Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale] 25-26-27 maggio 2011
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO
C’È LA CONTROVERSIA IN GALAZIA …
Strada facendo siamo giunte e siamo giunti anche all’ultimo itinerario di questo viaggio di studio, di questo Percorso di alfabetizzazione culturale in funzione della didattica della lettura e della scrittura, che si è svolto all’interno del vasto territorio dell’Ellenismo: in quella parte di questo territorio che le studiose e gli studiosi di filologia hanno chiamato “di stampo evangelico”. L’Ellenismo è un complesso movimento di carattere “sapienziale e poetico” che nasce nel vasto spazio euro-asiatico compreso tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico e che si sviluppa fino al V secolo d.C. (poi, convenzionalmente, ha inizio quella che si chiama l’Età di mezzo).
Nel Percorso del prossimo anno scolastico (speriamo di poterlo effettuare…) avremo ancora una serie di paesaggi intellettuali da osservare di questo complesso ed eterogeneo movimento culturale che chiamiamo Ellenistico in modo da poter entrare nel vastissimo territorio dell’Età di mezzo con le indispensabili competenze di base per poter tenere il passo sul cammino della Storia del Pensiero Umano che è “la disciplina” propedeutica essenziale in funzione della didattica della lettura e della scrittura: senza conoscere le parole-chiave e le idee-cardine della Storia del Pensiero Umano l’esercizio della lettura e della scrittura non può avere il necessario respiro per espandersi in quello spazio potenziale che Aristotele (con la morte di Aristotele ha inizio l’Ellenismo) chiama l’Intelletto Universale, un’eredità di cui noi dobbiamo poter usufruire.
Da ottobre – come ben sapete – stiamo viaggiando in compagnia di un importante scrittore dell’ellenismo greco, Paolo di Tarso, che è l’autore di uno dei più celebri Epistolari della Storia del Pensiero Umano: un’opera che si colloca agli albori della Letteratura dei Vangeli, quest’opera è stata (se così si può dire) la nostra bussola. Sappiamo che lo studio degli argomenti contenuti nelle Lettere di Paolo di Tarso è anche propedeutico (preparatorio) alla lettura dei romanzi dell’età moderna e contemporanea perché i temi trattati da questo scrittore – con le “sentenze” che ne derivano – danno origine ad una riflessione dalla quale scaturisce un glossario (un catalogo di parole-chiave) che ha inciso profondamente anche sulla Storia della Letteratura. La Scuola pubblica deve occuparsi dell’Epistolario di Paolo di Tarso in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
La scorsa settimana abbiamo cominciato a mettere in evidenza alcuni aspetti della Lettera ai Galati: sono state evidenziate alcune “chiavi” per poter favorire la lettura del testo di quest’opera. Il testo della Lettera ai Galati è un documento fondamentale per conoscere e per capire che cosa sia la cosiddetta “controversia in Galazia”: un tema importante perché riguarda un aspetto significativo della cultura dell’Ellenismo di cui Paolo di Tarso è un attento interprete.
In che cosa consiste la famosa “controversia in Galazia”? All’inizio degli anno 50 Paolo si trova a Efeso (lì trova lavoro) e, forse nell’anno 54, giungono nell’ekklesìa di Efeso (sappiamo che cosa sono le ekklesìe) – che si riunisce nella confortevole biblioteca di questa città e che Paolo frequenta – notizie molto sgradevoli dalla Galazia: che cosa è successo? È successo che coloro i quali, nelle ekklesìe della Galazia, si erano schierati con Paolo nell’interpretazione della “buona notizia” della risurrezione di Gesù hanno cambiato idea e si sono avvicinati alle posizioni degli ebioniti che non concepiscono la figura del Cristo della fede se non fortemente legata alla ritualità dell’ebraismo.
La prima domanda, però, che ci viene in mente di fronte a questa situazione è: che posto è la Galazia, dov’è questa terra che troviamo sulla “carta” dei viaggi di Paolo di Tarso? A questo punto dell’anno un viaggio in Galazia sarebbe auspicabile.
La Galazia è una regione storica dell’Asia Minore che si trova tra la Bitinia, il Ponto, la Cappadocia e la Frigia – siamo nel cuore dell’odierna Turchia – e da quelle parti lì mille anni avanti Cristo ci abitavano le tribù dei Galati che si chiamavano anche Galli Tolisto-Bogi quelli che abitavano a occidente della regione, Galli Tecto-Sagi che abitavano al centro e Galli Trocmi che abitavano a oriente …ma lasciamo perdere questi nomi: li abbiamo nominati per dire che il mondo è bello perché è vario! Dobbiamo sapere che le tribù dei Galati o Galli sono parenti, sono dello stesso ceppo, di quei Galli che popoleranno il territorio dell’odierna Francia (gli antenati di Asterix e Obelix) fino al Portogallo. I Galati sono anche parenti dei Liguri e di quelle popolazioni tribali che, mille anni a.C., vivevano in tutta l’Italia del nord, dalle Alpi fino all’Arno (a sud dell’Arno c’erano gli Etruschi). Come c’insegnano le studiose e gli studiosi di antropologia culturale i Galati, i Galli, i Liguri vivevano strutturati in tribù nomadi che si muovevano all’interno di un determinato territorio dove praticavano la pastorizia e una forma rudimentale di agricoltura. Vivevano di un’economia “primaria”, di “raccolta selezionata”: raccoglievano, cacciavano, pescavano nei limiti del loro bisogno, cercando di tener conto, in modo tassativo, dei cicli vitali della Natura, dei ritmi della Terra e capivano istintivamente che, per poter continuare ad usufruire dei beni prodotti dalla Natura, era necessario mantenere l’equilibrio. Questo modo di fare li ha portati a sviluppare un pensiero che è stato chiamato “animistico”: credevano, infatti, che la Terra possedesse al suo interno uno “spirito vitale” e che in tutte le cose – nelle persone, negli animali, nei vegetali – ci fosse un’anima con la quale era necessario riconciliarsi nel momento in cui si consumava la materia di quel prodotto naturale: animale, vegetale o minerale che fosse.
Per capire meglio il pensiero “animista” dei Galati, dei Galli, dei Liguri possiamo usufruire della testimonianza letteraria dei loro eredi più vicini a noi: i Pellerossa americani e, a questo proposito, possiamo leggere la Preghiera allo Spirito del bisonte di Alce Nero sciamano della tribù dei Sioux Orlala. Questo testo è stato raccolto nel 1930 e conservato anche per noi: leggiamo.
LEGERE MULTUM ….
Alce Nero sciamano della tribù dei Sioux Oglala, Preghiera allo Spirito del bisonte
Noi ti dobbiamo mangiare, o grande bisonte, e per questo motivo ti amiamo.
Ma prima di consumare la tua carne saporita facciamo una cerimonia, in tuo onore.
Mentre cantiamo e balliamo in tuo onore, bruciamo e offriamo il tuo cuore
al grande Spirito dei bisonti, perché tu ti ricongiunga con lui.
Mangiando te, anche noi mangiamo l’erba più fresca che tu hai mangiato
nel pascolo d’oro. Perché a te spetta! Mangiando te, anche noi beviamo l’acqua
più limpida che tu hai bevuto nel fiume d’argento. Perché a te spetta!
