ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza 29-30 novembre 1 dicembre 2017
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA
SI SVILUPPA LA CORRENTE NATURALISTA CHE OPERA
PER LA REVISIONE DELLA FISICA ARISTOTELICA ...
Questo è il settimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna [vi ricordo subito che la prossima settimana ci fermeremo in occasione della festività dell’Immacolata concezione perché l’8 dicembre cade di venerdì].
In queste ultime settimane abbiamo proceduto sulle tracce degli esordi della scienza e abbiamo studiato che la scienza, in Età rinascimentale, è ancora un settore del sapere in incubazione che risulta strettamente legato al fenomeno della magia perché la magia si presenta, così come abbiamo studiato in queste settimane, come una disciplina, una vera e propria materia di studio, ancorata a una lunga tradizione, dedita, fin dal tempo dell’Età assiale della Storia [da più di due millenni], a un’intensa attività di ricerca sul funzionamento dei fenomeni della Natura.
Nell’ambito del pensiero filosofico rinascimentale si sviluppa l’idea che, attraverso la mediazione del pensiero magico tramite la tradizione del Corpus hermeticum, esista un rapporto molto stretto tra Dio e la Natura, tanto stretto che i filosofi del Rinascimento arrivano a pensare che non si possa fare una distinzione e una differenza tra Dio e il Mondo, e questo è un pensiero che, come abbiamo studiato, viene chiamato “immanentismo” [Dio si estende in tutto] e “panteismo” [Dio è presente in tutte le cose]. Dio viene descritto dai filosofi rinascimentali , a cominciare da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, come una Mente universale diffusa ovunque e presente nell’Intelligenza dell’Essere umano, che permea e anima tutta la Natura e, di conseguenza, tutto è vitale, tutto è divino, e la vita che regola la Natura è la stessa vita di Dio.
I filosofi rinascimentali, sfidando l’Inquisizione, per sostenere l’idea che “Dio si estende in tutto ed è presente in tutte le cose”, praticano anche con impegno l’esegesi dei testi biblici - della Letteratura dei Vangeli, in particolare del Vangelo secondo Matteo che mette in evidenza il ruolo dei Magi al seguito della stella cometa - e poi, come abbiamo studiato la scorsa settimana sotto la guida di Pico della Mirandola autore dell’Heptaplus, praticano l’esegesi della Letteratura dell’Antico Testamento, in particolare del Libro dell’Esodo nel quale “El-Adonai è il Dio che compie prodigi con il potere della magia”; questa interessante attività esegetica viene svolta dai filosofi rinascimentali per cercare una giustificazione dottrinale al loro pensiero e di conseguenza al loro operato, perché ritengono che il progetto della salvezza - di un Dio che s’incarna per salvare l’Umanità intera sotto forma di bambino esule, povero e indifeso - sia scritto nella Natura e lo si possa leggere magicamente nelle pieghe dei fenomeni naturali in quanto deve esistere, secondo la metafora della stella cometa che indica la via della salvezza, “una corrispondenza” tra le qualità della Natura e il progetto divino. Queste idee, espresse nell’ambito di un dibattito assai vivace, che cosa determinano in pratica?
In pratica agli albori dell’Età moderna succede che, tanto i filosofi rinascimentali difensori dell’immanenza [di un Dio che si estende in tutto ed è presente in tutte le cose] quanto i pensatori che propugnano la trascendenza [un Dio totalmente distaccato dal Mondo e scisso dalla realtà umana], aumentano il loro impegno nello studio della Natura, soprattutto per capire quali sono le regole a cui i fenomeni fisici devono sottostare per poter funzionare e per potersi manifestare, ed è proprio in questo clima che emergono molti elementi che vanno a dare forma allo scenario degli esordi della scienza.
Sappiamo che il pensiero magico rinascimentale elabora il concetto [che continuerà a incidere nella Storia del Pensiero] della “simpatia cosmica” per cui si pensa che in ogni parte della Natura, anche nel mondo minerale che pare privo di vitalità, sussistano “attrazioni” [affinità elettive] così come esistono “antipatie” fra i vari elementi naturali che, quindi, non si cercano, non si associano ma si respingono, e in quest’ottica si sviluppa il principio della “corrispondenza”.
Per vivere in armonia con il Cosmo, in consonanza con la Natura, in accordo con il prossimo e in comunione con Dio è utile trovare “le giuste corrispondenze” e, in proposito, la disciplina magica propone un vasto armamentario di strumenti: le tavole delle corrispondenze, quelle chiromantiche, quelle astrologiche, quelle dei formulari magici, e così via.
Ed è, soprattutto, l’applicazione del “concetto di corrispondenza” a favorire le condizioni che producono una svolta di carattere scientifico, e questo avviene nel momento in cui si comincia a capire che “le corrispondenze” hanno una relazione con i principi che sono propri della Natura stessa, e quando questi principi cominciano a essere osservati, accertati, accreditati e dimostrati attraverso l’attività razionale sotto la guida dell’intelletto si apre una fase che può essere davvero considerata determinante per gli esordi della scienza: questa fase ha preso il nome di “Filosofia naturalista”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è un fenomeno naturale a cui avete assistito che vi ha messe, che vi ha messi particolarmente “in corrispondenza” con la Natura?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Chi apre la strada alla cosiddetta Filosofia “naturalista”? Chi ha il coraggio di rompere uno schema consolidato e di affermare che i comportamenti della Natura sono “suoi propri”, né influenzati da interventi divini né da congetture magiche e né soprattutto subordinati ai fondamenti della fisica aristotelica che domina ancora nel campo della cultura universitaria agli albori dell’Età moderna? Il coraggio [il coraggio di criticare la fisica aristotelica] e la capacità intellettuale [la capacità di andare al di là dei fondamenti della fisica aristotelica alla quale era stata data una veste dogmatica che lo stesso Aristotele avrebbe contestato] la possiede, in particolare fin da giovane, Bernardino Telesio, un personaggio che abbiamo già citato più volte.
