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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA SI SVILUPPA IL TEMA DELL’AUTONOMIA DELLA LINGUA ...

Lezione N.: 
2

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza    18-19-20  ottobre  2017

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA

SI SVILUPPA IL TEMA DELL’AUTONOMIA DELLA LINGUA ...

     La scorsa settimana abbiamo dato inizio a questo Percorso di studio cominciando a celebrare il tradizionale e ripetitivo “rituale della partenza” - del quale dobbiamo compiere ancora alcuni atti - perché questa esperienza didattica ha, in termini allegorici, le caratteristiche di un viaggio e non c’è viaggio che non inizi con la partenza. Fa anche parte ormai della tradizione il domandare a voi se durante la vacanza abbiate fatto uno o più viaggi con la relativa “doppia partenza”: quella dell’ “andata” e quella del “ritorno”. I rituali sono ripetitivi e, quindi, anche quest’anno [il 34° di questa esperienza didattica] non possiamo fare a meno di riflettere in proposito.

     Questo Percorso di studio ha, metaforicamente parlando, le caratteristiche di un viaggio e [come sapete, ma vale sempre la pena ripeterlo], dal punto di vista filologico, secondo la lingua greca [che mira ad essere significativa, espressiva, indicativa, efficace, eloquente, e che nel corso dell’Umanesimo e del Rinascimento assume un ruolo molto importante] puntualizza e distingue tra il viaggio “di andata [poreìa]” e quello “di ritorno [nostos]”, utilizzando due termini diversi perché “l’andare [poreìa, come il virgiliano viaggio di Enea]” e “il ritornare [nostos, come l’omerico viaggio di Ulisse]” rappresentano due situazioni differenti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete fatto un viaggio [o più di uno] nel corso di questa vacanza: verso dove ?...

Con quale motivazione avete viaggiato?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Il Percorso di studio [il viaggio virtuale] che ci accingiamo a compiere è suddiviso in itinerari settimanali e ogni itinerario, ogni Lezione, ha la forma di un “ragionamento progressivo”, e la scorsa settimana ci siamo domandate e domandati che significato abbia questa affermazione. Ogni Lezione si configura come un itinerario didattico che ricalca l’attività del nostro intelletto perché l’intelletto è lo strumento mediante il quale si sviluppa il processo dell’apprendimento, un procedimento che, come ben sapete, si concretizza facendo entrare in attività le sei principali azioni [le azioni cognitive] attraverso le quali s’impara: conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare.

     Durante ogni itinerario, che di settimana in settimana percorreremo, faremo in modo di attivare la dinamica delle “azioni cognitive” [attraverso le quali si sviluppa l’apprendimento] cercando di governare la loro potenzialità tenendo conto che la scansione delle azioni dell’apprendimento non ha un andamento regolare - non è che prima si conosce poi si capisce poi ci si applica poi si analizza poi si sintetizza e infine si valuta - ma le sei principali “azioni cognitive” [accompagnate da altre quaranta azioni di supporto] interagiscono simultaneamente nella nostra mente e noi dobbiamo essere il più possibile consapevoli del funzionamento di questo “meccanismo” straordinario che è “l’imparare”. L’obiettivo fondamentale per cui è utile frequentare la Scuola [per tutto l’arco della vita, come afferma l’Articolo 34 della Costituzione] è quello di “imparare ad imparare”, è quello di saper amministrare la nostra capacità cognitiva [la Scuola più che ad imparare cose serve a imparare come s’imparano le cose], la Scuola opera per far acquisire alla persona la competenza di investire in intelligenza, e investire in intelligenza significa “imparare ad apprendere” [questo lo abbiamo già detto la scorsa settimana e lo stiamo dicendo da più di trent’anni a questa parte, ma è bene ripeterlo perché: repetita iuvant, il ripetere le cose nell’ambito dell’investimento in intelligenza giova all’apprendimento, e l’esercizio dell’apprendimento deve distinguersi dall’addestramento e dall’ammaestramento].

     Il tradizionale “rituale della partenza” si configura come un rito liturgico e, come sapete, le liturgie [e il termine “leitòurgos”, in greco, significa “opera di pubblica utilità”] sono cerimoniali ripetitivi, anche perché le opere di pubblica utilità hanno bisogno di una manutenzione continua, e non c’è cerimonia senza rievocazione di un racconto.

     Nel corso di ogni tappa di questo viaggio [come abbiamo già detto la scorsa settimana, ma la liturgia della partenza c’impone una ripetizione] ci eserciteremo a conoscere le parole-chiave più rappresentative [una o due] della Storia del Pensiero Umano. Ci eserciteremo a capire le idee più significative elaborate nel corso della Storia dell’Umanità. Ci “applicheremo” nell’esercizio del leggere e dello scrivere. Avete in mano e sotto gli occhi un fascicolo che s’intitola REPERTORIO E TRAMA ...  che è lo strumento che ci consente [e, in questo momento, state facendo questo esercizio] di orientarci meglio sul nostro cammino per favorire l’azione del conoscere e del capire, e inoltre ci propone un compito, per favorire l’azione dell’applicarci nell’uso dell’analisi, della sintesi e della valutazione. Ci eserciteremo ad “analizzare”, e “analizzare” significa riflettere per mettere in ordine i pensieri che a flusso continuo affiorano nella nostra mente attraverso la TRAMA proposta dal REPERTORIO … Ci eserciteremo a “sintetizzare”, e “fare la sintesi” significa “mettere per iscritto” un nostro pensiero perché scrivere quattro righe al giorno [per raccontare, per descrivere, per informare, per esprimere, per interpretare, per argomentare] giova all’apprendimento. Infine dobbiamo esercitarci a “valutare”, ad “auto-valutare” l’andamento del nostro cammino intellettuale, e il dispositivo dell’auto-valutazione è legato allo svolgimento del “compito” che - sebbene facoltativo - la Scuola propone di eseguire invitando ciascuna e ciascuno di noi ad utilizzare il fascicolo del repertorio E TRAMA ... in un tempo che va dai dieci minuti alle due ore al giorno, nel corso della settimana, nell’intervallo tra un itinerario e l’altro.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il materiale riguardante tutta l’attività didattica messa in atto in questo Percorso lo si trova contenuto su due siti: www.inantibagno.it e www.scuolantibagno.net

Sui siti potete leggere e anche scaricare il testo integrale della Lezione e potete ascoltare la registrazione della Lezione stessa; c’è inoltre una pagina facebook intitolata “a scuola con Giuseppe”...  Questi strumenti sono utili per favorire l’attività di studio, utilizzateli...

