ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna 3–4-5 maggio 2017
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA
LE SIBILLE SONO INDICATORI CULTURALI ...
Questo è il venticinquesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica rinascimentale agli albori dell’età moderna” e il nostro Percorso procede all’interno della Cappella Sistina nella quale siamo entrate e siamo entrati [cinque settimane fa] per osservare le centinaia di immagini affrescate da Michelangelo sul soffitto di questo famoso edificio.
Dopo aver osservato all’ingresso, sopra la porta principale della Cappella, la figura del profeta Zaccaria con il volto di papa Giulio II che tiene in mano il Libro di Zaccaria, abbiamo puntato la nostra attenzione sulle categorie delle figure affrescate disposte in modo da garantire “l’unitarietà” dell’affresco. E, in queste settimane, abbiamo osservato le categorie di immagini dei Medaglioni, degli Ignudi, delle Cariatidi monocrome, delle Lunette, delle Vele, dei Pennacchi, e adesso dobbiamo puntare l’attenzione su un’altra categoria “dallo sconcertante assortimento di immagini” [così è stata definita].
La categoria di immagini che appare più evidente sul soffitto della Cappella Sistina è quella che è stata definita con l’espressione: “uno sconcertante assortimento di Sibille e di Profeti”. Queste grandi figure si alternano sedute sui loro scranni e sono collocate tra le Vele e il lungo Pannello centrale, e incombono dai venti metri di altezza del soffitto della Cappella ma non guardano verso terra perché hanno qualcosa di ben più importante a cui pensare [cui farci pensare, come dire “sappiate guardare oltre”], e il loro atteggiamento pensoso riguarda il fatto che ciascuna di queste figure [meno una] ha a che fare con un Libro o con un Rotolo che contiene “parole di saggezza” [termini sapienziali e poetici] che vengono dal tempo passato [dal chronos, dal tempo che passa e che non c’è più], parole che devono essere salvaguardate e studiate nel tempo presente [nel kairòs, nel tempo che resta] perché possano fecondare il tempo futuro [l’eskaton, il tempo che verrà e che non c’è ancora]. Con il riferimento ai Libri dipinti sulla volta Michelangelo, insieme a Giulio II e a Fedra Inghirami, esprime l’idea - sostenuta dalla corrente pedagogico-filologica del neoplatonismo - secondo cui, per incamminarsi sulla via della salvezza, sulla via dell’autonomia [che consiste nel saper investire in intelligenza], la persona deve imparare a studiare, deve saper utilizzare le tecniche della scrittura e, soprattutto, deve essere competente nell’esercizio della lettura. E non è casuale il fatto che la radice latina del verbo “leggere” sia la stessa del termine “intelletto”. In latino il verbo “intelligere” [che riassume le prime tre azioni cognitive: del conoscere, del capire e dell’applicare] viene da “inter-legere, leggere tra”, e la persona istruita, competente e autonoma, è quella che è in grado di “leggere tra le righe”, riflettendo, ed esercitando un pensiero interpretativo per comprendere i molteplici livelli di senso presenti contemporaneamente in un testo. E avete capito che in questa grande pagina che è il soffitto affrescato della Cappella Sistina non si fa altro che “leggere tra le righe”.
Mettere insieme le Sibille [che sono sacerdotesse pagane] e i Profeti ebrei [che sono figure monoteiste], come ha fatto Michelangelo, sostenuto da Giulio II e da Fedra Inghirami, potrebbe sembrare un gesto antitetico anche per il fatto che gli imperi rappresentati dalle cinque Sibille - l’egizio, il babilonese, il persiano, il greco e il romano - hanno tentato, in successione [come abbiamo letto nei Libri della Bibbia anche nel corso di questo viaggio], di cancellare gli Ebrei dalla faccia della terra. E, d’altra parte, i sette Profeti, che Michelangelo raffigura, hanno predicato con energia affinché gli Ebrei cessassero - com’erano sempre tentati di fare - di adorare gli idoli [il potere, la ricchezza, la gloria], ed è per questo che il linguaggio dei Profeti si fa minaccioso affermando che Dio non gli avrebbe garantito la sopravvivenza se non si fossero adoperati per realizzare tra loro e con gli altri popoli: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia.
Come ben sapete, questi cinque termini virtuosi sono le parole-chiave dell’Umanesimo, e queste parole sono frutto di una tradizione che viene da lontano e sono termini comuni a tutti i grandi apparati della Storia dell’Umanità, ed ecco che Michelangelo, sostenuto da Giulio II e da Fedra Inghirami, mette insieme “le Sibille del mondo classico pagano” con “i Profeti biblici del mondo monoteista” per affermare e rafforzare l’idea di “unitarismo” [l’identità di Valori nella diversità delle Culture perché le culture umane per strade diverse approdano agli stessi Valori].
La spiegazione di questa categoria di immagini, le Sibille pagane e i Profeti monoteisti, potrebbe anche finire qui: questo gesto pittorico è esaustivo di per sé e rimanda al cuore della dottrina di Paolo di Tarso il quale, prima di essere cristiano o proprio per essere cristiano, è un ebreo-fariseo [studente di esegesi biblica alla Scuola del rabbi Gamaliele, il più liberal] ma è anche un greco di cultura ellenistica [conoscitore del pensiero platonico, aristotelico, epicureo, stoico, scettico, cinico, eclettico] ma è anche un cittadino romano [che conosce il diritto e la giurisprudenza di impronta ciceroniana]: quindi, la dottrina di Paolo di Tarso è il prodotto di una vasta eterogeneità culturale, e Paolo sa di poter parlare a tutti, in quanto esseri umani [“Non ci sono più né ebrei né greci né romani”, scrive Paolo], con parole semplici per fare un’affermazione di qualità, per dire che “ogni persona può vincere il male con il bene”. Il gruppo delle Sibille e dei Profeti, dal soffitto della Sistina, pone ai vertici della Chiesa - che si riuniscono in questa Cappella per celebrare i riti sacri e le riunioni importanti - l’ammonimento di Paolo sotto forma di interrogativo: facciamo tutto il possibile per insegnare alle persone a vincere il male con il bene?