Prima di studiare il pensiero di Bernardino Telesio attraverso la sua opera principale, dobbiamo occuparci dell’attività che ha svolto come giovane ricercatore in veste di assistente universitario, e poi dobbiamo renderci conto di come il suo impegno sul piano filosofico trovi un punto di raccordo con la produzione poetica del suo tempo. A questo proposito, dobbiamo riprendere la riflessione che, già la scorsa settimana, abbiamo sviluppato sul modo in cui Ludovico Ariosto, nel testo dell’Orlando furioso, il poema di cui ci stiamo occupando leggendo una parte del primo canto, affronta il tema della Natura e così possiamo anche conoscere la ragione per cui Bernardino Telesio scrive «Trovasi sommo divertimento nel declamar le ottave del Furioso ove ogni accidente [fenomeno] di Natura avviene per principi sui» e, quindi, possiamo anche capire perché Ludovico Ariosto vada spesso a Padova e, insieme a Pietro Bembo, una nostra vecchia conoscenza che abita a Padova in questo periodo, si rechi all’Università a seguire le Lezioni del ventenne ricercatore Bernardino Telesio assistente incaricato del magister Federico Delfino. Ma procediamo con ordine, imbastendo un ragionamento progressivo che prevede un necessario richiamo alla cosmologia di Aristotele per cui il sentiero si fa impervio.
Negli ultimi decenni del ‘400, anche in relazione ai limiti mostrati dalla disciplina magica e in virtù di determinati risultati raggiunti applicando il concetto di “corrispondenza” [come abbiamo detto], si è sviluppato un clima particolare nel mondo intellettuale su come affrontare lo studio della Natura: si prende atto del fatto che la Physica di Aristotele - l’opera che il movimento della Scolastica medioevale considera il testo fondamentale per conoscere la Natura - è di sicuro, come tutti gli scritti aristotelici, un’opera eccezionale per le parole-chiave e i concetti-cardine che contiene ma si capisce anche che questo trattato non insegna come funziona “praticamente” la Natura bensì spiega come opera l’Intelletto umano, basandosi su principi universali astratti [sostanza, forma, materia], per dare un significato a fatti concreti che, in realtà, sono governati in primo luogo dai sensi. Quindi, la Physica [così come la Logica e la Metafisica di Aristotele] descrive, in primo luogo, come l’Intelletto sia capace di dare una forma logica alla realtà per cui la Natura, con i suoi fenomeni, appare alla mente della persona come l’Intelletto la rappresenta, all’interno di un quadro regolato da principi astratti [le categorie] per cui la persona, attraverso le dieci categorie di Aristotele, vede la Natura “non per quello che realmente è” ma “come sembra che sia” di conseguenza, cresce il numero degli studiosi, specialmente di quelli che osservano il cielo e vedono che tutto si muove in un certo modo, i quali pensano sia necessario procedere, per conoscere e per cercare di capire l’effettivo funzionamento della Natura, andando oltre la visione di Aristotele: anche Aristotele - che è stato grande nell’aver ideato il concetto di “categoria” [l’idea più ampia possibile che la mente possa formulare, le dieci categorie: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, stato, possesso, azione, passione] in funzione della conoscenza - se avesse avuto i mezzi milleottocento anni prima avrebbe definito le categorie dopo un procedimento di sperimentazione pratica e non enumerandole come un prodotto astratto del pensiero.
All’Università di Padova, dove ancora si contrastano spesso con astio, sentimento che non favorisce la ricerca, i membri delle due principali correnti aristoteliche, quella averroista e quella alessandrina [un tema, quello della polemica tra platonici e aristotelici, che abbiamo studiato durante il viaggio dello scorso anno], emerge una nuova linea di tendenza soprattutto per l’impegno di un magister che, con oculatezza, dà inizio alla critica [alla revisione] della fisica aristotelica: questo personaggio è il docente padovano Federico Delfino [1477-1547].
Federico Delfino è un astronomo, un filosofo e, soprattutto, è un matematico [e queste sono le prerogative tipiche - l’essere astronomo, filosofo e matematico - degli studiosi più illuminati di questo periodo] che nel 1520 diventa titolare della cattedra di matematica all’Università di Padova [un incarico di grande rilievo intellettuale] e intorno a lui nasce “la corrente dei rinnovatori della fisica aristotelica” [e questo è un momento strategico per gli esordi della scienza]. Oltre a insegnare a un nutrito e attento gruppo di studenti, Federico Delfino scrive diverse opere nella quali, andando oltre la logica di Aristotele, riporta i risultati che derivano dall’applicazione delle regole matematiche sul funzionamento di certi fenomeni naturali, per esempio sul ritmo delle onde del mare e sul ciclo delle maree: la sua opera più significativa s’intitola De fluxu et rifluxu aquae maris [Sul flusso e sul riflusso dell’acqua del mare]. Nel 1529 Federico Delfino sceglie tra i suoi allievi Bernardino Telesio come assistente e gli affida, per le competenze di cui è in possesso, una serie di incarichi. Perché la scelta cade sul ventenne Bernardino Telesio: come mai è uno studente già così ben preparato, e chi è Bernardino Telesio?
Bernardino Telesio è nato a Cosenza nel 1509, nel capoluogo di provincia più a nord della Calabria, una città fondata dai Bruzi nel IV secolo a.C. su sette colli nella valle del fiume Crati nel punto in cui in questo fiume confluisce il Busento, e il toponimo [il nome del luogo] “Consentia” ricorda “il consenso” [i consensi] che tutte le altre città bruzie hanno espresso nel riconoscere il suo ruolo egemonico [«Cosenza - scrive il geografo Strabone di Amasea, vissuto all’inizio del I secolo - fu la città più importante dei Bruzi»], e Cosenza, proprio per la sua importanza strategica, è passata attraverso un gran numero di dominazioni che hanno lasciato tutte qualcosa nel tessuto della città: è stata governata dai Romani [snodo fondamentale della via Capua-Rhegium], dai Visigoti [il re Alarico è sepolto nel Busento presso Cosenza], dai Longobardi, dai Bizantini, dai Normanni, dagli Svevi [l’imperatore Federico II di Svevia vi soggiorna spesso], dagli Angioini [Luigi III d’Angiò la sceglie come luogo di residenza e come capitale del ducato di Calabria], dal 1443 Cosenza è governata dagli Aragonesi [è il capoluogo della Calabria Citeriore] e vive il periodo della fioritura umanistica [gli anni dell’Umanesimo] che determina una crescita del livello intellettuale di questa città alla quale viene attribuito l’appellativo di “Atene della Calabria” ed è in questo contesto che nasce Bernardino Telesio.