     Nel corso del nostro viaggio visiteremo un certo numero di “paesaggi intellettuali” ricchi di forme e di contenuti, e avremo a che fare con molte nozioni, enumereremo molti dati, citeremo molte date, visiteremo molti luoghi, faremo conoscenza con molti personaggi, imbastiremo molti ragionamenti e rifletteremo su molti temi, ma - come dicono i manuali di tecnologia dell’apprendimento - “dei contenuti di un Percorso didattico [di un viaggio di studio], in media, oltre il 70% va disperso e all’incirca il 30% rimane in modo frammentato nella nostra mente”, quindi, di questa conversazione solo “tre oggetti su dieci” rimangono nella mia mente [ma è già una buona acquisizione], e questo perché, come ben sapete, l’obiettivo principale dell’apprendimento cognitivo non è quello di immagazzinare nozioni [le nozioni sono importanti e dobbiamo ritenerne un certo numero], ma l’obiettivo dell’apprendimento consiste nell’esercitare la mente all’ascolto, alla selezione, alla catalogazione perché, come ci ricorda Michel de Montaigne nei suoi Saggi (1580-1588) e nel corso del nostro viaggio lo incontreremo questo signore: «il compito della Scuola consiste nel favorire la formazione di “una testa ben fatta” piuttosto che di “una testa ben piena” » [l’azione dell’apprendimento riguarda la qualità piuttosto che la quantità e se non si ha una testa ben fatta - se non si è capaci di trasformare in conoscenza l’eccesso di informazione cui siamo sottoposte e sottoposti - ebbene, l’ipertrofia tecnologica non può che produrre confusione all’interno del nostro apparato cognitivo]; questa affermazione che conoscete a memoria: “favorire la formazione di una testa ben fatta” ha la funzione di “una bussola” che serve per non farci perdere l’orientamento nel corso dei nostri “viaggi di studio”.

     Del viaggio al quale molte e molti di voi hanno partecipato durante lo scorso anno scolastico rimane un segno tangibile a dimostrazione che “il popolo della Scuola” non ha perso l’orientamento e ha dato forma al territorio attraversato. Del Percorso che abbiamo compiuto nello scorso anno scolastico rimane, ben definita, la “forma” [derivante dai risultati] che noi, attraverso le nostre preferenze, abbiamo dato al territorio su cui abbiamo viaggiato scegliendo su tre cataloghi di parole contenuti nel consueto “questionario” di fine viaggio [ricordate?].

     Ora li dobbiamo osservare i riquadri riportati in REPERTORIO ... perché il contenuto di queste icone filologiche rappresenta tanto l’immagine di un punto di arrivo quanto quella del nostro punto di partenza [e, difatti, quest’atto che stiamo per compiere fa sempre parte della celebrazione del tradizionale “rituale della partenza”].

     Il questionario di fine Percorso dell’anno scolastico 2016-2017, al quale hanno risposto 174 persone, riportava tre cataloghi di parole-chiave nelle quali sono incardinate delle idee.

     Nel primo catalogo del questionario c’erano trenta parole-chiave in rappresentanza delle “virtù rinascimentali” secondo l’elenco che si ricava da Il libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione, e questo lo dobbiamo considerare il catalogo degli obiettivi da raggiungere perché le virtù sono mete, sono posizioni da acquisire.

     Il secondo catalogo del questionario era formato da dieci termini che - secondo la cultura neoplatonica presente nelle Opere di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola - corrispondono ai mezzi, agli strumenti necessari per acquisire le virtù.

     Nel terzo catalogo, che osserveremo in seguito, c’erano i tre temi rinascimentali per eccellenza che riguardano l’Anima [la Psiche], l’Universo [il Kosmos] e la Ragione [il Logos].

     E adesso puntiamo la nostra attenzione sulla tabella del primo catalogo del questionario e osserviamo il risultato delle nostre scelte. Il primo riquadro riporta – secondo la grandezza dei caratteri – la quantità di consensi che hanno avuto le trenta parole corrispondenti alle virtù ... 

 

la curiosità   la solidarietà

la dignità     il coraggio    la tolleranza

l’onestà      la tenacia      la volontà    la correttezza

l’intraprendenza    la responsabilità    la semplicità   l’umiltà

la coerenza   la cortesia   la modestia    la sensibilità

la costanza    l’affidabilità   la laboriosità   la lealtà   la dolcezza   la razionalità

la sincerità   la calma   la prudenza   la franchezza   la disponibilità   la fedeltà   la spontaneità

     Le parole “curiosità e solidarietà” sono quelle che, con minimo scarto, hanno ricevuto più consensi [forse, a forza di sentir dire che “non bisogna mai perdere la volontà d’imparare” ecco che la parola “curiosità” - intesa come una virtù e non come un capriccio e mi piace pensare che il termine “curiosità” corrisponda alla formula “I care” (m’interessa) utilizzata da don Milani per sintetizzare il programma della Scuola di Barbiana - è quella che ha avuto più consensi insieme alla parola “solidarietà”; questa scelta soddisfa certamente tutti i personaggi, a cominciare da Michelangelo, Giulio II e Fedra Inghirami, che abbiamo incontrato sul territorio rinascimentale nel corso del viaggio precedente], seguono, con un alto numero di consensi, e ancora una volta con minimo scarto, le parole “dignità, coraggio, tolleranza, onestà, tenacia” e, quindi, al vertice c’è un interessante convergenza di idee virtuose [la curiosità, la solidarietà, la dignità, il coraggio, la tolleranza, l’ onestà, la tenacia]! Poi segue un gruppo di parole che hanno avuto un buon numero di consensi quasi equivalenti: “la volontà, la correttezza, l’intraprendenza, la responsabilità, la semplicità, l’umiltà”. Poi le scelte hanno cominciato a diluirsi con parole interessanti: “la coerenza, la cortesia, la modestia, la sensibilità”. Mentre le parole “costanza, affidabilità, laboriosità, lealtà, dolcezza, razionalità” sono state scelte poco, e le parole “sincerità, calma, prudenza, franchezza, disponibilità, fedeltà e, per ultima, con meno scelte, la spontaneità” sono state scelte molto poco. Nessuna parola, tuttavia, è rimasta senza consensi. Ebbene fate le vostre riflessioni su questo quadro.

