Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale] 11-12-13 maggio 2011
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO
C’È L’IDEA – CONTENUTA NELL’EPISTOLARIO DI PAOLO DI TARSO – CHE
LA REGALITÀ UMANA NON SI ADDICE AL CRISTO DELLA FEDE …
Ci stiamo avvicinando al termine del nostro viaggio (comincia il conto alla rovescia). Mancano tre itinerari (più quello conviviale) alla fine di questo Percorso che ci ha permesso – in compagnia di Paolo di Tarso, l’autore dell’Epistolario più significativo della Storia del Pensiero Umano, – di seguire un sentiero per mezzo del quale stiamo attraversando l’ampio territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico”.
L’itinerario di questa sera inizia con una domanda a proposito di una questione letteraria che abbiamo lasciato in sospeso. Siete andate, siete andati a curiosare sul testo dell’incipit del Primo Libro dei Re? Perché avreste dovuto leggere i primi quattro versetti del primo capitolo del Primo Libro dei Re? Perché in questo testo compare un personaggio – il personaggio della Sunamita – che abbiamo evocato la scorsa settimana in finale di itinerario. Perché abbiamo incontrato questo personaggio e chi è la Sunamita dell’incipit del Primo Libro dei Re? Abbiamo anche specificato la sua collocazione nella Letteratura biblica perché c’è anche un’altra Sunamita nel Secondo Libro dei Re che è una ricca signora alla quale il profeta Eliseo fa risorgere un figlio: ma questa è un’altra storia che fa parte del grande catalogo – che le studiose soprattutto – hanno cominciato a comporre sul tema fondamentale delle “donne nella Bibbia”. Per secoli i personaggi femminili della Bibbia sono stati tenuti in secondo piano mentre se non ci fossero le donne nei testi della “sapienza poetica beritica”, naturalmente, nessun progetto si sarebbe potuto realizzare. Molto spesso le donne nella Bibbia svolgono il ruolo della “madre” di un bambino, di un maschio che rappresenta un segno di salvezza (un Emmanuele); ebbene, finalmente queste figure cessano di essere considerate solo delle “fattrici” ma si comincia a studiare quale metafora rappresentano queste donne, a quale allegoria gli scrivani hanno dato un corpo e una mente di donna: allegoria che serve per spiegare e per far capire la missione dei loro figli.
Abbiamo incontrato la figura della Sunamita alla luce del tema della “verginità”, un tema che scaturisce da quel significativo argomento che riguarda la nascita di Gesù di Nazareth e che noi abbiamo affrontato partendo dal testo dalla “sentenza” di Paolo di Tarso contenuto all’inizio della Lettera ai Romani, che dice: «[Io diffondo] la buona notizia che riguarda Gesù Cristo nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne». Questa “sentenza” è incastonata in un breve brano, un brano molto significativo per capire la mentalità di Paolo di Tarso e che questa sera leggeremo per intero. La Sunamita la incontreremo più tardi, ora dobbiamo imbastire una riflessione cercando di procedere con ordine.
Sappiamo che il testo dalla “sentenza” sulla nascita di Gesù composto da Paolo di Tarso è contenuto all’inizio della Lettera ai Romani – c’è ancora qualcosa da dire sul testo di questa “sentenza” perché ne abbiamo analizzato la metà ma su un tema di questa portata bisogna procedere con ordine –; il testo di questa “sentenza” è un frammento che viene sviluppato nei decenni successivi e, a questo proposito, abbiamo studiato questo tema (l’affermarsi dell’idea della “concezione verginale” di Gesù) riflettendo sul testo del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo. Sappiamo che l’autore della stesura finale del testo del Vangelo secondo Matteo opera in modo da favorire l’avvicinamento tra l’icona ebionita (che rappresenta un Gesù-rabbi ebraico adottato da Dio) e l’icona gnostica (che rappresenta Gesù-Logos, parola divina incarnata). Abbiamo imparato che il primo capitolo (sono 25 versetti) del Vangelo secondo Matteo – mi auguro che abbiate letto o riletto questo capitolo – contiene uno straordinario intreccio di carattere filologico e ha la potenza di un vero e proprio trattato di filologia.
Noi abbiamo capito che la Letteratura dei Vangeli – a cominciare dall’Epistolario di Paolo di Tarso – nasce sulla scia dell’integrazione della cultura ebraica con quella greca sul territorio dell’Ellenismo. Il processo di attuazione dell’integrazione tra queste due culture – che si manifesta soprattutto nella composizione dei testi della Letteratura dei Vangeli – crea una serie di nodi che non sono facili da sciogliere; il primo nodo intricato riguarda la nascita di Gesù: la cultura ebraica concepisce come “madre degna di un rabbi adottato da Dio” una donna sposata e deflorata secondo la tradizione veterotestamentaria, mentre la cultura greca concepisce come “madre di un essere che incarna (il Logos) la Parola di Dio” una vergine secondo la tradizione orfico-dionisiaca. Questo nodo, che riguarda lo “status” della figura della madre di Gesù nel momento in cui il personaggio di Gesù viene messo in relazione con una specifica divinità come il Dio d’Israele, non è un nodo facile da sciogliere.
L’autore della versione finale del Vangelo secondo Matteo compie (alla fine degli anni 80 ad Alessandria) un’operazione di mediazione culturale di grande valore filologico e si comporta da vero e proprio rapsodo (da sarto) che cuce insieme con grande abilità due icone diverse (contrastanti) – quella del Gesù ebionita (che lui vuole esaltare) con quella del Gesù gnostico (un’icona dalla quale è comunque affascinato) – in modo che queste due figure differenti (del Gesù-rabbi ebraico adottato da Dio e del Gesù-Logos, Parola di Dio che s’incarna) possano essere osservate con un unico sguardo, con lo stesso sguardo.
Questo autore comincia a sciogliere l’intricato nodo con una sorta di assemblaggio e noi sappiamo che il testo del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo si divide in due parti ben distinte che s’incastrano l’una nell’altra: una prima parte (dal versetto 1 al 17), caratterizzata dalla parola-chiave “genealogia (tôledôt)”, un termine significativo per la “corrente ebionita”, e una seconda parte (dal versetto 18 al 25), caratterizzata dalla parola-chiave “parthènos” che significa “vergine” nel senso di “ragazza in età da marito”. La parola “parthènos” – come ben sappiamo – emerge nel testo dei versetti 22 e 23 del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo, che dice: «E così si realizzò quel che il Signore aveva detto per mezzo del profeta Isaia: “Ecco la vergine [parthènos, la ragazza in età da marito] sarà incinta, partorirà un figlio ed egli sarà chiamato Emmanuele”. Questo nome significa: “Dio è con noi”».
La parola “parthènos” – con la citazione che la contiene – fa da perno letterario attorno al quale si sviluppa quel processo di integrazione culturale che porta alla codificazione di una dottrina che sia il più possibile unificante nell’ambito di un Cristianesimo plurale come quello delle origini. L’autore della versione finale del Vangelo secondo Matteo risulta essere uno scrivano ebreo della “corrente ebionita” il quale, però, è anche un intellettuale di cultura ellenistico-alessandrina, e sa benissimo che il pensiero della “corrente gnostica” – che è fortemente influenzata dalla cultura greca – coltiva l’idea che l’incarnazione di Gesù (la Parola di Dio, il Logos, che si fa carne) sia avvenuta tramite un intervento divino sul corpo di una donna la quale, di conseguenza, deve avere delle caratteristiche particolari, deve possedere delle virtù che – in ambiente ellenistico – la rendano degna di entrare in contatto con la divinità. L’autore del Vangelo secondo Matteo sa che l’idea gnostica della “concezione divina” di Gesù di Nazareth (un’idea forte sul terreno dell’Ellenismo, che prende sempre più campo) se non verrà orientata in senso ebionita – se non sarà contaminata dalla cultura ebraica – finirà col prevalere, creando uno squilibrio dottrinale che non gioverà neppure alla “corrente gnostica” (che senso avrebbe la figura di Gesù di Nazareth se non fosse l’espressione della storia della salvezza contenuta nella Letteratura beritica?) e allora decide di compiere una (spregiudicata) operazione filologica e introduce – con il testo dei versetti 22 e 23 – la citazione che abbiamo letto nella quale emerge il termine “parthènos (la vergine)” che permette alla cultura ebraica di aprire la porta ad una riflessione sul tema della “verginità”.