Sulla scia del pensiero rinascimentale [che si esprime più che mai sul soffitto della Cappella Sistina] il testo della Lettera ai Romani formato da 16 capitoli, indipendentemente dall’ordine cronologico [la Lettera ai Romani è stata scritta da Corinto nella primavera del 57, tra le ultime], si colloca al primo posto nell’indice dell’Epistolario di Paolo di Tarso, e nel cuore del testo della Lettera ai Romani l’autore sviluppa il tema de “l’agire per il bene degli altri”: un tema contenente un messaggio che riguarda tutte le persone di buona volontà sia quelle che ascoltano la voce delle Sibille [egizi, babilonesi, persiani, greci, romani] sia quelle che ascoltano la voce dei Profeti [ebrei e cristiani].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il testo della Lettera ai Romani contiene alcuni temi che si manifestano nell’affresco del soffitto della Cappella Sistina: “Gesù è figlio di Davide nella carne, e nello spirito è stato adottato da Dio nella risurrezione”; “la fede è l’evidenza delle cose non viste e sperate”; “la salvezza viene dalla fede prima che dalle opere”; “chi ama il prossimo ubbidisce a tutta la Legge”... Questo è il momento per leggete o per rileggete il testo della Lettera ai Romani in chiave propedeutica perché viene citata spesso nelle opere della Letteratura moderna e contemporanea...
Leggiamo un frammento del capitolo 12 della Lettera ai Romani.
LEGERE MULTUM….
Paolo di Tarso, Lettera ai Romani 12
Dico a ciascuna e a ciascuno di voi di non sopravvalutarsi, ma di valutarsi invece nel modo giusto, secondo la misura della fede che Dio gli ha dato.
Preoccupatevi di fare il bene dinanzi a tutti. Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non vendicatevi ma lasciate agire la collera di Dio, perché nel Libro del Deuteronomio si legge: “A me la vendetta, dice il Signore, darò io il contraccambio”, anzi, come si legge nel Libro dei Proverbi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere. Comportati così, e lo farai arrossire di vergogna. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene.
Chi aiuta i poveri, lo faccia con gioia. Il vostro amore sia sincero! Fuggite il male, seguite con fermezza il bene. Amatevi gli uni gli altri, come fratelli e sorelle. Siate premurosi nello stimarvi gli uni gli altri. Siate impegnati, non pigri; siate allegri nella speranza, pazienti nelle tribolazioni, perseveranti nella preghiera. Siate pronti ad aiutare chi ha bisogno, e fate di tutto per essere ospitali. Chiedete a Dio di benedire quelli che vi perseguitano, di perdonarli, non di castigarli.
Siate felici con chi è nella gioia. Piangete con chi piange. Andate d’accordo tra di voi. Non inseguite desideri di grandezza, volgetevi piuttosto verso le cose umili. Non vi stimate sapienti da voi stessi! Non rendete a nessuno male per male. Date a ciascuno quel che gli è dovuto. Non abbiate debiti con nessuno, salvo quello dell’amore vicendevole: perché chi ama il prossimo ha ubbidito a tutta la Legge di Dio. …
La Lettera ai Romani contiene tutta una serie di affermazioni che hanno un valore paradossale nel I secolo [al tempo di Paolo, quando la morale si fondava sulla “mentalità predatoria” che è la principale caratteristica che fa grande e potente lo Stato romano] ma il fatto è che dopo circa duemila anni queste affermazioni continuano a mantenere il carattere del paradosso tanto che sono diventate dei luoghi comuni invece di avere un utilizzo concreto sul piano delle buone pratiche educative.
Tutto il testo della Lettera ai Romani contiene un messaggio alternativo, che possiamo definire “utopico”, nei confronti delle asserzioni realistiche che hanno sempre dominato sul piano pratico: “dobbiamo pensare soprattutto ai fatti nostri e dobbiamo farci furbi” [perché chi ama il prossimo finisce sempre per essere buggerato].
Abbiamo evocato il termine “utopico” e, quindi, lasciamo temporaneamente in sospeso [tanto non cadono] le figure delle Sibille e dei Profeti per incontrare un personaggio che, per primo, ha dato un senso al termine “utopia” e che abbiamo già citato molte volte in queste settimane: Tommaso Moro [Thomas More].
Tommaso Moro [Thomas More] è nato a Londra nel 1478 in una famiglia dell’aristocrazia inglese e fin da bambino si dedica con passione agli studi umanistici e filologici secondo la tradizione degli Umanisti italiani, fiorentini in particolare, e i suoi punti di riferimento li trova nelle opere di Lorenzo Valla, di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, e infatti la sua prima opera importante è una biografia che s’intitola Vita di Giovanni Pico della Mirandola, pubblicata nel 1510. Tommaso Moro diventa un profondo conoscitore del pensiero degli Umanisti italiani [del lavoro intellettuale della corrente pedagogico-filologica del neoplatonismo] frequentando la Scuola fondata a Londra da John Colet.
John Colet [1467-1519] è un umanista [lui si definisce principalmente un teologo] che ha soggiornato per lungo tempo a Firenze dove ha conosciuto Marsilio Ficino e Pico della Mirandola e, sotto la loro guida, ha studiato i Classici greci e latini, la Cultura ebraica, la Filosofia di Platone e di Aristotele, la Patristica greca e latina e l’Epistolario di Paolo di Tarso, un’opera, come sappiamo, fortemente trascurata da secoli. Anche l’opera più importante di John Colet è formata da Lettere, ed è l’Epistolario che contiene la sua corrispondenza con Erasmo da Rotterdam che, come tutti gli epistolari è una miniera di informazioni utili per conoscere il clima storico, intellettuale e politico di un’epoca: John Colet ed Erasmo nelle loro Lettere mettono soprattutto in evidenza il divario tra la dottrina evangelica di Paolo e il legalismo dogmatico del Diritto canonico, e per aver divulgato questo pensiero John Colet viene perseguito e rischia di essere condannato al rogo dal tribunale dell’Inquisizione [deve la vita a Giulio II che lo grazia]. Quando torna a Londra John Colet fonda la “Scuola di San Paolo” che ha come programma quello di utilizzare il metodo filologico moderno [il metodo di Lorenzo Valla] per studiare e fare l’esegesi della Letteratura dei Vangeli [delle ventisette Opere del canone del Nuovo Testamento]. Quando Erasmo da Rotterdam va a Londra nel 1509 a incontrare John Colet [con il quale è in corrispondenza] conosce Tommaso Moro e i due diventano buoni amici e compagni di studi.
John Colet muore nel 1519 e Tommaso Moro - sulla scia della formazione intellettuale che ha acquisito alla “Scuola di San Paolo” - diventa un attivo uomo politico, viene eletto alla Camera dei Comuni dove sostiene il ruolo primario del Parlamento e l’idea che il re deve sempre rimettersi alla decisione del Parlamento stesso. Tommaso Moro promuove la redazione di un Regolamento istituzionale [un codice di comportamento] condiviso da tutte le parti sociali per garantire il buon funzionamento e l’autonomia di ogni Istituzione statale, e Tommaso Moro viene considerato il padre del parlamentarismo inglese ed europeo. Nel 1529 Tommaso Moro viene nominato gran cancelliere, cioè primo ministro e capo del governo.