     Il secondo riquadro riporta - secondo la grandezza dei caratteri - la quantità di consensi che hanno avuto i dieci termini che compongono il catalogo degli strumenti per acquisire le virtù.

 

intelletto     sapienza   bellezza

energia    generosità     comprensione

splendore    fondamento    bontà    vittoria

     Un termine, “l’intelletto”, ha avuto il maggior numero di consensi [l’acquisizione delle virtù comporta un impegno di carattere intellettuale], seguito da due parole che, con il minimo scarto tra loro, hanno raccolto molti consensi “la sapienza [l’acquisizione delle virtù dipende dallo studio] e la bellezza [c’è qualcosa di bello nell’impegno per acquisire le virtù]”. Poi hanno raccolto un discreto numero di preferenze le parole: “energia, generosità e comprensione”, mentre, in ordine decrescente, sono state scelte poco le parole “splendore, fondamento e bontà” e per ultima “la vittoria [“Vincere non fa diventare più virtuose le persone” scrive Pico della Mirandola]”.

     Colpisce il fatto che la parola “bontà” abbia raccolto pochi consensi ma, in proposito, possiamo dire che per acquisire le virtù occorre essere, in primo luogo, persone “intelligenti” più che persone “buone”, e questo è il pensiero di tutti gli Umanisti. Questi due quadri [queste due “icone filologiche”] che abbiamo osservato raffigurano la nostra riflessione collettiva sul pensiero della “sapienza poetica e filosofica dell’età rinascimentale” e quindi indicano un punto di arrivo ma, in particolare, le parole “curiosità, solidarietà, dignità, coraggio, tolleranza, onestà, tenacia”, che nel primo catalogo sono state scelte di più, fanno anche da battistrada per il nostro viaggio che sta per avere inizio nel territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’età moderna agli esordi della scienza”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Oggi di queste parole – curiosità, solidarietà, dignità, coraggio, tolleranza, onestà, tenacia - quale scegliereste per prima?... 

Scrivetela...

     Mentre la celebrazione del tradizionale “rituale della partenza” si avvia verso la conclusione - dobbiamo ancora compiere alcuni atti tra cui la lettura dei risultati del terzo catalogo del questionario - ci troviamo di fronte al vasto paesaggio intellettuale che contiene la parola-chiave “autonomia”, uno scenario nel quale spiccano una serie di Opere che mettono in evidenza l’importanza di questa parola.

     La parola-chiave “autonomia”, come ben sapete, emerge in una serie di Opere la cui composizione tra il 1512 e il 1517 ha determinato l’inizio dell’Età moderna e, ancora una volta [perché le cose ripetute sono utili all’esercizio dell’apprendimento, repetita iuvant] mentre celebriamo il tradizionale “rituale della partenza”,  dobbiamo citare queste Opere [che abbiamo incontrato e studiato nel corso del viaggio dello scorso anno e dobbiamo conoscere qual è il contesto filologico - quali sono le parole-chiave e le idee-cardine - nel quale nasce la modernità]: nel 1512, il 31 ottobre, papa Giulio II inaugura Il soffitto della Cappella Sistina affrescato da Michelangelo in cui si esprime l’idea dell’autonomia dell’Arte [le artiste e gli artisti devono essere liberi di dare un significato alle loro opere], nel 1513 Niccolò Machiavelli pubblica Il Principe in cui si manifesta l’idea dell’autonomia della Politica [una disciplina che deve avere regole proprie, finalizzate al raggiungimento del bene comune], nel 1514 il padre domenicano Bartolomé de Las Casas inizia a scrivere ad Haiti la Relazione della distruzione delle Indie in cui si rivendica l’idea dell’autonomia dei Popoli oppressi dal colonialismo [nasce la “teologia della liberazione”], nel 1515 Erasmo da Rotterdam pubblica gli Adagia in cui emerge l’idea dell’autonomia del Vangelo [rispetto al Diritto romano che ne ha bloccato la spinta propulsiva], nel 1516 Tommaso Moro pubblica Utopia in cui viene formulato il concetto dell’autonomia della Morale [che deve basarsi sul principio universale della “humanitas”], nel 1517 il 31 ottobre Martin Lutero affigge sulla porta della cattedrale di Wittenberg Le 95 Tesi in cui proclama l’idea dell’autonomia della Coscienza [ribadendo che la salvezza viene dalla fede, solo se coltiviamo un ideale possiamo produrre opere buone].

     La scorsa settimana, per organizzare la partenza, ci siamo radunate e radunati di fronte a questo paesaggio intellettuale nel quale, come ben sapete, abbiamo individuato un’ulteriore opera edita nell’anno 1516: il poema Orlando furioso di Ludovico Ariosto nel quale si esprime l’idea dell’autonomia della Lingua. Una Lingua parlata e scritta, per essere utile [per poter assicurare la comunicazione, per essere “cortese”], deve potersi garantire l’autonomia cioè è necessario sia in possesso di un catalogo di regole che ne possano tutelare il corretto funzionamento e, difatti, Ludovico Ariosto non vuole solo scrivere un poema per far divertire le lettrici e i lettori del suo tempo ma vuole comporre un testo secondo un sistema di regole [semantiche, grammaticali e sintattiche] che possano dare la maggior autonomia possibile all’apparato linguistico dell’italiano in epoca moderna. E la Lingua italiana “moderna” [del ‘500], che Ludovico Ariosto utilizza per scrivere l’Orlando furioso, rivela la sua autonomia perché, essendo ben strutturata, ha mantenuto un alto tasso di comprensibilità anche a distanza di 500 anni.