Abbiamo studiato che questa citazione, l’autore del Vangelo secondo Matteo, la trae dal Libro di Isaia e corrisponde al versetto 14 del capitolo 7. Sappiamo anche che i capitoli dal 7 al 12 del Libro di Isaia prendono il nome di Poemetto del segno dell’Emmanuele o di Libretto dell’Emmanuele: mi auguro che abbiate letto o riletto questo celebre testo, non perdete l’occasione per fare questo esercizio.
La “vergine”, la “ragazza in età da marito” di cui – in modo un po’ misterioso – si parla in questo poemetto è – come sappiamo – la giovane moglie del re Acaz che è incinta e il bambino che nascerà – l’Emmanuele (Dio è con noi) – è il futuro re Ezechia che sarà, insieme a Giosia, il più virtuoso dei re ebrei e, a suo tempo (nell’anno 2007-2008) ne abbiamo studiato la storia (sui nostri siti ci sono i testi di quelle Lezioni). Questi due re, Ezechia e Giosia, naturalmente, li troviamo citati nella “genealogia” di Gesù, nella prima parte del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo, nella lista degli antenati del Cristo della fede e questo – come potete capire in modo da affinare le vostre competenze di lettrici e di lettori – è un altro elemento rapsodico (di ricucitura) attraverso il quale lo scrivano del testo finale del Vangelo secondo Matteo mette in correlazione la prima con la seconda parte del capitolo primo ed è una significativa operazione letteraria che tende a far avvicinare le icone (ebionita e gnostica) di Gesù mantenendone intatta la loro originalità e la loro autonomia.
L’autore del Vangelo secondo Matteo utilizza queste immagini (queste “figure, typoi typoi”, in linea con il pensiero di Paolo di Tarso: di questo concetto ne abbiamo parlato nel 19° itinerario) per richiamare, in modo allegorico, la figura di Maria di Nazareth. Se la madre di Gesù deve essere considerata una “vergine” – idea invisa agli ebioniti ma con la quale ritengono sia necessario fare i conti – questo concetto deve avere un collegamento con la Letteratura beritica, con i Libri dei profeti (in particolare con il Libro di Isaia che dimostra di essere il collante più adeguato in proposito) e questo paesaggio intellettuale (il conoscere e il capire) permette di aprire una riflessione (l’analizzare) che porta alla costruzione del testo (il sintetizzare).
Al tempo di Paolo di Tarso, negli anni 50 e 60 del I secolo, l’idea della “concezione verginale” di Gesù non circola ancora e, in ambiente ebraico, non avrebbe avuto senso: secondo la mentalità vetero-testamentaria una donna aveva “dignità” solo quando era regolarmente (secondo le prescrizioni della Legge, della toràh) sposata, deflorata e fecondata. L’idea della “concezione verginale” di Gesù si afferma gradualmente e comincia a prendere campo dagli anni 80 quando l’autore del testo finale del Vangelo Secondo Matteo decide di “governare” la situazione cercando di mettere in equilibrio la mentalità ebionita (in cui prevale la cultura ebraica) con la mentalità gnostica (in cui prevale la cultura greca) e difatti questo autore, nel testo che costruisce, mentre cerca una giustificazione per la “concezione verginale” di Gesù nella Letteratura dei profeti, contemporaneamente si dà anche un gran da fare (con la costruzione di un bellissimo racconto secondo lo stile del midrash) per trovare un marito a Maria che sia anche discendente di Davide in modo che la madre di Gesù sia “vergine” (secondo la tradizione greca, in relazione con la corrente gnostica) ma anche, e soprattutto, sia un donna sposata e deflorata (secondo la tradizione ebraica, in relazione con la corrente ebionita: una donna ebrea senza marito non ha dignità) e, probabilmente, sia madre di altri figli (che, per una donna ebrea, costituiva la garanzia di essere benedetta da Dio).
Siamo di fronte a un’operazione magistrale dal punto di vista letterario che continua nei decenni successivi e noi cogliamo l’occasione (la Sunamita può aspettare ed è ben lieta di studiare insieme a noi) per fare qualche passo in avanti su questo tema – che ha una straordinaria forza didattica – perché ci permette di capire meglio lo sviluppo dell’investimento intellettuale che ha prodotto la Letteratura ellenistica dei Vangeli.
L’idea della “concezione verginale” di Gesù trova poi, nei decenni successivi, all’inizio del II secolo, una significativa (e originale) codificazione nel testo del quarto Vangelo canonico che s’intitola secondo Giovanni. Il Vangelo secondo Giovanni – ora ci limitiamo a fornire solo alcune notizie su quest’opera importantissima, in funzione del tema che vogliamo trattare – è un’opera di ispirazione gnostica il cui testo è fortemente influenzato dalla filosofia greca.
Tutte e tutti noi conosciamo a memoria l’inizio del Prologo del Vangelo secondo Giovanni. Il Prologo del Vangelo secondo Giovanni (capitolo 1 versetti 1-18) è un’opera nell’opera, ed è un capolavoro letterario e filosofico che viene attribuito a Giustino, il filosofo di formazione platonica, Padre della Chiesa, e autore del Dialogo con Trifone e di due Apologie: queste opere le abbiamo studiate, in più Percorsi, in passato e le studieremo ancora. Il Prologo del Vangelo secondo Giovanni è stato scritto intorno al 150 e inizia con la famosa frase: «En arché en ò Logos», «In principio c’era il Logos, la Parola, il Pensiero di Dio» che s’incarna in Gesù, nel Cristo della fede con lo stesso procedimento – secondo il pensiero gnostico – con cui le Idee di Platone danno la “forma” agli oggetti in linea con il discorso sul “demiurgo” contenuto nel testo del dialogo platonico intitolato Timeo che abbiamo già incontrato strada facendo. Il Prologo del Vangelo secondo Giovanni è stato definito – dalle studiose e dagli studiosi (in biblioteca ci sono circa 500 saggi importanti che si occupano di questo brano di Letteratura ellenistica di stampo evangelico) – lo “spettacolare teatro della conciliazione delle aporie”, lo “spazio della ricomposizione delle contraddizioni nate sulla scia dell’integrazione tra due culture molto diverse come quella ebraica e quella greca”. Che significato hanno queste affermazioni? Non è facile da spiegare con poche parole la questione della ricomposizione delle aporie nel Prologo del Vangelo secondo Giovanni ma cerchiamo comunque di capire il senso di ciò che stiamo dicendo con un esempio.
Prima di tutto dobbiamo dire che “ricomporre le aporie (spianare le contraddizioni)” non significa “omologare il pensiero” ma significa “mettere in comunione la diversità, la varietà, la molteplicità, la complessità” (questo tema in Età medioevale e moderna produrrà molte riflessioni utili per continuare a riflettere in età contemporanea, un’età in cui ci dobbiamo misurare con il tema dell’incontro tra culture differenti facendo in modo che ogni cultura mantenga la propria originalità e autonomia ma all’interno di una cornice comune composta di valori concordati e condivisi che, nel nostro Paese, sono già contenuti nel testo della Costituzione).
Se puntiamo la nostra attenzione su quello che viene considerato uno dei versetti chiave del Prologo del Vangelo secondo Giovanni possiamo comprendere che cosa significhi costruire un testo che favorisca la conciliazione delle aporie, di quelle contraddizioni generate dall’incontro tra ebraismo ed ellenismo e che sono diventate nodi da sciogliere: se la suprema dignità di una donna ebrea sta nel matrimonio, nella deflorazione e nell’essere resa feconda (pena un profondo senso di colpa che si traduce in emarginazione) e invece la suprema dignità per una donna greca deriverebbe dal rimanere vergine (condizione che appartiene solo alle dee), ebbene, il tema della natura della madre di Gesù, nello sviluppo dell’integrazione tra la cultura ebraica e la cultura greca, diventa un delicatissimo nodo da sciogliere con l’utilizzo della “scrittura” in linea tanto con la tradizione beritica quanto con quella ellenistica. Per esempio, nel Prologo del Vangelo secondo Giovanni c’è un versetto – il versetto 14 del primo capitolo – che tutte e tutti voi conoscete a memoria e che in latino (forse lo conoscete meglio nella versione latina di Gerolamo) dice: «Et Verbum caro factum est … », mentre in greco suona «Ò Logos sarx eghenièto …»: ebbene se traduciamo questo versetto ci rendiamo conto che significa «la Parola si è fatta carne …» ma, contemporaneamente, significa anche «la carne si è fatta Parola …». Il testo di questo versetto ricompone in modo logico una delicatissima contrapposizione antropologica: il fatto che Gesù sia (venga proclamato) contemporaneamente un “essere umano (Gesù adottato da Dio che interpreta la parola divina)” e un “concetto divino (Colui che è la Parola – il Logos – e che, in principio, era con Dio)”.
