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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È L’EREDITÀ CULTURALE (IL “ROMANZO DI DAVIDE“) CONTENUTA NEI DUE LIBRI DI SAMUELE …

Lezione N.: 
25

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza  poetica ellenistica  [evangelica e imperiale]      27-28-29  aprile 2011

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È  L’EREDITÀ CULTURALE (IL “ROMANZO DI DAVIDE“) CONTENUTA

NEI DUE LIBRI DI SAMUELE

     Ben tornate e ben tornati a Scuola!

    Passata la Pasqua ci avviamo verso la Pentecoste (la parola Pentecoste è un tipico termine greco-ellenistico che significa “cinquanta giorni dopo”) e cominciamo ad affrontare anche l’ultima parte – anche se c’è ancora più di un mese alla fine – del nostro viaggio di studio sul vasto territorio dell’Ellenismo: in quella parte del territorio dell’Ellenismo che contiene le opere, in lingua greca, degli albori della Letteratura di stampo evangelico.

    Prima della vacanza abbiamo seguito il nostro compagno di viaggio, Paolo di Tarso –autore dell’Epistolario più significativo della Storia del Pensiero Umano – mentre si sposta da un’ekklesìa all’altra per cercare notizie su Gesù di Nazareth.

     Sappiamo che nelle ekklesìe, nel corso del I secolo, non si conosce la data di nascita di Gesù e Paolo di Tarso nel suo Epistolario di questa notizia non se ne occupa: fa solo un accenno alla nascita di Gesù con grande “intelligenza consequenziale (tipica dello scrivano Paolo di Tarso di formazione farisea)”: è un accenno non casuale e ben circostanziato dal punto di vista culturale che avrà dei risvolti significativi sul piano della Letteratura ellenistica di stampo evangelico e, strada facendo, constateremo questo fatto.

     Dobbiamo dire che nelle ekklesìe, nel corso del I secolo, le notizie su Gesù di Nazareth sono scarsissime e sembra che ci sia una sorta di reticenza su questo argomento: per esempio – nel momento in cui l’aspetto esteriore delle persone di potere comincia ad avere un ruolo importante – non circola nessuna notizia sull’aspetto fisico di Gesù e, difatti, Paolo di Tarso non fa alcun accenno specifico a questo tema che emergerà diversi secoli dopo, ma preferisce alludere al fatto che Gesù possa “assomigliare (e non tanto fisicamente)” ai personaggi più significativi della Letteratura che contiene la “sapienza poetica beritica” e, a questo proposito, fa delle scelte strategiche. E così nelle ekklesìe, nel corso del I secolo, non si ha alcuna notizia fondata dell’appellativo “nazareno”, né del luogo di nascita di Gesù, né dell’identità dei suoi genitori. Paolo di Tarso – e lo sappiamo dal suo Epistolario – ha avuto però dei contatti (per la verità assai burrascosi) con la “famiglia” – con un rappresentante (il più autorevole) della “famiglia” di Gesù (Giacomo, il fratello del Signore) –, ma questo è un altro tema che svilupperemo strada facendo: è un tema molto interessante e molto delicato perché Paolo pensa esplicitamente e provocatoriamente a come sia stato possibile che il “Signore” sia potuto emergere da un ambiente così poco consono, ma poi se ne fa una ragione affermando che le vie, attraverso cui Dio comunica con l’Umanità, sono imprevedibili.

     Noi sappiamo – e ce lo dicono le studiose e gli studiosi di filologia – che questi “dati (il luogo e le circostanze della nascita di Gesù, la storia dei suoi genitori e della sua famiglia)” vengono elaborati dalla successiva generazione di scrivani, tra gli anni 70 e gli anni 90, quando, assemblando e ampliando le “sentenze” – comprese quelle contenute ed estrapolate dall’Epistolario di Paolo di Tarso –, vengono scritte le prime stesure dei testi della Letteratura ellenistica di stampo evangelico.

     Che cosa sa – ci siamo domandate e domandati prima della vacanza – Paolo di Tarso della nascita di Gesù? E quello che sa – se qualcosa sa – lo sa perché se ne parla nelle ekklesìe oppure è lui che fa delle ipotesi investendo in intelligenza?

     Nei testi delle Lettere di Paolo di Tarso troviamo solo delle tracce di carattere allusivo sulla nascita di Gesù, e sono elementi di natura apologetica: Paolo vuole ribadire che Gesù è come se fosse “figlio adottivo di Dio” e quindi ne vuole esaltare la figura “umana” – Paolo aborrisce all’idea che si possa considerare Gesù come una specie di “semi-dio” alla maniera della cultura pagana – e vuole proclamare che Gesù è “normalmente nato da una donna” e, poi, per la sua condotta esemplare in quanto “rabbi ebraico”, è stato “particolarmente amato e adottato da Dio”. L’idea che Paolo di Tarso coltiva – all’interno della ridda dei probabili “si dice” e “non si dice” sulla storia di “quel Gesù” – è che “questo rabbi” abbia avuto “una vita come le altre”, ed è proprio questo aspetto di presunta normalità che, secondo Paolo, dà valore alle esperienze forti che ha dovuto affrontare: la passione, la morte, la risurrezione. Questa idea lega strettamente l’esperienza terrena di Gesù a quella di ogni altro essere umano: la possibilità – afferma Paolo di Tarso – di poter fare un’esperienza simile a quella di Gesù di Nazareth, a imitazione del Cristo della fede (su questo argomento le scrittrici e gli scrittori di romanzi – e di opere che promuovono la Storia del Pensiero Umano – si sono cimentate e cimentati senza risparmiarsi).

     A questo proposito Paolo di Tarso pensa che sia necessario dare una risposta nei confronti dell’appellativo con il quale, nel corso del I secolo, ci si riferiva a Gesù nelle ekklesìe sul territorio dell’Ellenismo: “quel Gesù”, un appellativo che faceva riferimento a qualcuno di “non ben identificato”. Paolo decide (come abbiamo studiato prima della vacanza) di dare una risposta culturalmente efficace – secondo la mentalità farisea che gli è propria cioè secondo la sua formazione culturale – costruendo una “sentenza” sul tema della nascita di Gesù che si basa su un concetto cardine della Letteratura dell’Antico Testamento: un concetto legato alla parola-chiave “tôledôt” che in ebraico significa “genealogia, stirpe, discendenza”. Questa “sentenza” paolina si configura come una traccia – come tutte le “sentenze” prodotte da Paolo è un’impronta, un’orma, un indizio, un segnale – che, così come tutti i dettagli, diventa molto importante quando prenderà corpo il tema delle origini di Gesù nella successiva Letteratura dei Vangeli. Dove è collocata, nell’Epistolario di Paolo, questa “sentenza” sulla nascita di Gesù, sulla nascita (come se fosse una specie di carta d’identità) del Cristo della fede? Questa “sentenza” (siamo già informate ed informati) la troviamo nel testo della Lettera ai Romani al capitolo primo versetto tre, dove sta scritto: «[Io diffondo] la buona notizia che riguarda Gesù Cristo nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne».