     A questo proposito, la scorsa settimana come ben ricorderete, abbiamo letto e commentato la prima ottava del primo canto dell’Orlando furioso [l’incipit del poema di Ludovico Ariosto] e qualcuno potrebbe dire: «È tutto qui quello che avete letto!». Ma è bastato leggere queste otto righe per veder emergere una serie di temi piuttosto sostanziosi, e due di questi argomenti li dobbiamo, adesso, rimettere al centro dell’attenzione: Ariosto inizia il suo poema ricalcando i versi 109, 110 e 111 del canto XIV del Purgatorio della Divina Commedia di Dante [avete fatto un’incursione in questo canto? Siete ancora in tempo] e questa sua scelta non è casuale. Poi abbiamo capito che l’Orlando furioso è la continuazione del poema Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, pubblicato nel 1506, un’opera rimasta incompiuta per la morte dell’autore e che Ariosto riprende perché è convinto di poter usare una Lingua più ricca, meno dialettale e con uno spettro comunicativo più ampio dato da regole più precise. Quindi, Ludovico Ariosto vuole mettere la sua sapienza poetica a servizio della questione della Lingua: vuole sperimentare una Lingua che sia “cortese” [che cosa significa?] nel senso pratico di “disponibile” cioè “utilizzabile, fruibile, godibile”.

     Tra le parole del catalogo iniziale dell’Orlando furioso [Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, l’audaci imprese] c’è anche il termine “cortesie” [secondo il significato, in questo primo verso, di “atti generosi di cavalleria”] ma per Ludovico Ariosto e per gli Umanisti rinascimentali il termine “cortesia” ha un ventaglio di significati piuttosto ampio come: “nobiltà, galanteria, garbo, educazione, gentilezza, cordialità, delicatezza”;  ma questa parola significa anche “disponibilità” nel senso pratico di “utilità”, ed è per questo motivo che Ariosto, come ha fatto anche Boiardo, vuole scrivere in una Lingua che sia “cortese”, così come viene definita “cortese” la Lingua di Dante Alighieri, quella di Francesco Petrarca e quella di Giovanni Boccaccio [ma su questa affermazione dobbiamo ulteriormente riflettere, a breve].

     Intanto diciamo [e ve ne sarete accorte e accorti] che sul questionario di fine anno nel catalogo delle virtù c’era anche la parola “cortesia” [che Baldassar Castiglione utilizza abbondantemente soprattutto in chiave diplomatica], ed è indicativo il fatto che questo termine, secondo le scelte che sono state fatte, si collochi in una posizione mediana [su trenta parole al quindicesimo posto, come se fosse una sorta di ago della bilancia].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - nobiltà, galanteria, garbo, educazione, gentilezza, cordialità, delicatezza, disponibilità, o quale altra parola - mettereste per prima accanto al termine “cortesia”?...   

Scrivetela...

C’è una cortesia che avete fatto volentieri e una che avete ricevuto con piacere?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     La riflessione che abbiamo fatto - riguardante il tema della “Lingua cortese” [nel senso di: utilizzabile, fruibile, godibile] - ci porta verso un argomento che, come abbiamo preannunciato la scorsa settimana, dobbiamo a grandi linee affrontare: questo argomento prende il nome di “questione della Lingua italiana” e sulla scia di questa “questione” cominciamo a muovere i primi passi sui sentieri del territorio che dobbiamo attraversare.

     All’inizio del ‘500 “la questione della Lingua italiana” [del valore letterario che ha e che deve avere “il (cosiddetto) volgare”, la Lingua parlata dal popolo] ha già una tradizione di circa duecento anni, perché questo tema è stato posto all’inizio del ‘300 da Dante Alighieri [nel trattato intitolato De vulgari eloquentia], poi è un tema coltivato da Francesco Petrarca [nella canzone intitolata All’Italia e in molte sue Lettere] e ripreso da Giovanni Boccaccio, nella stesura delle novelle del Decamerone.

     In quali termini si pone la questione della Lingua [che è come dire: siamo consapevoli del fatto che la Lingua che stiamo parlando ha una Storia]? La questione della Lingua è un tema importante perché l’uso della Lingua incide sulla formazione della persona e sappiamo che c’è uno stretto legame tra il linguaggio e il pensiero [chi parla bene pensa bene] e, per questo motivo, è utile parlare e scrivere in una lingua eloquente [pensano gli Umanisti del Rinascimento] come è eloquente il Latino: infatti, per il Latino [la Lingua che nel ‘500 viene comunemente usata per scrivere] si seguono delle regole ben codificate e si imitano dei modelli classici [provenienti da un ampio repertorio letterario] che ne esaltano la qualità; ebbene, quali regole e quali modelli bisogna seguire per trasformare il volgare italiano in una Lingua eloquente [come il Latino, come il Greco], visto che, purtroppo [si lamentano gli Umanisti rinascimentali], in Italia, contrariamente ad altri paesi europei, non esiste una Lingua comune che possa essere definita come “italiana”?

     Il personaggio che risponde a queste domande dando una svolta alla questione si chiama Pietro Bembo, e lo abbiamo citato la scorsa settimana come amico dell’Ariosto, e con lui, adesso, abbiamo un appuntamento [al quale non è mancato]. Chi è Pietro Bembo e come affronta la “questione della Lingua”?

     La vita di Pietro Bembo - come quella di tutti i personaggi che abbiamo incontrato in passato e che stiamo per incontrare - è ricca di avvenimenti e di implicazioni di tipo intellettuale che ci obbligano ad aprire delle parentesi [a fare delle soste in funzione della didattica della lettura e della scrittura]: un esercizio al quale non ci possiamo sottrarre e, quindi, questa sera ci dedichiamo ad incontrare Pietro Bembo “da giovane” quando non è ancora il celebre Cardinale, letterato e galante, che diventerà [e del Cardinale Pietro Bembo, letterato e galante, ce ne occuperemo la prossima settimana].

