareth”, un tema complesso e di enorme portata nell’ambito della Storia del Pensiero Umano. Al dibattito molto acceso su questo tema – Gesù è di natura umana? È di natura divina? Ha in sé tutte e due le nature? E in che modo è figlio di Dio? – Paolo di Tarso dà il primo fondamentale contributo dottrinale. Secondo Paolo di Tarso “quel Gesù” – della vita del quale non si sa quasi nulla – può essere considerato il “Cristo della fede” solo e proprio perché ha una “natura umana (è nato da donna)” ed è per questo motivo che Paolo cerca informazioni sulla vita “umana” di Gesù di Nazareth e quando Paolo pensa a Gesù come “figlio di Dio” noi sappiamo che dà a questa affermazione un forte connotato simbolico di carattere culturale attingendo alla tradizione della Letteratura dell’Antico Testamento dove si attribuisce il titolo di “figlio di Dio”, in forma metaforica, ad una persona che “Dio ama particolarmente”, ad una persona che “Dio vuole salvare”, ad una persona che Dio salva perché “in lei si compiace”, ad una persona che “Dio vuole adottare”.

     Abbiamo detto che la “buona notizia”, secondo Paolo, è che “Gesù è un essere umano che è stato adottato da Dio come figlio”; non è pensabile, da parte di Paolo di Tarso, che Gesù possa essere “figlio naturale” di Dio perché questa idea sconvolgeva la mentalità ebraica ed era considerata blasfema. L’idea che Gesù sia figlio naturale di Dio è il prodotto dell’apporto culturale della cultura greca orfico-dionisiaca che, negli anni 50, non è ancora emergente. Il pensiero di Paolo sulla natura di Gesù è che questa persona sia un “figlio adottivo” e questa è stata anche la prima posizione dottrinaria sulla natura di Gesù che viene codificata dalla Letteratura dei Vangeli negli anni 70 dal testo del Vangelo secondo Marco.

     Una settimana fa – nell’itinerario precedente di cui stiamo ripassando una serie di elementi, utili, per poter riprendere il passo – abbiamo detto che per imbastire una riflessione su questo tema dobbiamo domandarci ancora: oltre alla notizia “consequenziale” che « Egli (Gesù) nacque da una donna e fu sottoposto alla Legge», che cosa si sa d’altro di Gesù di Nazareth nelle ekklesìe? Nelle ekklesìe si sa – e, naturalmente, lo sa anche Paolo di Tarso – che Gesù si chiama Gesù. Noi sappiamo che questo non è un gioco di parole perché nelle ekklesìe si avvalora il fatto che Gesù si chiami, in lingua ebraica, Yèshua’. E perché è importante che venga avvalorato questo fatto: il fatto che questo “rabbi” si chiami Yèshua’? Anche Paolo di Tarso partecipa a questo processo di valorizzazione del nome (i nomi sono più che mai importanti, potenti, nel contesto del genere letterario della “sentenza”) e noi sappiamo che di Gesù di Nazareth non viene, in origine (siamo negli anni 50), messo in evidenza il fatto che egli sia per natura “figlio di Dio” ma viene messo in evidenza soprattutto il fatto che si chiami Yèshua’: è, prima di tutto, questo fatto che lo avvicina a Dio.

     Che cosa significa in ebraico Yèshua’? Yèshua’ – e siamo già al corrente – in ebraico significa “Dio salva”. E noi sappiamo che Paolo di Tarso, con grande intelligenza filologica, utilizza al meglio questo strumento semantico e noi – facendo questa riflessione – capiamo che cosa significa la dicitura (la sentenza) che Paolo ripete continuamente ai suoi interlocutori, ai destinatari delle sue Lettere, i quali comprendono perfettamente che cosa Paolo vuole dire quando afferma: “nel nome di Gesù siete stati salvati”, “Non c’è un nome più grande di quello di Gesù”.