     Abbiamo già ricordato quale tipo di affermazione faccia Paolo di Tarso mentre pensa alla nascita di Gesù di Nazareth. Paolo di Tarso (come abbiamo studiato prima della vacanza) quando pensa alla nascita di Gesù – della quale non sa nulla se non che questo rabbi è nato “secondo la carne” per vivere una vita come le altre – compie, inevitabilmente, prima di tutto, una riflessione sul testo del Libro della Genesi quello che in ebraico s’intitola (dalle parole con cui comincia) Bereshìt che, letteralmente, significa In principio.

     Paolo di Tarso – da buon esegeta fariseo di impronta ellenistica – intuisce perfettamente dove è necessario collocare (“far nascere” culturalmente) la figura del Cristo della fede – perché possa assumere i contorni del “nuovo Adamo” – e, quindi, nella trama delle sue Lettere troviamo una serie di “sentenze” utili per il raggiungimento di questo obiettivo esegetico: la figura del Cristo della fede è, da principio, “un’idea nella mente di Dio la prima idea ordinatrice)” e questo fatto “illumina di luce spirituale” (e questa è una terminologia di carattere tipicamente ellenistico che Paolo utilizza) tutta la Scrittura.

     Nel Libro della Genesi – come sappiamo – il modello di creazione attraverso la “discendenza (tôledôt9”, attraverso la “stirpe”, è quello che è stato messo maggiormente in evidenza dagli scrivani dell’ultima stesura di quest’opera. Paolo di Tarso sa bene che la “genealogia” – sappiamo che cos’è una “genealogia”: tutte e tutti noi ne abbiamo una se no non potremmo essere qui –  nel Libro della Genesi,  come forma letteraria che descrive la creazione, ha un posto centrale. L’elemento genealogico viene usato abbondantemente dagli scrivani d’Israele come un ponte gettato tra il mito e la storia, e questo sistema funziona perfettamente per dare ai racconti epici una potenza straordinaria. Il fatto che il mondo sia frutto di una catena di generazioni divine (di “tôledôt”) è un tema comune tanto ai miti sumero-babilonesi quanto a quelli orfico-dionisiaci (questi ultimi raccolti nella Teogonia di Esiodo) e abbiamo affrontato questi argomenti molte volte nei nostri viaggi. In Egitto, poi, il mito della creazione è visto esclusivamente come un succedersi ciclico di generazioni divine. Nella materialistica cultura ebraica (come abbiamo studiato prima della vacanza) c’è un’importante novità rispetto alla mitologia sumero-babilonese, egizia e orfico-dionisiaca: le genealogie sono “umane” e le genealogie mitiche del Libro della Genesi sono orientate dagli scrivani verso una figura storica fondamentale che rappresenta l’inizio della massima potenza e unità (anche se non durerà molto) del Regno d’Israele: la figura del re per eccellenza, il re Davide, il primo “Unto” veramente gradito al Signore.

     Paolo di Tarso capisce che – secondo una tradizione scritturistica ben collaudata – è  necessario creare un collegamento culturale, un ponte ideale, tra la figura del re Davide e la persona del Cristo della fede. Così nasce la efficace “sentenza” paolina sulla nascita di Gesù: è appena un accenno ma questo enunciato minimo diventa un anello forte. Questa “sentenza” paolina, che riguarda la nascita di Gesù, è – abbiamo detto – appena una traccia (come tutte le “sentenze” prodotte da Paolo) che diventa, però, molto importante quando questo “dettaglio culturale” prenderà corpo nella successiva Letteratura ellenistica di stampo evangelico (e lo constateremo, strada facendo). Questa “sentenza” – lo sappiamo – è collocata nel testo della Lettera ai Romani, proprio all’inizio di quest’opera, al capitolo primo versetto tre, dove sta scritto: «[Io diffondo] la buona notizia che riguarda Gesù Cristo nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne».

     Paolo di Tarso sa benissimo che il nome del re Davide evoca nella mente di tutti gli Ebrei della diaspora che fanno riferimento alle ekklesìe un grande scenario intellettuale: quale scenario? Il nome del re Davide evoca un complesso (e straordinario) paesaggio culturale che dobbiamo osservare: del quale dobbiamo osservare alcuni scorci perché se dovessimo attraversare tutto lo spazio che questo grandioso paesaggio intellettuale occupa dovremmo seguire un percorso lunghissimo, di molte tappe.

     Dobbiamo dire che Paolo di Tarso, nel testo della sua “sentenza” sulla nascita di Gesù favorisce l’accostamento – ma lo stile della “sentenza” ha questa caratteristica – di due elementi contrastanti: un elemento mitico, fortemente evocativo e ben consolidato dal punto di vista letterario, contenuto nel nome di “Davide” e un elemento realistico che emerge nel tono dimesso con cui si comunica che Gesù è “discendente di Davide secondo la carne”, come dire che Gesù, nonostante sia di stirpe regale, ha vissuto una vita come le altre scandita dal calendario liturgico giudaico sul quale, in quanto rabbi, apporta delle “modifiche” che possono sembrare alternative rispetto alla Legge di Mosè ma alle quali Paolo – utilizzando le pochissime notizie che possiede (più consequenziali che reali) – dà un tono di “normalità”, compresi gli eventi della passione, della morte e della risurrezione. Dare un tono di “normalità” alla vita di Gesù, per Paolo di Tarso, significa collocare la sua esperienza sul scia della Letteratura dell’Antico Testamento, sulla via maestra della “sapienza poetica beritica”. Secondo Paolo, Gesù di Nazareth, “discendente di Davide secondo la carne”, vive una vita come le altre e questo include il fatto che ogni persona possa “vivere a imitazione del Cristo della fede”.