     Pietro Bembo è nato a Venezia nel 1470, ed è il figlio primogenito dell’umanista Bernardo Bembo che è anche uno dei più autorevoli senatori della Serenissima Repubblica mentre sua madre si chiama Elena e appartiene alla nobile famiglia dei Morosini. Pietro è quindi destinato, secondo la tradizione, a intraprendere la carriera politica, ed è ancora un bambino quando, per fare esperienza, segue [dal 1478 al 1480] il padre in missione diplomatica a Firenze [una città nella quale, come sappiamo (dai viaggi di questi ultimi due anni), siamo in piena fioritura umanistica]. Pietro - che, nonostante la giovanissima età [in età da Scuola elementare], è già un provetto studente - rimane colpito soprattutto dalla Lingua [eloquente, espressiva, poetica] che a Firenze si parla e che lui impara volentieri anche perché è una sensazione indotta visto che è la stessa Lingua di molte Opere letterarie del Trecento che Lui ha già cominciato a leggere e a studiare con i suoi primi precettori:  di conseguenza, fin da adolescente, è attratto non tanto dalla carriera politica quanto da quella letteraria e, per tutta la vita, Pietro Bembo preferirà esprimersi con l’idioma dei toscani piuttosto che con quello della sua città natale, Venezia.

     Pietro, raggiunta la maggiore età, per ben prepararsi all’impegno letterario, decide di perfezionare la conoscenza della Lingua greca [e delle Opere classiche della cultura greca], e il 4 maggio 1492 si trasferisce a Messina insieme al suo amico Angelo Gabriele dove frequenta, fino al 1494, la Scuola [la Scuola dei Letterati messinesi] dell’importante filologo ellenista, emigrato da Costantinopoli, Costantino Lascaris [1434-1501]. Pietro Bembo è rimasto sempre molto affezionato al suo soggiorno siciliano e il frutto di questo periodo fecondo di studi [quando ha appena dai ventidue ai ventiquattro anni] è dato dalla sua prima opera, scritta in latino sotto forma di dialogo platonico, intitolata De Aetna [De Aetna ad Angelum Gabrielem liber] che si presenta come se fosse un diario intellettuale in cui Pietro Bembo immagina di dialogare con suo padre Bernardo per raccontargli la sua esperienza siciliana: per esporgli quello che ha imparato alla Scuola di Lascaris, per descrivergli ciò che di straordinario ha visto in Sicilia e, soprattutto, per narrare la sua ascensione sull’Etna [un’esperienza che ricorda quella dell’ascesa di Francesco Petrarca al Mont Ventoux, il 26 aprile 1336]. In questo dialogo il giovane Pietro Bembo fa l’inventario [il catasto] di tutti i riferimenti magici [il catasto magico] che riguardano l’Etna in quanto montagna straordinaria. Pietro Bembo, memore dell’insegnamento dell’umanista bizantino Costantino Lascaris, già da esperto filologo introduce nel testo del suo dialogo la parola greco-bizantina “catasto” che deriva dal termine “katà stìkhon” che letteralmente significa “rigo per rigo” e, quindi, “registro” e questa parola è rimasta nel dizionario latino e si è poi trasferita in quello dell’italiano [e noi la utilizziamo regolarmente].

     Pietro Bembo “registra” [accatasta] tutte le citazioni [magiche, prodigiose, portentose] che gli autori classici greci e latini hanno dedicato a quel fenomeno spettacolare della Natura che è l’Etna. L’opera De Aetna è stata pubblicata nel 1495 dall’umanista e grande editore Aldo Manuzio, intorno al quale, a Venezia, si riunisce un gruppo di intellettuali - e Pietro Bembo ne fa parte - che danno vita all’editoria, i quali s’ispirano al pensiero della corrente pedagogico-filologica del neoplatonismo creata a Firenze [e chi ha partecipato al viaggio dello scorso anno sa di che cosa stiamo parlando] dai due più importanti filosofi del Rinascimento: Marsilio Ficino e Pico della Mirandola.

     A questo punto, ancora in pieno rituale della partenza, dobbiamo aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché il De Aetna di Pietro Bembo è entrato nella Letteratura contemporanea per merito di Maria Corti. Maria Corti - nata a Milano nel 1915 e morta nel 2002 - è vissuta per lungo tempo a Pavia dove ha insegnato Storia della Lingua italiana e dove ha presieduto il «Fondo dei Manoscritti di autori moderni e contemporanei». Ha ideato significative riviste culturali come Strumenti critici, Alfabeta, Autografo e, oltre a opere di narrativa che trovate in biblioteca, ha scritto molti saggi filologico-letterari, e ha curato nel 1978 l’edizione critica delle Opere di Beppe Fenoglio. Maria Corti nel 1999, per celebrare la fine del Millennio, ha scritto un libro intitolato Catasto magico,  e questo titolo piace a Pietro Bembo anche perché questi termini derivano dal suo lessico. Catasto magico è un saggio scritto sotto forma di romanzo che ha come protagonista l’Etna, e lo spirito di Pietro Bembo aleggia in quest’opera nella quale Maria Corti mette in evidenza - così come ha fatto Bembo nel suo dialogo - come l’Etna sia un concentrato di immaginario fantastico, come sia un patrimonio di miti, di storie e di sorprendenti intrecci culturali. Nel suo cratere [nel quale, secondo la leggenda, si è tuffato Empedocle e, difatti, abbiamo già citato Catasto magico una decina di anni fa studiando la filosofia di Empedocle], sembra pulsare la realtà più profonda dell’Universo, da cui emergono presenze inafferrabili: divinità sotterranee, mostri giganteschi, immagini fantomatiche di maghe, di fate, di eroi [tra questi c’è anche re Artù con i suoi cavalieri e c’è anche Carlo Magno con i suoi paladini, ed è proprio alle pendici dell’Etna che cavalieri bretoni e paladini carolingi diventano pupi].