Non risulta simpatico a tutti coloro che detengono il potere economico e finanziario perché l’analisi realistica che Moro fa della società inglese del suo tempo mette in giusto rilievo i problemi che provocano la crisi di questo paese e di molti paesi europei: in primo luogo attacca il parassitismo della nobiltà che, afferma Moro, dati alla mano, è la vera causa della disoccupazione che sospinge i sudditi tanto verso il crimine quanto verso la vita militare. La vita militare, scrive Moro, gonfia gli eserciti e ciò spinge gli Stati a vivere in una situazione di conflittualità permanente, e poi, nei periodi di pausa dalla guerra, turbe di soldati sfaccendati e aggressivi creano, nelle città, enormi problemi di disordine pubblico. In secondo luogo, scrive Moro, l’industria tessile in espansione, per procurarsi la materia prima cioè la lana, trasforma in pascoli per pecore i terreni agricoli e i contadini che vivono e lavorano su quelle terre perdono il lavoro e diventano vagabondi disadattati, e anche l’allevamento del bestiame, che è strettamente legato all’agricoltura, fonte di sostentamento delle famiglie contadine, viene meno creando un notevole impoverimento e una società in cui pochissimi possono permettersi di mangiare carne. Questa situazione di degrado sociale fa aumentare l’autoritarismo e la monarchia degenera in tirannide sostenuta dalla nobiltà che contende il potere al Parlamento.
Tommaso Moro basa il suo impegno politico sulla definizione che Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani ha dato della fede [una definizione che conosciamo perché si riverbera sul soffitto della Cappella Sistina]; scrive Paolo: «La fede è l’evidenza delle cose mai viste, delle cose sperate» e, quindi, afferma Moro, se nella nostra mente si configurano in modo evidente idee buone, belle e giuste, anche se non le abbiamo ancora mai viste concretizzarsi [perché stanno in un “non-luogo”, in greco “u-topos”], le possiamo e le dobbiamo realizzare.
Come primo ministro Tommaso Moro s’impegna a legiferare per creare equilibrati rapporti sociali ed economici: vuole introdurre nella società un sistema di vita solidale e comunitario basato sulla tolleranza in modo da creare un giusto rapporto tra l’emergente progresso tecnico e l’attività agricola. A livello internazionale s’impegna a costruire uno spirito di pace e di collaborazione per l’evidente motivo che la guerra porta solo lutti e miserie. Naturalmente, come potete capire, si fa molti nemici tra tutti quelli che non vogliono perdere né i privilegi né il potere.
Ma l’epilogo drammatico della vita di Tommaso Moro avviene quando, per coerenza, disobbedisce al re Enrico VIII [personaggio molto conosciuto, insieme alle sue sei mogli, soprattutto attraverso il cinema]. E la questione per cui Tommaso Moro ci rimette la vita riguarda apparentemente un problema matrimoniale: Enrico VIII vuole divorziare, vuole liberarsi della sua prima moglie Caterina d’Aragona per poter sposare Anna Bolena. Il papa, Clemente VII [Giulio de’Medici, che gestisce male la faccenda nel clima arroventato dagli esiti della Riforma luterana], non vuole concedere l’annullamento di questo matrimonio perché intende affermare la supremazia del papa sui re [e pensare che questioni del genere erano all’ordine del giorno e le cause di annullamento dei matrimoni reali venivano di solito risolte d’ufficio dal Sant’Uffizio] e nasce una disputa sulla supremazia tra il papa di Roma e il re d’Inghilterra.
Tommaso Moro, come primo ministro, è costretto a trattare su questa questione con Roma, e lui cerca una mediazione e vorrebbe far ragionare il papa e il re, ma Enrico VIII, nel 1534, sostenuto dalla nobiltà, redige l’Atto di supremazia nei confronti di Roma e, con questo documento si auto-proclama capo della Chiesa inglese: nasce l’Anglicanesimo. Il re distribuisce ulteriori privilegi e pretende che il Parlamento ratifichi l’Atto di supremazia, ma Tommaso Moro disapprova e si oppone a questa operazione che definisce di megalomania reale, senza fondamento né logico né teologico né giuridico. Per questo Tommaso Moro viene arrestato, processato e condannato per lesa maestà e tradimento: viene “giustiziato” l’anno seguente il 6 luglio 1535.
In galera scrive un bel libretto di commento al De consolatione Philosophiae [Consolazione della Filosofia] di Severino Boezio intitolato Dialogo del conforto nelle tribolazioni.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
E voi, in caso di sconforto, in che cosa cercate consolazione?...
Scrivete quattro righe in proposito...
E pensare che Enrico VIII, nel 1521, aveva condannato Lutero rimproverandolo di essersi ribellato a papa Leone X, ma naturalmente Lutero, come vedremo, aveva ben altre motivazioni per opporsi.
Nel 1516 Tommaso Moro pubblica, a Lovanio, l’opera che lo fa entrare nella Storia del Pensiero Umano, intitolata Utopia [Utopia, è una sintesi del titolo che è un po’ più articolato]. Le descrizioni fantastiche contenute in questo Libretto non hanno fatto a molti [dei pochi] lettori dell’epoca un effetto molto diverso dalle Relazioni di viaggio degli esploratori del Nuovo Mondo, che in quegli anni cominciano a circolare in Europa. In realtà, dando alla sua isola immaginaria il nome di Utopia, che in greco significa “in nessun luogo”, Moro - anche riflettendo sulla definizione della fede data da Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani [la fede è l’evidenza delle cose mai viste] - ha coniato una parola nuova destinata a definire, una volta per sempre, l’aspirazione delle persone di ogni epoca ad una società bella, buona e giusta. Forse a noi oggi, che abbiamo visto e vediamo il naufragio di molte utopie, non tutti gli aspetti della società ideale descritti dal politico londinese potranno sembrare attraenti ma, una cosa è certa, per le sue idee Tommaso Moro ha affrontato la morte con coerenza. Che tipo di opera è Utopia?