     E noi sappiamo che Una vita come le altre è anche il titolo del romanzo con il quale abbiamo concluso lo scorso itinerario e con il quale abbiamo celebrato la Pasqua: la lettura di questo racconto non è ancora terminata, dobbiamo leggerne ancora un frammento. Questo romanzo è, tutto sommato, un racconto di “passione (nel senso pasquale del termine)” perché la “passione”, spesso, si annida nella normalità della vita di tutti i giorni (Paolo lo ripete spesso nel suo Epistolario). E allora prima di occuparci del re Davide e del grandioso paesaggio intellettuale che lo ospita (diciamo anche che il re Davide non è immune né dalla passione e né dalle passioni) leggiamo ancora alcune pagine di questo romanzo di Alan Bennett.

     Mi ha colpito il fatto – ho detto quindici giorni fa – che questo libro, intitolato Una vita come le altre, sia stato scritto da Alan Bennett. Alan Bennett è uno dei più importanti scrittori del teatro contemporaneo europeo il quale, in questi ultimi anni, ha prodotto opere esilaranti. Nell’anno 2007 ci siamo divertite e divertiti a leggere La sovrana lettrice che ha come protagonista – non espressamente nominata – la regina d’Inghilterra: un testo che esalta, in modo spassoso, l’esercizio, disatteso dalla stragrande maggioranza delle popolazioni europee – della lettura. Qualche anno fa (nel 2001) abbiamo presentato Nudi e crudi: un ironico testo teatrale, che ha avuto un grande successo, che merita di essere letto (e visto a teatro) così come tutte le opere di Bennett.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cercate in biblioteca le opere di Alan Bennett… 

     Mi sono un po’ meravigliato quando ho appreso della pubblicazione di questo testo di carattere autobiografico. L’autobiografia è un’attività che, come alfabetizzatore, ho sempre – in questi ultimi trent’anni – cercato di promuovere e quindi non ho approvato un’affermazione fatta dallo scrittore qualche anno fa: «Non mi dedicherò mai a quell’attività disdicevole che è lo scrivere di sé». Ebbene, Bennett ha cambiato idea e ha deciso di scrivere di sé e meno male che lo ha fatto perché è uno straordinario narratore, e in questo romanzo ci mette tutta la sua passione, la sua intelligenza, e soprattutto la sua onestà intellettuale. Bennett parla della sua famiglia, che è una famiglia ordinariamente normale, tragicamente normale, e la sua narrazione giunge alla mente della lettrice e del lettore in modo reale, vivido, pulsante, anche perché il contenuto di questo romanzo riguarda da vicino l’esperienza di molti di noi.

     Alan Bennett, con questo romanzo, si sottopone ad un commovente viaggio interiore. Che cosa è successo di tragicamente normale nella sua famiglia che lui non sapeva e che lo costringe a riflettere? Il romanzo – come abbiamo potuto constatare quindici giorni fa – inizia in un istituto psichiatrico dove l’anziana madre di Bennett è stata ricoverata per una grave forma depressiva, così almeno viene definita questa sua malattia. E ora leggiamo:

LEGERE MULTUM ….

Alan Bennett  Una vita come le altre

Fu così che dopo sei settimane di «questa tortura bestiale», secondo le parole di mio padre, per il bene suo e di mia madre il dottore la fece ricoverare nell’ospedale psichiatrico di Lancaster.

Il Lancaster Moor Hospital non è un’istituzione accogliente. Fu costruito all’inizio dell’Ottocento come manicomio e ospizio della contea, e visto dalla M6 mi è sempre parso un grigio penitenziario. Come nei racconti di Dickens, la prigione poteva essere l’ospedale, l’ospedale la prigione. Fu un sollievo, quindi, scoprire che il reparto di mamma non era nell’edificio principale ma in una villa, con un suo giardino.

… continua la lettura …

     Il tema della depressione – la depressione che rasenta la pazzia – non è avulso neppure dal grande romanzo narrato dagli scrivani della “sapienza poetica beritica” che contiene anche la “storia di Davide”, il personaggio che Paolo di Tarso presenta come il più importante “antenato” del Cristo della fede. Paolo di Tarso capisce che – secondo una tradizione scritturistica ben collaudata – è  necessario creare un collegamento culturale, un ponte ideale, tra la figura del re Davide e la persona del Cristo della fede. Così nasce – collocata nel testo della Lettera ai Romani, proprio all’inizio di quest’opera – la efficace “sentenza” paolina sulla nascita di Gesù: è appena un accenno ma questo enunciato minimo diventa un anello forte. In questa “sentenza” spicca il nome del re Davide e Paolo di Tarso sa benissimo che questo nome evoca, nella mente di tutti gli Ebrei della diaspora e di tutte le intellettuali e gli intellettuali greci (e non Ebrei) che fanno riferimento alle ekklesìe, un grande scenario intellettuale: quale scenario? Il nome del re Davide richiama un complesso (e straordinario) paesaggio culturale che, ora, dobbiamo osservare: del quale dobbiamo osservare alcuni scorci perché se dovessimo attraversare tutto lo spazio che questo grandioso paesaggio intellettuale occupa dovremmo seguire un percorso lunghissimo, di molte tappe.

     Paolo di Tarso sa che il “romanzo di Davide” a cui lui fa riferimento nel costruire la sua “sentenza sulla nascita di Gesù” è contenuto in una particolare sezione del canone biblico sulla quale dobbiamo puntare la nostra attenzione. Naturalmente per orientare la nostra mente in questa direzione – in modo da conoscere, da capire e da applicarci in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo imbastire una riflessione: la stessa riflessione che, possiamo pensare, abbia fatto Paolo di Tarso.

     Questa riflessione porta in primo piano ancora una volta il re Salomone, il figlio del re Davide, il quale – come sappiamo –, nel X secolo a.C., opera perché si sviluppi il commercio, in modo da far nascere, a Gerusalemme, una “classe di mercanti” molto parsimoniosi e molto abili negli affari e anche disposti a fare dei compromessi pur di comprare e di vendere a buon prezzo. Ma soprattutto sappiamo che, sotto il regno di Salomone, si sviluppa una “classe dirigente” che ha negli “scribi”, negli “scrivani di corte”, l’elemento più creativo. La tradizione leggendaria parla anche di “scrivane di corte” e ne parla in relazione alle mogli del re Salomone: narra la leggenda che Salomone abbia avuto settecento mogli, molte delle quali si sarebbero dedicate alla scrittura (se non sapevano scrivere e leggere non le sposava). Il numero 700 è mitico e quindi si tratta di un’esagerazione ma Salomone ha contratto davvero molti matrimoni a fini politici, per suggellare alleanze, soprattutto con i Faraoni egiziani: Salomone ha sempre usato molta cautela – e in questo è stato molto saggio – con la superpotenza egiziana.