     L’Etna è protagonista nelle pagine dei molti scrittori che da Esiodo a Ovidio [e questi autori li cita anche Bembo nella sua opera] e poi da Hölderlin a Maupassant [questi autori Bembo non li conosce ancora] si sono imbattuti nel mistero che s’incarna nel vulcano. L’Etna, nel corso dei secoli [scrivono Pietro Bembo prima e Maria Corti dopo], ha rappresentato il soprannaturale per i Greci, i Romani, i Cristiani, gli Arabi, i Normanni, ed è, quindi, una sorta di oggetto di «archeologia dello spirito». Maria Corti in Catasto magico annoda e tesse fra loro i fili sparsi delle leggende, dei racconti, delle cronache e delle riflessioni che il grande vulcano ha ispirato, e tutto ciò fino all’ultimo capitolo dove prende corpo, sulla scia di Luigi Pirandello e di Leonardo Sciascia, un racconto sulla Sicilia di oggi [ma potrebbe essere qualunque posto del mondo] in cui emerge il disappunto dell’autrice che denuncia la perdita della memoria per le passate culture capaci di nutrire lo spirito.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate un’escursione sull’Etna leggendo Catasto magico di Maria Corti che trovate in biblioteca...  Il testo di quest’opera non è di facile lettura perché i rimandi culturali a cui fa riferimento l’autrice sono molti e presuppongono che chi legge conosca bene la Mitologia e la Storia del Pensiero Umano, ma sono molti anche gli elementi di immediata comprensione che gratificano la mente e rendono una reale passeggiata [che probabilmente avrete già fatto o che farete] sulle pendici del vulcano etneo molto più interessante...   

     Adesso leggiamo alcune pagine di Catasto magico dove il giovane Pietro Bembo [prima di diventare il famoso Cardinale autore delle Prose della volgar lingua, e ne parleremo la prossima settimana] è protagonista in relazione alla sua opera intitolata De Aetna [le note nelle parentesi quadre sono state aggiunte per una funzione didattica, per esemplificare il fatto che un saggio scritto sotto forma di romanzo si presta - utilizzando l’enciclopedia e la rete - ad essere chiosato per favorire l’esercizio dell’investimento in intelligenza].

LEGERE MULTUM….

Maria Corti, Catasto magico

L’Europa del Quattrocento ha fatto un salto, ha istituito una mostra universale di idee che parvero luminose Ed ecco in un buon latino classico, nutrito di rimandi a Esiodo, Pindaro, Virgilio, Orazio, il giovanissimo Pietro Bembo offrirci un dialogo dal titolo De Aetna, che sarà oltretutto la prima opera in latino edita da Aldo Manuzio a Venezia nel 1495.  Necessario dimenticarsi del famoso Cardinale Pietro Bembo, le cui Prose della volgar lingua impegnarono nel secolo XVI tutta la schiera dei teorici della lingua italiana e dimenticarsi anche del letterato dai grandi amori per famose dame e per le Rime del Petrarca. Qui c’è un Pietro Bembo di ventidue anni, che insieme all’amico e coetaneo, compagno di studi, Angelo Gabriele, a cui il De Aetna è dedicato, viene nel 1492 in Sicilia e si fissa a Messina, dove alla scuola di Costantino Lascaris, esule da Costantinopoli e nominato dal cardinale Giovanni Bessarione professore di greco a Messina, approfondisce i suoi studi in materia. Nel contempo guarda l’Etna, ne scruta da lontano le vette, pensa a Pindaro che l’ha chiamato colonna del cielo, lo paragona alle montagne del suo Veneto, due tipi così dissimili. Si trova a poco a poco impigliato nella rete di una vasta apprensione dell’ignoto. Dopo un anno di riflessioni e scambi di vedute con l’amico, nel 1493 decide di affrontare la montagna e l’idea gli dà una sorta di felicità terribile.

Nel 1494, tornato nel Veneto, descrive la sua esperienza agli amici e scrive il dialogo.

In apertura del testo l’autore ci guida a nord di Padova, a S. Maria di Non, dove ha sede il Noniano, villa di famiglia presso il fiume Pluvino tra filari di pioppi. Il dialogo fra lui e il padre Bernardo ha inizio nell’atrio davanti alla villa, continua in un pensoso passeggiare fra i pioppi e il fiume, si chiude al tramonto con un ritorno dei due all’atrio, riparato dall’umidità serale.

Il giovane avvia il racconto della conquista dell’Etna con un brillio dello stile e la frase definitiva che nulla nella sua vita finora è stato più felice (quicquam in vita fuisse iucundius). I due amici, partiti a cavallo da Messina, passano per Taormina, ammirano i vigneti mamertini, il castello di Niso, donde il ricordo del giovane dotto delle ovidiane Nisiades matres [Ovidio cita l’Etna nelle Eroidi, nella Lettera di Saffo a Faone], indi per una valle già etnea giungono a Randazzo, dove il Bembo ammira quei platani su cui più volte tornerà il discorso col padre, che a un certo punto espone l’utopico desiderio di dare i suoi pioppi e tutti gli alberi da frutto della zona per due o tre platani, che offrono con la loro mole il senso del tempo. Che cosa ne avrebbe fatto l’umanista Aurelio Augurello [Rimini 1456 circa - Treviso 1524, autore del poema Chrysopoeia sull’alchimia e di Rime in volgare], che tentò di consegnare all’eternità i pioppi che ombreggiano le verdi zolle del Noniano?

Successivamente i due tornano a parlare dell’Etna: il figlio esclamerà che si tratta di un monte eccelso e senza pari al mondo (conspicuus et sibi uni par est); è pari solo a se stesso. Sembra che il giovane Pietro venga da un luogo che ha perduto e che darebbe la vita per ritrovare. Definisce l’Etna montagna non coniugata e che, non degnandosi al matrimonio con altro monte, castamente si tiene nei suoi confini.