     Negli anni 50, nelle ekklesìe, non arriva la notizia che Gesù è “figlio di Dio” per il semplice motivo che questo concetto – così come lo abbiamo noi in mente – non è stato ancora elaborato culturalmente, l’elaborazione che porta alla definizione della natura divina di Gesù Cristo comincia, come sappiamo, negli anni 90 e si conclude ufficialmente nel 325 con i documenti del primo Concilio di Nicea (su cui ci siamo soffermati la scorsa settimana). Negli anni 50 l’espressione “figlio di Dio” – l’idea che in Gesù ci sia una natura divina – disturba la mentalità degli Ebrei della diaspora, Paolo compreso. Nelle ekklesìe, negli anni 50, arriva la “buona notizia” che Gesù è stato risuscitato da Dio perché «Dio lo ha adottato come uomo (come “rabbi”) e si è compiaciuto nel suo nome». Quindi Dio salva – è portatore di salvezza per l’Umanità – attraverso il “nome” di Gesù, Yèshua’ che significa “Dio salva”. Paolo di Tarso – ed ecco che si dimostra d’importanza fondamentale l’informazione che Gesù si chiama Gesù, si chiama Yèshua’ – è l’artefice della costruzione di quelle “sentenze” che orientano verso la speranza della salvezza: l’avere fede, l’avere fiducia, per Paolo, sta nel pensare di «essere salvati nel nome di Gesù», perché Gesù ha meritato di essere adottato da Dio, e Gesù, con i suoi gesti umani e le sue parole umane è l’immagine di  “Dio che salva (Yèshua’)”. Questo clima culturale – come abbiamo preannunciato la scorsa settimana – si manifesta in una delle Lettere di Paolo di Tarso: la Lettera ai Filippesi.

     Ma prima di proseguire, e di prendere in considerazione il testo della Lettera ai Filippesi, leggiamo ancora alcune pagine dal romanzo La zia Julia e lo scribacchino di Mario Vargas Llosa. Sappiamo ormai che questo romanzo esalta, non senza ironia, l’esercizio dello scrivere e tutti e due i principali personaggi – Mario e Pedro Camacho – esistono in funzione di questa operazione che l’autore di questo romanzo vuole compiere.

     Mario – dopo un incontro piuttosto burrascoso con Pedro Camacho che gli porta via la macchina da scrivere (abbiamo letto questo episodio) – inizia un dialogo e una frequentazione con questo famoso e bizzarro autore boliviano di radiodrammi, che è stato scritturato a Radio Central di Lima dagli editori Genaro papà e figlio, e così Mario può vedere finalmente al lavoro questo singolare e prolifico scrivano ed eccellente attore radiofonico il quale, sebbene venga a trovarsi in mezzo a mille difficoltà, non perde lo slancio creativo dal quale è animato. E ciò che colpisce Mario – e che colpisce anche noi – è come il geniale Pedro Camacho si esprima inesorabilmente per “sentenze” (lo abbiamo constatato nell’ultimo brano che abbiamo letto la scorsa settimana), anche perché, per lui, la scrittura è la celebrazione di un rito, è la rievocazione di qualcosa di sacro. Naturalmente anche Mario – che ambirebbe a diventare scrittore di successo – si cimenta a scrivere “racconti” e prova a trasformare in “narrazioni” gli episodi di vita vissuta che sente raccontare dai membri della sua stravagante famiglia: la vita acquista un senso epico nel momento in cui viene raccontata, quando la storia, la leggenda, il mito e la tradizione finiscono per fondersi insieme in quel crogiuolo seducente che è il testo.

     E ora leggiamo questo brano dando la parola a Mario che ci racconta le sue esperienze di “scrivano” molto esigente con se stesso:

LEGERE MULTUM ….

Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino

Tutta quella settimana avevo tentato di scrivere un racconto, basato su una storia che conoscevo grazie a mio zio Pedro, che era medico in una proprietà terriera di Ancash. Un contadino ne aveva spaventato un altro, una notte, travestendosi da pishtaco (diavolo) andandogli incontro in mezzo al canneto. La vittima dello scherzo si era spaventata tanto che aveva scaricato il suo machete sul pishtaco e l’aveva mandato all’altro mondo col cranio spezzato in due. Poi, era fuggito sulle montagne.

… continua la lettura …

     Continueremo a leggere questo brano strada facendo; ora noi non di barzellette ma di sentenze ci dobbiamo occupare e – a questo proposito, in funzione della didattica della lettura e della scrittura – entriamo in contatto con il testo della Lettera ai Filippesi.

     C’è un punto nel testo della Lettera ai Filippesi che noi vogliamo osservare da vicino e, per la precisione, si tratta di un frammento che contiene i primi undici versetti del secondo capitolo. Naturalmente la Scuola – così come ha fatto per le due Lettere ai Tessalonicesi e le due Lettere ai Corinti – consiglia la lettura integrale del testo di quest’opera: ora è il momento per dedicarsi a questo esercizio. Che caratteristiche ha la Lettera ai Filippesi?