Tornando al tema su cui stiamo riflettendo, se per la corrente gnostica (che nel II secolo si è decisamente affermata) Gesù è il Logos, se è la Parola di Dio incarnata deve essere, di conseguenza, coeterno a Dio, ed è perciò assurdo (apiretico) parlare di “padre terreno” per Gesù, quindi, secondo questa ottica, si giustifica l’ipotesi dell’intervento dello Spirito Santo con la relativa costruzione dell’idea della “verginità della donna che è stata scelta per essere la madre umana del Cristo della fede”, la quale, in quanto madre di un essere divino – secondo il pensiero greco –, non poteva che essere “vergine” come Afrodite, come Atena, come Diana.
Però, attenzione, bisogna tener conto del fatto che – nell’ottica della ricomposizione delle aporie (della messa in comunione delle diversità), – il testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni si guarda bene di parlare esplicitamente di nascita “verginale” di Gesù: ci lascia intendere che se Gesù è il Logos, è il Pensiero di Dio, ebbene, la sua madre naturale ebrea – la donna sposata, deflorata e feconda che ha permesso alla “carne di farsi Parola” – qualcosa di divino ce lo deve pur avere addosso e questo “qualcosa di divino” è l’idea (in senso platonico, Giustino è un filosofo di formazione platonica) che permette di affermare, contemporaneamente, che in Gesù “la Parola si è fatta carne” («Dopo aver letto il Prologo dell’Evangelo di Giovanni mi domando: “esiste qualcosa nell’Universo che sia più in comunione di una madre con suo figlio?”»: li leggete, ogni tanto, i Pensieri di Pascal?). Siamo nel difficile – ma non siamo qui a fare cose facili – e l’essere nel difficile non significa non capire che ci troviamo di fronte ad una significativa operazione di carattere letterario sulla quale, almeno in parte, è necessario riflettere (così come abbiamo fatto) in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Da quanto tempo non rileggete il Prologo del Vangelo secondo Giovanni, il brano compreso nei primi diciotto versetti del capitolo primo?…
Ora è il momento adatto per fare questo esercizio…
Dobbiamo aggiungere (la Sunamita può aspettare ed è ben lieta di studiare insieme a noi) che ciò che è successo per il testo del Vangelo secondo Matteo accade, in senso inverso, per il testo del Vangelo secondo Giovanni: l’autore finale del testo secondo Matteo è di cultura ebionita ma deve tenere conto del pensiero della corrente gnostica in ascesa, mentre gli autori del testo secondo Giovanni sono di cultura gnostica (il testo di Giovanni è stato scritto da più autori della cosiddetta Scuola ellenistica di Policarpo che opera su un territorio compreso nel triangolo che ha come vertici Smirne, Efeso e l’isola di Patos) e questi autori devono ancora, all’inizio del II secolo, tenere conto del pensiero della corrente ebionita che mantiene salda la sua influenza.
La corrente ebionita, nel II secolo, poneva ancora il problema se il vero messia (l’Unto, il Cristo) fosse Giovanni il Battezzatore e, difatti, tutto il primo capitolo – compresa metà del testo del Prologo – del Vangelo secondo Giovanni (e fatelo questo esercizio di lettura: è ora il momento di leggere il primo capitolo del Vangelo secondo Giovanni) si preoccupa di far “confessare” a Giovanni di non essere lui il messia (l’Unto, il Cristo) e assistiamo ad un vero e proprio “interrogatorio” che serve anche, però, per dare un ruolo di prestigio a Giovanni che per gli ebioniti è una figura carismatica e Gesù di Nazareth – e questa è una notizia di cui tutti erano al corrente – si è formato nel gruppo di Giovanni (lo stesso tema viene trattato – all’incirca nello stesso periodo, a Roma, dalla Scuola ellenistica clementina – nel testo dei primi due capitoli del Vangelo secondo Luca, nel cosiddetto testo Deuterolucano ma con uno stile letterario diverso che è stato chiamato lo stile della Chiesa d’Occidente – uno stile condizionato dalla cultura latina in ascesa – in contrapposizione allo stile marcatamente gnostico, di tradizione greca, della Chiesa d’Oriente).
Abbiamo detto che assistiamo ad un vero e proprio “interrogatorio” di Giovanni il Battezzatore da parte delle “autorità ebraiche”, e allora leggiamolo insieme questo brano così significativo:
LEGERE MULTUM ….
Vangelo secondo Giovanni 1, 19-28
Questa fu la testimonianza di Giovanni. Le autorità ebraiche avevano mandato da Gerusalemme sacerdoti e addetti al culto del tempio, per interrogarlo. Volevano sapere chi era. Giovanni dichiarò senza esitazione: - Io non sono il Messia.
Essi gli chiesero: - Chi sei, allora? Sei forse Elia?
Ma Giovanni disse: - No, non sono Elia.
Quelli insistettero: Sei il profeta? [Del “profeta degli ultimi tempi” se ne parla nel Libro del Deuteronomio] Giovanni rispose: - No.
Alla fine gli chiesero: - Chi sei, dunque? Perché noi dobbiamo riferire qualcosa a quelli che ci hanno mandati. Cosa dici di te stesso?
Allora Giovanni disse: - Io sono la voce di uno che grida nel deserto: spianate la strada per il Signore. Cosi ha detto il profeta Isaia.
Quelli che interrogavano Giovanni appartenevano al gruppo dei farisei. Gli domandarono ancora: - Se non sei il Messia, né Elia, né il profeta [dei tempi ultimi], perché battezzi la gente?
Giovanni rispose: - Io battezzo con acqua. Ma in mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete. Egli viene dopo di me, ma io non sono degno neanche di sciogliere i lacci dei suoi sandali.
Questo accadeva vicino al villaggio di Betània al di là del fiume Giordano, dove Giovanni battezzava. …
Visto che avete tra le mani il volume di quella straordinaria “biblioteca” che chiamiamo la Bibbia (dal greco “biblìa”, i libri) formata da 76 Libri [49 + 27] forse può capitare [la Scuola se lo augura] che possiate andare al di là degli esercizi proposti dal REPERTORIO ... e vi troviate coinvolte e coinvolti nella lettura dei testi della Letteratura dei Vangeli; ebbene, se capita questo, la prima chiave interpretativa che dovete utilizzare è quella che invita la lettrice e il lettore a prestare attenzione al continuo avvicinamento – fino a generare, spesso, una sorta di sovrapposizione – tra l’icona ebionita (tutte le volte che si cita una “figura” proveniente dalla tradizione dell’Antico Testamento) e l’icona gnostica (quando si fa riferimento alla divinità di Gesù, alla sua concezione verginale, allo Spirito Santo: “figure” tipiche della tradizione greca).
Il concetto della “verginità” di Maria – questo è l’argomento sul quale stiamo riflettendo in funzione della “sentenza” di Paolo di Tarso contenuta nell’incipit della Lettera ai Romani – ha la sua radice nella mitologia greca dove, oltre alla verginità delle dèe (pensate che Afrodite – la dèa dell’amore erotico – è vestita solo con un sottilissimo cinto che ne sottolinea il giro-vita ma che definisce soprattutto un confine insuperabile: Afrodite è vergine e l’eros sta nel coltivare il desiderio) esiste nella cultura e nella Letteratura greca tutta una casistica, mitica, di fanciulle fecondate vergini che danno vita a illustri personaggi: un tipico esempio – raccontato da Ovidio ne Le metamorfosi – è quello di Danae, fecondata da una pioggia d’oro, dalla quale nascerà Perseo.
Ripetiamo ancora una volta che ai tempi di Paolo di Tarso, negli anni 50 e 60 del I secolo, non c’è indizio che ci faccia pensare al fatto che né in Palestina, né nelle comunità della diaspora, il messia potesse nascere da una vergine, da una donna non sposata.
