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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È IL TEMA DELLA MEDIAZIONE CULTURALE TRA IL TERMINE EBIONITA “GENEALOGIA” E IL TERMINE GNOSTICO “PARTHÈNOS” …

Lezione N.: 
26

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza  poetica ellenistica  [evangelica e imperiale]     4-5-6  maggio 2011

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È IL TEMA DELLA MEDIAZIONE CULTURALE TRA

IL TERMINE EBIONITA “GENEALOGIA” E IL TERMINE GNOSTICO “PARTHÈNOS”  …

     Il nostro compagno di viaggio Paolo di Tarso – che ci accompagna da sette mesi sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico” – capisce che, in virtù di una tradizione scritturistica ben collaudata, è necessario creare un collegamento culturale, un ponte ideale, tra la figura del re Davide e la persona del Cristo della fede. Di questo interessante tema ce ne siamo occupate ed occupati nel corso dell’ultimo itinerario quando abbiamo riflettuto sul testo di una delle più efficaci “sentenze” create da Paolo: quella sulla “nascita di Gesù”.

     La “sentenza paolina sulla nascita di Gesù” è formata (secondo lo stile del genere letterario della “sentenza”) da enunciato minimo che diventa, però, un anello forte. Questa “sentenza”, che risulta essere appena una traccia (come tutte le “sentenze” prodotte da Paolo), diventa molto importante quando questo apparente “dettaglio culturale” – negli anni 70, 80, 90 – si svilupperà, col formarsi della Letteratura ellenistica di stampo evangelico, come elemento di mediazione per la creazione di un equilibrio tra le varie icone con le quali, nel I secolo, viene rappresentata la figura di Gesù, del Cristo della fede (e lo constateremo, strada facendo).

     La sentenza paolina sulla nascita di Gesù – come sappiamo – è collocata nel testo della Lettera ai Romani, proprio all’inizio di quest’opera, al capitolo primo versetto tre, dove sta scritto: «[Io diffondo] la buona notizia che riguarda Gesù Cristo nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne». Paolo di Tarso sa benissimo che il nome del re Davide evoca nella mente di tutti gli Ebrei della diaspora che fanno riferimento alle ekklesìe un grande scenario intellettuale: quale scenario? In parte abbiamo già dato delle risposte a questa domanda nell’itinerario della scorsa settimana: il nome del re Davide evoca un complesso (e straordinario) paesaggio culturale del quale dobbiamo osservare alcuni scorci perché se dovessimo attraversare tutto lo spazio che questo grandioso paesaggio intellettuale occupa dovremmo seguire un percorso lunghissimo, di molte tappe.

     Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo capito che Davide viene presentato nei Libri di Samuele (vi siete dedicate e dedicati alla lettura dei Libri di Samuele? Questo è il momento propizio per fare questo esercizio) come un uomo di profonda fede, intelligente, coraggioso, meritevole della simpatia del popolo, generoso e modesto. I suoi difetti non vengono nascosti ed è lui medesimo a riconoscerli in quanto tali: egli è pronto ad ammettere di essere un peccatore e ad ascoltare il severo giudizio del profeta Natan, è pronto a confessare il suo errore e ad accettare il castigo. Davide è stato per Israele il re ideale e in tutto il popolo ebraico è rimasta viva la speranza in una sua dinastia che prolungasse nel tempo i benefici del suo regno. Quando i re posteriori riveleranno le loro miserie – a parte i due re virtuosi per eccellenza, Ezechia e Giosia, dei quali, durante il Percorso sulla “sapienza poetica beritica” abbiamo studiato le imprese –, si spererà in un re futuro che salvi Israele, e questo re lo si penserà sempre come figlio, come antenato di Davide. Conoscere Davide, attraverso la descrizione che troviamo nei due Libri di Samuele, significa scoprire una personalità ricca di umanità e di fede, e immersa nella concreta storia di un popolo: una storia piena di grandi contraddizioni ma anche espressione di molti valori positivi espressi in chiave metaforica.

     Si capisce perfettamente quindi perché a Paolo di Tarso interessi legare la nascita di Gesù alla figura di Davide ma sulla “sentenza” contenuta nell’incipit della Lettera ai Romani abbiamo ancora qualcosa da dire. Adesso dobbiamo chiederci: a quali brani, contenuti nei Libri di Samuele, sta pensando Paolo di Tarso nel momento in cui compone la “sentenza sulla nascita di Gesù”? Quali sono i brani che possono fare effettivamente da ponte tra la figura di Davide e quella del Cristo della fede? Non è difficile capirlo (tutte le studiose e gli studiosi, in proposito, sono d’accordo) e, quindi, andiamo a leggerli questi brani. Tuttavia prima di puntare la nostra attenzione su questi brani dobbiamo fare una serie di considerazioni di carattere descrittivo per incentivare alla lettura del testo dei Libri di Samuele perché questa è l’occasione propizia per fare questo esercizio.

     Chi si dedica alla lettura del Primo Libro di Samuele capisce subito che il testo di quest’opera parla di una grande svolta nella storia del popolo d’Israele: il passaggio dall’epoca dei Giudici alla monarchia. I Giudici erano i liberatori che Dio donava al suo popolo in momenti di crisi e Samuele rappresenta l’ultimo di loro. Gli Israeliti erano minacciati dai Filistei, i quali riuscirono perfino ad impadronirsi dell’arca dell’alleanza, e Samuele – come raccontano i primi sette capitoli del Primo Libro che porta il suo nome – viene chiamato da Dio fin dall’infanzia a fare da guida politica e religiosa al suo popolo: scegliendo Samuele Dio fa una scelta di carattere alternativo perché Samuele è un bambino “insignificante” quando il Signore lo chiama (quello di Samuele è un altro bellissimo romanzo della Letteratura beritica), Samuele non è né un forte guerriero né un saggio giurista, e questa situazione deve aver fatto riflettere Paolo di Tarso nel momento in cui studia questo Libro e pensa a “quel Gesù” di cui non sa quasi nulla. Quando Samuele diventa vecchio, gli Israeliti chiedono un re. Il desiderio di un’autorità stabile, come avevano le altre nazioni, comportava per gli Ebrei un rischio: il rischio di sottovalutare la sovranità del vero re, la sovranità del Signore sopra il suo popolo: di quel “Dio geloso” che voleva essere l’unico re. Samuele – come raccontano i capitoli 8, 9, 10 del Primo Libro che porta il suo nome – mette in guardia il popolo su questo tema però, alla fine, per indicazione del Signore, consacra re Saul.

     Saul combatte con coraggio contro i nemici d’Israele, ma presto la sua fedeltà al Signore diminuisce perché Saul, come tutti i grandi personaggi tragici della Storia della Letteratura, vuole contendere il primato a Dio e il Signore allora – come raccontano i capitoli dall’11 al 15 del Primo Libro di Samuele – sceglie Davide come futuro re al posto di Saul, e ritira da Saul il suo appoggio, e questo fatto fa scatenare la “tragedia”, porta questo Libro sul piano del genere letterario della “tragedia” con un esito molto significativo. In un primo momento Davide si affianca al re come giovane attendente, si mette in luce per lealtà e abilità, si guadagna la simpatia di molti, soprattutto del figlio di Saul, Gionata, ma suscita la sospettosa gelosia del re, che decide di farlo morire. Davide fugge e le sue avvincenti avventure, in contrasto con l’inarrestabile decadenza di Saul, occupano tutta l’ultima parte del Primo Libro di Samuele – i capitoli dal 16 al 30 – che si conclude con il racconto, nel capitolo 31, della morte di Saul e dei suoi figli per mano dei Filistei: questo episodio ha fecondato la creatività di molte scrittrici e di molti scrittori moderni e contemporanei con esiti eccellenti.