     La leggenda delle 700 mogli dell’harem di re Salomone ha nutrito nei secoli la Storia della Letteratura e, a questo proposito, potete puntare l’attenzione su un romanzo, pubblicato nel 1999, che rimanda a questo tema e che s’intitola La donna che scrisse la Bibbia dello scrittore brasiliano Moacyr Scliar.

     Una donna, durante una seduta di terapia e attraverso la regressione ipnotica, ripercorre una sua probabile vita precedente e racconta di essere stata la bruttissima figlia di un capo tribù, e di essersi trovata, per motivi squisitamente politici, nell’harem di Re Salomone. La sua bruttezza diventa ben presto per lei uno strumento di libertà, assieme alla sua raffinata intelligenza, tanto che lo stesso Re le chiede di scrivere in un solo Libro l’intera storia del popolo di Israele.

     Le studiose e gli studiosi di filologia dichiarano da tempo che nella realizzazione della Scrittura beritica sono state protagoniste anche le donne e proprio da questa ipotesi, ormai  ben accreditata, lo scrittore ebreo-brasiliano Moacyr Scliar prende spunto per costruire una storia affascinante. Dalle profonde riflessioni della protagonista – questa donna che attraverso la sua bruttezza si rende autonoma perché i maschi non la insidiano (e tanto, rispetto a lei, i maschi risultano essere poco intelligenti quindi poco interessanti e non vale la pena accostarsi a loro) – prende vita la storia del popolo di Israele, seguendo così da un lato la tradizione prettamente matriarcale (sono le donne le protagoniste della storia biblica), dall’altro lato si esalta il passaggio dalla memoria orale a quella scritta e anche questo passaggio (la paziente volontà di fissare i racconti con la scrittura che diventa una delle tante attività domestiche) è retaggio soprattutto dell’esperienza femminile. Lo scrittore Moacyr Scliar si lascia condizionare dalla propria cultura ebraica proprio perché questa gli dà la possibilità di scrivere un romanzo raffinato ed arguto e nella scrittura di Scliar rivive anche, naturalmente, il gusto per l’aneddotica yiddish, e anche il sapore delle narrazioni della letteratura russa, così come il linguaggio immaginifico di Borges, in uno strano, ma riuscito, sincretismo stilistico. Leggiamo l’incipit di questo romanzo: «La bruttezza è un elemento fondamentale, almeno per comprendere questa storia. Colei che vi parla è brutta. Bruttissima. Brutta repressa o brutta infuriata, brutta vergognosa, brutta triste o brutta allegra, brutta frustrata o brutta soddisfatta, brutta sempre e solo brutta.  Bruttissima, ma straordinariamente intelligente.».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cercate in biblioteca questo romanzo

In quali circostanze avete avuto l’impressione di sentirvi brutte o brutti [esteriormente o interiormente]?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Ma stavamo parlando degli “scrivani”. Noi sappiamo – perché lo abbiamo studiato a suo tempo – che non esiste una “figura omogenea” di scrivano. Sappiamo che la “categoria degli scrivani d’Israele” è molto eterogenea: ci sono varietà diverse di scrivani. Gli “scrivani d’Israele” assunti da Salomone – i cosiddetti “antichi scrivani di corte” in attività dal X secolo a.C. – sono dei funzionari organici al potere monarchico e il loro compito è quello di scrivere le “Cronache del Regno”, devono comporre i “Libri dei Re”. Con il titolo di Libri delle Cronache e di Libri dei Re noi troviamo moltissime opere redatte in tutte le civiltà antiche a Oriente e a Occidente. Tutti i monarchi di questo mondo, nell’età antica, hanno assunto degli scrivani – oggi li chiamiamo biografe e biografi – con l’intento di lasciare un’impronta perché si sa che la scrittura si conserva nel tempo, che la scrittura si trasmette a distanza, che la scrittura è un codice che dà alle cose maggiore completezza, che la scrittura – per dirla utilizzando il greco classico – è “teleios téleios”, è comunque un oggetto “compiuto”. Anche nella Letteratura dell’Antico Testamento troviamo due Libri dei Re: il Primo Libro dei Re lo abbiamo già citato qualche volta in funzione di ciò che dovevamo osservare strada facendo.

     Di fronte a questo fatto – cioè all’assunzione di “scrivani di corte” da parte del re Salomone – la prima idea che ci passa per la mente è questa: allora i Libri della Bibbia cominciano a comporli questi “scrivani”! Le studiose e gli studiosi di filologia ci suggeriscono che il tema è più complicato.

     Gli “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.”, assunti da Salomone, sono funzionari pubblici che tengono il diario delle attività dello Stato e sono chiamati a scrivere, in modo apologetico, la storia della formazione del Regno esaltando particolarmente il monarca in carica e la sua discendenza. Questi “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.” sono autori di molte narrazioni ma nessuna di queste narrazioni esiste più in versione originale perché col tempo sono state riscritte, hanno cambiato forma; tuttavia il contenuto di queste significative narrazioni si è tramandato anche se – come ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia – si capisce perfettamente che in questi epici racconti mancava un elemento fondamentale: era assente il marchio necessario a qualificare un testo come Libro biblico. Che cosa significa, di che marchio si tratta?

     In queste narrazioni, in queste “Cronache di corte del X secolo a.C.”, non compariva il concetto del “patto (la berit) tra Dio e il suo popolo”, non c’era, quindi, il filo conduttore che unisce tutti i Libri della Bibbia e che qualifica il movimento della “sapienza poetica beritica”. L’idea della “berit”, del “patto (dell’alleanza)”, si configura, per iscritto, più di trecento anni dopo i testi delle “Cronache” redatti dagli “scrivani della corte di Salomone” ed è alla luce di questa idea che, successivamente, queste “narrazioni di corte” verranno riscritte e utilizzate nella composizione dei testi biblici propriamente detti.