Tommaso Moro nel 1516 pubblica a Lovanio un Libretto intitolato De optimo Reip.[ublicae] Statu, deque nova insula Utopia [Della migliore forma di Stato e della nuova isola di Utopia]. Utopia è un romanzo politico, formato da due Libri, di carattere prevalentemente teologico e umanistico. Tommaso Moro immagina di dialogare con un personaggio di nome Raffaele Itlodeo [in greco “chiacchierone”] che ha viaggiato per il mondo e critica in modo pacato ma caustico la società inglese ed europea partendo dalla questione della pena di morte comminata per il reato di furto [di generi alimentari] e descrive, nell’incipit del primo Libro, la triste condizione del popolo: «Le pecore, scrive Moro, si sono mangiate le persone, perché il governo inglese, dopo aver incamerato i beni dei comuni per premiare i favoriti del re, ha tolto la terra ai contadini [per farne pascolo] e vi ha messo le pecore, costringendo i contadini stessi al banditismo per poter vivere … E che altro fate voi? scrive Moro, Prima fate dei ladri, poi li punite con la morte». Tommaso Moro, per bocca di Itlodeo, condanna questa procedura ingiusta dimostrando sociologicamente che le cause del furto dipendono dalla miseria come conseguenza di un’ingiusta ripartizione dei beni, e questo avviene anche, scrive Moro, perché è andata determinandosi «una decristianizzazione» della politica europea per cui non sono state varate Leggi sulla corretta “distribuzione dei beni” tenendo conto dei principi evangelici, ma l’azione giuridica e legislativa è stata quella di strumentalizzare il Vangelo per mantenere un ingiusto ordine gerarchico e, di conseguenza, la società cessa di essere civile per diventare sempre di più incivile, così come, allo stesso modo, non si è tenuto conto dei principi - che garantiscono un corretto funzionamento statale - contenuti nella Repubblica di Platone. A questo proposito, scrive Moro, anche la stragrande maggioranza degli intellettuali laici, temendo di perdere privilegi acquisiti, ha fatto ben poco per aprire una discussione sul rapporto tra la filosofia e la politica. Per motivi programmatici, scrive Moro, è necessario creare una distinzione tra la filosofia accademica [dei saccenti privilegiati che spalleggiano il potere e vogliono che nulla cambi] e la filosofia pratica [dei saggi che, a loro rischio e pericolo, propongono programmi per una società socialmente più giusta]. Il filosofo pratico, come consigliere politico di chi governa, deve farsi garante, scrive Moro, dei bisogni dei cittadini a cominciare dagli ultimi ma, purtroppo, anche la Chiesa, scrive Moro, fa una distinzione inversa e, allontanandosi dalla dottrina di Cristo così come l’ha enunciata Paolo di Tarso nel suo Epistolario, parteggia per i potenti in quanto garantiscono ad essa dei privilegi.
Nel secondo Libro Itlodeo, scrive Moro, racconta di aver visitato - durante uno dei suoi viaggi - uno Stato immaginario nella fantastica isola di Utopia. A Utopia, racconta Itlodeo, il regime sociale ed economico si basa sul lavoro manuale [sulla produzione di beni principalmente di natura agricola e su servizi sociali utili alla collettività] ripartito in modo che sia garantito a tutti con una giornata lavorativa dalle quattro alle sei ore [l’orario dipende dalla qualità del lavoro da svolgere] in modo che rimanga il tempo alla persona di coltivare la mente con almeno tre ore di studio quotidiano. A Utopia, racconta Itlodeo, gli intellettuali, oltre a contribuire manualmente al lavoro di produzione di beni e servizi, devono essere a disposizione per organizzare e guidare le attività di istruzione che hanno come obiettivo quello di far nascere in ogni persona la fiducia che sono le istituzioni razionali [è la capacità di investire in intelligenza] a preservare la persona dalla sua intrinseca tendenza al male [ed è con una presa di coscienza di carattere intellettuale che si superano i danni dovuti al peccato originale] e, quindi, scrive Moro facendo parlare Itlodeo, le attese salvifiche si spostano dalla trascendenza delle idee religiose all’immanenza dell’ideale politico. Gli Utopiensi, racconta Itlodeo, hanno individuato nella proprietà privata la fonte di tutti i pericoli che minacciano la Repubblica, in quanto l’alterigia prodotta dalla proprietà rende letteralmente impossibile l’esistenza di una comunità umana. La Costituzione di Utopia - che è stata scritta da un saggio principe fondatore di nome Utopus - prescrive l’eliminazione della proprietà privata con tutte le conseguenze che comporta. Gli Utopiensi, quindi, non conoscono la distinzione fra “privato” e “pubblico” ma solo una comunità onnicomprensiva, e qui Tommaso Moro incalza il suo virtuale interlocutore Itlodeo, ricordandogli che questo sistema nasconde una forma latente di totalitarismo dove niente sfugge al controllo delle associazioni di famiglie che costituiscono la base della comunità politica, ma Itlodeo risponde, Moro risponde a se stesso, che in Utopia l’ambito politico corrisponde tendenzialmente alla dimensione amministrativa alla quale tutti, a turno, devono partecipare e, quindi, non nascono lotte per il potere. Le Leggi a Utopia sono poche e chiare, e questa affermazione rappresenta, da parte di Moro, una critica al carattere complicato e confuso della legislazione inglese che è causa di soprusi e malversazioni.
A Utopia, scrive Moro, si pratica l’etica epicurea, combinata con i precetti evangelici, e questa scelta procura un salutare piacere e una felicità, che scaturiscono da una vita materiale vissuta in modo conforme ai ritmi della Natura, e da una vita intellettuale vissuta coltivando, con lo studio, ogni tipo di attività spirituale che possa elevare l’anima di ogni singola persona. Gli Utopiensi credono sostanzialmente in una divinità universale [che non ha una specifica connotazione religiosa] ispiratrice di una dottrina che indirizza ogni persona ad incamminarsi sulla via del Bene secondo la visione dell’Umanesimo utopico.
Quest’opera ha avuto grande successo e alla sua diffusione ha contribuito uno stile linguistico colloquiale, l’umorismo di cui è pervasa e la potenza descrittiva del dialogo serrato sostenuto dai due personaggi protagonisti dell’opera.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In biblioteca richiedete Utopia di Tommaso Moro e leggetene qualche pagina… Accanto alla parola “utopia” preferite mettere il termine “illusione” o il termine “ideale”?...
Basta un parola per rispondere, scrivetela...
C’è un motivo per leggere l’epilogo di Utopia? C’è un motivo, o meglio, un intreccio filologico che ci fa tornare ad alzare lo sguardo al soffitto della Sistina.
LEGERE MULTUM….
Tommaso Moro, Utopia
Quando Raffaele ebbe posto fine alla sua narrazione mi vennero in mente molte cose, ma io lodai sia le Leggi utopiane che il suo racconto, poi lo invitai a cena dicendogli che ci saremmo incontrati un’altra volta per parlare ancora più a lungo. Ah, se potesse succedere! Dicevano i nostri più antichi antenati di fronte ai responsi, ma non proprio tutti, delle Sibille. Ed io, pur non essendo d’accordo con tutto ciò che lui ha detto, tuttavia lo ritengo un uomo colto ed esperto delle cose del mondo, e confesso di sperare che molte delle caratteristiche della Repubblica di Utopia, che richiamano l’evidenza delle cose mai viste, siano introdotte anche nei nostri Paesi, anche se non ho molti motivi per sperare.