Mangiando te, anche noi acquistiamo la libertà del vento che tu hai acquistato
nella prateria immensa. Perché a te spetta! Mangiando te, anche noi possediamo
la forza del tuono che tu possiedi nella corsa selvaggia. Perché a te spetta!
Noi ti dobbiamo mangiare, o grande bisonte! Sia tua tutta l’erba più fresca,
sia tua tutta l’acqua più limpida, sia tua tutta la libertà del vento,
sia tua tutta la forza del tuono. In te vive lo Spirito della Natura, da te lo riceviamo,
e noi, che ti dobbiamo mangiare, ti amiamo, o grande bisonte! …
Adesso, sulla scia di questa riflessione (la preghiera che abbiamo letto è molto “eucaristica” nel senso filologico del “rendimento di grazie”), facciamo un salto geografico per accennare ad un tema significativo che si presenta parallelo a questo.
Sempre nello stesso periodo di tempo, mille anni a.C., più a sud, in Medio Oriente, vivevano con lo stesso sistema le tribù cananee (tremila anni fa i tre quarti della popolazione del Pianeta viveva con il sistema tribale). Voi sapete già che la tradizione orale che si forma in seno alle tribù cananee diventa “materiale” di carattere poetico che è servito nel processo di creazione dei testi della Letteratura beritica (biblica). Facciamo un esempio “tipico (come direbbe Paolo di Tarso)” a proposito del rapporto che c’è tra l’antropologia culturale e la nascita di un grande apparato letterario come quello dell’Antico Testamento: la proposizione di questo esempio non è casuale perché ci serve per capire meglio ciò che diremo in seguito. Tutte noi e tutti noi abbiamo in mente l’idea-cardine legata alle parole “Terra promessa”. La “Terra promessa” è una terra “dove scorre latte e miele” – così leggiamo nella Letteratura dell’Antico Testamento – e questa idea (sostenuta da questa dolce metafora) s’incentra in un preciso contesto antropologico (di carattere tribale): si desidera, si sogna e si racconta di una terra “benedetta” che possa dare da vivere senza dover fare tanta fatica la vita tribale per procurarsi il cibo senza alterare l’equilibrio della Natura è molto dura). C’è questo pensiero nell’immaginario di quella gente che vive in tribù, c’è una profonda aspirazione dettata da questo faticoso contesto di vita: aspirano a poter fare un patto con un grande Spirito, con un Essere superiore capace di promettere e di dare loro una “terra benedetta dove scorre latte e miele”. Così – all’interno di questi contesti antropologici – si forma il substrato mitico su cui germoglia la Letteratura beritica (la Letteratura biblica, così come succede per tutte le Letterature dell’Età assiale della Storia), come si legge nel Libro della Sapienza e nel Libro del Qoelet: “Il Signore parla e si fa sentire dentro alle profonde aspirazioni dell’umanità”. Ma, dopo questa digressione di carattere metodologico – per capire come nascono le idee –, torniamo ad occuparci delle tribù dei Galati.
Circa 2500 anni fa le tribù dei Galati creano dei punti di aggregazione sul loro territorio in luoghi dove periodicamente s’incontrano sia per motivi rituali sia per esigenze di scambio: scambio di prodotti, e tra questi prodotti ci sono anche le donne e in queste occasioni si celebrano i matrimoni. In questi luoghi d’incontro – che sono anche dei luoghi strategici –, con l’andar del tempo, sorgono dei “santuari” con la creazione di zone sacre: intorno a queste zone sacre verranno fondate le polis, le città. Sul territorio della Galazia, 2500 anni fa, ci sono alcune importanti città come Pessinunte e Ancora. La città di Pessinunte era la sede del famoso santuario della dèa Cibele (dèa della fecondità), oggi gli imponenti resti di questa città si trovano nel villaggio turco di Ballihisar.
Mentre la città di Ancyra si trova sull’altopiano anatolico e aveva fatto parte dell’Impero persiano prima che, nel III secolo a.C., venisse conquistata dai Galati. Nel 25 a.C., al tempo di Augusto, la città di Ancyra è entrata a far parte dell’Impero Romano ed è diventata il capoluogo della provincia della Galazia e tale era anche al tempo di Paolo di Tarso. Nei secoli successivi Ancyra comincia ad essere chiamata Angora (qui viene allevata una particolare razza di capre che danno un filato caldissimo e leggerissimo) e poi il nome di questa città si muta in Ankara (e così si chiama oggi). In seguito Ankara è stata una città governata dai Bizantini, dagli Arabi, dai Crociati, dai Selgiuchidi (una dinastia turco-iraniana), e persino dai Mongoli e tutti costoro hanno lasciato, in eredità, qualcosa di proprio. Nel 1414 Ankara entra a far parte dell’Impero ottomano e in questa città ci sono una serie di moschee del XIV e del XV secolo di grande valore artistico. Se oggi visitiamo l’interessantissimo Museo etnografico della città di Ankara possiamo prendere visione dei suoi vari strati così come noi ne abbiamo fatto l’elenco. Ad Ankara si possono vedere le mura e la cittadella bizantina e poi i resti del tempio romano di Augusto e la colonna di Giuliano l’Apostata e i grandi edifici dei Bagni romani: passeggiando per Ankara c’è un momento che ci si sente quasi a casa.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Prendete in biblioteca una guida della Turchia – o navigando in rete – e andate a visitare l’antica città di Pessinunte che oggi è il villaggio Ballihisar: andate a cercare informazioni sul Tempio di Cibele… Dopo fate una visita ad Ankara, l’antica Ancyra, e andate alla scoperta dei suoi monumenti: in che anno fu eretta e quanto è alta la colonna di Giuliano l’Apostata?…
Buon viaggio...
Stavamo dicendo che nel 54, a Efeso, giungono a Paolo di Tarso delle notizie molto sgradevoli dalla Galazia (dalle ekklesìe di Pessinunte e di Ancora), di che cosa si tratta? Si tratta di uno scontro particolarmente violento, una “controversia” che avviene nell’ambito dell’ekklesìa galata che riguarda – come sempre avverrà nella Storia della Cristianità – il ruolo di Gesù di Nazareth nella Storia della salvezza. Con il testo della Lettera ai Galati Paolo di Tarso vuole partecipare in modo molto deciso alla controversia e si vuole inserire nel dibattito in corso “con autorità” e, difatti, questa Lettera inizia con un’affermazione di principio: scrive Paolo:
LEGERE MULTUM ….