     Nel movimento della “sapienza poetica beritica” questo fenomeno letterario delle “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.” ha una grande rilevanza perché le trame di questa vasta gamma di straordinari racconti mitici sono state conservate. Queste antiche narrazioni – ed è qui che noi vogliamo arrivare in ordine alla riflessione che stiamo facendo – forniscono l’intreccio romanzesco ai cosiddetti Libri storici della Bibbia, che poi storici non sono: verranno etichettati così dal canone cristiano (dal Concilio di Trento, nel 1563) ma oggi questa dicitura è caduta in disuso. Questi Libri, in cui troviamo molte trame delle “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.” (molto conosciute e presenti nella nostra mente anche se noi non abbiamo letto questi Libri, conosciute soprattutto con la complicità della Storia dell’Arte) sono il Libro di Giosué, il Libro dei Giudici, il Primo e il Secondo Libro di Samuele e il Primo e il Secondo Libro dei Re.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Questi sei Libri potete andare ad individuarli sull’indice della Bibbia e potete anche fare un esercizio di “rinvenimento” e di “schedatura [l’inventario]” delle vostre conoscenze: vale a dire che se sfogliate le pagine di questi testi e leggete i titoli delle varie parti in cui sono divisi questi Libri trovate molti avvenimenti e molti personaggi di cui avete sentito parlare [o anche che avete visto al cinema]…

     Anche i testi di questi sei Libri – come i testi della Letteratura dei Profeti e i testi del Pentateuco – hanno avuto una prima stesura durante l’esilio a Babilonia e gli scrivani d’Israele deportati in Mesopotamia – i cosiddetti “scrivani dell’esilio”: ed ecco un’altra differenziazione nella categoria degli “scrivani” – non denominano questi Libri, che stanno componendo, come “Libri storici” ma bensì li chiamano “Libri dei profeti anteriori” per dire che, loro, le “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.” (di cui hanno memoria attraverso gli archivi del regno di Giuda) le hanno completamente rielaborate alla luce del “pensiero dei profeti” nel quale si trova – anche se non ancora ben strutturato – il concetto della “berit”, del “patto”, che è la nozione e l’immagine necessaria per dare a un testo la qualifica di “ispirato”.

     I cosiddetti “profeti anteriori” sono straordinari personaggi allegorici (formidabili strumenti letterari) che hanno la funzione di trasformare le “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.” in Letteratura biblica propriamente detta. Se citiamo il nome di alcuni di questi profeti ci accorgiamo che sono personaggi conosciuti (che abbiamo sentito nominare): Natan, Elia, Eliseo, Deborah (non possono mancare le donne). Sappiamo che poi, dopo l’esilio (dopo il 539 a.C.), tutto questo materiale – il grande blocco della prima stesura della Letteratura dell’Antico Testamento, la “stesura dell’esilio” – verrà ulteriormente rielaborato e ulteriormente diviso in Libri, secondo un nuovo canone, dai cosiddetti “scrivani del codice P.”: ed ecco un’altra differenziazione nella categoria degli “scrivani”.

     Se facciano il punto della situazione (ed è doveroso farlo) sulla categoria degli “scrivani biblici” possiamo constatare l’esistenza di tre principali varianti nella diversificata categoria degli “scrivani d’Israele”: gli “antichi scrivani della corte di Salomone del X secolo a.C.”, gli “scrivani dell’esilio a Babilonia del VI secolo a.C.” e gli “scrivani del codice P.” che operano dopo l’esilio, dal 539 a.C.. Del significativo lavoro intellettuale di questi tre diversi settori della categoria degli “scrivani d’Israele” (gli “antichi cortigiani”, gli “esiliati a Babilonia”, quelli del “codice P.”) ce ne siamo occupate e occupati – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – quando abbiamo attraversato il territorio della “sapienza poetica beritica” nell’anno scolastico 2007-2008 e sulla rete, nei nostri siti, trovate i testi delle Lezioni di questo Percorso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Gli indirizzi dei nostri siti sono: www.inantibagno.it e www.scuolantibagno.net

Collegatevi, iscrivetevi ed utilizzateli per studiare…

     Abbiamo fatto questa ampia riflessione perché introduce l’argomento specifico di cui ci vogliamo occupare: sappiamo che Paolo di Tarso – con la “sentenza sulla nascita di Gesù” contenuta nell’incipit della Lettera ai Romani – prende l’iniziativa di far entrare in scena il personaggio di Davide in modo da presentarlo come l’antenato (il significativo antenato) del Cristo della fede.

     Che significato ha far entrare in scena il re Davide? Che cosa evoca nella mente di chi legge la sentenza di Paolo la figura del re Davide? Far entrare in scena il re Davide significa – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – doversi occupare dei Libri dei profeti anteriori e in particolare dei due Libri di Samuele. I due Libri di Samuele contengono una traccia rilevante dello strato delle “antiche narrazioni di corte del X secolo a.C.”. I due Libri di Samuele – ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia – derivano da un’unica cronaca, da un’unica raccolta di antiche storie mitiche composta al tempo di Salomone dagli “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.”. Gli scrivani in esilio a Babilonia, circa trecentocinquanta anni dopo, hanno completamente riscritto il testo di questa avvincente narrazione ispirandosi – come abbiamo detto – al “pensiero dei profeti”: che cosa significa ispirarsi al pensiero dei profeti? Gli scrivani dell’esilio (dopo un primo momento di comprensibile scoramento) hanno maturato l’idea che la rovina – il dramma della sconfitta del Regno d’Israele prima e poi del Regno di Giuda con la relativa deportazione a Babilonia – debba portare ad una presa di coscienza e la presa di coscienza si concretizza con la nascita del concetto della berit, del patto con Dio che non è stato rispettato. I grandi racconti che narrano per iscritto la storia del patto (della berit) con Dio (i romanzi contenuti nei Libri della Genesi e dell’Esodo con la creazione dei grandi personaggio di Noè, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe, di Mosé) producono l’idea che nella rovina si debba, comunque, saper intravedere la speranza della liberazione, si debba imparare a vivere nell’attesa della salvezza: un’attesa scandita dalla torah, dalla Legge, che deve essere scritta, conosciuta, capita e rispettata da tutti. Gli scrivani in esilio a Babilonia riscrivono le cronache composte, circa trecentocinquanta anni prima, dagli “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.” (al tempo di Salomone), alla luce di questi due elementi fondamentali – il patto e la Legge uguale per tutti – nati con lo sviluppo del movimento del profetismo ebraico.