     Il Secondo Libro di Samuele parla del regno di Davide. Questo Libro – e nei contenuti si presenta come la continuazione del Libro precedente – si apre con il racconto della morte di Saul e qui la Scuola consiglia – in funzione della didattica della lettura – di fare un esercizio di “comparazione” per cogliere un elemento dello “stile beritico”, per afferrare un aspetto dello “stile mitico del midrash”: se leggiamo l’ultimo capitolo, il 31, del Primo Libro di Samuele ci accorgiamo che il racconto della morte di Saul – nonostante ci sia un filo conduttore, che va colto – è molto diverso rispetto alla narrazione della morte di Saul contenuta nel primo capitolo del Secondo Libro di Samuele.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate, quindi, questo esercizio di “comparazione” pensando al fatto che in tutte le grandi saghe del periodo dell’Età assiale ci sono molte varianti e la mentalità degli scrivani d’Israele propende per includere piuttosto che per escludere: meglio la pluralità dei racconti che il pensiero unico, meglio la varietà delle narrazioni che l’appiattimento sull’onda di una sola voce…

     Poi il Secondo Libro di Samuele presenta il lamento di Davide sulla morte di Saul e di Gionata, figlio di Saul, che era grande amico di Davide.

     Su questo testo, che viene chiamato Lamento di Davide per la morte di Saul e di Gionata, è necessario fare una riflessione per rendere più comprensibile e più accattivante la lettura che la Scuola consiglia di fare: lo scrivano del Secondo Libro di Samuele è un letterato il quale fa un riferimento di carattere filologico senza curarsi di cadere in contraddizione perché tutti sanno che lui sta lavorando su materiale proveniente da antiche Cronache che vengono utilizzate non tanto per fini storici ma con l’obiettivo apologetico di mettere in risalto la figura di Davide il quale, benevolo, si dispera per la morte di Saul anche se Saul avrebbe voluto ucciderlo e, quindi, scrive: «Per la morte di Saul e di Gionata Davide compose un canto funebre e ordinò che fosse fatto conoscere tra la gente del territorio di Giuda. S’intitola il Canto dell’Arco ed è contenuto nel Libro del Giusto». Il Libro del Giusto è una raccolta (ne esisteva un certo numero, e la Letteratura beritica ne ha conservato i titoli) di antichi poemi composti dagli scrivani di corte del X secolo a.C.: di queste opere arcaiche se ne è conservata traccia proprio perché gli scrittori dei Libri dei profeti anteriori ne hanno usato degli stralci – di solito sono Inni di non facile traduzione – che venivano tramandati oralmente.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate a leggere – nel primo capitolo del Secondo Libro di Samuele – il testo del “Lamento di Davide per la morte di Saul e di Gionata” e probabilmente riuscite anche a prendere atto del fatto che lo “scrivano dell’esilio” ha inserito nel testo arcaico dell’Inno dell’Arco, che conosce a memoria, alcuni motivi poetici che provengono dalla cultura mesopotamica come, per esempio, il verso che dice: «[Davide dice a Gionata] Per me il tuo amore era dolce più che l’amore di donna», è lo stesso concetto che si trova nell’Epopea di Gilgamesh, la stessa affermazione che Gilgamesh fa pensando ad Enkidù…

     I primi quattro capitoli del Secondo Libro di Samuele raccontano che, inizialmente, Davide viene proclamato re dalla sua tribù, quella di Giuda, ma deve vincere la resistenza di un figlio di Saul e dei generali che l’appoggiano, prima di poter diventare re di tutto Israele e il testo dice esplicitamente: «Il contrasto tra la famiglia di Saul e la famiglia di Davide durò molto tempo». Appena Davide diventa ufficialmente re di tutto Israele compie due atti importanti: la conquista di Gerusalemme e l’insediamento nella città dell’arca dell’alleanza. Allora Davide riceve da Dio, per bocca del profeta Natan, la promessa di una dinastia senza fine. Davide – come si legge nei capitoli dal 5 all’8 del Secondo Libro di Samuele – allarga i confini del regno e ne rende sicure le frontiere.

     Dal capitolo 9 inizia una storia vivacissima, che dura fino al capitolo 20 e riprende poi nei capitoli 1 e 2 del Primo Libro dei Re. Questa storia vivacissima ha come protagonista Davide e i suoi figli i quali tentano di impadronirsi del trono o di assicurarsi il diritto alla successione, ma, uno dopo l’altro, scompaiono per lasciar posto all’erede designato da Dio, Salomone. Queste pagine formano la storia dell’ascesa al trono di Salomone e sono state certamente scritte – ci dicono le studiose e gli studiosi di filologia – proprio durante il suo regno dagli scrivani di corte. Al termine del Secondo Libro di Samuele, dal capitolo 21 al 24, sono raccolte altre notizie sul regno di Davide, tra le quali è importante la storia dell’acquisto del terreno sul quale Salomone edificherà il tempio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Perché è utile dedicarsi alla lettura dei Libri di Samuele? Perché questi Libri contengono molti motivi di riflessione e molte immagini di grande efficacia che possiamo ritrovare nei testi di tanti romanzi moderni e contemporanei, nei testi di tante rappresentazioni teatrali e cinematografiche, e queste immagini, inoltre, hanno dato lo spunto ad artiste e ad artisti per la realizzazione di molti oggetti che sono entrati nel vasto catalogo della Storia dell’Arte…

     Dobbiamo ricordare anche – e questa è un’ulteriore annotazione in chiave letteraria – che della vecchiaia di Davide (e del gran freddo che patiscono i vecchi) ne parla l’incipit del Primo Libro dei Re dove compare un personaggio (la Sunamita) che ha sempre incuriosito scrittrici e scrittori, ma ora non possiamo dedicarci a questa storia (lo faremo più tardi e poi la prossima settimana).

            Ma – ci siamo chieste e ci siamo chiesti – a quali brani pensa, dei Libri di Samuele, Paolo di Tarso? Quali sono i brani che possono fare effettivamente da ponte tra la figura di Davide e quella del Cristo della fede? Non è difficile capirlo (tutte le studiose e gli studiosi, in proposito, sono d’accordo), e allora andiamo a leggerli.

     Il primo brano è tratto dal capitolo 16 del Primo Libro di Samuele: nel testo di questo capitolo si racconta la prima investitura di Davide, un’investitura quasi clandestina. Il Signore suggerisce a Samuele di “ungere” Davide che, tra i figli di Iesse, è quello che risulta essere “insignificante”, ma, dice il testo: “quel che vede l’uomo non conta, perché l’uomo guarda l’apparenza mentre il Signore guarda il cuore”. E Paolo ritiene che questa significativa “sentenza beritica” calzi perfettamente per mettere al centro dell’attenzione la figura del Cristo della fede il quale non è altro che – siamo all’inizio degli anni 60 del I secolo – un “insignificante” rabbi di strada identificato nelle ekklesìe con l’espressione: “quel Gesù”. Un altro indizio significativo – che poi emergerà, successivamente, nella Letteratura dei Vangeli – è la comparsa della località di Betlemme, ma, molto probabilmente, a Paolo di Tarso il nome di questa località non dice nulla a riguardo della nascita di Gesù.

     E ora leggiamo:

LEGERE MULTUM ….

Primo Libro di Samuele  16, 1-23

Il Signore disse a Samuele: - Fino a quando continuerai a piangere per Saul? Io l’ho respinto e non potrà più essere re d’Israele. Ora riempi d’olio il tuo recipiente di corno, e mettiti in cammino. Ti mando a Betlemme, alla casa di Iesse, perché mi sono scelto un re tra i suoi figli.