Nel II secolo la distinzione tra ebrei e cristiani si fa netta: e quando e dove e come si formalizza la distinzione tra ebraismo e cristianesimo? (Vedete su quanti elementi bisogna fare chiarezza, e se si tratta di fare chiarezza la Sunamita è ben lieta di studiare insieme a noi). A questo proposito l’iniziativa per fare chiarezza, di tracciare un confine preciso tra ebraismo e cristianesimo, la prendono i rabbini della Palestina che si oppongono al processo di ellenizzazione e avversano il disegno che porta alla traduzione in greco dei Libri del Pentateuco promosso dagli ebrei della diaspora: questi rabbini, negli anni 90 – contemporaneamente alla nascita e allo sviluppo della Scuola ellenistica clementina a Roma e della Scuola ellenistica di Policarpo a Patmos – decidono di riunirsi in concilio nella città di Iamnìa in Palestina (Iamnìa – posta sulla costa del Mediterraneo dove passa la strada che mette in collegamento l’Egitto e la Siria – è la città simbolo di Giuda Maccabeo, è la città dove, nel 70, si rifugia il Sinedrio dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme per opera dell’imperatore romano Tito) per stilare la lista completa e definitiva dei Libri sacri in modo da rivendicare e ribadire l’identità della cultura ebraica che non poteva essere ulteriormente contaminata dall’invadenza ideologica del “cristianesimo” (una parola, “cristianesimo”, che comincia a circolare negli anni 90 con gli Atti degli Apostoli: il primo catechismo cristiano, scritto sotto forma di romanzo dalla Scuola ellenistica clementina, dove la cultura d’Israele viene ridisegnata alla luce della buona notizia della risurrezione di Gesù di Nazareth). I rabbini, nel concilio di Iamnìa (dove fondano anche l’importante Scuola rabbinica giudaico-palestinese) definiscono, negli anni 90, il canone dei Libri sacri per gli Ebrei della Palestina (nasce il canone giudaico-palestinese della Bibbia) formato da tre gruppi di opere: la toràh (la Legge), i nebijim (i Profeti) e i ketubim (i Libri sapienziali e poetici).
Aver fatto chiarezza su questa importante operazione culturale di stampo rabbinico serve per farci capire meglio la complessità del processo di integrazione tra ebraismo ed ellenismo e ora riprendiamo il filo della riflessione che stavamo facendo: dicevamo che, nel II secolo, quando la distinzione tra ebrei e cristiani si fa netta, i cosiddetti Padri Apologisti (la incontreremo a suo tempo quest’altra categoria di Padri della Chiesa), che sono in possesso di una solida cultura greca, puntualizzano in termini cristiani questa distinzione (nasce il canone giudaico-cristiano della Bibbia), e Giustino (l’autore del Prologo del Vangelo secondo Giovanni) nella sua opera intitolata Dialogo con Trifone (nel 150 circa) scrive: «Gli ebrei aspettano il messia, uomo tra uomini, figlio di Davide, di discendenza terrena, invece per i cristiani il messia è il Logos, un ragionamento di Dio, il pensiero e la parola salvifica di Dio, incarnatasi in una vergine [parthènos]». Giustino (siamo nel II secolo) pensa all’evento dell’incarnazione secondo il metro della mitologia greca; il problema – e lui è perfettamente consapevole di questo fatto che non può essere ignorato – è che la “vergine” in questione non è una ragazza greca ma è una donna ebrea e nella cultura dell’ebraismo la “verginità” non è un valore: un valore è la fecondità, è generare molti figli nell’ambito del matrimonio. Ma Giustino può tranquillamente fare le sue affermazioni perché – come abbiamo potuto constatare – la Letteratura dei Vangeli ha già provveduto, con un’abile operazione di costruzione del testo, a far avvicinare le icone, ebionita e gnostica, di Gesù.
Voi capite come la “costruzione letteraria” della figura di Gesù, del Cristo della fede, sia una straordinaria operazione intellettuale di mediazione tra la cultura dell’ebraismo e la cultura greca e senza studiare questo argomento siamo in difficoltà a rispondere a quella serie di domande esistenziali che inevitabilmente ci poniamo: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? A che cosa serve – potrebbe chiederci qualche sprovveduto – studiare queste cose, occuparci di questi temi? Il fatto è che nell’intelletto individuale di ciascuna e di ciascuno di noi queste forme mentali – raccolte nel grande bagaglio della Tradizione, contenute in quello spazio che chiamiamo dell’Intelletto universale – esistono. Tutta la nostra cultura è, e continua ad essere, pervasa dai temi del grande dibattito esistenziale che ha le sue radici, dall’età ellenistica, nelle ekklesìe, e senza studiare il complesso processo di mediazione tra la cultura ebraica e la cultura greca non s’impara a leggere, non si può estendere la propria competenza sulle parole-chiave e sulle idee-cardine utili per promuovere la “riforma di pensiero” che tutte e tutti noi – cittadine e cittadini che diamo un’anima alla Scuola pubblica degli Adulti – auspichiamo.
Scrive Franz Kafka (erede della tradizione della diaspora ebraica): «Mio padre [il padre di Kafka è un attivissimo commerciante ebreo che considera il profitto più importante della cultura] mi chiede perché perdo tempo a leggere e a scrivere; mi domanda “a che cosa ti serve?”. E io rispondo “a niente”. Vorrei dirgli che la Letteratura non serve, non è a servizio di nessuno ma il problema è che io, lui, e tutti noi siamo fatti di Letteratura, e se non leggo, e se non scrivo, non potrò mai incontrare me stesso».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete letto Lettera al Padre, un testo scritto da Franz Kafka nel 1919 ricco di spunti di riflessione?... Questo testo lo trovate in biblioteca, cercatelo e leggetene qualche pagina...
Negli anni 80 – come abbiamo studiato – l’autore del Vangelo secondo Matteo ha già provveduto, con un’abile operazione di costruzione del testo, a far avvicinare le icone, ebionita e gnostica, di Gesù e, inoltre, per affrontare con equilibrio (per governare) il problema della “concezione verginale” del Cristo della fede (tema caro alla corrente gnostica) ha fatto ricorso al versetto 14 del capitolo 7 del Libro di Isaia (testo caro alla corrente ebionita). L’autore del Vangelo secondo Matteo ha dovuto “limare” il testo di Isaia per dare una forma adatta alla sua citazione, sappiamo che non aveva molta scelta: l’unico frammento appropriato che, tradotto in greco, potesse permettergli di utilizzare la parola “vergine (parthènos)” era questo, e noi sappiamo anche che è difficile trovare nella Letteratura vetero-testamentaria una citazione che “esalti la verginità”.
Abbiamo detto, inoltre, che ci sarebbe stato anche un altro frammento (che sicuramente l’autore del Vangelo secondo Matteo ha preso in considerazione e ha deciso che non sarebbe stato possibile utilizzarlo per sostenere la similitudine che si era proposto di creare) dove la parola “vergine (almah)” è in evidenza, e interagisce anche con il nome di Davide (e questo – potendo evitare i pettegolezzi – sarebbe stato un valore aggiunto), ma, tuttavia, il brano in questione non risultava adatto per creare un’allegoria appropriata: perché? E questo interrogativo si configura in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Nell’incipit del Primo Libro dei Re (e mi auguro che tutte e tutti voi siate già andati a curiosare su quel testo) si narra della vecchiaia del re Davide (e del gran freddo che patiscono i vecchi) ed è qui che compare il personaggio della Sunamita. Noi vogliamo incontrare questo personaggio anche perché ha sempre incuriosito scrittrici e scrittori di ogni tempo che hanno preso spunto da questo brano per cimentarsi su un tema accattivante (un tema sempre di attualità).
Chi è la Sunamita che – senza mai perdere l’attenzione – ci ha accompagnate e accompagnati finora nel nostro itinerario? La Sunamita è una bellissima ragazza, originaria di Sunem (da qui il soprannome), un piccolo villaggio della Galilea orientale, che si chiama Abisag ed è una “vergine”, l’unica “vergine doc.”, a denominazione di origine controllata, che troviamo nella Letteratura beritica è anche la “vergine-madre” di tutte le badanti).
A questo punto non ci resta che leggere l’incipit del Primo Libro dei Re:
LEGERE MULTUM ….