     Nel Primo Libro di Samuele gli scrivani raccontano la più grande svolta istituzionale che sia mai avvenuta nella storia del popolo d’Israele: il passaggio dall’epoca dei Giudici (della confederazione tra tribù) alla monarchia (allo Stato unitario, e, in esilio, all’aspirazione per lo Stato unitario). Il personaggio di Samuele è un’allegoria (uno straordinario strumento letterario) creata dagli “scrivani dell’esilio della seconda generazione” e rappresenta il modello ideale del Giudice: i Giudici sono dei liberatori che emergono in determinati momenti di crisi, di difficoltà, di pericolo per salvare l’identità del popolo: «Ce ne vorrebbe uno simile in questo momento»  pensano gli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia. Samuele è l’ultimo dei Giudici e diventa un’importante guida politica e religiosa del popolo d’Israele perché: «il Signore – così raccontano gli “scrivani dell’esilio della seconda generazione” – lo chiama da fanciullo mentre lui dorme nel santuario dove è custodita l’arca che contiene le tavole della Legge», come dire che il Signore rinnova il “patto (la berit)”, con Samuele. Quando Samuele è vecchio gli Israeliti gli chiedono di cercare e di consacrare (di ungere) un re.

     Molti dei racconti contenuti nei due Libri di Samuele sono assai famosi e noi li conosciamo anche se non abbiamo letto questi testi. Il Primo Libro di Samuele racconta la storia di Samuele stesso e poi la storia di Saul, il primo re, e poi la tormentata storia del rapporto tragico tra Saul e Davide: in questo Libro troviamo anche il celebre episodio di Davide e Golia che ci fa pensare a quanta importanza abbiano avuto questi testi per la Storia dell’Arte e della Cultura in generale. Il Secondo Libro di Samuele racconta la storia di Davide e anche la nascita – in una situazione di grande ambiguità – di Salomone.

     La Scuola invita a leggere i due Libri di Samuele (sono meno di una settantina di pagine) tenendo conto del fatto che dal capitolo 16 del Primo Libro di Samuele al capitolo 5 del Secondo Libro di Samuele – come ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia – si riconosce uno strato più antico risalente alle narrazioni degli “antichi scrivani di corte del X secolo a.C.”. Quindi la prima parte del Primo  Libro di Samuele, i primi 15 capitoli, è stata scritta ex novo dagli scrivani dell’esilio a Babilonia per introdurre la storia dei Re – Saul e Davide – nella dimensione della “berit”, nel contesto del “patto” tramandato dal pensiero dei profeti: il personaggio letterario di Samuele rappresenta la metafora del “patto”, del filo conduttore del movimento della “sapienza poetica beritica”. Quando Paolo di Tarso dichiara nella sua sentenza che “Davide è l’antenato del Cristo della fede” crea un aggancio con un presupposto di notevole valore culturale, fondamentale per la divulgazione della “buona notizia” della risurrezione di Gesù.

     Nel Secondo Libro di Samuele, come abbiamo detto, i primi cinque capitoli sono una riscrittura di uno strato più antico e raccontano l’ascesa di Davide al potere, dal sesto capitolo fino alla fine (al ventiquattresimo) sono gli scrivani dell’esilio a Babilonia che completano l’opera introducendo la figura di Davide nell’ambito della “berit”, del “patto”: si racconta, infatti, di Davide che porta l’arca dell’Alleanza a Gerusalemme e poi il Signore, attraverso il profeta Natan (uno dei più autorevoli dei profeti anteriori) promette a Davide una continua discendenza (l’allusione ad Abramo e alla “berit” è evidente, ma – noi sappiamo – che il personaggio di Abramo compare in un secondo momento, difatti il testo del Libro della Genesi è il primo del canone ma è l’ultimo ad essere scritto). Con queste indicazioni – che funzionano da chiave di lettura – può risultare più interessante avvicinarsi al testo dei due Libri di Samuele e leggerli.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Questo è il momento adatto per dedicarsi alla lettura del testo dei due Libri di Samuele: quale episodio, dopo la lettura, vi ha colpito maggiormente?…

Scrivete quale, bastano due righe per comunicare il vostro pensiero…

     Noi adesso leggiamo due famosi capitoli, l’11 e il 12 del Secondo Libro di Samuele che, con la loro affascinante narrazione, conducono alla sintetica descrizione della nascita di Salomone, in una situazione romanzesca di grande ambiguità (Davide, l’antenato del Cristo della fede, non è uno stinco di santo).

     Nei testi dei due Libri di Samuele – così come nei testi dei sei Libri chiamati dei “profeti anteriori” – s’intrecciano le trame di straordinari racconti che gli scrivani, e le eventuali scrivane, del movimento della “sapienza poetica beritica” ci hanno lasciato in eredità: canovacci, bozze, schemi per veri e propri romanzi, materiali preziosi che, in seguito, verranno abbondantemente utilizzati dalle scrittrici e dagli scrittori moderni e contemporanei.

     E ora leggiamo il testo dei capitoli 11 e 12 del Secondo Libro di Samuele:

LEGERE MULTUM ….

Secondo Libro di Samuele  11- 12

L’anno dopo, nella stagione primaverile, quando i re iniziano le azioni di guerra, Davide mandò le sue guardie e tutti i soldati, al comando di Ioab, a devastare il  territorio degli Ammoniti. Essi cominciarono l’assedio della città di Rabba, mentre Davide rimase a Gerusalemme.

Un pomeriggio, dopo aver riposato, Davide andò a passeggiare sul terrazzo della reggia. Di lassù vide una donna che faceva il bagno. Era bellissima. Davide mandò a chiedere chi fosse e seppe che era Betsabea figlia di Eliam, moglie di Urìa l’Ittita. Davide la mandò a prendere, ebbe rapporti con lei e poi Betsabea tornò a casa sua. Essa aveva appena terminato i suoi riti di purificazione.

Quando si accorse di essere incinta, lo mandò a dire a Davide. Allora Davide mandò a Ioab l’ordine di far venire da lui, a Gerusalemme, Urìa l’Ittita. Ioab ubbidì e Uria venne. Davide gli chiese se Ioab e l’esercito stavano bene e come andava la battaglia. Poi aggiunse: «Ora va’ a casa tua e goditi un po’ di riposo».

Urìa uscì dalla reggia e Davide gli fece portare un regalo (il pranzo preparato a corte). Ma Urìa si fermò a dormire davanti alla porta della reggia, accanto agli uomini della guardia, e non andò a casa sua. Davide ne fu informato e chiese a Uria: «Hai fatto un lungo viaggio: perché non vai a casa tua?».

«In questi giorni, - rispose Uria a Davide, - gli uomini d’Israele e di Giuda e il mio comandante Ioab dormono sotto la tenda; le truppe della tua guardia e anche l’arca stanno in aperta campagna. Come potrei andare a casa mia, pranzare e dormire con mia moglie? Per la tua vita ti giuro che non farò mai una cosa simile».