Samuele domandò: - Come posso partire? Saul lo verrà a sapere e mi ucciderà.

Rispose il Signore: - Prendi con te un vitello: dirai che sei andato per offrire un sacrificio al Signore e inviterai Iesse al sacrificio. Ti indicherò io quel che dovrai fare: consacrerai re l’uomo che ti indicherò.

Samuele fece quel che il Signore gli aveva ordinato. Quando arrivò a Betlemme, i capi della città gli andarono incontro e, ansiosi, gli chiesero: - È di buon augurio la tua venuta? - Sì, è di buon augurio, - rispose: - sono venuto per offrire un sacrificio al Signore. - Purificatevi per il sacrificio e poi venite con me.

Fece lui stesso il rito di purificazione per Iesse e i suoi figli e li invitò al sacrificio. Quando essi arrivarono, Samuele vide Eliab e disse tra sé: «Ecco davanti al Signore il re da lui scelto». Ma il Signore gli disse: «Non lasciarti influenzare dal suo aspetto o dalla sua altezza, non è lui che ho in mente. Quel che vede l’uomo non conta: l’uomo guarda l’apparenza, ma il Signore guarda il cuore».

Iesse chiamò quindi suo figlio Abinadab e lo presentò a Samuele, ma questi disse:

- No, non è lui che il Signore ha scelto.

Iesse presentò Samma, e Samuele disse: - No, non è lui che il Signore ha scelto.

Così Iesse presentò a Samuele i suoi sette figli, ma Samuele gli disse:

- Il Signore non ha scelto nessuno di loro.

Poi aggiunse: - Sono tutti qui i tuoi figli? - No, - rispose Iesse, - rimane ancora il più piccolo: è andato al pascolo. - Mandalo a cercare, - ordinò Samuele. - Non ci metteremo a tavola prima del suo arrivo.

Iesse mandò a prenderlo: era giovane e con un bel colorito, due begli occhi e di piacevole aspetto. Il Signore disse a Samuele: «È lui: consacralo re». E Samuele prese il recipiente di corno pieno d’olio e lo versò sulla testa di Davide per consacrarlo, di fronte ai suoi fratelli. Lo spirito del Signore scese su Davide e, da quel giorno, fu sempre con lui.

Samuele infine tornò a Rama.

Lo spirito del Signore aveva abbandonato Saul. Ora egli era tormentato da uno spirito maligno mandato dal Signore. Allora i suoi servi gli dissero: - Vedi, Dio ha inviato uno spirito maligno a tormentarti. Noi siamo a tua disposizione: basta che tu ci dia un ordine, e noi cercheremo un uomo che sappia suonare la cetra. Così, quando lo spirito cattivo ti investirà, egli suonerà la cetra e tu ne avrai sollievo. - D’accordo, - rispose Saul; - cercatemi un buon suonatore e portatemelo qui. 

Uno dei servi disse: - Ne conosco uno: è figlio di Iesse, di Betlemme, sa suonare ed è anche un bravo soldato saggio nel parlare e di bell’aspetto. E il Signore è con lui. Allora Saul mandò a Iesse questo messaggio: «Fa’ venire da me tuo figlio Davide, quello che pascola il gregge».

Iesse prese un asino, lo caricò di pane, di un otre di vino e di un capretto e disse a suo figlio Davide di portare tutto a Saul. Così Davide arrivò da Saul ed entrò al suo servizio. Saul lo apprezzò sempre più e Davide diventò il suo scudiero. Infine Saul mandò a dire a Iesse: «Desidero che Davide rimanga al mio servizio perché ne sono completamente soddisfatto».  Quando lo spirito maligno inviato da Dio investiva Saul, Davide prendeva la cetra e suonava. Saul ne aveva sollievo, si calmava e lo spirito cattivo si allontanava da lui.

     È molto bella questa immagine che presenta Davide come uno psicoterapeuta musicale (diremmo oggi).

     Il secondo brano, proveniente dal Secondo Libro di Samuele, a cui Paolo di Tarso pensa nel costruire un ponte culturale tra la figura del re Davide e la figura del Cristo della fede, è legato ad un concetto cardine della Letteratura dell’Antico Testamento: un concetto legato alla parola-chiave tôledôt che in ebraico significa genealogia, stirpe, discendenzae questo argomento lo abbiamo studiato, in modo approfondito, nei due itinerari precedenti perché il concetto di tôledôt (la trafila delle generazioni, la linea della discendenza, la filiera della stirpe)è uno dei modi con cui viene narrata la creazione.

     Nel testo di questo brano del Secondo Libro di Samuele (che stiamo per leggere) – e che Paolo di Tarso ha in mente nel momento in cui scrive la sua sentenza sulla nascita di Gesù – sembra che il Cristo della fede non possa che discendere dalla stirpe di Davide, e questo fatto mitico diventa il segno distintivo, lo stampo culturale per eccellenza che garantisce la corrispondenza tra la persona di Gesù di Nazareth e la figura del Cristo della fede.

     E ora leggiamo:

LEGERE MULTUM ….

Secondo Libro di Samuele  7, 1-29

Il re Davide andò ad abitare nel suo palazzo. Il Signore gli dava tranquillità da tutti i suoi nemici. Un giorno egli chiamò il profeta Natan e gli disse: - Come vedi, io abito in un bel palazzo costruito con legname pregiato, mentre l’arca di Dio è custodita in una semplice tenda.

Natan rispose al re: - Fa’ pure come hai progettato, perché il Signore ti approva. 

Ma quella stessa notte il Signore disse a Natan: «Devi andare a parlare al mio servo Davide. Gli dirai che la parola del Signore è questa: Non sarai tu a costruirmi una casa dove io abiterò. Da quando ho liberato gli Israeliti dall’Egitto, fino a oggi, io non ho mai abitato in un tempio, ma li ho accompagnati avendo come Abitazione una tenda, ho fatto, insieme con gli Israeliti, molto cammino e ho affidato a molti capi il compito di guidare Israele, mio popolo. Non ho mai chiesto a nessuno di loro, neppure una volta, perché non mi costruivano un tempio con legname pregiato».

Il Signore disse ancora a Natan: «Devi dire al mio servo Davide che io, il Signore dell’universo, gli mando questo messaggio: Tu eri un pastore e seguivi il gregge. Io ti ho preso di là, per farti diventare capo d’Israele, mio popolo. Sono stato al tuo fianco in ogni tua impresa, ho distrutto tutti i nemici che incontravi e ora ti farò diventare molto famoso come gli uomini più importanti della terra. Voglio fissare per il mio popolo, Israele, un luogo dove possa stabilirsi e abitare senza più paura di nessuno. Non sarà più oppresso da gente malvagia, come avveniva un tempo, anche quando avevo messo i giudici a capo d’Israele, mio popolo. Ora, invece, ti ho dato tranquillità da tutti i tuoi nemici. E io, il Signore, ti annunzio che sarò io a costruire a te una casa! Quando, al termine della tua vecchiaia, morirai e sarai sepolto con i tuoi padri, io metterò al tuo posto uno dei tuoi figli, nato da te, e fortificherò il suo regno. Sarà lui a costruire una casa per me, e io gli assicurerò per sempre una dinastia.

Lui sarà un figlio per me, e io sarò suo padre: se peccherà, lo castigherò con mezzi umani, come un padre castiga il figlio, ma non gli toglierò mai il mio appoggio, come invece ho fatto con Saul, che ho respinto per far posto a te. La tua famiglia e il tuo regno saranno stabili per sempre dopo di te, e la tua dinastia non finirà mai».

Natan riferì a Davide tutto quel che Dio gli aveva fatto conoscere in questa visione.

Davide andò nella tenda alla presenza del Signore e pronunziò questa preghiera:

«O Signore Dio, tu mi hai fatto arrivare a una meta che né io né la mia famiglia potevamo pensare. Ma per te tutto questo è ancora poco, o Signore. Ora mi hai fatto una promessa per il lontano avvenire della mia famiglia e l’hai manifestata a un semplice uomo, o Signore.  Non so quali altre cose potrei dirti, tu mi conosci, sono il tuo servo. Tu infatti hai voluto fare grandi cose per fedeltà alla tua parola e me le hai rivelate. Quanto sei grande, Signore! Mai abbiamo sentito parlare di un Dio come te. All’infuori di te non c’è nessun altro Dio. Non c’è sulla terra nessun altro popolo come il tuo: tu sei andato a liberare soltanto Israele per farne il tuo popolo e dargli il tuo nome. Hai fatto in suo favore cose grandi e terribili. Dopo averlo liberato dagli Egiziani e dalle loro divinità, hai scacciato le nazioni che ostacolavano il suo cammino. Hai fatto d’Israele il tuo popolo per sempre e sei diventato, o Signore, il loro Dio. Ora, Signore, realizza quel che hai detto, mantieni per sempre questa promessa che riguarda me, tuo servo, e la mia dinastia. Così, la tua gloria sarà grande per sempre. Tutti diranno: il Signore dell’universo è veramente il Dio d’Israele. Così, la dinastia di Davide, tuo servo, rimarrà stabile per sempre. Tu stesso, Signore dell’universo, mi hai fatto conoscere il proposito di darmi una dinastia. Per questo io, tuo servo, ho avuto il coraggio di farti questa preghiera. Tu, o Signore, tu mi hai fatto questa grande promessa, e la tua parola è degna di fede. Benedici la mia dinastia perché duri per sempre davanti a te. Tu l’hai promesso, o Signore: la mia dinastia sarà per sempre benedetta da te».

     Queste parole che contengono e la promessa e la benedizione del Signore a riguardo della dinastia (tôledôt) di Davide – parole che tutti gli Ebrei della diaspora conoscono –, attraverso la sentenza di Paolo sulla nascita di Gesù collocata nell’incipit della Lettera ai Romani, si riversano sulla figura del Cristo della fede. La sentenza paolina sulla nascita di Gesù verrà potenziata in chiave ellenistica nei decenni successivi dagli autori della Letteratura dei Vangeli e tra poco rifletteremo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – sulle caratteristiche di questa operazione culturale.

     Prima di dedicarci a questa riflessione dobbiamo farne un’altra che riguarda l’impatto che le immagini e i personaggi contenuti nei Libri di Samuele – e nei Libri dei profeti anteriori in genere – hanno sempre avuto nella Storia dell’Arte e della Cultura. Abbiamo detto – alla fine dell’itinerario della scorsa settimana – che nei Libri di Samuele c’è un personaggio il quale, dal punto di vista letterario, ha avuto un peso maggiore di quello che abbia avuto Davide: chi è questo personaggio? Questo personaggio è Saul. E se noi, ora, dovessimo fare la lista di tutte le opere che lo vedono protagonista avremmo bisogno di un bel po’ di tempo a disposizione. Facciamo solo un’incursione a questo proposito: in funzione della didattica della lettura e della scrittura la Scuola propone di puntare l’attenzione su un’opera che viene considerata il capolavoro di uno scrittore che tutte voi e tutti voi conoscete e che si chiama Vittorio Alfieri.

     Ma, chi è Vittorio Alfieri? (Se ben ricordo è dal 2006 che non lo incontriamo). Vittorio Alfieri – come sapete – è considerato uno dei più importanti autori tragici europei del ‘700 e anche di tutta la Storia della Letteratura. Alfieri è nato ad Asti nel 1749 in una nobile famiglia e trascorre una giovinezza – come lui stesso scrive – inquieta ed errabonda, ma possiamo sapere molte cose della vita di Alfieri leggendo la sua autobiografia.

     L’autobiografia di Vittorio Alfieri la trovate in biblioteca e s’intitola Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da se stesso, quest’opera è stata pubblicata postuma nel 1806 e viene considerata l’opera più complessa e più originale dello scrittore artigiano. L’autobiografia di Vittorio Alfieri è stata definita un dramma scritto sotto forma di romanzo, e questo stile – in cui lo scrittore fonde con grande perizia questi due significativi generi letterari – la rende un modello, un capolavoro.

     Alfieri – inquieto ed errabondo – non va continuamente in giro per l’Europa a vanvera: viaggia per occuparsi di teatro e di letteratura. Alfieri ha un suo progetto culturale: quello di realizzare, in Italia, un teatro tragico nazionale, e il tema che inquieta Alfieri e che lo interessa maggiormente è quello delle libertà civili (che è, pur sempre, un tema di grande attualità). «Le libertà civili, i diritti dei cittadini – scrive Alfieri nella Vitasono praticamente sconosciuti in Italia: si parla di individui obbligati alla sudditanza, e questa condizione è accettata dal popolo per ignoranza». Bisogna dire che, alla metà del ‘700 – in Europa – faceva scandalo affermare che l’individuo non è un suddito il quale ha solo obblighi da rispettare, ma è una persona con diritti e doveri che deve saper amministrare la propria libertà e la propria autonomia.

     Alfieri, animato da questo spirito di libertà, ispirato da questa voglia di proclamare l’autonomia dell’individuo, scrive 19 tragedie, le più significative sono: Filippo, Mirra, Oreste, Polinìce, Virginia, Don Garzia, Cleopatra, Antigone e Saul, l’opera che ci ha portati qui dove ora ci troviamo. Nelle tragedie di Alfieri c’è sempre un eroe in opposizione al tiranno. All’eroe spetta il compito di affermare, spesso col suo estremo sacrificio, l’ideale della libertà: che insegnamento c’è in questo modo tragico di vedere le cose? C’è un insegnamento soprattutto rivolto agli (o contro gli …) intellettuali: Alfieri sostiene che gli intellettuali devono sottrarsi alle lusinghe del tiranno, soprattutto quando appare benevolo. Gli intellettuali – scrive Alfieri – sono depositari degli ideali di libertà e li devono difendere, li devono coltivare e li devono proporre continuamente: la libertà  non è data, ma – scrive Alfieri – consiste in un continuo processo di liberazione, personale e collettivo.

     I versi che compongono i testi delle tragedie dell’Alfieri sono pervasi da grandi suggestioni letterarie e, in parte, il modello a cui lui si rifà è quello del Petrarca: questa scelta è importante perché contribuisce al formarsi di una tradizione della cultura italiana che è alla base del Risorgimento. Il Settecento, come sapete, è il secolo dei lumi, è il secolo in cui domina la Ragione ma Alfieri – nonostante apprezzi la facoltà della ragione – è piuttosto in polemica (per la verità è in polemica con tutto e con tutti) con il razionalismo dell’epoca perché lui preferisce esaltare i sentimenti forti, evidenziare le passioni accese, far risaltare il gusto della malinconia e il senso dell’inquietudine.

     Leggere le tragedie alfieriane non è facile: è un esercizio piuttosto complicato, e anche la lettura della Vita dell’Alfieri è faticosa anche se, rispetto alle tragedie, l’autobigrafia è composta da un testo più accessibile e spesso anche coinvolgente e abbiamo avuto occasione, nell’anno 2006 – quando abbiamo incontrato Hegel – di leggerne alcune pagine significative. Nel testo dell’autobiografia lo scrittore lamenta il fatto che la società in cui vive ha rimosso la nostalgia che, secondo Alfieri, è il sentimento più utile per stimolare la ricerca del senso della vita, infatti nella parola nostalgia – un sentimento che pervade anche tutto l’Epistolario di Paolo di Tarso – troviamo il termine greco nostos che significa viaggio di ritorno, e il nostos più famoso è il viaggio di Ulisse ma anche i viaggi di Paolo di Tarso sono, in un certo senso, dei nostoi, dei viaggi di ritorno verso le radici, verso quelle radici culturali che Paolo – costruendo le sue sentenze(come stiamo studiando) – trapianta, con grande perizia, su un nuovo terreno.

     Questa denuncia che Alfieri lancia contro la rimozione della nostalgia è di grande attualità: il consumismo contemporaneo ha relegato la nostalgia tra i valori superflui, la nostalgia è considerata d’inciampo al fare, è considerata nemica in una società votata al fare, votata all’allegria forzata. Il problema è che questo fare – direbbe Alfieri – non è indirizzato a costruire secondo i canoni dettati dall’Idea del Bene secondo i valori della Giustizia ma è indirizzato a propagandare l’inconsistente nozione che l’apparire sia il principale oggetto di realizzazione umana.

     Quando si parla di Alfieri non si può fare a meno di parlare di Firenze. C’è un fatto importante nella vita di Alfieri che dobbiamo ricordare e che ci è utile per fare ricerca di repertorio, visto che Firenze ce l’abbiamo sottomano: fare ricerca di repertorio significa costruire delle trame intellettuali. A Firenze nel 1777, Alfieri incontra la signora Luisa Stolberg contessa d’Albany (1752-1824). La signora Luisa Stolberg è la moglie di Carlo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra. Luisa d’Albany e Vittorio Alfieri condividono per più di 25 anni un grande affetto, non senza difficoltà, fino alla morte dello scrittore, fino al 1803. Alfieri muore a Firenze ed è sepolto in Santa Croce: avete visitato il suo monumento funebre? Questo monumento è stato commissionato e fatto costruire da Luisa d’Albany nel 1810.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Sapete chi ha progettato e scolpito la monumentale tomba di Vittorio Alfieri, ricordate come è fatto questo monumento?… Cogliete l’occasione per andare a vederlo o a rivederlo in Santa Croce e poi descrivetelo con quattro righe di scrittura, oppure provate a disegnarlo, interpretandolo a modo vostro…

Di Alfieri parla, esprimendosi in poesia, Ugo Foscolo nel famoso carme intitolato “Dei Sepolcri”: andate a leggere o a rileggere questi famosi versi…

     Ve li ricordate questi versi?

LEGERE MULTUM ….

Ugo Foscolo, Dei Sepolcri  188-197

E a questi marmi [le tombe dei Grandi personaggi sepolti in Santa Croce]

venne spesso Vittorio ad ispirarsi. Irato a’ patrii Numi, errava muto ove Arno

è più deserto, i campi e il cielo desïoso mirando; e poi che nullo vivente aspetto

gli molcea la cura [poiché nessuno riusciva a consolarlo], qui posava l’austero;

e avea sul volto il pallor della morte e la speranza.

Con questi grandi abita eterno: e l’ossa fremono amor di patria.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In Santa Croce c’è anche, meno appariscente, la tomba di Luisa Stolberg contessa d’Albany: sapete in quale cappella si trova?…   Andate alla ricerca – utilizzando il testo di una guida – di questa lapide…

Ma chi era Luisa Stolberg contessa d’Albany?… Cercate qualche notizia su di lei utilizzando l’enciclopedia e la rete…  Sono tutte trame intellettuali utili per investire in intelligenza e per poter visitare la città nella quale abitiamo…

     Ma noi abbiamo incontrato Vittorio Alfieri per parlare di Saul, o meglio, per parlare – seppur brevemente – della tragedia di Alfieri intitolata Saul.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il testo del Saul lo trovate in biblioteca: sfogliatelo e leggiucchiatelo qua e là

     Alfieri riprende, nel testo della tragedia intitolata Saul, il racconto biblico contenuto nei Libri di Samuele. Alfieri vede nel personaggio di Saul uno di quegli esseri superiori a lui cari che sono chiamati a gestire drammaticamente il potere nel bene e nel male, e lo ritrae nel momento in cui la sua volontà di comando non trova più l’antica sicurezza. Questo stato di disagio porta Saul a contendere il potere a Dio – che in quest’opera ricopre il ruolo del tiranno – perché Dio lo abbandona e lo colpisce con una misteriosa maledizione. Il personaggio di Saul è certamente il più complesso del teatro alfieriano ed è una delle figure poetiche più suggestive di tutta la poesia tragica.

     Il Saul di Alfieri, giunto alle soglie della vecchiaia, avverte dentro di sé una debolezza inquietante e, contemporaneamente, si sviluppa in lui un attaccamento morboso – che non aveva mai provato – per la propria regalità che gli sembra insidiata da quanti lo circondano, in modo speciale dai sacerdoti, a lui ostili, e da Davide che è la loro creatura e a cui va il cuore di tutti e, sebbene lui non vorrebbe riconoscerlo, anche il suo stesso cuore è bisognoso di avere accanto a sé quel giovane a cui ha dato in sposa la figlia, Micòl, e che appare dotato di una felicità, di una giocondità simile a quella che anche lui provava un giorno. Saul è depresso, è ansioso, dà segni di squilibrio e ne è consapevole, e comincia a vivere dentro ad una contraddizione tormentosa: tenta di liberarsi dalla sua situazione di disagio perseguitando Davide, cacciandolo lontano da sé, minacciando e infliggendo a lui, e ai suoi protettori, gravi castighi, senza però riacquistare la sicurezza perduta, ma facendo aumentare, in modo più profondo ancora, la sua sofferenza e il suo turbamento che arriva ai confini della follia.

     Saul alla fine rimane solo con la figlia, che lui ama teneramente e da cui è riamato, ma non riesce a vincere il cerchio di solitudine in cui si è chiuso. Potrebbe guarire se riconoscesse la propria debolezza e se accogliesse di nuovo accanto a sé Davide: ma una tale confessione gli è negata perché il suo orgoglio è troppo forte e così cresce in lui il senso della propria impotenza e la consapevolezza di essere stato abbandonato da Dio che non osa più invocare. Eppure, nonostante tutto, Saul non si prostra e compie dei gesti che, sebbene contraddittori, rivelano una forza umana che suscita anche ammirazione.

     E, alla fine, quando Saul apprende dal ministro Abner che il suo popolo è stato sconfitto e che i suoi figli sono stati uccisi, ritrova la sua sicurezza e la sua grandezza regale. Affida ad Abner la figlia Micòl, la sposa di David che, come tale – egli dice – anche i nemici rispetteranno, e lui rimane solo ad attendere il nemico.

     Saul pone a Dio, che lo ha vinto ma non lo ha abbattuto, una suprema celebre domanda: Sei paga, d’inesorabil Dio terribil ira?, e poi si uccide dinanzi ai nemici irrompenti, più grande del vincitore, ma grande, soprattutto – e qui c’è la provocazione alfieriana, – per aver tenuto testa a Dio.

     Leggiamo un frammento dal Saul: leggiamo il testo dell’ultima scena, la quinta, del quinto e ultimo atto.

LEGERE MULTUM ….

Vittorio Alfieri,  Saul  Atto quinto, scena quinta

SAUL   Oh figli! – Fui padre. –

           Eccoti solo, o re, non ti resta

           Dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga,

           D’inesorabil Dio terribil ira? –

           Ma tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo,

           Fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli

           Dell’insolente vincitor: sul ciglio

           Già lor fiaccole ardenti balenarmi

           Veggo, e le spade a mille – Empia Filiste,

           Me troverai, ma almen da re, qui morto. –

     Abbiamo detto che Saul perde la sicurezza e aumenta così, in modo più profondo, la sua sofferenza e il suo turbamento che confina con la follia.