Bernardino inizia a studiare sotto la guida di suo zio Antonio Telesio [1482-1534] dotto umanista, tra i fondatori dell’Accademia cosentina, che insegna al bambino le Lingue [il greco e il latino], l’Astronomia, la Letteratura classica, la Filosofia di Platone e di Aristotele e la Matematica, e poi dal 1518 comincia a farlo viaggiare, lo porta a Milano e dopo a Roma dove soggiornano fino al 1527, l’anno del saccheggio dei lanzichenecchi di Carlo V per cui lui e lo zio, non avendo credenziali, vengono arrestati e riescono a salvarsi la vita e a essere liberati per il provvidenziale intervento dell’umanista e poeta calabrese Bernardino Martirano che è in buoni rapporti con le autorità imperiali in Italia [con Filiberto d’Orange]: questa brutta avventura Bernardino Telesio non la dimenticherà mai.
Da Roma, sempre in compagnia dello zio Antonio, si trasferisce a Venezia e poi, mentre lo zio Antonio torna a Cosenza per riprendere le redini dell’Accademia cosentina, Bernardino inizia a frequentare l’Università di Padova studiando Filosofia con Geronimo Amaltea e Matematica, Astronomia e Filosofia morale con Federico Delfino che [ed è qui che volevamo arrivare] nel 1529 lo sceglie tra i suoi allievi come assistente e gli affida, per le sue già vaste competenze, una serie di incarichi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Calabria che trovate in biblioteca e navigando in rete fate una visita a Cosenza, percorrete virtualmente il pittoresco e tortuoso “corso Telesio” e osservate la statua bronzea a lui dedicata [opera del 1914 di Achille Orsi che lo raffigura con in mano un libro e una penna] posta in piazza XV marzo [il 15 marzo 1844 è il giorno in cui i patrioti risorgimentali cosentini sono insorti e molti di loro sono stati uccisi dall’esercito borbonico, ed è doveroso ricordare che a Cosenza, il 25 luglio 1844, in seguito a questi avvenimenti sono stati fucilati i mazziniani fratelli Bandiera].
Buon viaggio verso Cosenza, città telesiana e punto di partenza per salire sull’altopiano della Sila per incontrare quel totemico personaggio che è il lupo [siamo “in bocca al lupo” – scrive Bernardino Telesio - in quanto noi raccontiamo molto di lui perché lui racconta molto di noi]…
Quali incarichi Federico Delfino assegna a Bernardino Telesio facendolo diventare in pratica il segretario e la guida intellettuale de “la corrente dei rinnovatori della fisica aristotelica”?
Prima di rispondere a questa domanda ce ne dobbiamo porre un’altra, della quale conosciamo già i termini: perché Ludovico Ariosto insieme a Pietro Bembo partecipa ai cicli di Lezioni tenute da Bernardino Telesio all’Università di Padova [dal 1529 al 1535]? Ludovico Ariosto, che frequenta Padova fino al 1532, cerca una giustificazione intellettuale al modo in cui ha trattato il tema della Natura nel suo poema e trova una valida spiegazione negli studi avviati da Telesio nel campo della fisica e si sente più tranquillo. Ludovico Ariosto si rende conto, come molti intellettuali in questo momento, che le visioni del Cosmo in auge [quella magico-rinascimentale dei filosofi e quella scolastico-aristotelica degli ecclesiastici] sono diventate discutibili, per non dire insostenibili, e, quindi, il poeta affronta l’argomento con circospezione ma dimostra di essere in linea con il clima culturale che porta la scienza ai suoi esordi: riprendiamo il discorso già imbastito la scorsa settimana.
Nel testo del poema Orlando furioso emerge con grande evidenza il tema della Natura e della manifestazione delle sue forze misteriose perché Ludovico Ariosto è figlio del suo tempo e il funzionamento dei fenomeni naturali è al centro dell’attenzione degli intellettuali rinascimentali, anche se dobbiamo constatare che nell’opera del poeta ferrarese “una visione ideologica del Cosmo” non appare mai in modo esplicito, bensì nel testo dell’Orlando furioso affiora continuamente l’elemento “fantastico” della Natura, nel senso poetico del termine, dato dalla sua essenza misteriosa, e la stessa foresta [la foresta è protagonista nel poema] che, lì per lì, si presenta con il suo aspetto tenebroso e inquietante appare come se fosse un corpo vivente ricco di seduzioni e di elementi benevoli perché in essa ci sono anche molti luoghi ameni dove potersi appartare, potersi nascondere e potersi rilassare. Inoltre Ariosto nel suo poema non fa mai considerazioni di tipo teologico [e se ne guarda bene: sono tempi in cui bisogna stare attenti a quello che si dice e a quello che si scrive] e, in particolare, non fa alcun riferimento al tema del rapporto tra Dio e la Natura. Ariosto dichiara di non essere un filosofo, non manifesta idee di carattere immanentista e panteista [non ha mai affermato che “Dio si estende in tutto ed è presente in tutte le cose”] e non fa mai alcuna allusione al fatto che Dio possa essere presente nella Natura perché la Natura nel poema di Ariosto si presenta con una sua personalità autonoma: la Natura non contiene alcunché di divino. Nell’Orlando furioso la Natura è idillica, poetica, sentimentale, lirica, pastorale, bucolica, elegiaca, fantastica, suggestiva, ma non è “magica” [nel senso della disciplina pre-scientifica di cui abbiamo parlato finora] in quanto “la magia ariostesca” si presenta come un fantastico frutto dell’immaginario perché un poema cavalleresco deve stimolare il magico effetto della fantasia e, quindi, si può dire che Ludovico Ariosto guarda con interesse alla cosiddetta “Filosofia naturalista”, la disciplina che studia come la Natura si comporta “secondo i suoi propri principi”. Ed è per questo motivo, come sappiamo, che “il filosofo naturalista” per eccellenza Bernardino Telesio si diverte, già da bambino, a leggere l’Orlando furioso.