«Bene, - rispose Davide; - per oggi rimani a Gerusalemme, domani ti rimanderò al campo».

Urìa rimase a Gerusalemme. Il giorno dopo Davide lo invitò a pranzo, lo fece bere e ubriacare. La sera, Urìa andò a dormire sul suo giaciglio, accanto agli uomini della guardia; non entrò in casa sua. La mattina dopo Davide scrisse una lettera per Ioab e la consegnò a Urìa. Nella lettera c’era quest’ordine: «Mettete Urìa in prima linea, dove la mischia e più violenta. Poi lasciatelo solo in modo che sia colpito a morte».

Ioab stava assediando la città di Rabba. Allora mandò Urìa in un punto dove sapeva che i nemici erano molto forti. Infatti uscirono dalla città alcuni uomini per un attacco contro le truppe di Ioab: alcuni soldati e ufficiali di Davide furono colpiti a morte e tra questi anche Urìa l’Ittita. Ioab mandò a Davide un messaggero con il rapporto sulla battaglia e lo avvisò: «Tu racconterai al re com’è andata la battaglia. Può darsi che il re vada in collera e si metta a dire: Perché vi siete avvicinati fin sotto le mura per combattere? Non sapevate che gli assediati colpiscono dall’alto delle mura? Non vi ricordate come, a Tebez, morì Abimelech figlio di Ierub-Baal, perché una donna gli tirò addosso una pietra da mulino dall’alto delle mura? Perché siete andati fin sotto le mura?. Se ti dirà cose simili, tu aggiungi: È morto anche un tuo ufficiale, Urìa l’Ittita”».  Il messaggero riferì a Davide ogni cosa come gli aveva suggerito Ioab e gli spiegò: «I nemici erano molto più forti di noi e ci avevano spinti in aperta campagna, ma poi siamo riusciti a farli indietreggiare fino alla porta della città. In quel momento gli arcieri cominciarono a tirare frecce dall’alto delle mura e colpirono alcuni uomini della tua guardia. Anche Urìa l’Ittita morì». Davide raccomandò al messaggero di far coraggio a Ioab: «Gli dirai che in guerra la morte colpisce ora gli uni ora gli altri. Non si scoraggi per quel che è successo. Ora attacchi la città con forza fino a distruggerla».

La moglie di Urìa seppe che suo marito era morto e si mise in lutto per lui. Terminato il periodo di lutto, Davide la fece venire in casa sua, la prese in moglie ed essa diede alla luce un bambino. Ma il Signore non approvò quel che Davide aveva fatto.

Il Signore mandò il profeta Natan da Davide. Natan andò e gli disse: «In una città vivevano due uomini, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva pecore e buoi in quantità. Il povero aveva soltanto una pecorella che aveva comprato e allevato con cura. La pecorella era cresciuta in casa insieme con lui e con i suoi figli. Egli le dava bocconi del suo pane, la faceva bere alla sua tazza, la teneva a dormire accanto a sé. Per lui era come una figlia. Un giorno, un ospite di passaggio giunse in casa dell’uomo ricco. Per preparargli il pranzo egli si guardò bene dal prendere una delle sue pecore o dei suoi buoi. Portò via la pecorella dal povero e la cucinò per l’ospite». Davide andò su tutte le furie contro quell’uomo: «Giuro per il Signore, - disse a Natan, - che quell’uomo meriterebbe la morte. Ha agito senza alcuna pietà: pagherà quattro volte tanto la pecora che ha rubato».

«Quell’uomo sei tu,  - gli disse Natan. E aggiunse - Ascolta quel che ti dice il Signore Dio d’Israele: Io ti ho consacrato re d’Israele e ti ho liberato dagli attacchi di Saul. Anzi, ho sottomesso a te la sua famiglia; ho messo nelle tue braccia le sue donne. Ti ho fatto diventare capo del popolo d’Israele e di Giuda. Se ciò non ti bastasse potrei darti altro ancora. Perché hai disprezzato il Signore e hai fatto il male? Tu hai fatto morire in battaglia Urìa l’Ittita. Per prenderti in moglie la sua sposa, hai agito in modo che Urìa fosse ucciso dagli Ammoniti. Poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la sposa di Urìa l’Ittita, la tua famiglia sarà per sempre colpita da morti violente».

Natan disse ancora: «Così dice il Signore: Dalla tua stessa famiglia ti procurerò sventure; sotto i tuoi occhi prenderò le tue mogli e le darò a un tuo parente che si unirà a loro alla luce del sole. Tu hai agito di nascosto, io invece agirò alla luce del sole, davanti a tutti gli Israeliti». Dopo queste parole Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». «Il Signore sarà indulgente con il tuo peccato, - rispose Natan. - Tu non morirai; tuttavia, poiché hai offeso gravemente il Signore, il bambino che ti è nato morirà».

Dopo che Natan se ne fu andato, il Signore colpì con una grave malattia il bambino che la moglie di Urìa aveva generato a Davide. Davide pregò per la vita del bambino: non mangiava nulla, e quando la sera si ritirava, si coricava per terra. I suoi servi più autorevoli lo pregavano di alzarsi da terra, ma egli rifiutava e non voleva neppure prendere un po’ di cibo con loro. Dopo una settimana il bambino morì. I servi non sapevano come dargli la notizia. Dicevano tra loro: «Non ascoltava i nostri consigli quando il bambino era in vita, se ora gli diciamo che è morto, potrebbe fare un gesto disperato». Davide si accorse che si consultavano tra loro e capì che il bambino era morto.

«È morto? » - domandò.  «Sì,» - gli risposero.

Allora Davide si alzò da terra, si lavò, si profumò e si cambiò gli abiti. Andò nel santuario del Signore a pregare, poi tornò a casa, ordinò il pranzo e mangiò. I servi gli domandarono: «Come mai, quando il bambino era vivo digiunavi e piangevi e ora che è morto ti sei risollevato e mangi? Non riusciamo a comprendere questo tuo modo di agire».

«Fin che il bambino era in vita, - rispose Davide, - digiunavo e piangevo pensando che, forse, il Signore avrebbe avuto pietà e lo avrebbe fatto guarire. Ora che è morto non ha più senso il mio digiuno, non potrò certo farlo tornare in vita. Sarò io che andrò un giorno da lui, non lui da me».