     Ricordate Alan Bennett e il suo romanzo autobiografico intitolato Una vita come le altre del quale abbiamo già letto qualche pagina nelle settimane precedenti? Se leggiamo questo romanzo veniamo a sapere che la madre dello scrittore è stata schiacciata da due sorelle che amano il bel vivere e sono sfrontate e sorridenti, e che il seme della follia, lento e tenace, percorre la storia della famiglia Bennett.

     Lo scrittore, in questa autobiografia, affronta questo tema – quando prende coscienza di questa situazione – con realismo e con onestà, senza buonismi, né piagnistei. «Ci sono stati altri casi di malattia mentale nella vostra famiglia?» domanda un assistente sociale dello Yorkshire a Bennett e a suo padre. Lui risponde sicuro di no perché non sa che, invece, ci sono stati altri casi in famiglia, casi di cui non aveva mai avuto notizia. Ed è suo padre, seduto accanto a lui, a svelargli per la prima volta, con un atto liberatorio, la fine drammatica e segreta del nonno di Bennett (novello Saul?), e a indurlo, quindi, ad esplorare – senza finzioni – le storie nascoste e dimenticate dei suoi parenti.

     Leggiamo queste due pagine che completano l’incipit di questo romanzo intitolato Una vita come le altre e che, di sicuro, saprete ricollegare a quelle che abbiamo già letto.

LEGERE MULTUM ….

Alan Bennett  Una vita come le altre

«Abbiamo quasi finito» dice Mr Parr. «Di che cosa sono morti i genitori della signora Bennett?».

«Sua madre è morta di cancro» rispondo «e suo padre di infarto». Papà scuote la testa, a significare che secondo lui queste domande non c’entrano nulla con la malattia di mamma. O almeno immagino che voglia dire questo, e sarei d’accordo con lui, ma penso che non sia il caso di farne una questione.

… continua la lettura …

     Paolo di Tarso per nobilitare il “presente” del Cristo della fede fa sempre ricorso al passato (alla tradizione elaborata nei secoli dagli scrivani d’Israele di cui si sente pienamente erede). Paolo di Tarso, nel costruire la “sentenza sulla nascita di Gesù” contenuta nell’incipit della Lettera ai Romani, fa ricorso al passato (al grande bagaglio culturale della tradizione) e, in questo modo, apre una via che conduce verso il futuro perché questo suo modo di fare (di fare cultura) diventa un vero e proprio metodo, che viene utilizzato, negli anni a venire, dagli scrivani ellenisti della Letteratura dei Vangeli.

     Infatti, nell’immediato futuro – circa vent’anni dopo la morte di Paolo –, la forma e il contenuto della “sentenza” che abbiamo studiato verrà elaborato dalla Letteratura dei Vangeli propriamente detta. Come avviene questa operazione culturale? Circa vent’anni dopo la morte di Paolo di Tarso gli autori delle opere che vanno poi a costituire il canone di quella che si chiamerà la “Letteratura ellenistica dei Vangeli” – questi autori stanno lavorando nelle più importanti città dell’Ellenismo (soprattutto ad Alessandria) a stretto contatto con le grandi Biblioteche – prendono spunto dalla “sentenza sulla nascita di Gesù” contenuta nell’incipit della Lettera ai Romani per costruire i famosi brani detti “genealogie di Gesù”. I brani detti “genealogie di Gesù” sono testi che contengono il catalogo degli “antenati di Gesù” a cominciare dal re Davide. Paolo aveva dato il “la” e gli autori dei testi dei Vangeli ne traggono ispirazione per comporre piccole, ma solide, sinfonie, o rapsodie. La costruzione dei testi delle “genealogie di Gesù” si configura come una significativa operazione letteraria di carattere mitico secondo lo stile del midrash beritico.

     Qual è – a proposito delle “genealogie di Gesù” – l’esempio letterario più significativo sul quale, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo puntare l’attenzione per capire quale sia stata l’evoluzione delle “sentenze” paoline? L’esempio letterario più significativo a proposito delle “genealogie di Gesù” lo troviamo nel testo del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo. Il testo del Vangelo secondo Matteo è stato composto negli anni 80 del I secolo e, quindi, Paolo di Tarso è morto da circa vent’anni. Il testo del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo – e noi qui ragioniamo in funzione della didattica della lettura e della scrittura – rappresenta un esempio straordinario sull’evoluzione ideologica del Cristianesimo tra gli anni 60 e gli anni 90, in piena stagione ellenistica. Questo testo è rivolto ad una comunità di cristiani di origine ebraica, a gente legata alla fede e all’ambiente d’Israele (in questo testo viene presentato un Gesù – che porta a compimento la storia e le speranze d’Israele nella tradizione delle grandi figure del passato fino ad Abramo, in questo testo le vicende dell’infanzia di Gesù ricordano quelle di Mosè).

     Il testo del Vangelo secondo Matteo è uno dei primi importanti documenti dal quale emerge la significativa contaminazione culturale che, tra gli anni 70 e gli anni 90, ha condizionato il modo di pensare degli appartenenti alle eterogenee comunità cristiane: gli scrivani della nascente Letteratura dei Vangeli comprendono perfettamente la “lezione” di Paolo di Tarso sul tema dell’integrazione intellettuale e il testo del Vangelo secondo Matteo, a cominciare dal primo capitolo, si presenta nella sua “ambiguità (nel senso dell’ambivalenza)” come un esempio edificante in proposito: che cosa significa questo?

     L’autore della trascrizione finale di quest’opera è certamente uno scrivano della “nuova corrente ebionita” il quale vuole garantire il fatto che Gesù sia, secondo la tradizione ebraica, un “rabbi fariseo” adottato da Dio per portare a compimento la storia e le speranze d’Israele, ma, contemporaneamente, questo scrittore (che è attrezzato per investire in intelligenza in termini ellenistici) sa che anche il pensiero della “corrente gnostica” – la quale proclama, secondo i potenti schemi della filosofia greca, la “natura divina (l’inseminazione, la concezione divina)” di Gesù di Nazareth – non può essere ignorato perché, a contatto con la cultura orfico-dionisiaca, ha preso ormai campo, e allora che cosa fa questo autore? Secondo la tradizione degli scrivani d’Israele, per cui è sempre meglio includere che escludere, – a costo di contraddirsi – questo autore compie uno straordinario esercizio di inclusione che ha per obiettivo quello di mantenere l’equilibrio tra la cultura ellenistica e la cultura ebraica (che va comunque salvaguardata). L’autore della stesura finale del testo del Vangelo secondo Matteo opera in modo tale da produrre un avvicinamento tra l’icona ebionita e l’icona gnostica di Gesù. Ma bisogna procedere con ordine perché siamo di fronte ad un complesso intreccio filologico.

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La Scuola – e questo è il primo passo da fare – propone un semplice ma interessante esercizio: leggete i primi 17 versetti del primo capitolo del Vangelo Secondo Matteo

     Il testo del Vangelo secondo Matteo in lingua originale, in greco, inizia con la parola-chiave “genealogia”, che è il termine corrispondente alla parola ebraica “tôledôt (la trafila delle generazioni, la linea della discendenza, la filiera della stirpe)”, su questa parola-chiave noi abbiamo riflettuto e sappiamo anche che richiama l’evento della “creazione”: utilizzare la parola “genealogia (tôledôt)” – che è tipica del pensiero ebionita – per presentare la figura di Gesù è come dire che “Gesù è da principio nella mente di Dio” secondo un’idea cara al pensiero gnostico, e questo è già un primo elemento di integrazione tra ebionismo e gnosticismo.