     La Lettera ai Filippesi è formata da appena quattro capitoletti contenuti in quattro paginette. Paolo scrive ai Filippesi da Efeso tra il 53 e il 57. Il testo di questa Lettera – indipendentemente da tutti i commenti che si possono fare e che faremo – è molto bello perché in quest’opera Paolo di Tarso esprime anche tutta la sua cordialità e il suo affetto: emerge da questo testo un senso di grande familiarità tra Paolo e le persone che nella ekklesìa di Filippi la pensano come lui. Ribadiamo ancora una volta che Paolo – abbiamo maturato un po’ un’idea non realistica a causa dell’uso liturgico che è stato fatto dell’Epistolario paolino – non scrive a tutti gli abitanti di Filippi, non scrive a tutti quelli che frequentano l’ekklesìa di Filippi, ma Paolo scrive a quelle persone con cui ha fatto amicizia perché hanno la sua stessa opinione e traspare in questa Lettera, in modo evidente, il ricordo di un passato felice vissuto in questa città con queste persone. Contemporaneamente se da una parte, in questa Lettera, c’è affetto e cordialità per i suoi amici, dall’altra – come al solito – c’è il rancore verso chi, secondo Paolo, non vuole abbandonare una mentalità che lui ritiene conservatrice e perdente.

     Nelle ekklesìe – e noi abbiamo studiato questo tema – si ha sempre a che fare con uno scontro in atto e nella ekklesìa di Filippi Paolo si scaglia, con parole durissime, contro: «Quei cani che, antepongono alla fede, il legalismo della circoncisione». Dobbiamo chiarire subito che Paolo non ce l’ha con gli Ebrei – un fariseo come Paolo non può avercela con gli Ebrei –, e quando questi testi sono stati usati per fare dell’antisemitismo – perché purtroppo è successo anche questo, in particolare nella Germania nazista ma anche in Italia – in questo caso è stata commessa un’ulteriore ingiustizia contro gli Ebrei. L’attacco di Paolo è mirato perché Paolo polemizza aspramente con i gruppi dei fondamentalisti ebioniti che vogliono anteporre il legalismo giudaico alla fede. Appare chiarissimo, per giunta, che Paolo non ce l’ha con gli Ebrei, perché nel momento in cui porta questo attacco – e se andate a leggere il testo della Lettera ai Filippesi potete rendervene conto – Paolo rivendica il suo essere ebreo, il suo essere stato circonciso, il suo essere fariseo e la sua appartenenza alla tribù di Beniamino. Paolo, in realtà, vuole rinnovare l’ebraismo abolendo il legalismo giudaico in nome di Cristo, il rabbi, figlio adottivo di Dio, che è venuto a rifondare l’ebraismo.

     Il progetto che Paolo si propone è quello di rinnovare la cultura ebraica in modo profondo. Paolo non coltiva, neppure lontanamente, l’idea di fondare una nuova religione, ma pensa di rinnovarne una antica, pensa che nel nome del rabbi Gesù (Yeshua’), l’ebraismo possa universalizzarsi.

     Paolo poi esalta, nel testo della Lettera ai Filippesi, l’attività di Timoteo, e scrive: «Timoteo non è come gli altri, perché non cerca il proprio interesse». Poi Paolo nella Lettera ai Filippesi ricorda un’altra persona che si chiama Epafrodito il quale è stato inviato a Efeso dagli amici filippesi di Paolo a portargli degli aiuti, e di lui scrive: «Adesso vi rimando Epafrodito, mio fratello e compagno di lavoro e di lotta per mezzo del quale voi mi avete inviato di che provvedere ai miei bisogni, perché ha nostalgia (nostos-algia) di voi, ed è stato anche gravemente malato, è stato sul punto di morire ma ». Qui ci fermiamo perché questa Lettera, in molte sue parti, ha il taglio di un romanzo e siete invitate e invitati a leggerla.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete il testo della Lettera ai Filippesi perché in questo testo di può trovare un catalogo di parole-chiave provenienti dalla cultura greca che Paolo immette dentro la predicazione della “buona notizia” della risurrezione di Gesù; queste parole sono: la gioia, il coraggio, il vero, il buono, il giusto, la costanza, l’accordo, lo sforzo, l’unità, l’imitazione, l’impegno, l’amicizia… queste parole sono tutti termini del glossario “etico” – un glossario che Paolo dimostra di conoscere bene – che è andato formandosi con il pensiero delle Scuole epicuree, stoiche e scettiche … 

Scegliete le tre parole di questo glossario che vi piacciono di più e scrivetele…

     Abbiamo detto che c’è un punto nel testo della Lettera ai Filippesi che noi vogliamo osservare da vicino e, per la precisione, si tratta di un frammento che contiene i primi undici versetti del secondo capitolo; ma, prima di dedicarci a questo non semplice esercizio, andiamo avanti a leggere ancora qualche pagina dal romanzo La zia Julia e lo scribacchino:

LEGERE MULTUM ….

Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino

Alla Radio, la segretaria di Genaro-fìglio, Nelly, stava ridendo da sola alla sua scrivania. Qual era la barzelletta?

Una barzelletta - riflettei pensando a Pedro Camacho - non può diventare quasi mai una sentenza.

- C’è stato uno scontro a Radio Central fra Pedro Camacho e Genaro-papà, - mi raccontò. - Il boliviano non vuole attori argentini nei romanzi radiofonici, altrimenti dice che se ne va. Ha ottenuto che Luciano Pando e Josefìna Sànchez lo appoggino e l’ha avuta vinta. Annulleranno loro il contratto, divertente, no?

… continua la lettura …

     Abbiamo detto che c’è un punto nel testo della Lettera ai Filippesi che noi vogliamo osservare da vicino e, per la precisione, si tratta di un frammento che contiene i primi undici versetti del secondo capitolo. Questo brano – una delle “sentenze” più significative e più studiate in senso filologico dell’Epistolario paolino – contiene una tematica di grande interesse considerata di tipo specialistico e, naturalmente, l’osservazione di questo testo comporta qualche difficoltà, però, un Percorso di alfabetizzazione culturale e funzionale è costruito a posta per osare, quindi, per poter avanzare sul terreno dell’apprendimento, questo tema va, almeno nelle sue linee generali, comunque affrontato procedendo con ordine.

     Per prima cosa dobbiamo leggere questo brano nella sua versione più antica: questo è uno dei frammenti tra i più famosi dell’Epistolario di Paolo di Tarso perché contiene delle affermazioni che, nel corso dei secoli, hanno fatto scatenare lo scontro (spesso non indolore) tra le diverse fazioni sul tema dell’identità di Gesù Cristo e sul tema della conformazione della divinità cristiana. Come sarebbe a dire che leggeremo questo brano nella sua versione più antica?

     Per procedere correttamente e con ordine dobbiamo, a questo punto, fare un’importante considerazione di tipo metodologico alla quale abbiamo accennato già molte volte e che riguarda quello che le esperte e gli esperti di esegesi chiamano il tema della “confezione” dei testi della Letteratura dei Vangeli. Su questo tema si sa oramai quasi tutto (anche se gli studi in materia continuano e sono molto interessanti in funzione della didattica della lettura e della scrittura) e le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica, in proposito, c’insegnano che nella “confezione” dei testi delle opere della Letteratura dei Vangeli ci sono tre momenti importanti, tre momenti topici.

     Il primo momento importante è quello della “confezione originaria” che avviene negli anni 50 60 e 70 del I secolo, in questi decenni Paolo scrive le sue Lettere e molti altri autori – per lo più scrivani sconosciuti – compilano numerose “sentenze” che daranno forma alle prime stesure dei Vangeli sinottici (secondo Marco, Matteo e Luca).

     Il secondo momento importante è quello della “confezione clementina”, di cui molte volte abbiamo parlato; siamo alla fine degli anni 90, alla fine del I secolo e, quello che deve essere considerato il primo papa storico, il Vescovo di Roma Clemente Romano, decide di raccogliere i testi delle opere più edificanti che trasmettono la “buona notizia” della risurrezione di Gesù e il suo messaggio di salvezza – in primo luogo le Lettere di Paolo di Tarso e le prime stesure (i protovangeli) dei testi dei Vangeli sinottici (secondo Marco, Matteo e Luca)– e, quindi, fonda una Scuola (la Scuola ellenistica Clementina) perché operi per mettere in ordine queste opere che devono essere coerenti con la dottrina contenuta nel primo catechismo, gli Atti degli Apostoli (di cui Clemente è l’autore finale), e devono essere coerenti (canoniche) con gli insegnamenti contenuti nei primi due capitoli del Vangelo secondo Luca (il testo Deuterolucano). Queste due opere, gli Atti degli Apostoli e il Vangelo Deuterolucano, – nella visione pastorale di Clemente – fungono da “introduzione” alla nascente Letteratura dei Vangeli, che, secondo il disegno della Chiesa di Roma, deve essere lo strumento di formazione, il bagaglio culturale e il supporto intellettuale per tutti i credenti sparsi nell’Ecumene ellenistica.

     Il terzo momento importante è quello della “confezione nicena”; nel 325 al Concilio di Nicea viene stabilito il “canone ufficiale” dei testi della Letteratura dei Vangeli – a cominciare dall’Epistolario di Paolo di Tarso – e tutti i testi vengono uniformati al dettato conciliare che ha proclamato Gesù Cristo “vero Dio e vero Uomo, generato non creato, e della stessa sostanza del Padre”: una commissione presieduta da Osio, vescovo di Cordova e dai presbiteri romani Vito e Vincenzo revisiona i testi della Letteratura dei Vangeli correggendo eventuali contraddizioni rispetto alle disposizioni contenute nel Simbolo Niceno.