Davide confortò sua moglie Betsabea. Si unì a lei ed ebbe un altro figlio che chiamò Salomone. Il Signore amò il bambino e lo fece sapere a Davide per mezzo del profeta Natan. Per questo al bambino fu dato anche il nome di Iedidìa [Caro al Signore].

     In questo brano non troviamo solo un esempio affascinante di letteratura affine al genere del romanzo ma in esso ci sono tutte le componenti ideologiche che gli “scrivani dell’esilio della seconda generazione” vogliono mettere in evidenza. Per prima cosa vogliono evidenziare – con le tre righe finali che abbiamo letto, in cui si racconta sinteticamente la nascita di Salomone – che le colpe dei padri non devono (non dovrebbero) ricadere sui figli e chi scrive appartiene, appunto, alla seconda generazione degli esiliati, chi scrive è nato in esilio e si domanda implicitamente per quale ragione deve subire una punizione per colpe non sue.

     Gli “scrivani dell’esilio della seconda generazione” vogliono mettere in evidenza che il degrado morale – il quale ha portato alla disfatta prima del Regno d’Israele (nel 722 a.C. ad opera degli Assiri) e poi alla sconfitta del Regno di Giuda con la caduta di Gerusalemme (nel 587 a.C. ad opera di Nabucodonosor) – parte da lontano ma continua e continuerà a ripercuotersi sul presente se le persone in esilio, invece di continuare a lamentarsi (con il genere letterario delle Lamentazioni), non prendono coscienza del fatto che è necessario fare autocritica ed è doveroso il pentimento sincero per il fatto che la Legge uguale per tutti non è stata rispettata se non negli articoli più convenienti, e questa mentalità continua a perpetuarsi anche nel corso dell’esilio.

     Anche Paolo di Tarso – che è al corrente di come (con quale visione) hanno lavorato gli scrivani dell’esilio della seconda generazione, e questo lo sa perché la traduzione in greco della Letteratura beritica (tradurre comporta una precisa analisi filologica) ha messo, soprattutto, in evidenza le “forme” date al testo dalle diverse categorie di scrivani – rievoca Davide per aprire una discussione sul fatto che il degrado morale parte da lontano e su questo tema è necessario riflettere alla luce della “buona notizia” della risurrezione di Gesù, adottato da Dio come il Cristo della fede perché – scrive Paolo – accetta di essere l’agnello sacrificale, immolato per stipulare con l’Umanità intera una nuova ed eterna alleanza (la nuova berit).

      Gli “scrivani dell’esilio della seconda generazione (i figli)” vogliono evidenziare che la crisi dei Regni di Israele e di Giuda ha radici antiche e citano Davide con una significativa ripetizione: «Ti ho consacrato re d’Israele». E poi lo scrivano ripete: «Ti ho fatto diventare capo del popolo d’Israele e di Giuda», come se fosse già responsabile, qualche secolo prima, della divisione di uno Stato unitario in due Regni in conflitto tra loro. Poi, naturalmente, gli “scrivani dell’esilio della seconda generazione” mettono in evidenza il ruolo dei profeti come depositari e garanti del “patto (della berit)”. E qui compare il profeta Natan, uno dei profeti anteriori (con Elia ed Eliseo). Le figure dei profeti anteriori vivono a diretto contatto con la corte ma non sono funzionali al re, non sono organici al potere, non sono asserviti alla monarchia.

     Gli “scrivani dell’esilio della seconda generazione” – nel comporre i Libri dei profeti anteriori – vogliono alludere al fatto che l’itinerario della salvezza non è nelle mani dei grandi della storia, i quali, spesso e volentieri, le combinano grosse, ma il percorso della salvezza, indicato dai profeti, è nella mani degli “scrivani”. Il “patto (la berit)”, le “promesse di Dio” vengono rese note all’Umanità non attraverso i personaggi “storici” (Saul, Davide, Salomone) che risultano sempre propensi all’infedeltà ma bensì attraverso i personaggi allegorici (Samuele, Natan, Elia, Eliseo, Abramo) creati dall’ispirazione degli “scrivani” che sono – come Paolo di Tarso sa  – i veri artefici del movimento della “sapienza poetica beritica”.

     Davide viene presentato nei Libri di Samuele come un uomo di profonda fede, intelligente, coraggioso, meritevole della simpatia del popolo, generoso e modesto. I suoi difetti non vengono nascosti ed è lui medesimo a riconoscerli in quanto tali: egli è pronto a riconoscere di essere un peccatore e ad ascoltare il severo giudizio del profeta Natan, è pronto ad ammettere il suo errore e ad accettare il castigo. Davide è stato per Israele il re ideale e in tutto il popolo ebraico è rimasta viva la speranza in una sua dinastia che prolungasse nel tempo i benefici del suo regno. Quando i re posteriori riveleranno le loro miserie, si spererà in un re futuro che salvi Israele, e questo re lo si penserà sempre come figlio, come antenato di Davide.

     Conoscere Davide, attraverso la descrizione che ne fanno i due Libri di Samuele, significa scoprire una personalità ricca di umanità e di fede, e immersa nella concreta storia di un popolo: una storia piena di contraddizioni ma anche espressione di una serie di valori positivi. Si capisce perfettamente quindi perché a Paolo di Tarso interessi legare la nascita di Gesù alla figura di Davide e, a questo punto, il senso della “sentenza” contenuta nell’incipit della Lettera ai Romani ci appare un po’ più chiaro, ma non ancora chiaro del tutto.

     Perché non ancora chiaro del tutto? Perché adesso dobbiamo chiederci: a quali brani, contenuti nei Libri di Samuele, sta pensando Paolo di Tarso nel momento in cui compone la “sentenza sulla nascita di Gesù”? Quali sono i brani, contenuti nei Libri di Samuele, che possono fare effettivamente da ponte tra la figura di Davide e quella del Cristo della fede?

     Di questo tema ce ne occuperemo la prossima settimana, e la prossima settimana non potremo neppure fare a meno di riflettere (seppur brevemente) sul fatto che nei Libri di Samuele c’è un personaggio che, dal punto di vista letterario, ha avuto un peso maggiore di quello che abbia avuto Davide: chi è questo personaggio?

     Ce ne occuperemo nel prossimo itinerario perché il viaggio continua e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni, e questo ammonimento vale più che mai per i personaggi contenuti nei Libri di Samuele di cui la Scuola consiglia la lettura: ora è il tempo (ò kairòs, direbbe Paolo di Tarso)!

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 29, 2011