Cinque Sibille ci aspettano sul soffitto della Cappella Sistina.
La parola “sibilla” deriva dall’espressione babilonese “sabba-il” che significa “antica [creatura] di Dio”, una creatura che fa pensare a “una profetessa” ma si tratta di un oggetto mitico più complesso. Le più note Sibille del mondo classico - quelle descritte a Michelangelo da Fedra Inghirami [il quale ha dispiegato tutta la sua competenza bibliografica nel fornire dati utili al pittore] - erano undici: la Libica, la Persiana, l’Ellespontica, la Tiburtina, la Cumana, la Delfica, l’Eritrea, la Cimmeria, la Frigia, la Samia e quella di Marpesso. La Chiesa riconosceva il ruolo profetico di tre Sibille - la Tiburtina, l’Ellespontica e la Samia - che venivano rappresentate, seppur raramente, dagli artisti medioevali. La Tiburtina - originaria di Tivoli, cittadina non lontana da Roma - aveva vaticinato ad Augusto l’avvento di Gesù, aveva rivelato che Costantino si sarebbe convertito al cristianesimo e che l’Anticristo sarebbe stato un ebreo della tribù di Dan [una leggenda spesso utilizzata dagli antisemiti]. L’Ellespontica aveva previsto la crocifissione e veniva raffigurata con la croce. La Samia aveva previsto che Gesù sarebbe nato in una stalla. Queste tre Sibille, quindi, erano adatte per essere collocate in un ambiente ecclesiastico ma nessuna delle tre compare sul soffitto della Sistina.
Sul soffitto, in sequenza, a partire dall’ingresso della Cappella, troviamo la Delfica seguita dall’Eritrea, dalla Cumana, dalla Persica e dalla Libica. Le immagini delle Sibille, dipinte sul soffitto della Sistina, ci propongono una riflessione bibliografica piuttosto complessa che dobbiamo compiere per capire in che modo, con il consenso del papa, ha ragionato il pittore su indicazione del consulente librario che ha un ruolo fondamentale. Però il primo regista dell’operazione [che noi conosciamo perché lo abbiamo incontrato frequentando l’Accademia Platonica fiorentina nel novembre scorso, della quale è stato il segretario] è Cristoforo Landino [1424-1498] che, pur essendo già morto [da un decennio], ha lasciato in eredità un insegnamento del quale anche Fedra Inghirami ha usufruito.
Cristoforo Landino nella Scuola di Palazzo Medici [che Michelangelo ha frequentato da ragazzo, come sappiamo] insegna, in primo luogo, la Lingua e la Letteratura latina ed è il più importante latinista del Rinascimento. Cristoforo Landino insegna che le figure delle Sibille si trovano costantemente citate nelle opere della Letteratura latina con un preciso intento proprio perché, in greco, afferma Landino, il verbo “sibillèo” significa “segnalare” e, di conseguenza, dobbiamo considerare le mitiche figure delle Sibille come se fossero degli “indicatori intellettuali” utili ad avvisare e ad ammonire che bisogna cogliere un insegnamento di carattere etico dal testo dove compare la loro presenza.
Fedra Inghirami invita Michelangelo ad agire sulla parete di conseguenza: le figure delle Sibille devono indicare dei “moniti” [esortazioni] presenti nella Letteratura latina che sono in linea con la dottrina evangelica e, difatti, nelle immagini di tre Sibille - la Delfica, l’Eritrea e la Cumana [di fonte letteraria latina] - noi possiamo riscontrare i riferimenti letterari che hanno ispirato la loro composizione, mentre per la Persica e la Libica abbiamo un medesimo nesso di riferimento [di fonte letteraria greca]. Ma procediamo con ordine facendo l’inventario.
La Sibilla Delfica [la prima che osserviamo] ha uno sguardo di una bellezza straordinaria [e in campo pubblicitario si abusa dell’utilizzo di questo volto] perché gli occhi contengono l’essenza della malinconia, e questo sguardo è “l’indicatore intellettuale” che ci porta a interpretare questa figura. Quella di Delfi è una delle Sibille più antiche, e non va confusa con la Pizia, la sacerdotessa di Apollo meglio nota come “l’oracolo di Delfi”, che ha spesso un ruolo importante nella Letteratura epica e tragica dell’antica Grecia. Nella Letteratura latina [e Fedra Inghirami, sulle orme di Cristoforo Landino, dà a Michelangelo un’indicazione utile per dare forma allo sguardo della Delfica] lo sguardo malinconico della Sibilla Delfica è descritto in un’opera di Ovidio [43 a.C.-17/18 d.C.] intitolata Heroides [le Eroine, scritta dopo il 15 a.C.].
Le Heroides [le Eroine] è un’opera in versi elegiaci formata da una serie di Lettere: quindici Lettere fantastiche scritte da donne famose [mitiche eroine] ai loro amanti o mariti per comunicare quanto hanno sofferto per amore, poi seguono altre sei Lettere di risposta degli amanti o mariti alle eroine i quali tentano di consolarle. Nella poesia delle Heroides il mito diventa una fonte per parlare di sentimenti quotidiani, e Ovidio utilizza la tradizione mitologica per far diventare queste eroine immaginarie delle figure di donne vere, ricche di sentimenti umani. Ovidio, inoltre, inserisce, sempre in versi, tra una Lettera e l’altra le sue riflessioni di carattere esistenziale che rappresentano la parte più significativa di quest’opera: sono considerazioni che servono per far capire come i racconti mitici siano utilizzati per tenere assoggettate le donne invece che per dare loro autonomia di pensiero.
Nelle Heroides c’è anche una Lettera di Elena a Paride seguita dal testo delle riflessioni di Ovidio nel quale troviamo il motivo per cui Michelangelo ha potuto dipingere lo straordinario “sguardo malinconico” della Sibilla Delfica dando forma e colore ai versi di Ovidio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete scritto, con la penna, una Lettera ultimamente?... L’avete anche spedita?...
Prima di leggere i versi, che Fedra Inghirami si suppone abbia letto a Michelangelo perché trovasse ispirazione nel dipingere la Sibilla Delfica e i due putti che stanno alle sue spalle, dobbiamo fare una riflessione introduttiva.