Primo Libro dei Re 1 1-4
Il re Davide era ormai molto vecchio; i suoi servitori continuavano a coprirlo di vestiti, ma lui aveva sempre freddo, allora gli dissero: «Bisogna cercare una ragazza vergine [almah] che venga al tuo servizio e si prenda cura di te. Dormirà con te e ti terrà caldo». Cercarono per tutto il paese una bella ragazza, e finalmente ne trovarono una. Si chiamava Abisag e veniva da Sunem. Abisag era veramente molto bella. Essa venne a stare dal re, si prese cura di lui, lo servì, ma egli non ebbe alcun rapporto sessuale con lei. …
Perché gli scrivani del Primo Libro dei Re – quando hanno messo in ordine, dopo l’esilio, i Libri dei profeti anteriori – fanno questa puntualizzazione che “il re non ebbe alcun rapporto sessuale con lei”? Pensano di dover puntualizzare perché tutti sapevano che questi “vecchietti”, protagonisti nella Letteratura dell’Antico Testamento, avevano sì molto freddo ma, scalda che ti riscalda, erano in grado di diventare molto arzilli, e la fanciulla in questione (forse consigliata dalla madre?) avrebbe anche aspirato ad essere ingravidata dal re perché avrebbe aperto una nuova linea dinastica e il dubbio (siamo tutti un po’ maliziose e maliziosi e la Letteratura ha indugiato su questo aspetto) che questo potesse essere avvenuto c’è sempre stato se non altro come pretesto di carattere letterario. Questa situazione – il rapporto tra Davide e Abisag – ha sempre stimolato la fantasia delle scrittrici e degli scrittori.
Per farla breve (perché non ci rimane molto tempo a disposizione) – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – facciamo un’incursione nella Letteratura contemporanea: ci sta aspettando uno scrittore che si chiama Italo Svevo. Italo Svevo è uno dei padri della letteratura europea del Novecento insieme a Proust, Joyce, Kafka, Musil, Canetti, Màrai, Pirandello.
Italo Svevo è uno pseudonimo perché in realtà lo scrittore si chiama Ettore Schmitz e nasce a Trieste nel 1861 da una famiglia di origine ebraica e, sulle orme del padre che è un commerciante, si dedica a studiare economia prima in Germania e poi a Trieste. Nel 1880 Italo Svevo viene assunto in banca, a Vienna, e inizia anche a collaborare con un giornale triestino, L’indipendente. Su questo giornale, nel 1892, pubblica, a puntate, il suo primo romanzo intitolato Una vita, che viene completamente ignorato dal pubblico. Nel 1896 Svevo sposa Livia Veneziani, figlia di un ricco industriale, e nel 1898 pubblica il suo secondo romanzo intitolato Senilità e anche questo libro passa inosservato in una stagione nella quale trionfano D’Annunzio e Fogazzaro. Svevo si licenzia dalla banca ed entra nell’azienda del suocero e per qualche anno abbandona la Letteratura per dedicarsi agli affari e compie numerosi viaggi di lavoro. Nel 1907 Svevo conosce lo scrittore irlandese James Joyce – l’autore del celebre Ulysse – che dal 1904 insegnava inglese alla Berlitz School di Trieste. Nel 1910 Svevo comincia ad occuparsi della psicoanalisi freudiana. Questi due incontri – con James Joyce e con la psicanalisi – favoriscono il ritorno di Svevo alla Letteratura e nel 1919 inizia a scrivere il suo capolavoro, La coscienza di Zeno, che viene pubblicato nel 1923 (ne abbiamo letto un certo numero di pagine, qualche anno fa, in compagnia di Hegel). James Joyce si entusiasma per questo romanzo e lo raccomanda ai critici francesi e inglesi, e anche Eugenio Montale lo recensisce con favore sulla rivista Esame. La coscienza di Zeno diventa improvvisamente, nel 1923, un caso letterario europeo. Nel 1928, quando è ormai uno scrittore affermato che sta scrivendo il suo quarto romanzo intitolato Il vecchione, Svevo muore in un incidente automobilistico a Motta di Livenza sulla strada che da Trieste va a Treviso. Nel 1929 escono postume una serie di opere di Svevo di rara finezza, tra queste c’è il racconto che ci interessa e che s’intitola La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, scritto nel 1926.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Naturalmente potete arricchire la vostra conoscenza di Italo Svevo e delle sue opere utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca, la rete…
Perché c’interessa questo racconto che, nel corso degli anni, è diventato sempre più esemplare ed emblematico? Non ci sono molte spiegazioni da dare: il titolo non è già abbastanza eloquente? Così come è eloquente la conoscenza che Svevo ha della Letteratura veterotestamentaria e della psicanalisi (ricordiamoci che anche Freud è ebreo ed è fortemente condizionato dalla Letteratura beritica). E poi – per tagliare la testa al toro (come si suol dire) – la citazione posta all’inizio di questo racconto è inequivocabile: “La fanciulla, bellissima, si prese cura del re e lo servì”. Avete, forse, qualche difficoltà a riconoscere questa citazione e a dire dove è collocata?
Non ci resta altro da fare che leggere l’incipit di questa novella: il testo completo lo trovate in biblioteca e, probabilmente, anche sulla rete.
LEGERE MULTUM ….
Italo Svevo, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla
La fanciulla, bellissima, si prese cura del re e lo servì …
Ci fu un preludio all’avventura del buon vecchio, ma si svolse senza ch’egli quasi l’avvertisse. In un breve istante di riposo dovette ricevere nel suo ufficio una vecchia donna che gli presentava e raccomandava una fanciulla, la propria figlia. Erano state ammesse alla sua presenza in forza di un biglietto di presentazione di un suo amico. Il vecchio strappato ai suoi affari non arrivava a levarseli del tutto dalla mente e guardava intontito il biglietto sforzandosi d’intenderlo presto e presto liberarsi dalla seccatura.
La vecchia non tacque per un solo istante, ma egli non ritenne o percepì che qualche breve frase: - La giovinetta era forte, intelligente e sapeva leggere e scrivere, ma meglio leggere che scrivere. - Poi una frase che lo colpì perché strana: - Mia figlia accetta qualsiasi impiego per l’intera giornata purché le avanzi il breve tempo di cui ha bisogno per il suo bagno quotidiano. - Infine la vecchia disse la frase che portò la scena ad una rapida conclusione: alla Tramvia prendono ora delle donne al posto di conduttrici e bigliettarie.
Subito deciso, il vecchio scrisse un biglietto di raccomandazione per la Direzione della Società Tramviaria e congedò le due donne. Lasciato ai suoi affari, li interruppe ancora per un istante per pensare: - Chissà perché quella vecchia volle dirmi che sua figlia si lava ogni giorno? - Scosse la testa sorridendo con aria di superiorità. Ciò prova che i vecchi son ben vecchi quando hanno da fare.
Una vettura tramviaria correva sul lungo viale di Sant’Andrea. La conduttrice, una bella fanciulla ventenne, teneva l’occhio bruno fisso sulla via larga, polverosa, piena di sole, e si compiaceva di far andare a precipizio il carrozzone cosicché agli scambi le ruote stridevano e la cassa della vettura carica di gente sobbalzava. Il viale era deserto. Tuttavia la giovinetta procedeva picchiando continuamente col piedino nervoso la leva azionante il campanello d’allarme. Lo faceva non per prudenza, ma perché essa era tanto infantile che riusciva a convertire il lavoro in un giuoco, e le piaceva di correre così e di far rumore con quella macchinetta ingegnosa. Tutti i bambini amano di gridare quando corrono. Era vestita di cenci colorati. Causa la sua grande bellezza sembrava travestita. Una giubba rossa sbiadita le lasciava libero il collo, poderoso in confronto della faccina un po’ patita, e libera l’incavatura precisa che avvia dalla spalla alla delicatezza del petto. Il gonnellino azzurro era troppo breve, forse perché nel terzo anno di guerra mancavano le stoffe. Il piedino sembrava nudo in uno scarpino di panno e il berretto azzurro le schiacciava dei riccioli neri non molto lunghi. Guardando la sola sua testa si sarebbe potuta credere un maschietto se già l’attitudine di quella sola parte non avesse tradito civetteria e vanità.
Sulla piattaforma, intorno alla bella operaia, c’era tanta gente che la manovra del freno era appena possibile. Vi si trovava anche il nostro vecchio. Egli doveva arcuarsi a qualche più violento sobbalzo della vettura per non venir gettato addosso alla conduttrice. Era vestito con grande accuratezza, ma anche con la serietà conforme alla sua età. Veramente una figurina signorile e gradevole. Ben pasciuto in mezzo a tanta gente pallida e anemica, non rappresentava per questa ancora un’offesa perché non era né troppo grasso né troppo fiorente. Dal colore dei suoi capelli e dei suoi baffetti corti gli si sarebbero dati 60 anni di età o giù di lì. Non trapelava in lui alcuno sforzo di apparire più giovane. Gli anni possono impedire l’amore ed egli da molti anni non aveva pensato a quello, ma favoriscono gli affari ed egli portava i suoi anni con superbia, e, se così si può dire, giovanilmente.
La prudenza era invece conforme alla sua età, e non si trovava bene in quel carrozzone mastodontico lanciato a tanta velocità. La sua prima parola rivolta alla fanciulla fu di ammonimento: - Signorina!
Al vezzeggiativo signorile la fanciulla rivolse a lui i begli occhi, esitante, non essendo certa ch’egli avesse voluto parlare con lei. Il buon vecchio ricavò tanto piacere da quello sguardo luminoso che ne fu attenuata la sua paura. Mutò l’ammonimento che avrebbe avuto significato di rampogna, in uno scherzo: - Non m’importa mica di essere qualche minuto prima al Tergesteo -. Sembrò sorridesse per il proprio scherzo e così poté creder la gente intorno a lui, ma invece il suo sorriso era stato rivolto a quell’occhio che gli era parso nello stesso tempo birichino e innocente. Le donne belle sembrano sempre dapprima intelligenti. Un bel colore o una bella linea sono infatti l’espressione dell’intelligenza più assoluta.
Essa non sentì le parole, ma fu rassicurata perfettamente di quel sorriso che non lasciava dubbio sulle disposizioni benevole del vecchio. Comprese ch’egli si trovava a disagio in piedi e gli fece posto perché potesse appoggiarsi accanto a lei sul parapetto. E la corsa continuò vertiginosa fino al Campo Marzio.
La fanciulla, allora, guardando il buon vecchio quasi a domandargli un consenso, sospirò: - Qui comincia la grande noia! -. Il carrozzone si mise infatti a traballare lento e pesante sulle rotaie.
Quando un vero giovine s’innamora, il suo amore spesso provoca nel suo cervello delle reazioni che presto con il suo desiderio non hanno nulla da fare. Quanti giovani che potrebbero quietarsi beatamente in un letto ospitale, non gettano per aria almeno la loro casa credendo che per andare a letto con una donna occorra prima conquistare, creare o distruggere. Invece i vecchi, di cui si dice che siano meglio protetti dalle passioni, vi si abbandonano in piena consapevolezza ed entrano nel letto della colpa solo con debito riguardo ai raffreddori.
Semplice l’amore non è neppure per i vecchi. Da loro viene complicato nei motivi. Essi sanno che devono scusarsi. Il nostro vecchio si disse: - Ecco la mia prima vera avventura dopo la morte di mia moglie. - Secondo il linguaggio dei vecchi è vera un’avventura in cui c’entri anche il cuore. Si può dire che raramente un vecchio è tanto giovine da poter avere un’avventura non vera poiché è un’estensione che serve a mascherare una debolezza. Così i deboli quando danno un pugno impiegano non solo la mano, il braccio e la spalla, ma anche il petto e l’altra spalla. Il pugno per lo sforzo troppo esteso diventa debole mentre l’avventura perde in chiarezza e diventa più pericolosa.
Poi il vecchio pensò ch’era l’occhio infantile della giovinetta che l’aveva conquiso. I vecchi quando amano passano sempre per la paternità e ogni loro abbraccio è un incesto di cui ha l’acre sapore.
E il terzo pensiero importante ch’ebbe il vecchio sentendosi deliziosamente colpevole e deliziosamente giovane fu: - La gioventù ritorna. - L’egoismo del vecchio è tanto grande che il suo pensiero non resta attaccato all’oggetto del suo amore neppure per un istante senza ritornare subito a vedere se stesso. Quando vuole una donna ricorda re Davide che dalle giovinette si aspettava la gioventù.
Il vecchio da commedia antica convinto di poter emulare la gioventù, quando pure oggi esista, dev’essere rarissimo.
Il mio vecchio continuò a monologare e si disse: - Ecco una giovinetta ch’io comprerò … se è in vendita.
- Tergesteo! Non scende? - domandò la giovinetta prima di far muovere il carrozzone. Il buon vecchio, nell’imbarazzo, guardò l’orologio: - Procederò per un altro poco, - disse. …
E continuiamo a procedere anche noi sui binari di questa scolastica tramvia (la Sunamita continua a seguirci perché è ben lieta di continuare a studiare insieme a noi).
Chissà se le operazioni letterarie messe in atto dall’autore del testo del Vangelo secondo Matteo e dagli autori del testo del Vangelo secondo Giovanni, sarebbero piaciute a Paolo di Tarso? È difficile dare una risposta perché dobbiamo riconoscere che Paolo ha un’altra mentalità: per lui Gesù di Nazareth è nato “da una donna secondo la carne” come ogni altro essere umano e, quindi, Gesù di Nazareth non è nato come figlio di Dio ma lo è “diventato”. Quando, secondo Paolo di Tarso, Gesù è stato concepito e partorito “come Figlio di Dio”? Paolo pensa che Gesù è stato concepito come “Figlio adottivo di Dio” nel battesimo di Giovanni (il battesimo di Gesù è la prima annunciazione) ma ritiene che sia stato pienamente riconosciuto come “Figlio adottivo” nel momento della risurrezione (la risurrezione è per Paolo il natale di Gesù) nel momento in cui Gesù diventa una persona “qualitativamente nuova”, diventa, secondo lo Spirito, il Cristo della fede. Questa riflessione che abbiamo fatto è scritta nel testo della Lettera ai Romani e corrisponde al brano dove si trova la “sentenza sulla nascita di Gesù” che abbiamo studiato. Adesso dobbiamo dire che del testo della “sentenza” sulla nascita di Gesù ne abbiamo studiato solo la metà e, ora, prendiamo in considerazione anche l’altra metà: ma lo sapete che su questi argomenti – non facili da trattare – bisogna procedere con cautela e bisogna muoversi con ordine…
Questo brano (i primi 4 versetti del primo capitolo della Lettera ai Romani) è anche l’incipit di tutto l’Epistolario di Paolo di Tarso perché gli scrivani della Scuola ellenistica Clementina, che nasce e si sviluppa a Roma negli anni 90 con il compito di mettere in ordine la Letteratura cristiana degli albori, collocano il testo della Lettera ai Romani per primo anche perché Paolo di Tarso – circa trent’anni prima – a Roma ha vissuto ed è (probabilmente) morto lasciando una traccia indelebile.
Leggiamo l’incipit della Lettera ai Romani che è anche l’incipit di tutto l’Epistolario di Paolo di Tarso:
LEGERE MULTUM ….
Lettera ai Romani 1 1-4
Vi scrive Paolo, servo di Gesù Cristo. Dio mi ha scelto e mi ha fatto apostolo perché porti il suo messaggio di salvezza. Dio, nella Scrittura per mezzo dei profeti, aveva già promesso questo messaggio di salvezza. Esso riguarda Gesù Cristo, nostro Signore. Nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne ma, sul piano dello Spirito, Dio lo ha costituito Figlio suo con potenza e sapienza [exousìa] quando lo ha risuscitato dai morti. …
Questa è la prima testimonianza dottrinaria della “nascita di Gesù” che per Paolo è un avvenimento ambivalente: c’è una nascita di Gesù vista con gli occhi della cultura ebraica, secondo la carne, che fa riferimento alla “genealogia” di Davide (e abbiamo studiato questo argomento) e c’è una nascita di Gesù vista con gli occhi della cultura ellenistica, secondo lo Spirito (il Pneuma), che fa riferimento alla risurrezione. Questo avvenimento ambivalente coincide con una esercitazione di “mediazione culturale”: un esercizio che, dal punto di vista formale, fa scuola perché crea un modello sul quale – come abbiamo studiato – si eserciteranno tutti gli autori della nascente Letteratura ellenistica dei Vangeli. Paolo è il primo a compiere – sul piano della costruzione del testo – l’avvicinamento tra l’icona ebionita e l’icona gnostica di Gesù dando inizio ad un procedimento di carattere letterario che si sviluppa in modo straordinario nei decenni successivi.
E ora noi non possiamo fare a meno di domandarci: ma in quanti modi diversi viene raccontata dalla Letteratura ellenistica dei Vangeli la “nascita di Gesù”? La risposta a questa domanda genera nuove domande, nuove sollecitazioni di studio e di ricerca in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Come nasce Gesù secondo la Letteratura dei Vangeli? Gesù nasce in una famiglia di Nazareth con una madre e un padre naturali e un certo numero di fratelli e sorelle? Gesù nasce per inseminazione soprannaturale da una vergine e con un padre putativo? Gesù viene adottato da Dio nel momento del battesimo? Gesù viene adottato da Dio nel momento della risurrezione?
Gesù – secondo la Letteratura ellenistica dei Vangeli – nasce in tutti questi modi e le domande legate alla comparsa di questo complesso personaggio attraversano nei secoli la Storia del Pensiero Umano e queste domande ce le continuiamo a porre. Gesù di Nazareth è uno dei più grandi personaggi della Storia della Letteratura e la Letteratura, parimenti alla Storia dell’Arte – nel corso dei secoli – ne ha moltiplicato le immagini (le icone).
Paolo di Tarso – dando inizio alla Letteratura ellenistica dei Vangeli – ha il merito di aver tratteggiato per primo i caratteri di questo straordinario personaggio sul quale sono stati scritti tanti di quei libri che non è facile contarli, tanti che, nelle più grandi biblioteche del mondo la voce “Gesù” è seconda per numero di libri scritti. E, se è seconda: qual è il primo argomento sul quale sono stati scritti più libri? L’argomento a cui sono dedicati – nel bene e nel male – più libri in tutte le biblioteche del mondo è “Dio” e questo fatto non è casuale perché la figura di Gesù ha trovato, fin da subito, un posto vicino alla figura di Dio.
Facendo questa affermazione noi dobbiamo, per forza di cose, tornare ancora sulla “sentenza della nascita di Gesù” contenuta nell’incipit della Lettera ai Romani e, in particolare, sulla seconda parte del testo della “sentenza”. Come sapete la mole degli studi e delle ricerche intorno a questi argomenti è enorme (la Lettera ai Romani è una delle opere che è stata più studiata nel secolo scorso). Paolo scrive: «Gesù Cristo, nostro Signore. Nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne ma, sul piano dello Spirito (Pneuma, nel senso che danno a questa parola le Scuole epicuree, stoiche e scettiche – frequentate da Paolo – con un significato che corrisponde al termine “Intelletto”) Dio lo ha costituito Figlio suo con potenza e sapienza (exousìa, un termine la cui valenza abbiamo studiato in autunno, nel quarto itinerario di questo Percorso)».
Tutte le studiose e tutti gli studiosi sono d’accordo nel pensare che Paolo di Tarso, in quanto fariseo rigidamente monoteista, non possa concepire – se non in modo blasfemo – il fatto che Dio si riproduca attraverso un intervento di inseminazione simile a quello messo in atto nella mitologia pagana generando – secondo la poetica mitica orfico-dionisiaca (vedi gli adultèri di Zeus ne Le metamorfosi di Ovidio] – una specie di semi-dio. Sappiamo che per Paolo – e per gli adozionisti – Gesù è stato “adottato come Figlio” in modo che possa agire e parlare in nome di Dio pur mantenendo intatta la sua essenza umana, ed ecco che cosa significano le parole della seconda parte della “sentenza sulla nascita di Gesù” contenuta nell’incipit della Lettera ai Romani: «sul piano dello Spirito (Pneuma), Dio lo ha costituito Figlio suo con potenza e sapienza (exousìa) quando lo ha risuscitato dai morti».
Le studiose e gli studiosi di filologia c’invitano a riflettere su un ulteriore aspetto legato a queste parole dove risulta centrale la parola “Figlio”, perché l’incipit della Lettera ai Romani contiene anche un’allusione di carattere politico, che si riferisce all’attualità politica (sono molte nel testo di questa Lettera le allusioni di carattere politico): che cosa significa? A Paolo – che è uno stratega – preme, come abbiamo studiato, richiamare l’attenzione sulla figura del re Davide tanto per tacitare gli ebioniti più intransigenti quanto per mettere in evidenza i testi dei due Libri di Samuele che, in realtà, non sono affatto teneri con i re: avete letto o riletto i due Libri di Samuele? Io me lo auguro e dico che siete sempre in tempo a fare questo esercizio.
Paolo ritiene che sia opportuno considerare il rabbi Gesù di Nazareth come discendente di Davide secondo la carne (la prima parte della sentenza) ma, nel momento della risurrezione, il Gesù Cristo della fede, secondo lo Spirito, viene adottato da Dio come “Figlio” (la seconda parte della sentenza) proprio perché possa stare al di sopra – o al di fuori – di una “genealogia” regale. La regalità umana – secondo Paolo di Tarso – non si addice al Cristo della fede e questo concetto è messo ben in evidenza nel Primo Libro di Samuele: «Vogliono un re? – dice Dio a Samuele – diamoglielo pure, così si accorgeranno in quali condizioni di servitù li ridurrà il loro re! A me non mi amano perché non amo la sudditanza – dice Dio a Samuele – e vogliono che io sia come un idolo e mi chiedono come mi chiamo non si ricordano che sono Colui che li ha liberati dalla schiavitù dell’Egitto, Colui che gli ha dato la libertà» (e questo è un tema di grande attualità).
Quindi secondo Paolo – che, mentre compone la “sentenza sulla nascita di Gesù”, sta riflettendo sui testi dei Libri di Samuele – il Cristo della fede non può essere considerato alla stregua di un monarca né del Regno d’Israele né di qualche Stato ellenistico. E dov’è l’allusione all’attualità politica? Paolo scrive ai Romani – molto probabilmente – da Corinto nella primavera del 57 quando padrone dell’Ecumene è diventato l’Impero romano (anche Paolo è in possesso della cittadinanza romana e questo è un tema che abbiamo studiato lo scorso anno): Augusto, il fondatore dell’Impero, muore nel 14 d.C. ed è il primo imperatore della famiglia Giulio-Claudia. La famiglia Giulio-Claudia regna fino all’anno 68 e gli imperatori di questa casata hanno dei bei nomi ma piuttosto inquietanti: Tiberio, Caligola, Claudio – le sue due mogli si chiamano Messalina e Agrippina – e, infine, Nerone. Paolo di Tarso arriva a Roma proprio nei primi anni 60 quando era in vigore una legge alla quale lui allude.
Nell’anno 49 l’imperatore Claudio emana una legge che decreta l’espulsione degli Ebrei da Roma perché si rifiutavano di “onorare” l’imperatore (si ricordavano del Dio di Samuele?): questo decreto-legge era più che mai in vigore nel 57 quando Paolo scrive ai suoi compagni che stanno a Roma e questa legislazione si era estesa anche agli Ebrei della diaspora che predicavano la buona notizia della risurrezione di Gesù e, in questi anni, cominciano tutta una serie di atti persecutori contro gli Ebrei e i credenti in Cristo (anche Paolo, probabilmente, morirà in questo contesto).
Paolo – nella seconda parte della “sentenza sulla nascita di Gesù” contenuta nell’incipit della Lettera ai Romani – vuole mettere in risalto che il Cristo della fede non può avere alcun rapporto con la regalità terrena, ed è per questo motivo che utilizza la parola “Figlio”: il Cristo della fede è il Figlio adottivo di un Dio che non è un monarca che rende schiavi i suoi sudditi ma è un liberatore, un padre, che vuole l’autonomia dei suoi figli.
E ora leggiamo il brano del Primo Libro di Samuele al quale Paolo sta pensando:
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Primo Libro di Samuele 8 1-22
Quando fu vecchio, Samuele diede ai suoi figli il compito di amministrare la giustizia nel popolo d’Israele. Il maggiore si chiamava Gioele e il secondo Abia; stabilirono la loro sede nella città di Bersabea. Ma non si comportavano come il padre: erano avidi di denaro, accettavano regali e pronunziavano sentenze ingiuste. Per questo i capi degli Israeliti si radunarono a Rama, presso Samuele e gli dissero: «Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non seguono il tuo esempio. Scegli dunque un re che ci governi, come avviene presso gli altri popoli».