Lettera ai Galati 1, 1-5
Io, l’apostolo [l’inviato speciale] Paolo, scrivo alle ekklesìe della Galazia. Ai miei saluti unisco quelli di tutti i fratelli che sono con me: Dio nostro Padre e Gesù Cristo, il Signore, vi diano la pace. Io non sono apostolo [promotore culturale] perché lo vogliono gli uomini, e nemmeno per autorità di uomo. Questo incarico mi è stato dato da Gesù Cristo e da Dio che lo ha risuscitato dai morti. Gesù Cristo è colui che ha sacrificato se stesso per liberarci dai nostri peccati e per strapparci da questo mondo malvagio, perché così ha voluto Dio, nostro Padre. A Dio sia la gloria per sempre. Amen. …
Nel testo della Lettera ai Galati Paolo parte subito all’attacco: non è casuale il fatto che quest’opera inizi con il pronome personale “io” – che poi viene sistematicamente ripetuto per dare più forza al discorso – e ciò è giustificato dal fatto che il livello dello scontro in atto è molto alto. Perché Paolo insiste su quel: “Io sono l’inviato speciale, io sono il promotore culturale per volontà di Dio”? Paolo insiste perché nelle ekklesìe della Galazia – ma non solo della Galazia – c’è chi dice (i più) ironicamente: “Ma chi è quello lì, chi si crede di essere, chi rappresenta, che autorità ha?”. Se si legge il testo della Lettera ai Galati – e la Scuola propone di fare questo esercizio – si capisce che Paolo è in forte contrasto con la corrente più intransigente degli ebioniti ma è anche, soprattutto, in contrasto con coloro i quali (e Paolo scrive a uno di questi) che, quando era stato da quelle parti, dicevano di pensarla come lui. Gli ebioniti – come sappiamo – riconoscono a Giacomo, il fratello del Signore, l’autorità nella gestione dell’eredità spirituale di Gesù in quanto rabbi ebraico. Gi ebioniti più intransigenti hanno sempre non riconosciuto a Paolo quell’autorità di apostolo – nel senso di “inviato speciale”, di “promotore culturale” – che lui rivendica con decisione.
Paolo attacca esigendo che gli venga riconosciuta l’autorità del suo pensiero per il fatto che lui mette per iscritto – secondo la Tradizione degli scrivani d’Israele – la “natura” e la “qualità” delle sue idee: perché quelli che lo contrastano (inveisce Paolo) non scrivono? Perché si limitano a controbattere citando la Legge di Mosè senza interpretarla alla luce del nuovo scenario dato dall’Ellenismo. Paolo ritiene che Gesù, il Cristo della fede, non sia soltanto l’immagine del “Servo di Jhwh” (così come la presenta il Libro di Isaia): A Paolo piace l’immagine del “Servo di Jhwh” ma dissente dalla mentalità ebionita perché utilizza questa immagine per mettere in primo piano il nazionalismo ebraico in modo da esaltare e da favorire la chiusura verso tutto ciò che è diverso. Paolo, al contrario, pensa che Gesù, in quanto Cristo della fede, sia il “liberatore” capace di affrancare la persona umana – di qualunque nazionalità essa sia – dal male universale e cosmico. Gli ebioniti più intransigenti sostengono (e questo lo capiamo da quello che scrive Paolo) che non poteva bastare affidarsi a questo “Cristo” di carattere ecumenico e internazionalista per salvarsi, ma occorreva osservare, prima di tutto, la Legge giudaica e imporre la circoncisione. L’atteggiamento intransigente degli ebioniti fa sì che lo scontro si radicalizzi e Paolo, di conseguenza (la sua mentalità farisea non è meno intransigente), mette a punto, nero su bianco, la sua posizione ideologica e passa all’attacco. Quali sono i punti salienti della sua posizione?
Paolo sostiene che la “buona notizia” della risurrezione (eu-anghelon, il vangelo) è come se fosse un contenitore colmo di “grazia” perché il Cristo della fede la salvezza la dona “karis dhosmènos” – in latino “gratis data” – vale a dire “gratuitamente”. Questa è una grande novità perché tanto nella cultura ebraica quanto in quella greca qualcosa bisognava pagare – qualcosa bisognava sacrificare (il conto lo facevano i sacerdoti e si sapeva che Gesù aveva scacciato i mercanti dal Tempio) – per avere il favore divino. Nel testo della Lettera ai Galati Paolo propone un tema molto significativo che apre, nel primo secolo, un dibattito di grande importanza che durerà a lungo sul territorio dell’Ecumene (e che dura tuttora): il tema della “gratuità”. Paolo nel testo della Lettera ai Galati imbastisce una riflessione sul principio della “gratuità”. Paolo vuole mettere in evidenza il fatto che l’espressione “karis dhosmènos (in greco)”, “gratis data (in latino)”, “elargita gratuitamente” è un principio che non corrisponde solo al concedere “qualcosa” senza farla pagare. La “gratuità” – afferma Paolo – è una virtù, è un imperativo etico (“gratuitamente avete ricevuto, quindi, gratuitamente date”), perché un Valore (una virtù) non può che manifestarsi nella “gratuità”: un Valore (una virtù), infatti, non si compra, i Valori non sono merce vendibile e il principio della “gratuità” è anche una discriminante per capire se una “cosa” è un Valore o non lo è. Paolo allude al fatto che l’apprendimento del “concetto di gratuità” possa dare un senso di nobiltà anche alle attività del vendere e del comprare che hanno la loro utilità proprio se non hanno risvolti speculativi. La superficiale affermazione: “valgono solo le cose che si pagano” non tiene conto del fatto che, culturalmente, il massimo della qualità non ha prezzo: il massimo della qualità coincide con la gratuità! Il testo di Paolo insegna che è necessario imparare a fare la distinzione tra “oggetti di lusso (prodotti di una mentalità fondata sul possesso e sull’ostentazione)” e “cose di qualità” (frutti della vera ricchezza, quella intellettuale)”.
Noi abbiamo perduto il senso rivoluzionario contenuto in queste riflessioni paoline, come quella che prevede di non dover “sottostare a vincoli”. Il Cristo della fede – afferma Paolo nella Lettera ai Galati – dona la salvezza gratuitamente senza che si debba sottostare né a certi vincoli imposti della Legge giudaica, che ormai hanno fatto il loro tempo come la regola della circoncisione (che vale in quanto regola igienica), né ai rituali cruenti dei vari riti esoterici né a tutto ciò che – nell’ambito dell’Ellenismo greco – si manifesta come qualcosa di chiuso nel recinto asfittico della “religione” ebraica o greca che sia. Noi riceviamo la “grazia (la karis, il carisma)” – afferma Paolo – nel momento in cui proclamiamo l’annuncio, ed è la proclamazione dell’annuncio (eu-anghelon, il vangelo) che, a sua volta, sparge e infonde la “grazia (la karis, il carisma)”.
Per affermare questo concetto Paolo utilizza (continua ad utilizzare) le stesse armi degli avversari (gli ebioniti più intransigenti) secondo la tradizione della Letteratura di “stampo polemico” nata nelle ekklesìe durante lo scontro epocale, durato qualche secolo, tra filotraduzionisti e controtraduzionisti (un argomento che abbiamo studiato a suo tempo). Paolo scrive e invia la sua Lettera a qualcuno che in Galazia saprà diffondere il suo pensiero nelle ekklesìe attive in questa regione (a Pessinunte e ad Ancora) e si rivolge, soprattutto, alla vasta area degli “ospiti pagani (i metuentoi, e conosciamo questo tema)”.