Il personaggio di Elena - che viene evocato in questo pannello del soffitto della Sistina [il volto della Delfica coincide con quello di Elena?] - è uno dei più tragici della mitologia greca e merita pietà, misericordia, compassione: Elena è vittima della sua bellezza, vorrebbe essere meno bella, vorrebbe non essere contesa come un trofeo da tenere sotto chiave, ma desidererebbe essere umanamente amata. Secondo la tradizione mitica Elena nasce da un uovo perché è la figlia di Leda fecondata da Zeus che si è trasformato in cigno per conquistarla [come narra Ovidio ne Le metamorfosi, e quanti dipinti ritraggono questa scena!], e nello stesso uovo prendono vita anche due gemelli, Castore e Polluce, che poi diventano due astri. L’uovo è il simbolo più appropriato per definire le origini, e perché una cosa abbia origine è necessario “lo sdoppiamento” e, difatti, dentro l’uovo lo sdoppiamento si vede: c’è un albume [il bianco, la luce] e c’è un tuorlo [lo scuro, le tenebre]. L’uovo è il simbolo delle origini e contiene in sé la luce e le tenebre: due elementi imprescindibili che caratterizzano tutti i racconti delle origini.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In quale modo volete proporre di cucinare l’uovo?...
Scrivete quattro righe in proposito...
I due putti, raffigurati da Michelangelo alle spalle della Sibilla Delfica, richiamano Castore e Polluce e sono stati dipinti uno di fronte e l’altro dietro ad un Libro [il volume de Le metamorfosi di Ovidio?] che racconta la trama di questo mito che si riflette sui loro visi e, difatti, uno è in chiaro e l’altro è in ombra.
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Su un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete osservate l’immagine della Sibilla Delfica e dei due putti dipinti alle sue spalle...
Il destino di Elena [la luminosa, la splendente] che vorrebbe essere umanamente amata è quello di essere una preda ambita, un oggetto di contesa da possedere come trofeo, un corpo da rapire. Il primo uomo che, nel genere della Tragedia, Elena incontra nella sua vita è Teseo: lei ha dodici anni e lui cinquanta, ma è un Eroe! Teseo la porta nella rocca di Afidna, dove abita sua madre, Etra, e l’affida a lei in attesa che cresca un po’ nel mentre lui è impegnato in una delle sue imprese eroiche [deve scendere nell’Ade insieme al suo compagno Piritoo (e questa è un’altra storia)]. Ma i fratelli gemelli di Elena, Castore e Polluce, la cercano, la ritrovano e la liberano e la tragedia di Elena è destinata a continuare.
Tre versi delle Heroides [dal commento alla Lettera di Elena a Paride] fanno da modello a Michelangelo per dipingere lo sguardo della Sibilla Delfica, uno sguardo malinconico e ammonitore con il quale Ovidio invita a riflettere sulla condizione femminile. Leggiamo questi versi per risalire alla fonte dell’immagine.
LEGERE MULTUM….
Ovidio, Heroides [le Eroine]
Furiosi, i fratelli gemelli di Elena, Castore e Polluce, si misero sulle sue tracce.
Giunsero ad Afidna che Teseo era già partito per un’altra eroica avventura.
Si ripresero la sorella e portarono via anche Etra, la madre di Teseo,
che nel frattempo a Elena s’era affezionata. A Sparta, Etra, vide trentotto pretendenti
arrivare al palazzo per chiedere la mano di Elena che svogliatamente scelse Menelao,
vide le nozze solenni e la nascita di Ermione. Un giorno, a Sparta, giunse in visita
un principe asiatico, bello, e armato di gentilezze che a Sparta erano sconosciute.
Nell’incontrarlo Elena pensò se fosse Dioniso o Eros, e subito si confuse.
Lui cavalcava per la Laconia con Menelao, che voleva essere un buon ospite
e mostrargli il bello del suo regno. Elena lo vedeva soltanto davanti alle tavole apparecchiate:
il principe narrava di avventure e di storie amorose mentre la guardava con insistenza
e senza trattenere un sospiro, ed Elena, per non sospirare a sua volta, rideva.
Da prima rise, ma poi comparve sul suo viso lo stesso sguardo malinconico
che porta negli occhi la delfica Sibilla quando Apollo le annuncia le sventure
che toccano alle donne che sono sempre troppo disposte ad elargire amore. …
Lo sguardo malinconico della Sibilla Delfica, scrive Ovidio, deve ispirare la pietà verso le donne che subiscono sventure perché “sono sempre troppo disposte ad elargire amore”.
E adesso puntiamo l’attenzione sulla figura della Sibilla Eritrea [Erythraea] la cui osservazione comporta lo stesso tipo di ragionamento filologico che abbiamo appena fatto per la Delfica.
La Sibilla Eritrea [Erythraea] è in realtà babilonese essendo un simbolo originario della Caldea [anche il patriarca Abramo è originario della Caldea]. La prima cosa che colpisce in questa figura dipinta da Michelangelo è il braccio destro perché è simile a quello della statua del David e, quindi, Michelangelo continua a ragionare come uno scultore. A fianco della Sibilla Eritrea, appoggiato su di un tavolo, c’è un Libro che lei tiene aperto con la mano sinistra e sulla pagina del Libro, in alto a sinistra, si legge una grande lettera Q. Le indicazioni bibliografiche che Fedra Inghirami ha dato a Michelangelo, e che il pittore recepisce volentieri, contengono anche per lui [per Fedra Inghirami] un elemento autobiografico che riguarda tanto la sua passione per il teatro quanto il suo soprannome che ormai ha sostituito il vero nome, Tommaso, del bibliotecario pontificio.
Fedra Inghirami suggerisce a Michelangelo che la Sibilla Eritrea [Erythraea, scrive Michelangelo, con la stessa grafia che usa Lucio Anneo Seneca] compare nel testo della tragedia di Seneca [4circa-65 d.C.] intitolata Fedra [che Inghirami sta mettendo in scena con la sua compagnia teatrale]. La vicenda della Fedra di Seneca è quella dell’Ippolito di Euripide [ma con differenze rilevanti e sembra che Euripide abbia composto anche una Fedra che è andata perduta]. Fedra, moglie del re di Atene Teseo, è presa da una violenta passione per il figliastro Ippolito al quale, dopo un certo tergiversare, confessa i suoi sentimenti. Ma Ippolito ha in odio le donne per tutta una serie di motivi e respinge la matrigna la quale per vendicarsi accusa pubblicamente Ippolito di aver cercato di farle violenza. Teseo invoca la morte del figlio traditore, e il dio Poseidone lo esaudisce facendo morire Ippolito con una morte atroce. In preda al rimorso Fedra, disperata, confessa a Teseo la propria colpa e si uccide.