A questo punto il giovane umanista non considera nominabili che i giardini di Alcinoo [mitico re dei Feaci, padre di Nausica ... nell’Odissea accoglie ospitalmente Ulisse], postillando che Omero diede ai Feaci più doni che la natura stessa, se si confrontano con quelli che Bacco, Pallade e Cerere diedero alle pendici dell’Etna. Forse, propone il giovane Bembo, a questa vegetazione si deve la favola del gigante pastore Aristeo [mitico figlio di Apollo e della ninfa Cirene, dio benefico, originario della Tessaglia, che vigila sulle greggi e sui prodotti della terra], narrata da Virgilio nel IV delle Georgiche.

Ma la questione centrale del dialogo fra Bernardo e Pietro Bembo è quella del fuoco: sul secondo cratere, meno profondo e alto, largo come un pozzo, c’è un fumo sulfureo, che esce da molte crepe con sassi eruttati, pieni di fuoco e zolfo. La montagna erutta sassi per un tiro di saetta, mentre il monte trema. Per spiegazione il giovane Bembo mette in bocca al padre la teoria di Lucrezio nel De rerum natura: i venti insinuatisi nelle caverne del monte producono esplosioni e fuoco. E fa seguire la domanda sua: va bene i venti, ma da dove nasce il fuoco e come si mantiene?

Il padre risponde: sono proprio i venti turbinanti che accendono la materia infiammabile, come lo zolfo sotterraneo. Non c’è nell’Etna nulla che non si spieghi naturalmente. Pensa alle sorgenti calde di Abano che addirittura guariscono i malati. Naturalmente, prosegue il padre, il calore di Abano viene da un piccolo colle, qui da un alto monte, alimentato sotterraneamente dal mare che fornisce al fuoco bitume, allume, zolfo e nuova materia di cui alimentarsi.

I due interlocutori passano al fenomeno lava o fiume di fuoco. Come si spiega? E qui il giovane e il maturo umanista a cosa ricorrono? A Ovidio o addirittura alla Teogonia di Esiodo e poi a Pitagora, a Empedocle, che si era messo calzari di bronzo perché gli altri gli avrebbero prodotto ferite ai piedi; a Virgilio. Anche un geografo, Strabone, è citato per la durata della neve sull’Etna.

Questi encomiabili umanisti, padre e figlio, hanno una sorta di fiuto della memoria letteraria classica C’è un interesse appassionato e bruciante per spiegare con il passato classico il presente e farlo vibrare.  Al giovane Bembo, mentre si arrampica verso il cono terminale del monte, sembra di ricordare qualcosa di molto lontano nel tempo, letto su un libro antico, scritto da un autore che veniva dalla classicità greca o latina, e che lui aveva dimenticato o credeva di aver dimenticato.

C’è intorno al De Aetna come una ragnatela di tempo antico, e l’autore ha ventiquattro anni! L’aria che lui respira dentro l’umanesimo e lo circonda non assomiglia all’aria leggera dei secoli delle origini, ha una densità non di anni, ma di secoli. Il giovane Bembo, con quella suggestiva galassia di notizie classiche che è la sua mente, si assume l’incombenza di frugare per il mondo classico alla ricerca di memorie sull’Etna che vengono dall’antico Mediterraneo. Paragonabile, ci si consenta l’audacia, a un turista che passo passo segna sulle pagine della guida se ogni cosa c’è ed è al suo posto.

Di fronte all’eruzione e conseguente lava infuocata che scorre giù per le balze vuole con un suo filo d’Arianna tornare indietro, indietro, nientemeno che al pastore ascreo della Teogonia, a un Esiodo [Esiodo, probabilmente è nato a Ascra in Beozia tra il VII e il VI secolo a.C.] che, ispirato dalle Muse agresti descrive la terra che brucia al calore tremendo e fonde come piombo in una fornace Ed ecco che il giovane Bembo arriva a domandarsi se per caso Esiodo non è stato sull’Etna.

Nuovamente il giovane umanista cerca di tirare le somme con la guida turistica fornitagli dalla classicità e di lavare via il superfluo, l’effimero. Dopo di che può mettere giù la penna e riposarsi sulle sponde del fiume Pluvino, tra i filari dei pioppi veneti. Per lui l’Etna non è una realtà in cammino verso il futuro, ma al contrario verso la classicità che è stata il regno della autonomia della perfezione. Il monte non possiede il potere di essere, ma di essere stato e là, fra i grandi artisti greci, raggiunge la sua felice staticità. Là dove non vi è più nulla da aggiungergli.

     Dell’illustre Cardinale Pietro Bembo - dell’autore delle Prose della volgar lingua, opera che ha impegnato nel secolo XVI tutta la schiera dei teorici della lingua italiana, e del celebre Letterato galante che coltiva grandi amori con le più famose dame dell’epoca e che divulga le Rime del Petrarca - parleremo la prossima settimana.

      Per concludere, ora - tenendo conto del fatto che ai crateri dell’Etna si sono avvicinati anche i cavalieri di re Artù e i paladini di Carlo Magno, ed è proprio lì, alle pendici del vulcano, che la fantasia popolare dei cantastorie li ha trasformati in pupi - torniamo al primo canto dell’Orlando furioso per leggerne e commentarne un altro tassello: alla prima ottava [che abbiamo letto e commentato la scorsa settimana] aggiungiamo la seconda, la terza e la quarta che contengono la cosiddetta “proposizione” [chi è il presunto protagonista del poema?] e la “dedica” [a chi è dedicata quest’opera? A Ippolito d’Este oppure ad Alessandra Benucci?].

     Nella prima ottava dell’Orlando furioso Ludovico Ariosto, come abbiamo letto la scorsa settimana, annuncia che canterà “le donne, i cavalieri, le battaglie, gli amori, gli atti di cortesia, le audaci imprese” che ci furono nel tempo in cui gli Arabi attraversarono il mare d’Africa e arrecarono tanto danno in Francia, seguendo le ire e i furori giovanili del loro re Agramante, il quale si vantò di aver vendicato la morte di suo padre Troiano [ucciso da Orlando anni prima, ma Agramante, Troiano e Orlando sono personaggi leggendari] facendo la guerra contro l’imperatore Carlo Magno e da questo incipit si deduce che non si tratta di un fatto storico realmente accaduto ma di un conflitto immaginato da Matteo Maria Boiardo nell’Orlando innamorato a cui Ariosto fa riferimento [e vedremo a suo tempo - seppur brevemente - che rapporto c’è tra i due poemi].

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Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 1-4

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori

le cortesie, l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaro i Mori

d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,

seguendo l’ire e i giovenil furori

d’Agramante lor re, che si diè vanto

di vendicar la morte di Troiano

sopra re Carlo imperator romano.

     Nella seconda ottava Ludovico Ariosto rilancia la proposizione [il motivo per cui compone il poema] e scrive che, nello stesso tempo, racconterà anche di Orlando [il vero protagonista, se Angelica gli permette di esserlo] e narrerà cose che non sono state mai dette né in prosa né in rima: rivelerà che Orlando, per amore, è diventato completamente folle [Erasmo da Rotterdam sta scrivendo L’elogio della follia], proprio lui, Orlando, che prima era considerato un uomo molto saggio. Ariosto dice che racconterà in versi queste cose se glielo permetterà colei [la sua amata Alessandra Benucci che abbiamo conosciuto la scorsa settimana percorrendo la biografia del poeta] la quale lo ha quasi reso folle come Orlando e che, a poco a poco, sta consumando il suo piccolo ingegno, e lui spera che gliene rimanga [gliene sarà concesso] a sufficienza [di ingegno] perché possa portare a termine l’opera che ha promesso di realizzare.

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Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 5-8

Dirò d’Orlando in un medesmo tratto

cosa non detta in prosa mai né in rima:

che per amor venne in furore e matto,

d’uom che sì saggio era stimato prima;

se da colei che tal quasi m’ha fatto,

che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,

me ne sarà però tanto concesso,

che mi basti a finir quanto ho promesso.

 

     Se nell’incipit del poema Ariosto elimina “l’invocazione alla Musa” nella terza ottava non tralascia “la dedica” al signore per cui lavora, cioè il cardinale Ippolito d’Este, che il poeta chiama “generosa prole”, ossia “nobile figlio” del duca Ercole I e, per questo motivo, usa l’aggettivo “Erculea” [relativo alla generosa prole]. Ariosto scrive: «O Ippolito, che siete la generosa e nobile prole del duca Ercole e che siete l’ornamento e lo splendore del nostro tempo, vi piaccia di gradire questo poema che vuole darvi il vostro umile servitore visto che può offrirvi solo questo, e il mio debito nei vostri confronti [scrive Ariosto ma con un piglio molto ironico] lo posso solo pagare in parte con le mie parole e le mie opere scritte, e non mi si potrà accusare di darvi poco perché io vi dono tutto quanto posso donarvi, non ho altro [e Ariosto insiste con il tono ironico, anche perché l’inchiostro - così come la carta - costava caro a quel tempo]».

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Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 9-12

Piacciavi, generosa Erculea prole,

ornamento e splendor del secol nostro,

Ippolito, aggradir questo che vuole

e darvi sol può l’umil servo vostro.

Quel ch’io vi debbo, posso di parole

pagare in parte e d’opera d’inchiostro;

né che poco io vi dia da imputar sono,

che quanto i’ posso dar, tutto vi dono.

     Nella quarta ottava Ariosto specifica che nel poema il cardinale Ippolito sentirà ricordare e lodare, fra i più valorosi eroi, quel Ruggiero, il cavaliere saraceno che, secondo la tradizione leggendaria si converte per amore della guerriera cristiana Bradamante. Ruggiero, in seguito alle nozze con Bradamante, diventa il capostipite [“il ceppo vecchio”] dei nobili avi della Casa Estense. Il poeta assicura il cardinale che gli farà udire il racconto del grande valore e delle intrepide imprese di Ruggiero se resta in ascolto, “se voi mi date orecchio” e Ariosto con il verbo “date” utilizza l’indicativo che è il tempo della certezza per creare un contrasto con l’affermazione “e vostri alti pensier cedino un poco” [le preoccupazioni, le inquietudini di Ippolito possano lasciare il posto ai versi del poema] dove il “cedino” [che cedano] è al congiuntivo che è il tempo dell’incertezza per cui Ariosto, utilizzando ad arte la coniugazione dei verbi [regolamentando la Lingua che usa], esprime la convinzione che al suo padrone il poema non interessa.

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Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 13-16

Voi sentirete fra i più degni eroi,

che nominar con laude m’apparecchio,

ricordar quel Ruggier, che fu di voi

e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.

L’alto valore e’ chiari gesti suoi

vi farò udir, se voi mi date orecchio,

e vostri alti pensier cedino un poco,

sì che tra lor miei versi abbiano loco.

     Il cardinale Ippolito d’Este, uomo rozzo e avaro, non apprezza né la dedica né l’opera, Ariosto lo sa e usa l’ironia ma, soprattutto, utilizza la forza delle regole linguistiche [della coniugazione dei verbi] per ribellarsi al suo padrone senza che lui se ne accorga.

     Ma su “la questione della Lingua” torneremo fra una settimana, e non perdete la prossima Lezione perché poi, come da calendario, fra quindici giorni faremo una pausa in quanto quest’anno il 1° novembre, la festività di Tutti i Santi, capita di mercoledì [da qualche anno non capitava che la festività di Tutti i Santi fosse di mercoledì o di giovedì o di venerdì].

     Siamo già al corrente del fatto che Ludovico Ariosto, in campo linguistico, segue le idee del suo amico Pietro Bembo, e qual è il pensiero di Pietro Bembo sul tema de “la volgar lingua”? Ce lo ha lasciato scritto nei suoi Dialoghi. Che idee ha in proposito?

     Per rispondere a questa e ad altre domande - sempre restando nell’ambito della celebrazione del ripetitivo ma necessario “rituale della partenza” - bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, consapevoli che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare, ricordando che

Questo è un percorso fatto di parole

rese palesi dal nero dell’inchiostro

nell’intento che giovino all’intelletto nostro e, quindi,

«Non perdiamo il gusto d’imparare» dice a noi tutte e tutti Ludovico Ariosto

     La Scuola è qui, e noi siamo sul punto di metterci in cammino…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 20, 2017