Paolo costruisce un ragionamento che possiamo riassumere così: la risurrezione (anastasis) di Gesù, se è avvenuta, è il frutto di una scelta divina, ed è una scelta divina – spiega Paolo – anche il fatto che la risurrezione di Gesù non sia avvenuta in maniera eclatante: né con manifestazioni di regalità, né con manifestazioni di divismo, né con il manifestarsi di eventi miracolosi. La scelta divina (sostiene Paolo) è stata quella di presentare la risurrezione di Gesù come un messaggio, come una notizia, come un semplice annuncio in modo tale che il compito degli apostoli (dei promotori culturali) sia quello (afferma Paolo) di confezionare questo messaggio e di presentare questo annuncio sotto forma di “sentenze”: sono le “sentenze” che rendono esplicito il linguaggio e il pensiero divino, altrimenti incomprensibile. È il genere letterario della “sentenza” (ribadisce Paolo) la maniera attraverso la quale, per Tradizione, il sacro si manifesta, e tutti ci dobbiamo convincere (insiste Paolo con determinazione) che l’oggetto di culto – in greco “misterion misterion” – è l’annuncio stesso della risurrezione. L’annuncio della bella notizia della risurrezione (afferma Paolo) è il “mistero della fede”, cioè è l’unico culto credibile, è l’unico rito possibile, e Paolo contesta il fatto che la “buona notizia” della risurrezione possa rimanere chiusa nei recinti della religione e del nazionalismo e contesta la segretezza delle formule magiche dei culti esoterici: il “mistero della fede” va annunciato pubblicamente (Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione consapevoli che tu sei in mezzo a noi)”.
Quando annunciamo e proclamiamo il “mistero della fede” (afferma Paolo) succede che noi riceviamo carisma e infondiamo carisma. Che cos’è il “carisma”? Il “carisma” è grazia divina, dono spirituale, autorevolezza, influenza positiva, buon credito, fascino, buona reputazione (virtù intellettuali e virtù civiche). La scelta divina (afferma Paolo) è stata quella di averci donato (eucharizein) come “cosa sacra” non la successione al rabbinato di Gesù (come stanno sostenendo gli ebioniti) ma la “buona notizia della risurrezione”. Quindi (ribadisce Paolo) se il culto, il rito, il mistero si risolve nell’annuncio di questa “buona notizia” significa che – per volontà di Dio – la “religione”, in tutti i suoi aspetti sacrali (potere, segretezza, iniziaticità) è abolita. Chi ascolta l’annuncio: eredita.
E la “fede” (afferma Paolo) si presenta, quindi, come l’esplicitarsi di un nuovo “stile di vita” in cui, mentre si proclama la risurrezione di Gesù, ci si sente già risorti, “carismatici”, colmi di grazia di Dio, predisposti al bene. Di conseguenza l’apostolo (afferma Paolo) è l’inviato speciale, è il promotore culturale che ha il compito, che ha la missione di rappresentare con la scrittura questo “annuncio” .
Dopo questo ragionamento Paolo porta il suo attacco utilizzando le stesse armi degli ebioniti e, con parole dure, afferma: «Io, che con la scrittura ho dato voce a questa “buona notizia (al vangelo)”, ho acquisito autorità (carisma) e, quindi, chi mi contraddice falsifica i termini di questo annuncio salvifico e merita le stesse “maledizioni” che promette il Libro del Deuteronomio a chi trasgredisce la Legge di Mosè».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Nella “Lettera ai Galati” emerge un’idea esistenziale molto significativa: l’annuncio di una “bella notizia” è sempre un momento salvifico [un misterion]… Il problema su cui riflettere [e che riguarda la relatività della condizione umana] è: qual è il presupposto che fa di una notizia una “bella notizia”?…
Qual è stata l’ultima bella notizia che avete annunciato, e a chi?…
La riflessione di Paolo di Tarso fa emergere un altro argomento – di grande attualità – il tema della “potenza dell’annuncio” e poi il tema di quella che oggi ha preso il nome di “guerra degli annunci”. E questo è un altro motivo per cui il testo della Lettera ai Galati è considerato importante perché è uno dei motori – sotto il profilo filologico – che ha portato alla nascita e allo sviluppo del Cristianesimo.
Le studiose e gli studiosi di filologia fanno risaltare il fatto che il pensiero di Paolo sul tema della “potenza dell’annuncio” ha fatto scuola nell’ambito delle ekklesìe. Paolo è stato fortemente contestato dalla maggioranza di coloro che, sul territorio dell’Ellenismo, stanno predicando la “buona notizia” della risurrezione di Gesù ma è stato, però, capace di costruire una serie di “forme” che hanno dato vigore e respiro alla costruzione della dottrina di quel movimento che (dagli anni 90) verrà chiamato Cristianesimo. Una “forma” è un contenitore e (come ci ha insegnato Kant) senza una “contenitore” la sostanza si disperde. Le studiose e gli studiosi di filologia ci dicono che dal testo della Lettera ai Galati si capisce che anche le altre correnti (gli ebioniti in particolare, che negli anni 50 sono in maggioranza) mettono a punto i loro “annunci” seguendo il modello (la forma) che Paolo è stato capace di divulgare. La bontà della “controversia in Galazia” sta nel fatto che tutti i contendenti sono stati costretti – dall’incisività della riflessione di Paolo che abbiamo illustrato – a utilizzare la stessa “forma” per confezionare il messaggio contenente il “mistero della fede” e questo ha fatto sì che l’essenza della “buona notizia” non si sia dispersa: la “buona notizia” ha mantenuto unitarietà di forma nella pluralità dei contenuti.
La “controversia” – sebbene sia caratterizzata da toni assai aspri – si manifesta dentro ad un perimetro ben preciso tracciato da Paolo, all’interno del quale i differenti contenuti dell’annuncio della morte e della risurrezione di Gesù trovano la loro ragion d’essere e la loro potenza: il “mistero della fede” viene ad assumere una forma ben precisa sebbene contenga una sostanza che si diversifica, che cosa significa? Significa che l’annuncio confezionato da Paolo viene contestato nel contenuto ma chi lo contesta è costretto a ricalcarne la forma e a subirne la potenza. Paolo dice che il mistero della fede (“l’essenza del nostro culto, la sostanza di tutti i nostri riti”, scrive Paolo) sta nella potenza di questo annuncio: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione consapevoli che tu sei in mezzo a noi”.
Gli ebioniti contestano il contenuto dell’annuncio paolino – lo considerano insignificante e dispersivo – e propongono il loro annuncio (la loro ideologia) ricalcando però la forma data da Paolo e quindi rimangono imbrigliati nel ragionamento paolino tanto che, se noi ascoltiamo l’annuncio senza possedere chiavi di lettura non ne cogliamo la forte diversità. Per gli ebioniti il mistero della fede sta nella potenza di questo annuncio: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione in attesa del giorno in cui ristabilirai il Regno d’Israele”.
Non credo ci sia bisogno di dare ulteriori spiegazioni: per Paolo Gesù è un rabbi internazionalista che parla a tutta l’Ecumene, per gli ebioniti, invece, il rabbi ebraico Gesù di Nazareth parla esclusivamente al mondo giudaico.
Per concludere questa riflessione dobbiamo dire che al primo Concilio di Nicea (nel 325 a.C.) il mistero della fede trova una sua stabilizzazione con un efficace compromesso: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione in attesa della tua venuta”, ma, come sapete, siamo nel IV secolo e questa è un’altra storia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale parola vi fa venire in mente il termine “annuncio”?...
Scrivetela...