     Il brano della Lettera ai Filippesi – capitolo 2, versetti 1-11 –, su cui noi stiamo per puntare l’attenzione, lo possiamo leggere tanto nella “confezione originaria” così come l’ha composta Paolo di Tarso – che è rimasta tale e quale nella “confezione clementina” – e infine nella “confezione nicena” dove il testo, nel IV secolo, cambia i propri connotati rispetto alla scrittura propriamente paolina di fine anni 50.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Vi è mai capitato di cambiare le parole di un vostro testo scritto per adeguarlo a nuove situazioni?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Ora noi leggiamo il brano della Lettera ai Filippesi – dal capitolo 2, versetti 1-11 – nella sua confezione originaria, così come l’ha composta Paolo di Tarso prima dell’anno 57 a Efeso, poi osserveremo le differenze che ci sono tra la confezione originaria del I secolo e quella nicena, dopo che, nel IV secolo, la commissione conciliare presieduta da Osio, vescovo di Cordova e dai presbiteri romani Vito e Vincenzo, ha revisionato i testi della Letteratura dei Vangeli per uniformarli al dettato conciliare che ha proclamato Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo, generato non creato, e della stessa sostanza del Padre: questa affermazione dottrinaria deve avere un riscontro nella Scrittura, nella Letteratura dei Vangeli. Questo testo – Filippesi 2, 1-11 –, nell’originaria versione paolina, è un vero e proprio vessillo (un manifesto) che le correnti adozioniste (tuttora presenti nel mondo cristiano) hanno agitato spesso per rivendicare questa posizione ideologica che rimanda alle origini del Cristianesimo quando la buona notizia della risurrezione di Gesù non era ancora vincolata al potere imperiale, un potere che ha, sicuramente, condizionato (nel bene e nel male) la Storia della Chiesa.

     E ora leggiamo questo brano facendo attenzione alle parole greche che sono tra parentesi, senza alcun timore perché non occorre essere dei grecisti per capire il processo di trasformazione che è avvenuto nella formulazione della dottrina.

LEGERE MULTUM ….

Paolo di TarsoLettera ai Filippesi   2,  1-11   (confezione originaria)

Se è vero che Cristo vi chiama ad agire, se l’amore vi dà qualche conforto, se lo Spirito vi unisce, se è vero che tra voi c’è affetto e comprensione rendete completa la mia gioia. Abbiate gli stessi sentimenti e il medesimo amore. Siate concordi e unanimi! Non fate nulla per invidia e per vanto, anzi, con grande umiltà, stimate gli altri migliori di voi. Badate agli interessi degli altri e non soltanto ai vostri. I vostri rapporti reciproci siano fondati sul fatto che siete uniti a Cristo Gesù.

Benché avesse la forma di Dio [os en morphé Teon] egli non difese gelosamente il suo essere a immagine [eikon] di Dio.

Rinunciò a tutto: diventò come un servo fu uomo tra gli uomini e visse proprio come un uomo. Abbassò se stesso, fu obbediente fino alla morte, alla morte di croce. Perciò Dio lo ha esaltato e gli ha donato [eucharisatò] il nome [tò ònoma] sopra tutti i nomi [tò ùper pàn ònoma]. Perché in onore di Gesù, in cielo, in terra e sotto terra, ognuno pieghi le ginocchia e per la gloria di Dio Padre, ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Signore.

     Su questo brano e sulle sue diverse versioni – la versione adozionista del I secolo e la versione nicena del IV secolo – dobbiamo imbastire una riflessione per comprendere, ai fini dello studio e in funzione della didattica della lettura e della scrittura, la dinamica dei cambiamenti di significato che ha accompagnato lo sviluppo della dottrinacristiana soprattutto nei primi quattro secoli della sua storia in età ellenistica.

     Il punto più significativo di questo brano – che comprende i primi undici versetti del secondo capitolo della Lettera ai Filippesi (che abbiamo letto ora) – è quando Paolo di Tarso afferma che Gesù Cristo ha la forma (in greco  morphe morphé) di Dio. Nel pensiero di Paolo non rientra l’idea che Gesù Cristo possa essere della stessa sostanza di Dio, come verrà affermato, circa tre secoli dopo, a Nicea nel 325, facendo uso della prima categoria di Aristotele. L’affermazione di Paolo: Gesù Cristo ha la forma (morphé) di Dio è anch’essa condizionata dalla cultura greca ed è un’affermazione di Scuola platonica. Che significato ha questo fatto? Che tipo di pensiero c’è dietro a questa attestazione – Gesù Cristo ha la forma (morphé) di Dio – che Paolo eredita, come ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia, dalla cultura ellenistica del suo tempo? Paolo di Tarso eredita questo pensiero perché lo riprende dalle parole di un inno adozionista che, a loro volta, derivano da uno dei più famosi Dialoghi di Platone, e di questa affinità tra le opere platoniche e l’Epistolario di Paolo di Tarso ne abbiamo già parlato qualche mese fa e siamo edotte ed edotti in materia. Le studiose e gli studiosi di filologia sono propensi a credere che Paolo conosca le parole di questa affermazione – Gesù Cristo ha la forma (morphé) di Dio – attraverso un inno composto nel I secolo, alla fine degli anni 50, dai membri di uno dei tanti gruppi adozionisti presenti nelle ekklesìe (molto probabilmente nell’ekklesìa di Efeso) e Paolo è abile – con la sua competenza di scrivano – a trasformare le parole di questo inno in una significativa sentenza che possa chiarire, in termini filosofici, l’identità di Gesù Cristo alla luce della buona notiziadella risurrezione. Le parole che Paolo utilizza – abbiamo detto – derivano da uno dei più famosi Dialoghi di Platone: questo dialogo s’intitola Timeo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate ad osservare un’immagine – non è difficile da trovare – che rappresenta l’affresco di Raffaello intitolato La Scuola di Atene: chi sono i due personaggi che vengono rappresentati al centro di questo celebre dipinto e che cosa tengono entrambi in mano?

     Questa affermazione – il fatto che le parole che Paolo utilizza per costruire la sua sentenza sull’identità di Gesù derivino dal Dialogo di Platone che s’intitola Timeo – ci obbliga a fare un’incursione (una rapida incursione) su un territorio che abbiamo attraversato nell’anno scolastico 2008-2009.

     Nell’anno scolastico 2008-2009 abbiamo viaggiato, oltre che sul territorio dell’Ellade, anche nello spazio del celebre affresco intitolato La Scuola di Atene. Chi non conosce quest’opera? È nella mente di tutti anche se i più – la stragrande maggioranza delle cittadine e dei cittadini italiani – non sanno di che si tratta. L’affresco intitolato La Scuola di Atene è stato realizzato da Raffaello dal 1508 al 1510 ma sappiamo anche che non va dato solo a Raffaello il merito della realizzazione di quest’opera straordinaria: il merito va condiviso tra varie persone coinvolte in questa significativa iniziativa culturale. Prima di tutto il merito va dato a papa Giulio II che ha commissionato quest’opera con un obiettivo ideologico molto preciso (ammettere ufficialmente che le radici della dottrina cristiana affondano nella cultura greca, nella cultura dell’Ellenismo) e il merito va attribuito ai membri del gruppo di studio che partecipano (ciascuno con una propria funzione) al lavoro preparatorio dei cartoni confezionati da Raffaello come modelli per i vari quadri dell’affresco: questo gruppo di studio è formato da Giulio II che lo istituisce e lo dirige, dal bibliotecario vaticano Fedra Inghirami, dall’architetto pontificio Bramante, e dai pittori Raffaello e Sodomia.

     Tutte voi e tutti voi conoscete – avete in mente – la parte centrale dell’affresco intitolato La Scuola di Atene, e tutti i quadri e tutte le figure di questo straordinario dipinto sono sistemate in modo che si possa seguire un percorso intellettuale che conduce alle due figure centrali dell’affresco che si stagliano sullo sfondo luminoso del cielo. Queste due figure, presentate nel loro significativo atteggiamento simbolico, rappresentano Platone e Aristotele e sono diventate, nel corso dei secoli (insieme alla Gioconda di Leonardo), le immagini più famose nella storia della rappresentazione grafica. Tutte noi e tutti noi abbiamo in mente la celebre figura di Platone rappresentata con la mano destra alzata e con il dito indice puntato verso il cielo. Il cielo è la sede di ogni principio ideale, e qui si vuole esprimere senz’altro, in maniera sublime, il messaggio metafisico di Platone, fondato sulla trascendenza e certamente Platone è il grande codificatore del mondo soprasensibile. Questa figura, con la mano sinistra, tiene un testo: quale libro ha in mano Platone? Il titolo di questo libro è ben visibile: Platone tiene in mano il testo del dialogo intitolato Timeo. Perché i membri del gruppo di studio – Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante, Raffaello e Sodoma – hanno scelto proprio questo dialogo? Non è difficile rispondere a questa domanda: perché il Timeo è stato sicuramente il dialogo più letto e più studiato di Platone tanto nel periodo dell’Ellenismo (Paolo di Tarso conosce senz’altro il testo di questo Dialogo) quanto poi nel corso del Medioevo e nel periodo dell’Umanesimo, quindi questo è il testo più influente, ed è l’opera che rappresenta meglio il pensiero di Platone.

     Il dialogo di Platone intitolato Timeo è quasi un trattato e contiene la sintesi più densa del pensiero cosmologico greco, le domande fondamentali alle quali il Timeo vuole rispondere sono: come sono fatti il mondo, la natura, l’Essere umano, l’anima, l’Universo? Il Timeo è una delle ultime opere scritte da Platone (Platone muore nel 347 a.C.) e i protagonisti di questo dialogo sono: il solito Socrate, Crizia, uno dei Trenta Tiranni, Ermocrate, famoso generale siracusano e Timeo di Locri, che compare solo in questo dialogo e c’è chi pensa che questo personaggio non sia mai esistito ma sia una figura creata da Platone. Il personaggio di Timeo viene etichettato come un pitagorico (che è sinonimo di “mistico”) e a lui Platone fa pronunciare il grande discorso Cosmologico: questo discorso è diviso in quattro parti e si presenta come un vero e proprio trattato di didattica. In questo discorso Platone, per bocca di Timeo di Locri, afferma che il Demiurgo (sappiamo che, in greco, la parola “demiurgo” significa “vasaio”, significa “artigiano”), ossia l’Artefice divino, impastando insieme le Idee (le forme del mondo intelligibile) con la Materia (con la sostanza), produce tutte le cose. Da questa mirabile opera del Demiurgo scaturiscono la bellezza e l’unità del Cosmo, derivano la generazione e la struttura dell’anima, vengono creati il tempo, i pianeti e le stelle, gli animali e gli esseri umani.

     In questo dialogo – come possiamo capire – si alza davvero il dito verso il cielo: un cielo non solo inteso come il mondo dell’Intelligenza, come il mondo delle Idee ma anche come il trono su cui sta seduto un Artefice che ha la forma di un dio creatore. Nel famoso Discorso sul Demiurgo Platone afferma che l’Artefice del Mondo Creato appare come un essere che ha la forma di un dio creatore (os en morphé Teon) e appare come se fosse un Fattore, ed è pensabile come se fosse un Padre di questo Universo. Queste affermazioni assimilano il pensiero di Platone a quello di Paolo di Tarso e dei Padri della Chiesa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Potete – lo trovate facilmente in biblioteca – sfogliare il testo del Timeo di Platone e potete leggerne qualche riga qua e là: così facendo, a volte, si fanno delle scoperte interessanti…

     E ora leggiamo un significativo frammento dal testo del Timeo dove troviamo le stesse parole (la fonte) che Paolo utilizza nel secondo capitolo della Lettera ai Filippesi per definire l’identità di Gesù Cristo: «Un essere – scrive Paolo – che ha la forma di Dio (os en morphé Teon) e che non difese gelosamente il suo essere a immagine (eikon) di Dio».

LEGERE MULTUM ….

Platone, Timeo

L’Universo è la più bella delle cose che sono state generate, e l’Artefice è la migliore delle cause, questo demiurgo [Artefice] è un essere che ha la forma di un Dio che crea [os en morphé Teon], questo demiurgo [Artefice] è a immagine [eikon] di un Dio e prende il suo nome e la sua funzione dalla suprema Idea [del Bene] Il Fattore e il Padre di questo Universo è molto difficile trovarlo, e, trovatolo, è impossibile parlarne a tutti. Il Fattore dell’Universo si presume sia buono e in un buono non nasce mai nessuna invidia per nessuna cosa. Essendo, dunque, ben lontano dall’invidia, Egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simili a lui. Infatti l’Artefice dell’Universo, volendo che tutte le cose fossero buone, e che nulla nella misura del possibile, fosse cattivo, prendendo quanto era visibile e non stava mai in quiete, ma si muoveva confusamente e disordinatamente, lo portò dal disordine all’ordine, giudicando questo totalmente migliore di quello. Infatti non è lecito a chi è ottimo, di fare se non ciò che è bellissimo.

     Avete notato senz’altro come i concetti contenuti in questo brano del Timeo – il demiurgo che ha la forma di Dio, la difficoltà intellettuale a parlare a tutti di Dio, la bontà del Fattore dell’Universo, la denuncia dell’invidia, l’idea che creare significa mettere in ordine cose già esistenti – siano simili a quelli utilizzati da Paolo nello scrivere i testi delle sue sentenze.

     Non possiamo fare a meno di aggiungere che Platone – e questo è un altro elemento che determina la sua grandezza – scrive sempre con uno stile ipotetico, interlocutorio, problematico. Non dice mai: le cose sono così, la scrittura di Platone non ha la caratteristica di essere sacra. Platone afferma: Sono io che penso che l’Artefice divino potrebbe essere così e potrebbe fare questi ragionamenti e, facendo questa riflessione, si capisce che l’Artefice diventa, per Platone, un oggetto culturale (una forma) che si presenta non come uno marchingegno che dispensa dogmi ma come uno strumento di dialogo per favorire un investimento in intelligenza. Anche la scrittura di Paolo di Tarso non ha la caratteristica di essere devota ma è sempre animata da uno stile interlocutorio per stimolare il dialogo mediante l’utilizzo della koinè greca: una lingua diretta, popolare, molto vicina alla lingua parlata.

     E allora, tiriamo le fila di tutta questa riflessione in chiave filologica che abbiamo fatto, ribadendo che nel pensiero di Paolo di Tarso non rientra l’idea che Gesù Cristo possa essere della stessa sostanza di Dio, come verrà affermato, circa tre secoli dopo, a Nicea nel 325, facendo uso della prima categoria di Aristotele. Difatti a Nicea, per non dover dare dell’eretico a Paolo, i membri della commissione conciliare presieduta da Osio, vescovo di Cordova e dai presbiteri romani Vito e Vincenzo, che revisionano i testi della Letteratura dei Vangeli per uniformarli al dettato conciliare che ha proclamato Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo, generato non creato, e della stessa sostanza del Padre, intervengono sul testo della sentenza al capitolo secondo delle Lettera ai Filippesi e sostituiscono alcune parole-chiave: sostituiscono la parola forma (morphè) con la parola natura (phìsis) e la parola immagine (eikon)con la parola eguaglianza (isòtes).

     Leggiamo i due versetti che – sostituendo due parole con altre due – hanno cambiato i connotati al pensiero adozionistadi Paolo:

LEGERE MULTUM ….

Paolo di TarsoLettera ai Filippesi   2,  5-6   (confezione nicena)

Abbiate gli stessi sentimenti e il medesimo amore. Siate concordi e unanimi! Non fate nulla per invidia e per vanto, anzi, con grande umiltà, stimate gli altri migliori di voi. Badate agli interessi degli altri e non soltanto ai vostri. I vostri rapporti reciproci siano fondati sul fatto che siete uniti a Cristo Gesù. Benché avesse la stessa natura [phìsis] di Dio egli non pensò di valersi della sua eguaglianza [isòtes] con Dio.

     Ma che cosa significa – secondo il pensiero di Paolo di Tarso (non è ancora finita questa riflessione) – che “Gesù ha la forma di Dio (os en morfé Teon)”? Significa che Dio ha avuto l’idea di donare (eucharizein) al rabbi Gesù di Nazareth una forma spirituale come se fosse suo figlio adottivo.

     Nella dottrina del Cristianesimo delle origini la prima riflessione sulla “identità” di Gesù è legata ad una mentalità “adozionista”. Nelle ekklesìe si sa pochissimo della vita di Gesù e quel poco che si sa corrisponde alla vita di una “persona qualunque (quel Gesù)”. E, come ogni altra persona qualunque, Gesù – in modo “consequenziale” è stato un figlio e questo problema dell’essere figlio comporta l’interrogarsi sulla sua nascita. Nelle ekklesìe non si conosce la data di nascita di Gesù e Paolo di Tarso nel suo Epistolario di questa notizia non se ne occupa: fa solo un accenno alla nascita di Gesù con grande “intelligenza consequenziale (tipica dello scrivano Paolo di Tarso)” per i risvolti che può avere questo accenno e, strada facendo ce ne occuperemo.

     I racconti della Letteratura dei Vangeli – canonica e apocrifa – che narrano l’episodio della nascita di Gesù pongono questo avvenimento in primavera inoltrata. E allora il 25 dicembre – questa data che sta nel cuore dell’inverno – da dove viene fuori? Abbiamo aspettato la Pasqua per farci questa domanda? (La Pasqua e anche il Concilio di Nicea). Questa è un’altra storia interessante e ce ne occuperemo la prossima settimana, infatti, c’è ancora un itinerario prima della vacanza pasquale.

     Il viaggio continua e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 8, 2011