Si può affermare che la sapienza poetica dell’Ariosto fornisce elementi di riflessione utili allo sviluppo della Filosofia naturalista? È un’ipotesi, anche se Ludovico Ariosto afferma che la sua vocazione è quella del poeta e non del filosofo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Rispetto al suo ruolo sul piano dell’immaginario e considerandola esclusivamente come produttrice di fenomeni positivi, quale di questi termini - idillica, poetica, sentimentale, lirica, pastorale, bucolica, elegiaca, fantastica, suggestiva – mettereste per primo accanto alla parola “Natura”?…
Scrivetelo…
E, forse, adesso vi viene in mente anche un’opera letteraria o artistica in generale dove questi termini, che affiancano la Natura, ricorrono: quale?…
Scrivete due righe in proposito…
L’Orlando furioso è un’opera dedicata a tutte le persone che stanno scappando e la trama del poema si basa su un motivo conduttore dominante: la fuga di Angelica. Lo scenario dato dalla Natura rappresenta lo spazio fantastico nel quale Angelica può fuggire.
E adesso, prima di occuparci degli esiti del lavoro intellettuale svolto da Bernardino Telesio per arricchire il dibattito sul tema cosmologico, leggiamo un testo che riassume il contenuto dalla 40ª alla 59ª ottava del primo canto dell’Orlando furioso, dove il fascino della Natura emerge nella sua dimensione idillica.
La trama dell’Orlando furioso - poema dedicato a tutte le persone che stanno scappando - si basa su un motivo conduttore dominante: la fuga di Angelica. Angelica fugge i suoi numerosi e maldestri corteggiatori: come abbiamo letto nelle scorse settimane, fugge da Rinaldo e poi da Rinaldo e Ferraù che - dopo essersi resi conto che era inutile duellare tra loro mentre Angelica li fuggiva entrambi - la inseguono insieme per un tratto, galoppando sullo stesso cavallo finché, giunti a un bivio, decidono di separarsi. Angelica, impaurita, fugge, per seminare Rinaldo, in uno scenario dato dalla Natura selvaggia, apparentemente inospitale, in mezzo a boschi di querce, di olmi e di faggi, finché viene a trovarsi in un posto ameno: un boschetto delizioso dove spira un venticello delicato e fresco, dove scorrono due limpidi ruscelli dalle rive erbose. Qui crede di essere al sicuro, pensa che Rinaldo abbia perso le sue tracce e allora scende da cavallo e decide di fare una sosta, di riposarsi e di rinfrescarsi, e poi vede un cespuglio - formato da uno stretto intreccio di pruni fioriti e di rose rosse - ben riparato tanto dal sole quanto da eventuali sguardi indiscreti, un cespuglio che, essendo vuoto all’interno, si presenta come se fosse una confortevole camera da letto, e lì entra, si sdraia sull’erbetta morbida, e si addormenta, e dorme finché ode un calpestio: si alza senza far rumore, trattenendo il respiro e vede che è giunto un cavaliere armato, il quale, seduto presso la riva di uno dei due ruscelli, appare immobile come un sasso mentre si regge la testa con un braccio. Questo cavaliere è Sacripante, uno dei suoi corteggiatori, il quale sta pensando proprio a lei e, dopo esser rimasto per qualche tempo a sospirare in silenzio, si mette a parlare per esprimere le sue pene d’amore. In questo brano che viene chiamato “il lamento di Sacripante” [dalla 40ª alla 59ª ottava del primo canto] si trova una ottava il cui primo verso è considerato come se fosse il titolo di una lirica indipendente, ottava molto nota, la 42ª [La verginella è simile alla rosa], una di quelle ottave del poema che ha fatto da modello alla poesia successiva del tardo ‘500 e del ‘600 [e, a suo tempo, parleremo di Arcadia].
Nella 42ª ottava Sacripante - pensando ad Angelica - tesse l’elogio della verginità: la vergine è simile a una rosa che in un bel giardino [qui riecheggiano i versi delle Stanze del Poliziano], sul rovo che l’ha generata, si riposa finché è sola ed è al sicuro, e né il gregge né il pastore le si avvicinano. La brezza delicata, la rugiada del mattino, l’acqua e la terra s’inchinano davanti al suo fascino, e i giovani amanti desiderosi [vaghi] e le donne innamorate amano ornarsi il seno e cingersi il capo con le rose …
LEGERE MULTUM….
Ludovico Ariosto, Orlando furioso I 42
42. La verginella è simile alla rosa,
ch’in bel giardin su la nativa spina,
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor le s’avvicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
Il paragone di Angelica con la rosa - da tutti ammirata finché rimane intatta sul suo stelo, perché quando è stata colta perde tutto il suo pregio - sembra debba indurre Sacripante a rinunciare a lei, in quanto, lui immagina che sarà stata senz’altro conquistata da qualche altro amante [con tutti quelli che le corrono dietro], però lui, anche se “la bella rosa del giardino è stata colta” [tanto per citare ancora Poliziano] non è disposto a rinunciare ad Angelica e nella 44ª ottava, della quale leggiamo solo due versi, dice: «Che io muoia oggi stesso piuttosto che vivere più a lungo se io non dovessi amare lei».
LEGERE MULTUM….
Ludovico Ariosto, Orlando furioso I 44
44. Ah, più tosto oggi manchino i dì miei,
ch’io viva più, se amar non debbo lei!
Angelica ascolta queste e molte altre parole simili, vede le lacrime di Sacripante che accompagnano il suo lamento d’amore ma nella 49ª ottava, della quale leggiamo quattro versi, tuttavia, si dimostra, secondo il suo carattere, sprezzante: Angelica, dura e fredda più di una colonna, non si degna di avere pietà di lui ma si comporta come colei che snobba tutto il mondo e pensa non esista persona alcuna degna di lei [è anche vero che deve trovare qualcuno che le piace].
LEGERE MULTUM….
Ludovico Ariosto, Orlando furioso I 49
49. ma dura e fredda più d’una colonna,
ad averne pietà non però scende,
come colei c’ha tutto il mondo a sdegno,
e non le par ch’alcun sia di lei degno.
Però - e qui entra in gioco l’astuzia della ragione che Angelica sa ben governare - il fatto di ritrovarsi sola in mezzo al bosco, senza guida e senza difesa, la persuade ad approfittare della presenza di quello che, a questo punto, giudica il più fidato [o babbeo] dei suoi corteggiatori per farne la sua scorta. Perciò esce in modo plateale dal cespuglio che la nasconde e «fa di sé bella ed improvisa mostra» [Ottava 52a]. Sacripante è talmente stupito che ci mette un po’ prima di capire e poi «pieno di dolce e d’amoroso affetto» [Ottava 54a] le corre incontro e l’abbraccia. Ma ecco che, mentre Angelica gli racconta le sue disavventure, assicurandolo di non aver mai concesso ad alcuno il suo amore - al che Sacripante comincia a nutrire delle speranze - si sente un gran rumore dal bosco vicino, e lui monta subito in sella e prende la lancia, preparandosi a fronteggiare ogni eventuale pericolo [Ottava 59a]. Che sta succedendo?
Che cosa succede lo vedremo. Ora, insieme ad Ariosto e a Bembo, dobbiamo seguire il lavoro di ricerca, di documentazione, di traduzione e di commento svolto da Bernardino Telesio [incaricato dal suo insegnante Federico Delfino] che mette seriamente in discussione la visione di stampo aristotelico del Cielo e del Mondo considerata finora come reale tanto dai filosofi quanto dagli ecclesiastici. Il sentiero si fa impervio ma dobbiamo necessariamente ristudiare - con il giovane Bernardino Telesio - un tassello della Filosofia [la cosmogonia] di Aristotele.
Il professor Federico Delfino, astronomo, filosofo e titolare della cattedra di matematica all’Università di Padova, propone a Bernardino Telesio di tradurre dal greco in latino e di commentare con spirito critico il testo del trattato di Aristotele intitolato Perì oùranou [Sul cielo], in latino De caelo. Quest’opera aristotelica, sebbene sia basata [e già lo si capiva ben prima degli albori dell’Età moderna] su quella che oggi chiamiamo “una fisica ingenua”, presenta un modello che è rimasto in auge per circa due millenni perché è dotato di una mirabile coerenza concettuale, una coerenza fondata sulla capacità logica che hanno le parole di rappresentare la realtà in termini astratti indipendentemente dai fatti concreti. La visione cosmologica di Aristotele ha dominato la cultura antica fornendo, nel II secolo, il quadro ideale su cui Tolomeo ha costruito - ed esposto in un’opera intitolata con dizione araba Almagesto [Impianto meraviglioso] - il suo sistema astronomico: il sistema tolemaico che, ancora agli albori dell’Età moderna, è riconosciuto come l’unico reale con la Terra al centro del sistema.
Nel Medioevo la visione cosmologica aristotelica diventa patrimonio della cultura islamica perché Sul cielo di Aristotele, opera che non è in contraddizione con la Letteratura del Corano, in Persia, è tradotto in arabo, come tutte le opere filosofiche greche esportate in Persia, e viene studiato intorno all’anno Mille da Avicenna a Bukhara, e poi da Oriente il trattato di Aristotele, insieme a tutte le Opere di Platone e di Aristotele tradotte in arabo, approda, seguendo le vie mercantili aperte dagli Arabi tra Oriente e Occidente, in Andalusia dove viene commentato da Averroè a Cordova nel 1192; nella cultura cristiana il testo Sul cielo di Aristotele viene introdotto intorno al 1144 attraverso la traduzione dall’arabo in latino effettuata alla Scuola di Toledo da Gherardo da Cremona, il più importante traduttore di opere dall’arabo in latino del XII secolo.
Tommaso d’Aquino, che abbiamo incontrato a suo tempo studiando i testi dei suoi Scritti principali, nelle sue Opere [a partire dal 1247, con grande abilità e a suo rischio e pericolo perché Aristotele viene condannato come ateo dall’autorità ecclesiastica e messo all’Indice dal Sant’Uffizio] “cristianizza” il pensiero di Aristotele comprendente la sua visione cosmologica [il Motore immobile per Tommaso diventa il Pensiero di Dio e tutto il Cosmo funziona come se fosse mosso da Intelligenze angeliche]. La Filosofia scolastica fa propria questa opinione finché, dal 1323, anche la Chiesa ai suoi vertici, mezzo secolo dopo la morte di Tommaso, con papa Giovanni XXII, [quando la Corte papale è ad Avignone, e di questo papa ne sentiremo ancora parlare tra quindici giorni] approva la versione tomista della Filosofia di Aristotele che Tommaso ha utilizzato nella Summa teologica come poderosa impalcatura ideologica a sostegno della dottrina cristiana e, quindi, il Sant’Uffizio benedice anche il sistema astronomico tolemaico e persegue chi lo mette in discussione.
Qual è il contenuto del trattato Sul cielo di Aristotele? Ce lo spiega Bernardino Telesio il quale traduce in latino l’opera Perì oùranou [Sul cielo, De Caelo] con un commento che da una parte mette bene in evidenza la grande maestria di Aristotele nel dare una lettura concettuale del Cosmo mentre dall’altra rileva tutta una serie di contraddizioni che l’osservazione dei fenomeni fa emergere. Con questa operazione intellettuale di Bernardino Telesio ha inizio in modo fattivo, all’Università di Padova, il processo di “revisione” della fisica di Aristotele [ed è più prudente usare la parola “revisione” piuttosto che “liquidazione” per evitare condanne].
Aristotele scrive il trattato in quattro Libri Sul cielo [Perì oùranou] nel 350 a.C. e con quest’opera intende fornire un modello concettuale del Cosmo che comprenda tanto il Cielo quanto la Terra riprendendo temi sviluppati in altri suoi due trattati: la Physica e la Metaphysica. Aristotele nel De caelo [Sul cielo] spiega come le diverse parti del Cosmo interagiscono fra loro perché sono fondate su una struttura che ha una sua “logica intellettuale” [tutto risponde perfettamente a un ordine, un kosmos, governato dall’Intelletto ed esprimibile con le parole], e il moto di questa struttura, afferma Aristotele, è suscitato per imitazione [tra poco vedremo che cosa significa] dal Motore immobile [un concetto astratto di carattere universale: un Pensiero, un Logos] che anima, come se fosse un grande orologio, tutto l’apparato rispettando precisi criteri di ordine razionale.
Aristotele scrive che la Terra e tutto ciò che si trova al disotto della Luna [nel “Mondo sublunare”] è composto da “i quattro elementi” della tradizione presocratica: terra, acqua, aria e fuoco. Ed è proprio per questa sua composizione, spiega Aristotele, che il Mondo sublunare è soggetto “a generazione e corruzione” [si riproduce e si degrada in continuazione. Il Mondo sublunare [la Terra] deve la sua stabilità al sistema delle corrispondenze tra i quattro elementi costitutivi perché ogni elemento tende verso la sua sede naturale e così succede, scrive Aristotele, che la terra e l’acqua, che sono dotate di una qualità che Aristotele chiama “gravitas”, spingono il Mondo sublunare verso il basso o più precisamente verso il suo centro [in direzione centripeta], mentre l’aria e il fuoco, che sono dotate di una qualità che Aristotele chiama “levitas”, sollecitano il Mondo sublunare verso l’alto o più precisamente verso la sua periferia [in direzione centrifuga]. L’armonia che si viene a creare tra queste due qualità [gravitas e levitas] mantiene la stabilità della Terra nel Cosmo.
Il Mondo celeste [il Cielo], invece, scrive Aristotele, è radicalmente diverso: è eterno e incorruttibile perché è costituito da un elemento straordinario e di qualità superiore: l’etere. La parola greca “aithér-éros”, che Aristotele riprende dal dialogo Fedone di Platone, è composta dal verbo “aìtho” che significa “ardere” accompagnato dal termine “éros” che indica “il desiderio di assaporare la conoscenza” e, quindi, Bernardino Telesio, nel commento che accompagna la sua traduzione del trattato Sul cielo, scrive che è difficile verificare l’esistenza reale dell’etere e, difatti, Platone e Aristotele non possono far altro che dare a questa essenza [aithér-éros] il senso di una metafora: “l’etere è la sostanza [speciale, completa] che fa ardere dal desiderio di poterla conoscere e di poterla gustare” [c’è una tendenza di carattere spirituale a gustare le cose del Cielo]. Il Cielo è, quindi, dotato di perfezione [in greco “téleios, la completezza”] e tali devono essere anche i suoi moti e, dato che l’etere, scrive Aristotele, è un elemento che non tende né verso il basso né verso l’alto, ogni corpo celeste deve muoversi in esso di moto circolare uniforme [la circonferenza raggiunge la sua qualità di figura geometrica perfetta quando si muove nell’etere - scrive Aristotele - e tutti i moti celesti tracciano circonferenze perfette] e Bernardino Telesio nel suo commento al De caelo scrive che questo assioma sta dando non poco filo da torcere agli astronomi [e il suo maestro Federico Delfino lo informa che non tutto torna nei moti astrali applicando unicamente circonferenze alla mappa del Cielo]. Talvolta Aristotele nel suo trattato sembra ritenere che i Corpi celesti siano dei veri e propri “esseri viventi dotati di anima razionale” [e queste affermazioni hanno giocato a favore di Tommaso che inserisce nel sistema aristotelico cristianizzato il concetto di Intelligenza angelica], e Aristotele scrive anche che «gli Astri sono partecipi d’attività e di vita » [e questa affermazione rafforza l’influenza dell’astrologia rinascimentale sul pubblico].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale dei quattro elementi - terra, acqua, aria e fuoco - volete citare per primo: in relazione a quale pensiero…
Scrivete quattro righe in proposito…
Bernardino Telesio nel 1529 - tenendo conto anche delle riflessioni che altri pensatori hanno espresso nel corso dei secoli, come vedremo - scrive, nel commento che accompagna la sua traduzione del trattato Sul cielo di Aristotele, che la distinzione fra “il Mondo sublunare con i suoi quattro elementi” e “il Mondo celeste dell’etere” è, sebbene sempre in auge, da mettere in discussione e per questo invita gli studiosi a “revisionare” questa concezione. La prova evidente dell’inesistenza reale di questa distinzione concettuale e astratta tra la Terra e il Cielo [per cui si inizierà ad affermare in modo esplicito che “il cielo non esiste”] viene fornita quando [Bernardino Telesio è già morto da più di vent’anni], con il telescopio nel 1610, Galileo Galilei [che incontreremo a suo tempo riprendendo questo tema] mette in evidenza, ottant’anni dopo il richiamo di Telesio, con la scoperta delle montagne della Luna, l’impossibilità di credere che il satellite della Terra sia un perfetto globo fatto di etere [simile a una palla da biliardo], e analogamente la perfezione del Sole viene messa in discussione dalla scoperta delle macchie solari, e le fasi di Venere, inquadrate da Galileo Galilei, dimostrano che anche l’astro più fulgente brilla di luce riflessa. L’ipotesi formulata da Bernardino Telesio che il Cielo e la Terra sono simili, ipotesi poi dimostrata praticamente, come vedremo, nel secolo successivo da Galileo, risulta molto importante sulla strada intrapresa per “la revisione dell’aristotelismo” ma prima che la questione dell’eliocentrismo [che è il Sole e non la Terra al centro del sistema] esca dal novero delle ipotesi fantasiose deve passare almeno un secolo, e questo perché la struttura del Cosmo disegnata da Aristotele mantiene, soprattutto con il sostegno dei grandi potentati, accademici ed ecclesiastici, la sua rilevanza [ma lo stesso Aristotele si sarebbe ribellato al fatto che il suo sistema veniva imposto in modo autoritaristico].
E ora torniamo a farci spiegare da Bernardino Telesio il contenuto del trattato Sul cielo di Aristotele prendendo atto, naturalmente, del suo commento critico che [con circospezione ma con determinazione] apre un nuovo orizzonte nel campo della Fisica.
Nel trattato Sul cielo [Perì oùranou, De caelo] Aristotele concepisce il Cosmo come un sistema geocentrico [la Terra sta al centro] e, ancora una volta, il Filosofo ragiona in termini concettuali: siccome la Terra [come abbiamo detto] riceve e mantiene stabilità dall’armonia delle corrispondenze dei quattro elementi [dal rapporto equilibrato dato dalla gravitas di terra e acqua con la levitas di aria e fuoco], ebbene, la stabilità della Terra al centro del Cosmo, scrive Aristotele, trasferisce e procura l’equilibrio all’intero Universo, quindi, porre la Terra al centro del sistema ha, scrive Aristotele, il vantaggio di eliminare la [fastidiosa] domanda che [gli involuti, secondo lui] filosofi arcaici [e intende i presocratici] hanno continuato a farsi: «Su che cosa poggia la Terra?». Aristotele, al capitolo XIII del II Libro del De caelo, riporta l’elenco di alcune cosmogonie arcaiche [come le chiama lui] e scrive che: «Talete riteneva che la Terra fosse un disco galleggiante sull’acqua [“opinione proveniente dai popoli del vicino Oriente”, aggiunge Aristotele], Senofane, invece, pensava che le profondità della Terra si estendessero all’infinito, Anassimene, Anassagora e Democrito credevano che la Terra si appoggiasse sull’aria come farebbe un coperchio piatto». Aristotele ironizza su queste risposte che ritiene fantasiose, proclamando la sfericità della Terra che secondo lui è una conseguenza del rapporto esistente tra i quattro elementi [la relazione tra la gravitas della terra e dell’acqua e la levitas dell’aria e del fuoco genera corpi sferici, sostiene Aristotele come già sosteneva Platone e prima ancora Pitagora].
Per la circonferenza della Terra Aristotele accetta come ragionevole la stima [fatta da “i matematici”, di cui non fornisce i nomi] di 400.000 stadi [circa 73.000 km], un valore che è quasi doppio di quello reale [circa 40.000 km], ciò nonostante Aristotele ritiene verosimile che i due estremi della terra conosciuta, la regione delle Colonne d’Ercole e l’India, possano essere vicini fra loro, perché la misura della longitudine al tempo di Aristotele resta molto arbitraria [e lo rimarrà sino all’invenzione di orologi precisi e trasportabili] e le valutazioni delle distanze si basavano sui resoconti di viaggio dei mercanti ed erano amplificate dalla tortuosità delle strade e dalle esagerazioni dei viaggiatori. Bernardino Telesio, nel commento alla traduzione del De caelo, critica il fatto che Aristotele parli di distanze astronomiche senza avere strumenti per valutare, e poi soprattutto disapprova che Aristotele escluda che la Terra ruoti su se stessa affermando in modo semplicistico che “l’esperienza non mostra traccia di alcun movimento terrestre”: secondo Bernardino Telesio molto critico in proposito, Aristotele avrebbe fatto questa affermazione per conservare intatta la struttura del suo modello astronomico [tutto deve ruotare attorno a quel punto fermo che è la Terra] e l’evidente reticenza di Aristotele su molte questioni cruciali, scrive Bernardino Telesio, è giustificata dal fatto che il grande Filosofo appartiene al mondo “antico”, un’epoca in cui i grandi temi riguardanti la forma dell’Universo non potevano che essere affrontati in termini astratti e concettuali; per questo motivo, si deve pensare senza pregiudizi, scrive Bernardino Telesio, che “l’etere” per esempio non sia un elemento reale ma sia un concetto, un’astrazione utile per giustificare una qualità come “la perfezione” che è discutibile in tempi moderni [visto che gli astronomi - scrive Bernardino Telesio - stanno verificando che non tutto funziona alla perfezione nel Cosmo, così come non tutto funziona alla perfezione nella Natura]. Secondo il sistema aristotelico [che codifica una tradizione ormai acquisita] attorno alla Terra si trovavano sette Sfere cristalline contenenti la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove e Saturno, secondo l’ordine determinato dalla durata crescente del periodo di rivoluzione, del moto orbitale. Poi, nel sistema, è prevista una Sfera più esterna che trasmette il moto a tutte le Sfere interne e contiene le Stelle fisse e la sua rotazione è dovuta direttamente al Motore immobile che, per questo motivo, prende il nome di “primo mobile” che, in latino, viene tradotto con il termine “firmamento” [dal verbo “firmare”, “rendere stabile”]. Per Aristotele, che rifiuta il concetto di “vuoto”, non può esserci nulla all’esterno del “primo mobile” [del firmamento], nemmeno il vuoto.
Il Motore immobile, scrive Aristotele, è un oggetto di natura intellettuale [è un concetto che non si trova in alcun luogo, che opera solo come causa finale altrimenti non sarebbe perfetto se si facesse coinvolgere dal mondo materiale], è un Pensiero [un Logos] e, quindi, scrive Aristotele, potrebbe anche essere considerato una divinità [Dio] ma, in questo caso, scrive ironico e caustico Aristotele, sarebbe una divinità che si disinteressa del mondo. Le Sfere, chiarisce Aristotele per mantenere una coerenza concettuale, si muovono con moto circolare uniforme imitando la perfezione del Motore immobile, quindi, non è Lui che le muove come causa prima ma sono le Sfere a prenderlo a modello come causa finale, e la rotazione uniforme delle Sfere riproduce il trascorrere di un tempo illimitato, che imita l’eternità immobile del Motore. Inoltre, scrive Aristotele, poiché le Sfere planetarie sono dotate di moti diversi, esse devono avere una loro natura intellettuale [e spirituale] diversa [e la struttura del Paradiso dantesco ne tiene conto].
Naturalmente i filosofi islamici e cristiani modificano [con grande facilità perché Aristotele l’ipotesi teologica la rifiuta ma la presenta su un piatto d’argento] il Cosmo aristotelico aggiungendo “uno spazio esterno” detto “empireo” [dal greco “empýrios”, “infuocato, ardente”] dove pensano risieda Dio con gli Angeli e le Anime dei Beati. L’empireo non viene inteso né dagli scolastici islamici né da quelli cristiani come un’ulteriore Sfera in quanto il suo vero centro è Dio.
Bernardino Telesio non pensa di aver infangato [e riceve delle minacce] la memoria di Aristotele con la sua critica e termina il suo commento al De caelo lodando il grande Filosofo perché è stato capace di costruire un sistema dotato di una straordinaria logica concettuale che, però, in tempi moderni, non è più utile allo studio della Fisica [per capire come è fatto realmente il Cosmo]; tuttavia, agli albori dell’Umanesimo, ha avuto una grande rilevanza sul piano della sapienza poetica [e Bernardino Telesio allude alla Divina Commedia di Dante] e, inoltre loda Aristotele [“il Maestro di color che sanno”] per la sua coerenza da scienziato nell’ammettere che, sul piano intellettuale, non si può mai dare tutto per scontato: l’intelligenza deve sempre fare i conti con “il dubbio” [gli aristotelici bigotti - allude Bernardino Telesio - non hanno dubbi sul sistema di Aristotele che, invece, i dubbi li ha].
E, a questo proposito, Bernardino Telesio mette in risalto le parole con cui Aristotele, dubbioso ome tutti i grandi studiosi, conclude il trattato Sul cielo e scrive Aristotele: «Mi domando, infine, come mai il massimo dell’imperfezione si trovi al centro dell’Universo, la Terra, e, invece, la perfezione del primo mobile si trovi alla periferia »[si capisce - allude Bernardino Telesio - che Aristotele si domanda se abbia senso parlare di centro e di periferia nel Cosmo, e su questo tema, agli esordi della scienza, si apre un vivace dibattito].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Che cosa vi ricorda la parola “periferia”: quale periferia fa parte della vostra esperienza?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Bernardino Telesio ci ricorda che la più celebre descrizione dell’Empireo è data da Dante Alighieri nel Paradiso della Divina Commedia: dopo l’attraversamento dei nove Cieli [che occupa 29 canti su 33] il poeta immagina di entrare insieme a Beatrice nell’area de “la candida rosa” del Paradiso, l’anfiteatro sulle cui tribune siedono i Beati.
Dante Alighieri, nel canto XXX del Paradiso, immagina di salire, accompagnato da Beatrice, nell’Empireo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Siccome in tutte le biblioteche domestiche c’è il volume della Divina Commedia potete cogliere l’occasione: leggete e rileggete il canto XXX del Paradiso facendo tesoro delle note e dei commenti e poi su un catalogo che trovate in biblioteca e sulla rete andate a osservare l’illustrazione di Gustave Doré intitolata Dante e Beatrice contemplano l’Empireo e contemplatelo insieme a loro…
Ora, per concludere, leggiamo i versi dal 38° al 45° del canto XXX del Paradiso [Ludovico Ariosto, Pietro Bembo e Bernardino Telesio li conoscono a memoria e ci fanno eco]. Beatrice comunica a Dante fin dove lo ha accompagnato. Dice Beatrice: «Noi siamo usciti fuori dal Cielo più esteso [il Primo Mobile] e siamo entrati nell’Empireo, fatto di pura luce, luce intellettuale, piena d’amore, amore vero, gioioso, che supera ogni dolcezza. Qui tu vedrai le schiere degli Angeli e dei Beati e una, quella dei Beati, la vedrai con l’aspetto in cui la vedrai il Giorno del Giudizio».
LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Paradiso XXX 38-45
«Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
luce intellettüal, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
che tu vedrai a l’ultima giustizia» …
Il ventenne ricercatore Bernardino Telesio, con il suo commento al trattato Sul cielo di Aristotele, rompe uno schema consolidato nei secoli affermando che non c’è la divisione tra la Terra e il Cielo, che l’etere non esiste come elemento celeste di qualità superiore ma è solo una metafora, che la Terra non può stare ferma, che il Motore immobile è un concetto puramente teorico che mette in moto la mente che si domanda come potrebbe essere l’Universo, che è improbabile che tutti i moti celesti traccino circonferenze perfette perché l’osservazione e la matematica dicono altro, che, quindi, il trattato di Aristotele Sul cielo ha una valenza sul piano della Logica [perché insegna a ragionare] e anche sul piano della Poesia [da quando i filosofi scolastici hanno introdotto l’Empireo nel sistema cosmologico, un’operazione che però Aristotele sconfesserebbe e non approverebbe mai]. Ebbene, Bernardino Telesio, dopo aver rotto, con il suo commento al trattato Sul cielo di Aristotele, uno schema consolidato da secoli, indirizzato e incoraggiato dal prof. Federico Delfino di cui è assistente, inizia a dare forma al suo pensiero, e quale strada intraprende in proposito?
Per rispondere a questa e ad altre domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé, consapevoli del fatto che non bisogna mai perdere [come dice Aristotele] la volontà d’imparare.
La Scuola è qui, ci vediamo tra quindici giorni dopo la pausa della festività dell’Immacolata concepita, e non perdete il prossimo itinerario perché sarà l’ultimo prima della vacanza natalizia e sarà anche l’ultimo itinerario dell’anno 2017, e poi il viaggio continuerà nei giorni dell’anno nuovo che verrà secondo l’inarrestabile scorrere del tempo: la sesta categoria [aggiungerebbe Bernardino Telesio] del, pur sempre, protagonista Aristotele…