La “controversia in Galazia” riguarda, prima di tutto, il contenuto dell’annuncio che indica il senso da dare alla “buona notizia” della risurrezione di Gesù e Paolo, naturalmente, per prendere le distanze dal giudaismo nazionalistico degli ebioniti (“…proclamiamo la tua risurrezione, Signore, in attesa del giorno in cui ristabilirai il Regno d’Israele”] non può fare a meno, da fariseo, di utilizzare la cultura, la letteratura, i “tipi (tipoi)” dell’Antico Testamento e, a questo proposito – per capire la riflessione che abbiamo fatto – leggiamo un frammento significativo dall’incipit della Lettera ai Galati dove Paolo si scaglia contro i suoi, a cui sta scrivendo, perché hanno accettato l’annuncio degli ebioniti, e la “controversia in Galazia” si sviluppa, da parte di Paolo, su due fronti: un fronte contro la mentalità degli ebioniti, e un secondo fronte contro le scelte dei suoi amici che lo hanno tradito aderendo all’annuncio di carattere nazionalistico e legalistico degli ebioniti.
Leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Lettera ai Galati 1, 6-10
Mi meraviglio di voi! Dio vi ha chiamati a ricevere la sua grazia gratuitamente [karis dhosmènos] per mezzo di Cristo Gesù, e voi gli voltate così presto le spalle per ascoltare un altro messaggio di salvezza! In realtà un altro messaggio non c’è. Esistono soltanto altri che vi confondono le idee. Essi vogliono cambiare il senso della notizia della risurrezione di Cristo Signore. Ma sia maledetto chiunque vi annuncia una via di salvezza diversa da quella che io vi ho annunciata: anche se fossi io stesso o un messaggero venuto dal cielo. Sì, l’ho detto e lo ripeto: chiunque vi annuncia una salvezza diversa da quella che avete ricevuto, sia maledetto! …
Certamente, a prima vista, questo linguaggio di Paolo ci colpisce soprattutto quando fa ricorso con grande determinazione alle “maledizioni”. Ma noi già sappiamo che Paolo conduce la sua polemica contro gli ebioniti, e contro i suoi che hanno aderito alle tesi degli ebioniti, utilizzando le loro stesse armi che sono anche quelle che usa il “fariseo” Paolo di Tarso. Ebbene, se gli ebioniti vogliono imporre alla lettera la normativa giudaica nel proclamare la “buona notizia” della risurrezione di Gesù, Paolo risponde elaborando il suo commento, confezionando la sua dottrina e mettendo in evidenza che la Legge non è finalizzata al nazionalismo, non è destinata alla chiusura nel recinto della propria etnia ma esalta i valori della “comunità umana” nel suo insieme così come hanno già fatto gli scrivani che – dopo l’esilio babilonese – hanno composto i testi dei Libri dei profeti. Nei Libri di Isaia, di Geremia, di Ezechiele si aspira ad un cambiamento della società in senso universale, addirittura ad una trasformazione (ad una redenzione) cosmica della realtà.
Quando Paolo utilizza la parola-chiave “maledizione” mette in moto una “legenda (qualcosa che deve essere letto)”, cioè richiama l’imperativo che si debba andare a leggere la Letteratura beritica (dell’Antico Testamento). Con il termine “maledizioni” Paolo mette sul tavolo della polemica il Libro del Deuteronomio cioè il testo in cui – dopo l’esilio babilonese e con la nascita, forzata dall’Editto di Ciro (539 a.C.), del nuovo Regno d’Israele – gli scrivani riordinano e commentano la Legge alla luce di quella nuova situazione.
Il Libro del Deuteronomio è formato da 34 capitoli di norme – andate a sfogliarlo e a leggere, per prima cosa, i titoli degli argomenti normativi – ma la bellezza di questo Libro sta nel fatto che le norme sono collocate all’interno del resoconto (scritto sotto forma di midrash, di testo cerimoniale) dei tre discorsi programmatici di Mose prima che il popolo entri nella Terra promessa e questo Libro si conclude con la significativa metafora della morte di Mosè che non può entrare in quella Terra. Perché – spiega Paolo, con grande acume esegetico – Mosè non è stato fatto entrare da Dio nella Terra promessa? Perché – allude Paolo – la figura di Mosè anticipa quella dell’Unto, del Cristo della fede a cui dobbiamo la salvezza e Mosè, quindi, appartiene all’Umanità intera, e la Legge di Mosè non può essere destinata a quella sola Terra promessa così circoscritta perché la Terra promessa è l’intera Ecumene, e il Deuteronomio sarà Legge per l’intera Ecumene proprio in virtù della risurrezione di Gesù: la risurrezione di Gesù non dipende dalla Legge – afferma Paolo – ma è la Legge che trova nuovo impulso dalla risurrezione di Gesù e anche le “maledizioni” che vi sono contenute hanno un loro senso. La Terra promessa – pensa Paolo – non è un luogo particolare perché l’annuncio della risurrezione “fa cadere le frontiere”: una Terra è “benedetta”, in essa “scorre latte e miele” quando – ribadisce Paolo – chi abita quella Terra rispetta le Leggi, quando tutte le persone che la abitano sono rispettosi delle norme su cui si fonda la “comunità umana” e non è lo Stato che fa la “comunità umana” ma è la “comunità carismatica” che dà senso allo Stato.
Nel testo del Libro del Deuteronomio troviamo molti elenchi di “benedizioni” e di “maledizioni” le quali non sono altro che la continua riscrittura dei “comandamenti” e al capitolo 27 troviamo l’elenco delle dodici “maledizioni” che Paolo, nel testo della Lettera ai Galati, vuole richiamare alla mente di chi legge.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Andate a sfogliare e a leggere, per prima cosa, i titoli degli argomenti normativi contenuti nel Libro del Deuteronomio…
E ora leggiamo questa pagina del Libro del Deuteronomio dove si elencano le “dodici maledizioni”: in questo testo le “maledizioni” diventano lo strumento attraverso cui si esaltano i valori della “comunità umana” vista nel suo insieme e questa è l’idea che Paolo vuole ribadire quando contesta il messaggio degli ebioniti che vincolano la risurrezione del Signore all’idea nazionalistica della ricostituzione del Regno d’Israele. Nel Libro del Deuteronomio l’Alleanza (il patto, la berit) con Dio – sostiene Paolo – riguarda l’Umanità intera.
Leggiamo:
LEGERE MULTUM ….
Libro del Deuteronomio 27, 14-26
I Leviti si rivolgeranno al popolo e pronunceranno a voce alta:
Maledetto chi scolpisce o fonde in metallo la statua di un idolo per adorarla di nascosto. Questi oggetti, fabbricati dagli uomini, sono una vergogna per il Signore! Maledetto chi disprezza il padre o la madre!
Maledetto chi sposta i confini di proprietà del suo vicino!
Maledetto chi indica a un cieco la strada sbagliata!
Maledetto chi devia il corso della giustizia per i propri interessi personali e a danno di uno straniero, di un orfano o di una vedova!
Maledetto chi si unisce a una delle mogli di suo padre!
Maledetto chi ha rapporti sessuali con qualsiasi animale!
Maledetto chi si accoppia con sua sorella!
Maledetto chi dorme con la suocera!
Maledetto chi uccide qualcuno di nascosto!
Maledetto chi accetta regali per uccidere un innocente!
Maledetto chi non osserva e non mette in pratica le leggi contenute in questi insegnamenti!
Tutto il popolo risponderà: Amen! …
Per ribadire che la Legge ha un respiro che riguarda l’Umanità intera Paolo fa riferimento ai testi dei Libri dei profeti e cita un brevissimo brano – che leggeremo in conclusione di itinerario – per farci capire come la sua riflessione sia coerente.