     Il testo del Vangelo secondo Matteo inizia, in greco, con queste parole: «Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo …» e poi inizia l’elenco dei discendenti. L’incipit del testo di questo Vangelo ha sempre suscitato grandi discussioni nel corso dei secoli perché l’affermazione: «Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo …» risulta piuttosto singolare tanto che, quando queste parole – nel corso dell’evoluzione della dottrina del Cristianesimo – vengono tradotte, si preferisce dire: «Gesù Cristo è discendente di Davide, il quale a sua volta è un discendente di Abramo. Ecco l’elenco dei suoi antenati …» e questo perché l’espressione «figlio di Davide, figlio di Abramo» continua a richiamare (e a tutt’oggi richiama) in modo esplicito il concetto di “adozionismo” per cui Gesù – secondo il pensiero della corrente ebionita – è nato in una famiglia umana (senza  inseminazione divina) e poi è stato adottato da Dio.

     Un altro elemento singolare è che tra gli antenati di Gesù il testo del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo inserisce anche i nomi di quattro donne e questa è un’innovazione sorprendente rispetto alle genealogie tradizionali: chi sono queste quattro donne?

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Se leggete questo testo – i primi diciassette versetti del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo – lo scoprirete Andate a fare questo esercizio di ricerca: come si chiamano queste quattro donne e dove sono collocate – in quali Libri – nella Letteratura dell’Antico Testamento?…

     Queste quattro donne, antenate di Gesù, progenitrici del Cristo della fede, sono davvero quattro figure eccezionali per la loro straordinaria “ambiguità”!

     Noi, adesso, non abbiamo il tempo per riflettere su questo tema (la tentazione è forte ma dobbiamo rimanere sul nostro sentiero specifico) perché ci vorrebbe un Percorso intero per farlo, ma non mancherà l’occasione, in futuro, di riprendere questi argomenti (il continuo richiamo alla natura umana di Gesù e alle progenitrici del Cristo della fede) perché, queste questioni, saranno temi di dibattito serrato quando, durante il Medioevo, dopo l’anno Mille, all’interno dei vari “Ordini religiosi” comincerà il cosiddetto “grande scontro esegetico sulla figura di Gesù”: quando attraverseremo il vastissimo territorio dell’Età di mezzo vedremo riemergere questi temi e avremo delle competenze in proposito.

     Abbiamo detto che secondo la tradizione degli scrivani d’Israele, per cui è sempre meglio includere che escludere, – a costo di contraddirsi – l’autore finale del testo del Vangelo secondo Matteo compie uno straordinario esercizio di inclusione che ha per obiettivo quello di mantenere l’equilibrio tra la cultura ebraica e la cultura ellenistica. L’autore della stesura finale del testo del Vangelo secondo Matteo opera in modo da favorire l’avvicinamento tra l’icona ebionita (Gesù-rabbi ebraico adottato da Dio) e l’icona gnostica (Gesù-Logos, parola divina incarnata). Ma continuiamo a procedere con ordine perché la faccenda è complessa e bisogna dipanare l’intreccio con pazienza.

     Il capitolo primo (sono 25 versetti) del Vangelo secondo Matteo – che voi siete invitate e invitati a leggere o a rileggere – contiene uno straordinario intreccio filologico: questo brano ha la potenza di un vero e proprio trattato di carattere filologico. Che cosa significa? Procediamo con ordine.

     Intanto diciamo che il contenuto della seconda parte (dal versetto 18 al 25) del testo del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo lo sappiamo a memoria perché questo testo fa parte, attraverso il ritmo ripetitivo della tradizione (e della Storia della Letteratura e della Storia dell’Arte), del nostro bagaglio intellettuale. Nel testo della seconda parte del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo c’è la trama di un “romanzo” che conosciamo bene: si racconta che Maria era fidanzata con Giuseppe e un giorno si ritrova incinta per virtù dello Spirito Santo: vallo a spiegare a Giuseppe questo fatto – ci fa capire, con un tocco di maestria, l’autore del testo – e difatti Giuseppe, che è discendente di Davide (secondo la sentenza paolina e in linea con il pensiero ebionita), ci rimane molto male e vorrebbe sciogliere il contratto, ma poi fa un sogno e scopre di essere uno dei protagonisti (forse il più insignificante, ma pur sempre protagonista) di un midrash (di un racconto mitico) perché un angelo (tò anghelon, un messaggio, un impulso del cuore) gli dice che deve accettare questa situazione straordinaria, deve accogliere questo bambino e chiamarlo Yèshua (Dio salva) perché Maria è stata fecondata in modo soprannaturale, e tutto questo fa parte di un piano di salvezza. Rileggetelo, dunque, questo brano che è molto bello, ed è stato riscritto da tante di quelle scrittrici e da tanti di quegli scrittori che è difficile fare il conto.

     Quello che a noi interessa adesso – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è il testo dei versetti 22 e 23 della seconda parte del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo perché sono l’oggetto di un significativo esercizio di mediazione culturale. L’autore della versione finale del Vangelo secondo Matteo compie (alla fine degli anni 80 ad Alessandria) un’operazione di mediazione culturale di grande valore filologico e si comporta da vero e proprio rapsodo (da sarto) che cuce insieme con grande abilità icone diverse – quella del Gesù ebionita (che lui vuole esaltare) con quella del Gesù gnostico (un’icona dalla quale è comunque affascinato) – in modo che queste due figure differenti (del Gesù-rabbi ebraico adottato da Dio e del Gesù-Logos, Parola di Dio che s’incarna) possano essere osservate con un unico sguardo, con lo stesso sguardo.

     Abbiamo detto che il testo del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo si divide in due parti ben distinte: la prima parte (dal versetto 1 al 17) è caratterizzata, come abbiamo studiato, dalla parola-chiave “genealogia (tôledôt)” che è un termine significativo per la “nuova corrente ebionita”. Mentre la seconda parte del testo del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo (dal versetto 18 al 25) è caratterizzata dalla parola-chiave “parthènos”. La parola greca “parthenos parthènos” significa “vergine” nel senso di “ragazza in età da marito”. La parola “parthènos” emerge nel testo dei versetti 22 e 23 del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo, leggiamolo questo testo: «E così si realizzò quel che il Signore aveva detto per mezzo del profeta Isaia: “Ecco la vergine (parthènos,  la ragazza in età da marito) sarà incinta, partorirà un figlio ed egli sarà chiamato Emmanuele”. Questo nome significa: “Dio è con noi”».

     L’autore della versione finale del Vangelo secondo Matteo risulta essere uno scrivano ebreo della “nuova corrente ebionita” ma è anche un intellettuale di cultura ellenistico-alessandrina il quale sa benissimo che il pensiero della “corrente gnostica” – che è fortemente influenzata dalla cultura greca – coltiva l’idea che l’incarnazione di Gesù (la Parola di Dio che si fa carne) sia avvenuta tramite un intervento divino sul corpo di una donna la quale, di conseguenza, deve avere delle caratteristiche particolari, deve possedere delle virtù che la rendano (serva, collaboratrice) degna di entrare in contatto con la divinità. L’autore della versione finale del Vangelo secondo Matteo sa che la cultura greca – la tradizione orfico-dionisiaca – ha fornito alla “corrente gnostica” l’elemento principale che avvicina una donna alla divinità: la verginità. Le dèe greche hanno la prerogativa di essere “vergini” e questa situazione fa la differenza, crea la distinzione tra le dèe immortali e le donne mortali le quali sono costrette a subire, con la perdita della verginità, tutti gli inconvenienti del loro ruolo: deflorazioni spesso non desiderate, defaticanti gravidanze, dolorosi e pericolosi parti, spossanti svezzamenti di una numerosa prole. La verginità è, quindi, oltre che una virtù, un “privilegio” che viene attribuito anche a Maria di Nazareth. Il processo di divinizzazione della figura di Maria assume peculiarità ancora più complesse perché, come nel mito orfico di Latona – una fanciulla ingravidata da Zeus che viene trasformata in dea (un mito che abbiamo studiato qualche anno fa in compagnia di Erodoto) – anche Maria di Nazareth assume su di sé la dote di essere “vergine e madre”: ma questo tema, che si chiama “iperdulia (deificazione) di Maria”, fa parte di un’altra storia che si sviluppa nei secoli e che ristudieremo a suo tempo.

     Ora questa storia la osserviamo nel suo punto di partenza, nel momento in cui l’autore del Vangelo secondo Matteo sa che l’idea della “concezione divina” di Gesù di Nazareth (un’idea forte sul terreno dell’Ellenismo, che prende sempre più campo) se non verrà orientata in senso ebionita – se non sarà contaminata dalla cultura ebraica – finirà col prevalere, creando uno squilibrio dottrinale che non gioverà neppure alla “corrente gnostica” e allora decide di compiere una (spregiudicata) operazione filologica e introduce – con il testo dei versetti 22 e 23 – la citazione che abbiamo letto. Questa citazione la trae dal Libro di Isaia e corrisponde al versetto 14 del capitolo 7. Leggiamo come si presenta il testo di questa citazione sul Libro di Isaia: «Ebbene il Signore vi darà lui stesso un segno. Avverrà che la giovane ragazza [almah], incinta, darà alla luce un figlio e lo chiamerà Emmanuele [Dio con noi]». Questo frammento fa parte di uno dei poemetti che compongono il Libro di Isaia: i capitoli dal 7 al 12 del Libro di Isaia prendono il nome di “Poemetto del segno dell’Emmanuele” o di “Libretto dell’Emmanuele”.

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Andate a leggere, o a rileggere, il testo di questo celebre poemetto: sono cinque pagine

     Questo poemetto racconta che: in un momento di grande incertezza la nascita di un bambino che si chiama Emmanuele – segno della presenza di Dio – porta una luce, porta una buona notizia. Il profeta Isaia – per volontà del Signore – deve comunicare al re Acaz, al quale si chiede di convertirsi, di cambiare stile di vita (“Sta’ attento, non ti agitare!”, si legge nel testo), proprio perché, nonostante lui dimostri di non essere degno, il Signore tuttavia gli ha affidato un compito, anche se, veramente, più che a lui il compito lo ha affidato ad una ragazza (la giovane moglie di Acaz?) di cui non conosciamo il nome, ma solo – anche perché questa figura viene fatta comparire in un modo un po’ misterioso – il suo appellativo, “almah” che, come sappiamo, in ebraico significa “giovane donna in età da marito”, e non si parla, quindi, propriamente di una “vergine”, di una donna non deflorata. Il bambino che nasce – l’Emmanuele – è il futuro re Ezechia che sarà, insieme a Giosia, il più virtuoso dei re ebrei e, a suo tempo ne abbiamo studiato la storia.

     Il termine “almah” – che nella traduzione greca dei Settanta viene reso con il termine “parthénos” che corrisponde anche alla parola “vergine” – viene utilizzato dall’autore del Vangelo secondo Matteo per richiamare, in modo allegorico, la figura di Maria di Nazareth: se la madre di Gesù ha da essere una ragazza, una “vergine” – idea invisa agli ebioniti – questo concetto deve, per lo meno, avere un aggancio con la Letteratura beritica, con il genere letterario dei profeti.

     L’autore del Vangelo secondo Matteo ha dovuto limare il testo di Isaia per dare forma alla sua citazione prima di tutto perché non aveva scelta: l’unico frammento appropriato che, tradotto in greco, potesse permettergli di utilizzare la parola “vergine” come lui voleva era questo, ci sarebbe stato anche un altro frammento ma non era proprio adatto.

     È difficile trovare nella Letteratura vetero-testamentaria una citazione che “esalti la verginità” perché nella cultura beritica – e nella mentalità ebionita – non si concepisce per le donne il voto di castità e nella lingua ebraica ci sono due termini che definiscono questo concetto: la parola “almah” che significa “vergine” nel senso di “ragazza (dall’età del menarca) che è diventata feconda e, quindi, è in età da marito, non ancora deflorata”, e la parola “betulàh” che significa “donna non deflorata” nel senso dispregiativo del termine, come dire “zitella, pinza, non voluta”. Nella Letteratura beritica (biblica) viene usata sempre la parola “almah” e anche nel testo di Isaia si trova questo termine che è stato tradotto in greco con la parola “parthènos” (il Partenone, la Casa delle vergini, è il college delle ragazze da marito dell’Atene aristocratica di 2500 anno fa).

     Ma se consultiamo una Bibbia – per esempio quella in “lingua corrente” redatta dopo il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo – possiamo osservare che, nelle note, gli esegeti sono molto cauti nel commentare in senso “cristologico” questo versetto tratto dal testo del Libro di Isaia. Le note che spiegano questo versetto mettono in evidenza che l’autore del testo del Vangelo secondo Matteo ha voluto non solo creare una “similitudine” ma ha voluto fare una precisa “affermazione”, ha voluto ribadire che anche la “concezione divina di Gesù” di impronta gnostica deve essere supportata dalla cultura vetero-testamentaria perché, secondo la visione ebionita, Gesù è, inanzitutto, un “rabbi ebraico” e non potrà mai essere un semi-dio greco.

     La costruzione letteraria della figura del Cristo della fede è una straordinaria operazione intellettuale di mediazione tra la cultura dell’ebraismo e la cultura greca: il testo del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo è tra i primi esempi concreti dello sviluppo di questa straordinaria operazione di mediazione culturale che comincia a svilupparsi negli anni 80, mentre vent’anni prima, al tempo di Paolo di Tarso, negli anni 50 e 60 del primo secolo, non c’era ancora alcun indizio – né nelle comunità della diaspora, né nelle ekklesìe – che facesse pensare al fatto che il Cristo della fede potesse essere nato da un “vergine”.

     Abbiamo detto che l’autore del testo del Vangelo secondo Matteo, per la sua operazione di “mediazione culturale”, sceglie l’unico frammento appropriato che, tradotto in greco, potesse permettergli di utilizzare la parola “vergine” come lui voleva, senza eccessivi fraintendimenti. Abbiamo anche detto che questo autore non aveva molta scelta: ci sarebbe stato anche un altro frammento (che sicuramente l’autore del Vangelo secondo Matteo ha preso in considerazione) dove la parola “vergine” è in evidenza, e interagisce anche con il nome di Davide, ma il brano in questione non risultava adatto per creare l’allegoria appropriata.

     Nell’incipit del Primo Libro dei Re (andate a curiosare) si narra della vecchiaia del re Davide (e del gran freddo che patiscono i vecchi) e qui compare il personaggio della Sunamita, che ha sempre incuriosito scrittrici e scrittori di ogni tempo. Chi è la Sunamita dell’incipit del Primo Libro dei Re? (Sì perché c’è anche una Sunamita nel Secondo Libro dei Re, una ricca signora alla quale il profeta Eliseo fa risorgere un figlio: ma questa è un’altra storia). Ora abbiamo solo il tempo per dire che la Sulamita dell’incipit del Primo Libro dei Re è una bellissima ragazza, originaria di Sunem, un piccolo villaggio della Galilea orientale, che si chiama Abisag ed è una “vergine”, una vergine doc, a denominazione di origine controllata (è anche la “vergine-madre” di tutte le badanti).

     Il viaggio continua e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona – come direbbe la Sunamita – deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 6, 2011