La Fedra è una delle migliori tragedie di Seneca per la profonda esplorazione psicologica e la forte tensione emotiva che riesce a creare, ed è un’opera che ammonisce i tre principali personaggi [Fedra, Ippolito e Teseo] per essersi lasciati vincere dalla passione, ma contemporaneamente l’autore invita a provare compassione [humanitas] per loro perché, come dice la Sibilla Erythraea [scrive Seneca nella Fedra]: «Domare la passione è difficile come pesare il fuoco». Difatti Michelangelo, sopra il Libro aperto davanti alla Sibilla Eritrea, dipinge un putto che sta cercando, mentre soffia il vento della passione, di indirizzare il fuoco verso un piatto che sembra quello di una bilancia più che di una lampada, sotto al quale un altro putto in ombra piange. La Lettera Q, che appare sul Libro, fa capire quale sia il testo che Fedra Inghirami ha suggerito a Michelangelo e il pittore, con le dita della mano sinistra della Sibilla Eritrea, fornisce un’indicazione di lettura: l’indice indica 1, il pollice un altro 1 e il medio e l’anulare, ripiegati all’ingiù ben attaccati, indicano un 2 e, quindi, bisogna puntare l’attenzione sul verso 112 dell’Atto primo della Fedra quando questo personaggio entra in scena declamando questo verso: «Quo tendis, anime [Dove corri, mio cuore]». Ed ecco, in principio di frase, che appare la Q!
Fedra entra in scena [fornendo delle attenuanti che possano giustificare, almeno in parte, il suo comportamento] affermando amaramente che lei la passione [una sfrenata passione] l’ha ereditata da sua madre, e chi è sua madre? La madre di Fedra è Pasìfae, figlia del Sole e di Persèide, la sorella della maga Circe. Pasìfae ha sposato Minosse il re di Creta, che è il padre di Fedra. Afrodite è gelosa di Pasìfae e, per vendicarsi, le ispira una violenta passione per un toro [un animale meraviglioso che vive libero nella selva cretese] con il quale Pasìfae si accoppia e da questa unione nasce il Minotauro [imbarazzante fratellastro di Fedra].
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Su un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete osservate l’immagine della Sibilla Eritrea [Erythraea] e dei due putti [il fuochista e il piangente] dipinti alle sue spalle...
E ora, dopo questo excursus, andiamo a leggere i dodici versi dall’Atto primo della Fedra che hanno ispirato Michelangelo nella composizione del pannello della Sibilla Eritrea, questo brano è sulle pagine del Libro delle Tragedie di Seneca che la Sibilla sta sfogliando.
LEGERE MULTUM….
Lucio Anneo Seneca, Fedra 1 121-133
FEDRA
[Quo tendis, anime] Dove corri, mio cuore. Quale delirio ti fa amare le selve? La riconosco la fatale e mostruosa passione di mia madre Pasìfae.
O madre mia, ho pietà di te che, indotta da ingiustificata vendetta divina, amasti il toro selvaggio, insofferente del giogo, re di un branco brado.
Ma, tuttavia, era capace di amare. …
CORO
Ascolta, o Fedra, il monito della Sibilla Erythraea che giunge dalle aride valli di Caldea: «[Quisnam ignem pendere potest?] Chi mai può pesare il fuoco? E chi può domare la passione?».
Per quanto tu possa essere saggia, o Fedra, sei portata a seguire l’istinto della dèa nemica di tua madre e a ricalcar le tragiche orme di Medea. …
Anche la Sibilla Eritrea, quindi, invita a coltivare il sentimento della pietà verso Fedra.
E adesso puntiamo la nostra attenzione sulla figura della Sibilla Cumana la cui osservazione comporta lo stesso tipo di riflessione filologica che abbiamo appena fatto per la Delfica e l’Eritrea. La Sibilla Cumana [e Cuma è la città accanto alla quale viene fondata Napoli] è la più antica e conosciuta di tutte ed era considerata la Sibilla di Roma. A lei si attribuiva la scrittura dei Libri Sibillini venduti a Tarquinio il Superbo, l’ultimo leggendario re di Roma. Si narra che quando la Sibilla proponeva al re l’acquisto dei Libri di profezie sul futuro della città, lui rispondeva che il prezzo era troppo alto, e allora la Cumana bruciava una parte dei rotoli e alzava il prezzo. Quando, alla fine, Tarquinio dovette cedere, ottenne solo un terzo dei libri originari al quadruplo del prezzo iniziale. La Sibilla Cumana - racconta la leggenda - era astuta ma non era infallibile, e quando, affascinato dalla sua bellezza e sapienza, il dio Apollo cominciò a corteggiarla, lei, per concedersi, gli chiese un favore: afferrata una manciata di sabbia, disse al dio che avrebbe voluto vivere il numero di anni corrispondenti ai granelli di sabbia che aveva in mano. Apollo esaudì il desiderio, ma, ottenuto il favore, la Sibilla lo respinse. E Apollo replicò: «Però hai dimenticato di chiedermi di estendere la giovinezza insieme alla tua vita» e così, con il passare dei secoli, la Sibilla Cumana continuava a vivere ma divenne sempre più anziana, e con l’età rimpicciolì a tal punto da poter entrare dentro un’anfora d’olio. Michelangelo la raffigura robusta [questo è il suo stile] con l’aspetto di una vecchia la cui testa si è già rimpicciolita così da apparire troppo piccola rispetto al corpo.
Fedra Inghirami propone a Michelangelo [che ricordava le Lezioni di Cristoforo Landino in materia] la lettura di due brani: uno dalla prima parte del Libro VI dell’Eneide di Virgilio e l’altro contenente alcuni versi della Ecloga IV delle Bucoliche di Virgilio. Nel Libro VI dell’Eneide Virgilio narra che Enea, con i suoi compagni fuggiaschi da Troia, approda a Cuma ed entra nell’antro della Sibilla dove ascolta la profezia della sacerdotessa di Apollo e capisce che lo aspettano dure prove.
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Fate un’incursione sul testo dell’Eneide [un’opera che sarà presente anche nella vostra biblioteca domestica] e leggete il riassunto della prima parte del Libro VI perché è consuetudine che in tutte le edizioni di un poema come questo ci siano introduzioni, note, commenti e dizionari di mitologia... Approfittate di questa opportunità...
Quindi il Libro che la Sibilla Cumana tiene in mano nel pannello in cui Michelangelo la ritrae si suppone sia l’Eneide di Virgilio. La figura del “pius Enea” ispira il sentimento della compassione [quello che le Sibille Delfica, Eritrea e Cumana vogliono rappresentare] perché è la figura del profugo che, dopo la distruzione di Troia, presa e incendiata dai Greci, fugge, insieme al figlio Ascanio e al vecchio padre Anchise - mentre la moglie brucia nell’incendio della città - portando in salvo il fuoco sacro e le immagini degli dèi Penati.