Paolo di Tarso, nel testo della Lettera ai Galati – e di questo tema ce ne siamo occupati la scorsa settimana –, racconta gli avvenimenti legati ad una questione che ha preso il nome di “controversia di Gerusalemme”: questa ulteriore “controversia” vede schierati da una parte Giacomo (il fratello del Signore) e dall’altra Pietro (il più autorevole dei discepoli del Signore) i quali litigano sull’acquisizione dell’eredità spirituale di Gesù facendo appello alla Legge di Mosè. In questa “controversia” s’inserisce Paolo perché noi sappiamo (lui stesso lo racconta nel suo Epistolario) che va a Gerusalemme a cercare informazioni su Gesù (e anche a portare i soldi di una colletta) e lì incontra separatamente Pietro e Giacomo e rimane sconcertato a causa della spiacevole situazione in cui viene a trovarsi. Paolo vorrebbe spiegare tanto a Giacomo quanto a Pietro che la fede in Gesù risorto non si misura sul numero o sul primato delle sue apparizioni e soprattutto vorrebbe spiegare loro che la fede nel Cristo risorto non consiste nel vivere secondo la Legge e assecondando le opere della Legge perché è scontato che tutti debbano rispettare la Legge, ma questo non basta: la fede nel Cristo risorto (afferma Paolo) presuppone un salto qualitativo, un nuovo stile di vita dove e, a questo punto, Paolo domanda a Pietro e poi a Giacomo se il “Signore risorto” sia apparso mostrando i segni della passione e loro due confermano questo fatto e questo dato (che poi nella Letteratura dei Vangeli verrà sviluppato) serve a Paolo per confezionare la sua “dottrina” sulla passione, sulla morte e sulla risurrezione di Gesù.
La fede nel Cristo risorto (afferma Paolo) presuppone che si viva e si interpreti la Legge senza ipocrisie come ha fatto Gesù il quale, scrive Paolo nel secondo capitolo della Lettera ai Galati: «Ha dato la vita per me (Paolo cita se stesso in polemica con quelli di Gerusalemme e con gli ebioniti) ed è per questo motivo che è stato adottato da Dio e Dio lo ha fatto risorgere con i segni della passione, e se noi seguiamo l’esempio di Gesù (afferma Paolo) anche noi meriteremo di essere adottati da Dio e avremo la percezione di vivere come se fossimo già risorti e potremo riconoscere su noi stessi i segni della passione, quindi (ribadisce Paolo), non sono le opere della Legge che, in quanto tali, danno la salvezza».
Con queste parole Paolo dà inizio ad una grande riflessione: la significativa riflessione sul tema della “giustificazione per fede”. Il pensiero contenuto in questo tema porta Paolo di Tarso su un terreno completamente nuovo: questo pensiero va oltre i concetti che sono stati espressi da tutte le più importanti correnti dell’ebraismo che s’incontrano e si misurano nelle ekklesìe. Paolo di Tarso costruisce un nuovo modello culturale che supera le visioni ristrette: quella degli Esseni, dei Sadducei, degli Zeloti, degli Ebioniti e della stessa corrente dei Farisei a cui Paolo si vanta di appartenere. Dalla riflessione di Paolo nasce un nuovo pensiero che è come se fosse una porta che si apre su un territorio finora inesplorato: ed è su questo territorio inesplorato che nascerà il Cristianesimo.
Dove e in quali termini si sviluppa la grande riflessione sul tema della “giustificazione per fede”? È bene capire l’importanza di questa questione (il tema della “giustificazione per fede” è legato alla domanda: ci si salva per fede oppure in virtù delle opere di carità?) e dobbiamo ricordarci che è soprattutto su questo tema che, all’inizio dell’Età moderna, nel corso della Riforma luterana (1517), la Cristianità e l’Europa si spaccano in due blocchi che non si sono mai più ricomposti (ma questa è un’altra storia da studiare in futuro).
Nel terzo capitolo della Lettera ai Galati il linguaggio di Paolo si fa sempre più duro e più crudo ma è proprio qui – all’intermo di questa polemica che ha preso il nome di “controversia in Galazia” – che si sviluppa una significativa intuizione che crea un’epocale svolta culturale. L’epocale svolta culturale operata da Paolo consiste nel dichiarare e nel sostenere che “il Cristo della fede è il legittimo discendente di Abramo”. Con questa “affermazione” – che fa diventare la questione dell’eredità spirituale di Gesù un argomento di natura universale e non un diverbio chiuso nel recinto del nazionalismo – Paolo completa il quadro delle attribuzioni, delle “sentenze” che sanzionano l’identità tra “quel Gesù (un rabbi fortemente legato alla sua cultura ebraica)” e il Cristo della fede (una figura universale non identitaria che si rivolge a tutta l’Umanità): Gesù Cristo – attraverso l’opera esegetica contenuta nell’Epistolario dello scrivano Paolo di Tarso – diventa prima il nuovo Adamo (la primizia della creazione), poi diventa il nuovo Mosè (il vero legislatore), poi diventa il discendente, nella carne, di Davide (dei re d’Israele) e, soprattutto, infine, diventa il discendente di Abramo (del padre dell’Umanità in cammino verso la terra dove scorre latte e miele, dove si realizza la giustizia e dove regna la misericordia). Questa idea forte – “il Cristo della fede è il legittimo discendente di Abramo” – ha scatenato al tempo di Paolo (negli anni 50 del primo secolo) una violenta polemica ma, successivamente, ha fatto sì che si sviluppasse un vivacissimo e fecondo dibattito intellettuale (ma questa è un’altra storia che è collocata in un altro territorio da attraversare in futuro).
Questa affermazione – “il Cristo della fede è il legittimo discendente di Abramo” – quali conseguenze ha nell’ottica della didattica della lettura e della scrittura? Questa affermazione fa sì che il testo della Lettera ai Galati si presenti come un ulteriore importante commento di carattere universale del Libro della Genesi. Il Libro della Genesi – scrive Paolo descrivendo anche la sua esperienza personale – ci racconta che Abramo ubbidisce ad una “voce interiore (ad un impulso del cuore)” e decide di muoversi dalla regione di Ur (in Mesopotamica) nonostante lui lì viva bene perché è ricco e potente: per quale motivo (si domanda Paolo) Abramo fa questa scelta e decide di partire? Chi glielo fa fare? Abramo (domanda Paolo in modo provocatorio) fa questa scelta in nome della Legge o in nome di un ideale, di una fede? Se Abramo (spiega Paolo) avesse seguito i dettami di una Legge cioè avesse dato retta a delle ragioni di carattere economico, sociale, di costume, di convenienza, non si sarebbe mosso di lì! Perché (spiega Paolo) Abramo sceglie di “mettersi in cammino” verso una “terra promessa dove scorre latte e miele” e che cosa significa (spiega Paolo) questa metafora confezionata come ammonimento dagli scrivani del Libro della Genesi?
Nel testo, di carattere cerimoniale, del Libro della Genesi (afferma Paolo) gli scrivani raccontano, con delle metafore molto significative, che Abramo ha fiducia in una promessa di salvezza di carattere esistenziale (fa una riflessione di carattere esistenziale che dobbiamo fare anche noi – dice Paolo – alla luce della “buona notizia” delle risurrezione di Gesù). Abramo è una persona (spiega Paolo) che ha raggiunto il benessere materiale ma è inquieto perché capisce (e Paolo s’identifica in questa situazione) che il suo benessere e quello della sua tribù non è un “ben-essere (il frutto della qualità della vita)” e Abramo è convinto che il problema della condizione umana non si risolva con la conquista del “benessere (nella quantità di cose materiali che si possiedono)”.
L’operazione di Paolo – che fa l’esegesi dei capitoli dal 12 al 17 del Libro della Genesi – è un’iniziativa coraggiosa perché costituisce un precedente per cui i Libri del Pentateuco, sebbene siano sacri, cessano di essere intoccabili. Paolo, negli anni 50, dà forza, con i testi delle sue Lettere, alla corrente culturale che pratica la “lettura allegorica”, una corrente che (con le Scuole del rabbi Gamaliele I) era già ben rappresentata nelle comunità della diaspora ebraica sul territorio dell’Ellenismo. Paolo ribadisce nelle sue Lettere – nella Lettera ai Galati in particolare – che i testi della Letteratura beritica (biblica) sono autorevoli proprio perché costituiscono materia di studio e questi testi (afferma Paolo) si presentano come una grande rapsodia (una raffinata ricucitura letteraria operata dagli scrivani) che prepara – storia dopo storia, racconto dopo racconto, personaggio dopo personaggio, metafora dopo metafora – l’annuncio della passione, della morte e della risurrezione del Cristo della fede.
Il compito dell’Apostolo, dell’inviato speciale, del promotore culturale, non è (afferma Paolo in polemica) quello di partecipare alla contesa sul primato delle apparizioni ma il compito dell’Apostolo (del promotore culturale) è quello di valorizzare ciò che Paolo chiama “la Tradizione” cioè il lavoro rapsodico delle varie categorie di scrivani in modo da poter dare una continuità a quest’opera perché è su questa strada che procede la storia della salvezza.
Abramo (scrive Paolo) confida nella “promessa” che Dio gli fa di condurlo in una “terra dove scorre latte e miele”, una “promessa” che il Cristo della fede ha portato a compimento: il fatto è (afferma Paolo) che la “terra promessa dove scorre latte e miele” è una metafora perché la “terra promessa” (pensa Paolo in termini ellenistici) è tutta la terra abitata, è l’intera Ecumene che, alla luce della risurrezione, può diventare “nuova”, una “terra nuova dove regna la bontà, la giustizia e la misericordia (ecco – spiega Paolo – che cosa raffigurano il latte e il miele”. “Quel Gesù” (afferma Paolo) ha agito come Abramo: non ha agito, prima di tutto, in nome della Legge ma si è mosso soprattutto avendo fiducia nella possibilità di valorizzare l’esistenza umana con la virtù della bontà perché la Legge – che ha, tuttavia, un’importanza fondamentale per la convivenza sociale – deve essere considerata come “un’aggiunta transitoria e imperfetta”, come uno “strumento pedagogico in trasformazione” e non come l’elemento salvifico per eccellenza. «Ci si salva per fede in Gesù Cristo risorto – scrive Paolo – cioè per la fiducia che dobbiamo avere di poter realizzare opere di Bene così come le ha realizzate “quel Gesù” in nome di Dio che è bontà e misericordia».
Paolo di Tarso non si è mai posto contro la Legge di Mosè: questa affermazione è solo una rozza semplificazione che spesso è stata fatta per motivi legati all’antisemitismo. Paolo di Tarso nel suo Epistolario non ha mai affermato che la Legge va abolita (e la Letteratura dei Vangeli farà pronunciare questa sentenza a Gesù: “Non sono venuto ad abolire la Legge ma a interpretarla in modo nuovo”), e non lo ha mai detto per due ragioni: la prima perché è un fariseo attaccato profondamente a questa Legge e poi per un motivo di opportunità perché non vuole lasciare spazio ai gruppi degli ebioniti fondamentalisti che lo accusano di voler abolire la Legge.
Paolo di Tarso polemizza violentemente nel sostenere l’idea che la Legge è un utile strumento ma di per sé non è un elemento salvifico, polemizza violentemente senza rinunciare a sentirsi fiero della propria origine perché crede fermamente nell’autorità della “scrittura” e la critica feroce di Paolo non è contro la Legge ma contro il “legalismo” che vuole ridurre le Leggi a un insieme di regole minuziose che finiscono, quasi sempre, per offuscare il principio su cui la Legge si basa che è quello di favorire lo sviluppo del “bene comune”.
Paolo di Tarso – secondo la sua formazione farisea – pensa che la Legge, in quanto codice sociale ed esistenziale, ha una funzione importante e, difatti, s’impegna a dare forma alla nuova visione del mondo che nasce dalla “buona notizia” della risurrezione di Gesù con una efficace opera di “carattere normativo”. Paolo – nei testi del suo Epistolario – prescrive moltissime “norme” per regolamentare la pratica quotidiana, e queste “norme” traggono la loro linfa, la loro forma e il loro contenuto, dalla tradizione della Legge di Mosè che è parte integrante della sua formazione culturale. Si deve dire che come legislatore Paolo cerca di utilizzare lo spirito migliore della Legge di Mosè e quando detta delle norme in nome di Gesù risorto tende a far emergere i principi universali contenuti in questa Legge.
Tutte le “norme” che Paolo suggerisce sono comprese nel contesto di una riflessione che parte da una domanda: a che cosa deve servire la Legge? La Legge – risponde Paolo – non può avere la funzione di rendere immobile la società ma deve proporsi l’obiettivo di cambiare il mondo perché così come è fatto a noi (scrive Paolo) non può piacere. La Legge deve essere un oggetto dinamico che, prima di tutto, deve servire a farci pensare e a farci agire in modo da liberarci dalla schiavitù del peccato (e il tema del “peccato” Paolo lo approfondisce nel testo della Lettera ai Romani e di quest’opera ce ne occuperemo il prossimo anno quando – prima di entrare nei territori dell’Età di mezzo – studieremo ancora una serie di questioni legate al movimento dell’Ellenismo, al cosiddetto Ellenismo di carattere imperiale).
Il “peccato” per Paolo è una caratteristica strutturale della condizione umana – il prossimo anno dedicheremo ancora un itinerario a Paolo e conosceremo anche qual è la parola greca che lui utilizza per definire il concetto del “peccato” (un concetto che ha caratterizzato buona parte della Storia del Pensiero Umano medioevale, moderno e contemporaneo), Paolo però non ci sarà infatti questa sera lo salutiamo perché lui ha ricevuto un avviso di garanzia e deve urgentemente (per sua fortuna) partire per Roma dove sarà processato e così noi da questa sera lo perderemo di vista, non perderemo però mai di vista i tratti caratteristici del suo pensiero contenuti nel suo Epistolario –, è una realtà della quale siamo vittime quando non riusciamo a rimuovere l’egoismo asociale che nutriamo (per natura?) verso le altre persone e quando non riusciamo a controllare la volontà di possesso che c’induce a desiderare di accumulare sempre più cose materiali.
La Legge serve, quindi, per mitigare l’egoismo individuale e per regolamentare la volontà di possesso: è attraverso questa strada – sostiene Paolo – che il mondo può cominciare a cambiare, ma, per Paolo, non basta la Legge. Per mitigare l’egoismo individuale e per regolamentare la volontà di possesso la Legge – sostiene Paolo nel capitolo 5 della Lettera ai Galati – deve avere un aspetto propositivo e quindi deve, prima di tutto, avere un ruolo di educazione piuttosto che di repressione: la Legge (scrive Paolo) deve educarci a praticare una serie di virtù che sono le virtù di Gesù risorto, le virtù che il Cristo della fede ci ha lasciato in eredità. E Paolo, nel testo del capitolo 5 della Lettera ai Galati, le enumera queste virtù: la solidarietà, la gioia, la pace, la clemenza, la bontà, la fedeltà, la mitezza, la prudenza, la benignità.
Qual è il fatto rilevante che emerge dall’enumerazione di queste virtù? Il fatto rilevante è che l’educarsi a praticare queste virtù è già prescritto dalla Legge di Mosè nel Libro del Deuteronomio, ma non solo, l’educarsi a praticare queste virtù è già prescritto da Platone nei testi dei suoi Dialoghi e poi l’educarsi a praticare queste virtù è già prescritto anche nel testo dell’Etica Nicomachea di Aristotele e poi l’educarsi a praticare queste virtù è già prescritto soprattutto nei Catechismi delle più importanti Scuole dell’Ellenismo: epicuree, stoiche e scettiche. Quindi nel testo della Lettera ai Galati i migliori principi della cultura dell’ebraismo e dell’ellenismo si fondono per costituire la base di una piattaforma di “valori” che noi persone del terzo millennio, che ci dedichiamo all’alfabetizzazione, stiamo ancora faticosamente tentando di mettere in primo piano perché – così come ai tempi di Paolo di Tarso – il primo posto è ancora occupato da ben altri interessi, spesso “nefasti interessi” che, purtroppo, frenano il cambiamento del mondo, ostacolano il cammino verso la realizzazione del Bene comune.
La polemica nella Lettera ai Galati tocca il suo apice quando Paolo scrive che né la circoncisione né il battesimo (il battesimo di Giovanni) sono, di per sé, riti salvifici ma sono semplicemente riti di appartenenza perché questi gesti non insegnano automaticamente né a rispettare la Legge e tanto meno insegnano a “fare opere di bene”. E Paolo fa un esempio “tipico” rivolgendosi direttamente agli ebioniti. “Voi ebioniti – scrive Paolo – difendete la pratica della circoncisione e dite che io sono un traditore perché la svaluto, ma la circoncisione è solo una cerimonia esteriore perché non è che chi è circonciso è automaticamente un costruttore di Bene, e lo stesso vale per chi è battezzato”. E ancora una volta Paolo per controbattere e per ribadire che i “valori” e i “principi” che lui espone vengono dalla Tradizione della “sapienza poetica beritica” cita – come abbiamo detto poco fa – il testo del profeta Geremia in cui gli scrivani dell’esilio avevano già anticipato questa riflessione.
Leggiamolo questo frammento:
LEGERE MULTUM ….
Libro di Geremia 4, 4
Sì, va bene! Circoncidetevi per il Signore, ma non tagliate il vostro prepuzio, bensì circoncidete il vostro cuore, il vostro orecchio! Cambiate vita e riempite la vostra mente di giustizia e di misericordia …
A voi, ora, il compito di leggere (compito per la vacanze) anche il testo della Lettera ai Galati ricordando che oggi – in cui il culto di “idoli fittizi” e la pratica di “rituali di cui bisognerebbe vergognarsi” hanno contribuito brutalmente a ridurre gli spazi della riflessione – il testo di questa Lettera risulta essere uno straordinario documento di contestazione e un valido strumento di studio in funzione del cambiamento dello stile di vita delle persone. In questo testo Paolo – andando al di là della semplice indignazione – allude già ad una idea fondamentale dell’Età moderna cara a Montaigne e a Pascal (che sono entrambi assidui lettori dell’Epistolario di Paolo di Tarso). Paolo allude al fatto che è meglio per noi avere non una “testa ben piena” di rituali consumistici e legalistici ma bensì è utile impegnarsi culturalmente (studiare) per avere una “testa ben fatta” capace di discernere.
E che cosa significa “discernere” per Paolo di Tarso? Nei testi del suo Epistolario Paolo per metà mette in scena la propria “indignazione” nei confronti di tutto il male che c’è nel mondo e per l’altra metà Paolo invita concretamente al “discernimento”: a distinguere il Bene dal Male e a schierarsi dalla parte del Bene.
E che cosa significa “discernere” per Paolo di Tarso? Significa praticare la solidarietà, seminare la gioia, preparare la pace, esercitare la clemenza, diffondere la bontà, prediligere la fedeltà, coltivare la mitezza, adottare la prudenza e istituire la benignità.
Questo viaggio – per mezzo del quale abbiamo attraversato il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico” – è finito. Questo arrivo – o questo ritorno – per me è caratterizzato da un fatto: questa è anche la mia ultima Lezione come insegnante in organico nel settore della Scuola pubblica degli Adulti. Come insegnante in organico della Scuola pubblica non avrò, da settembre, più nessun ruolo ma spero – se la vostra partecipazione attiva continuerà a dare un corpo e un’anima all’Educazione degli Adulti (e la Scuola pubblica è delle cittadine e dei cittadini come sancisce la Costituzione) – spero di poter continuare ad essere utile come “alfabetizzatore di strada” e questo che ho usato non è un termine casuale, non è un termine denigratorio, perché, per affermare il diritto e per richiamare al dovere dell’Apprendimento permanente, c’è ancora tanta strada da fare.
Per questo, come è tradizione, ho preparato – per il ventottesimo anno di questa esperienza – un pro-memoria: prendetelo in considerazione e diffondetelo.
Buona vacanza di studio a tutte e a tutti voi…
Però non dimenticate che durante l’incontro conviviale di giugno ci sarà la trentesima Lezione e il nostro compagno di viaggio sarà assente, perché? Che fine ha fatto Paolo di Tarso? È un interrogativo interessante. C’è una risposta? C’è molto di più di una risposta: c’è un catalogo di nuove domande e un inventario per imbastire nuove riflessioni…
PER INVESTIRE IN INTELLIGENZA
parola per parola …
Leggi con attenzione queste parole che - in funzione della didattica della lettura e della scrittura - abbiamo incontrato viaggiando sul territorio della “Sapienza poetica ellenistica” e fai la tua scelta …
la sorpresa la tristezza l’attesa l’impegno il rispetto la volontà
la sofferenza l’angoscia la passione il piacere il desiderio la tentazione
la vittoria la gloria la gioia l’abbondanza la persecuzione l’orgoglio
la consolazione la libertà l’impazienza il ringraziamento la forza l’insistenza
la santità la perfezione la supplica l’istruzione l’immoralità il vantaggio
Scegli non più di tre parole e scrivile qui …
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il cavallo la penna la spada la nave la strada la voce la città
la frusta la tenda il carcere la legge la cena il corpo il porto il lavoro
la notizia il ricordo il volto il cuore la tromba la condanna il parto
il sonno il vaso il peccato il tempio il resto l’ospite la colletta l’inviato
Scegli non più di tre parole e scrivile qui …
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