La richiesta di essere governati da un re rattristò Samuele, che si rivolse al Signore. Il Signore gli rispose: «Ascolta pure la proposta che ti hanno fatto a nome di tutto il popolo. Non rifiutano te, rifiutano me: non vogliono più che sia io il loro re. Si comportano ora nei tuoi confronti come hanno sempre agito verso di me, da quando li ho fatti uscire dall’Egitto fino a oggi; mi hanno continuamente abbandonato per servire altri dèi. Tu, quindi, accetta la loro proposta, però avvisali molto chiaramente; devono sapere quali saranno, di fatto, i diritti del re che regnerà su di loro».
Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re: «Questi, - disse, - saranno i diritti del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli e li metterà alla guida dei suoi carri e dei suoi cavalli o ne farà guardie che precedono il suo carro a passo di corsa. Altri saranno messi a capo di unità militari di mille e di cinquanta soldati. Altri dovranno arare i suoi campi e mietere le sue messi oppure fabbricare armi e attrezzature per i suoi carri da guerra. Prenderà anche le vostre figlie come sue profumiere, cuoche e fornaie. Vi porterà via i campi, le vigne e gli uliveti migliori e li darà ai suoi uomini. Pretenderà la decima parte sui prodotti dei vostri campi e delle vostre vigne e li darà ai suoi funzionari e ministri. Sequestrerà i vostri schiavi e le vostre schiave, i vostri giovani più forti e anche i vostri asini e li farà lavorare per sé. Prenderà la decima parte delle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi schiavi. Un giorno, a causa del re che voi stessi avete domandato, invocherete aiuto, ma il Signore non vi ascolterà».
Così parlò Samuele, ma il popolo non volle dargli retta: «No! - esclamarono - noi vogliamo un re. Così saremo anche noi come tutti gli altri popoli: avremo un re che ci governerà, che uscirà alla testa dei nostri soldati e combatterà le nostre battaglie».
Samuele ascoltò tutto quel che il popolo diceva e lo confidò al Signore. Il Signore gli rispose: «Ascolta pure le loro richieste: dà loro un re!».
Quindi Samuele invitò tutti gli uomini d’Israele a ritornare ciascuno nella sua città. …
Paolo, inoltre, affianca alla parola “Figlio” la parola-chiave “exousia”: questo termine serve a definire l’essenza della “potenza e della sapienza di Dio” in alternativa a quella dei poteri terreni oppressivi, ed è naturale che Paolo in questo caso stia pensando al famoso Canto di Anna, la madre di Samuele, che cataloga quali sono le scelte di Dio in quanto liberatore: scelte completamente contrarie a quelle dei monarchi terreni che rendono schiavi i sudditi.
Leggiamolo il Canto di Anna, uno dei brani sul quale Paolo di Tarso porta a maturazione il concetto di “exousia”: il modo rivoluzionario, alternativo, con cui Dio manifesta la sua potenza:
LEGERE MULTUM ….
Primo Libro di Samuele 2 1-9
Anna pregò così: «Il Signore ha riempito il mio cuore di gioia, il Signore ha risollevato il mio spinto abbattuto. Ora posso ridere dei miei nemici; Dio mi ha aiutata: sono piena di gioia. Solo il Signore è santo, lui solo è Dio. Solo il Signore è roccia sicura. Smettete di dire parole superbe, basta con le frasi arroganti, perché il Signore è un Dio che sa tutto, egli giudica le azioni di ognuno. Egli spezza l’arco dei forti, riveste i deboli di forza. Chi aveva cibo a sazietà ora deve lavorare per un pezzo di pane. Chi invece soffriva la fame ora non deve più faticare. La donna sterile genera molti figli, quella che era feconda appassisce. Il Signore fa morire e fa vivere, fa scendere e risalire dal regno dei morti. Il Signore rende poveri e ricchi, umilia e innalza. Rialza il povero dalla polvere, e solleva l’infelice dalla miseria: lo fa sedere in mezzo ai principi, gli riserva un posto d’onore, perché il Signore è il fondatore del mondo e lo sostiene. Egli protegge il cammino di chi gli è fedele; mentre il malvagio svanisce nelle tenebre, nessuno avrà successo con le sue forze». …
Sette settimane fa – all’inizio della primavera – ci siamo domandate e domandati: quali notizie circolano su Gesù di Nazareth nell’ambiente delle ekklesìe? Che cosa si sa di lui? E, in particolare, che cosa sa Paolo di Tarso su Gesù di Nazareth? Torniamo – a primavera inoltrata, a due itinerari dalla fine di questo viaggio, – a farci queste domande sostenute da un paradosso.
Sappiamo che Paolo viaggia da una ekklesìa all’altra per cercare delle “notizie”, ma le notizie su Gesù sono scarsissime e allora – come abbiamo potuto constatare studiando il tema della “nascita di Gesù” sul quale, con certezza, si sa solo che Gesù “è nato” – inizia un processo di produzione di “fonti” che non sono direttamente ancorate a dei “dati storici” ma provengono dalla “predicazione” del messaggio di salvezza contenuto nella buona notizia della risurrezione di Gesù, una predicazione che si sviluppa con il supporto della cultura dell’ebraismo e della cultura ellenistica.
Questo significa che le notizie su Gesù vengono “costruite”? Non ci si deve scandalizzare: noi sappiamo che la scrittura di Paolo di Tarso è – secondo la Tradizione d’impronta rabbinico-farisaica a cui lui, disciplinatamente, si attiene – una significativa testimonianza culturale della costruzione di un midrash, di un testo cerimoniale che “trasforma” il Gesù della storia – un rabbi ebraico di cui non si sa quasi nulla – nel Cristo della fede: una persona nella quale s’incarna un messaggio di salvezza rivolto all’intera Ecumene, all’Umanità intera. Leggere le Lettere di Paolo significa, prima di tutto, seguire un grande esperimento di “mediazione culturale”: la “mediazione” è un elemento indispensabile perché un pensiero possa diventare una “cultura”, infatti, se una parola-chiave la recintiamo, la chiudiamo in una gabbia per conservarne una sua presunta purezza, ebbene, questa parola si cristallizza e comincia a sgretolarsi e a perdere la sua capacità di essere feconda. Se una “parola” esce dal suo recinto e partecipa ad un processo di mediazione – lo abbiamo constatato riflettendo sul termine “genealogia” e sulla parola “vergine” – si arricchisce di storia, diventa un contenitore di memoria, un oggetto ricco di sfaccettature nel quale si integrano ragionamenti, ricerche, studi, pensieri.
Paolo di Tarso non viaggia da una ekklesìa all’altra per fare lo storico o il giornalista, ma per far combaciare le “parole-chiave” che lui conia, attraverso l’esercizio della scrittura, con eventuali “fatti” che ne possano confermare il valore e se non trova conferme nei “fatti” non si scoraggia: alla mancanza di notizie reagisce facendo appello alla ricchezza del patrimonio che ha ereditato dalle sue culture di riferimento, l’ebrea e l’ellenistica. Paolo non trova notizie – se non contraddittorie – sulla nascita di Gesù e allora reagisce, investe in intelligenza facendo appello alla ricchezza del patrimonio che ha ereditato dalle sue culture di riferimento: l’ebrea e l’ellenistica.
Così come non trova notizie sulla “nascita di Gesù”, Paolo non trova notizie – se non scarsissime – sulla “risurrezione di Gesù”. Che cosa scopre Paolo a proposito della “risurrezione di Gesù”? Questa domanda richiama un altro testo formidabile dell’Epistolario di Paolo di Tarso: la Lettera ai Galati, di cui la Scuola sta per proporre la lettura o la rilettura. Perché abbiamo detto che la Lettera ai Galati è un testo formidabile? Perché è, forse, la più graffiante di tutte le sue opere ed è scritta con uno stile che, in molti punti, ricorda il genere letterario del giallo. Il giallo presuppone il mistero ma le studiose e gli studiosi di filologia affermano che misteri non ce ne sono: è Paolo che fa il misterioso perché decide di compiere un’opera di depistaggio in modo da far corrispondere le sue idee agli avvenimenti. Che significato ha questa affermazione?
Ce occuperemo la prossima settimana perché il viaggio continua e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona – lo scrive anche Paolo ai Galati – deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…