Però nel pannello che raffigura la Sibilla Cumana c’è anche un altro Libro che sta sotto il braccio destro di uno dei due putti dipinti in secondo piano, e questo Libro si suppone che contenga il testo delle Bucoliche di Virgilio nel quale la Sibilla Cumana trova posto. Bucoliche significa “Canti di pastori” ed è un’opera formata da dieci componimenti in versi esametri detti “Ecloghe” [che, in greco, significa “poesie scelte”].
Il brano più enigmatico delle Bucoliche è nella Ecloga IV dove, scritto in tono profetico, si trova l’annuncio della comparsa di un “fanciullo prodigioso [Tu modo nascenti puero]” nel quale gli autori cristiani hanno voluto riconoscere la figura di Gesù Cristo e questo ha contribuito al formarsi dell’immagine di un Virgilio “cristiano”. La Ecloga IV delle Bucoliche non ha nulla a che fare con il mondo pastorale: Virgilio si rivolge al console Asinio Pollione e sente il dovere di lodare questo buon amministratore facendolo partecipe di un allegorico “annuncio salvifico” che assume un fascino particolare avvolto nel manto della sapienza poetica virgiliana che trova posto nel pannello della Sibilla Cumana.
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Su un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete osservate l’immagine della Sibilla Cumana e dei due putti [gelosi custodi di un Libro] dipinti alle sue spalle...
E ora leggiamo dieci versi della Ecloga IV delle Bucoliche di Virgilio che evocano la Sibilla Cumana: sono versi che aleggiano nel pannello che la rappresenta.
LEGERE MULTUM….
Publio Virgilio Marone, Bucoliche Ecloga IV
Sicule Muse, di cose un poco più grandi cantiamo! La bontà degli alberi
vogliamo cantare, degli umili tamerischi; se cantiamo le selve, le selve siano
del console degne. L’ultima età giunge oramai con la profezia della Sibilla Cumana,
la serie dei grandi secoli nasce da capo, oramai torna persino la Vergine,
tornano i regni di Saturno, ormai una nuova generazione viene dall’alto del cielo.
Tu, al fanciullo che ora nasce, per cui cesserà finalmente la stirpe del ferro
e sorgerà in tutto il mondo la stirpe dell’oro, sii benevola, o casta Lucina:
già regna da troppo tempo il tuo Apollo, e adesso di meglio ci sarà dato …
Se la Chiesa saprà riformarsi [si legge sul soffitto della Sistina]: “di meglio ci sarà dato”. Per quanto riguarda la Sibilla Persica e la Sibilla Libica abbiamo un medesimo autore di riferimento: Plutarco di Cheronea [tra il 40 e il 45 - tra il 120 e il 127].
Plutarco [nato a Cheronea, in Beozia, tra il 40 e il 46 e morto tra il 120 e il 127] ha studiato ad Atene, ha insegnato a Roma ed è stato sacerdote del tempio di Apollo a Delfi, ed è un autore letto e studiato dai greci, dai romani e dai cristiani [dal II secolo circola la leggenda che a Roma, alla fine degli anni 60, abbia incontrato Paolo di Tarso]. Plutarco ha lasciato un’impronta nella Storia del Pensiero scrivendo due opere importanti di carattere politico ed etico: Vite parallele e Opuscoli morali [Moralia in latino, Ethikà in greco] in cui tratta [sono 83 opuscoli] dei temi più svariati.
Nell’opuscolo intitolato Sulla Fortuna di Alessandro leggiamo che la Sibilla Persica, preannunciò le imprese del condottiero macedone, e Michelangelo la raffigura anziana tanto che deve avvicinare il Libro al volto per poterlo leggere, e i putti, dietro al Libro, sono in penombra e tristi: Alessandro ha avuto Fortuna ma il suo enorme impero è durato poco perché lui è morto giovane, e questo fatto la Sibilla Persica stenta a leggerlo? Il pannello che la ritrae rappresenta questa situazione.
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La Sibilla Libica è in realtà egiziana, e compare in molti testi dell’antichità, e Fedra Inghirami deve aver letto a Michelangelo una citazione dall’opuscolo di Plutarco [il primo Opuscolo della raccolta] intitolato Il fato in cui la Sibilla Libica compare con il nome di Adrastèa. Michelangelo la dipinge intenta a prendere o a deporre un grosso volume [il volume degli Opuscoli morali di Plutarco], in una posizione molto particolare, in modo che le forme del suo corpo, possano evocare quattro lettere dell’alfabeto greco: una τ, una ψ, una χ e una η che formano la parola “týche” che significa “il fato”.
Michelangelo dipinge le dita del piede sinistro della Libica messe in modo da dare un’indicazione di lettura: 1 [è l’Opuscolo] e 4 [è il paragrafo] e lì, sul testo dell’opuscolo numero uno di Plutarco intitolato Il fato, al quarto paragrafo, si trova la citazione ispiratrice del pannello: «Si avvicina, afferma la Sibilla Libica, il giorno in cui ciò che è nascosto sarà rivelato e le cose non viste saranno evidenti». Questa affermazione ricorda le parole con cui Paolo di Tarso definisce la fede, e questa assonanza non è certo sfuggita al pittore, al consulente librario e al papa e, di conseguenza, si riverbera sul soffitto della Cappella Sistina.
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Sulle figure dei Profeti [direte voi] chissà quante cose ci sono da dire! Le figure dei Profeti hanno un messaggio complessivo da trasmettere: quale? Lo sapremo la prossima settimana.
Con le figure delle Sibille si riverbera anche sul soffitto della Cappella Sistina il significato del termine “estetica”. Qui “l’estetica” si concretizza con l’autentico significato greco del termine che deriva dal verbo “aisthà nesthai [percepire]” nel senso di “cogliere tutte le sfumature che le sensazioni possono dare” [con la consistenza delle forme, con i colori e con le parole].
E ora, per concludere, vi rileggo [dal viaggio dello scorso anno] gli otto versi emblematici di Michelangelo in cui socraticamente e ironicamente elogia l’ignoranza [Monna ignorantia] perché “la persona che sa di non sapere” è presa dal desiderio di conoscere e di cogliere tutte le sfumature che il Creatore ha utilizzato per creare il Mondo.
LEGERE MULTUM….
Monna ignorantia è dottrina dotta,
ti mostra che tutto lo scibile non sai,
sprona verso il disio di conoscenza,
virtù che non s’ha da perder mai
ché l’intelletto abbisogna di linfa
per poter svelar l’arcano dato
di quante sfumature per ciascuno verbo
il Creator del Mondo abbia creato. …
Ebbene, se “l’intelletto abbisogna di linfa” la Scuola è qui, e voi non perdete il terzultimo itinerario di questo lungo viaggio.
La prossima settimana, dopo le Sibille, ci lasceremo sedurre anche dai Profeti procedendo sul nostro cammino con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé, consapevoli che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare…