ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza 21-22-23 febbraio 2018
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA
VIENE SVILUPPATO, IN FUNZIONE ONTOLOGICA, TEOLOGICA
ED ETICA, IL CONCETTO DI MULTIVERSO ...
Questo è il quindicesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna agli esordi della scienza e siamo in compagnia di Giordano Bruno che, a Londra, nel 1585, ospite dell’ambasciatore di Francia Michel de Castelnau, dà alle stampe una serie di opere [sei opere, due trilogie] molto importanti per la Storia del Pensiero Umano. Tre di queste opere costituiscono “la [cosiddetta] trilogia cosmologica” [o dei dialoghi metafisici costruttivi] nella quale Giordano Bruno propone la questione ontologica [il tema dell’Essere] e la questione teologica [il tema di Dio], due temi fondamentali della sua Filosofia che lui chiama “nolana” [Bruno si fa chiamare il Nolano e la sua Filosofia la definisce “nolana” in omaggio alla sua città natale].
La scorsa settimana [per allargarci la vita] abbiamo metaforicamente partecipato [perché lo studio è l’attività utopica più efficace per allargare la vita delle persone] a La cena delle ceneri che si è svolta a Londra, qualche ora dopo il tramonto di mercoledì 21 febbraio 1585, in casa del nobile Folco Grivello [sir Fulke Greville]. Come sapete, La cena delle ceneri è il titolo di un’opera di Giordano Bruno: la prima della cosiddetta trilogia cosmologica. Ne La cena delle ceneri il Nolano, per bocca di Teofilo, s’indigna con chi, per ragioni di potere, non invita le persone a riflettere sul “comune senso delle cose”, e lancia una pesante invettiva contro chi alimenta la superstizione [contro chi divulga le credenze irrazionali, «contra gli untori de l’ignoranza»] e, infine, denuncia la nefasta negligenza e deplora l’imperdonabile ritardo [«la ignavia nefasta e lo reo indugio»] dei membri del mondo della cultura che non sanno e non vogliono recepire la rivoluzione cosmologica copernicana che è, scrive Giordano Bruno, soprattutto “un motore” di rinnovamento intellettuale e morale [«motore de la rinnovazione de lo intelletto e de’ costumi»]. E ora prendiamo il passo sul faticoso itinerario di questa sera.
La cena delle ceneri fa parte di una trilogia insieme ad altre due opere scritte in Lingua italiana e intitolate De la causa, principio et uno e De l’infinito, universo e mondi. Queste tre opere hanno la stessa forma perché in ciascuna c’è un prologo, ci sono alcune composizioni in versi [perché Giordano Bruno è anche un poeta] e cinque dialoghi tra un rappresentante dell’autore, chiamato Teofilo o Filoteo, e vari interlocutori. Questa trilogia è detta “cosmologica” [o dei dialoghi metafisici costruttivi] e le tre opere di cui si compone sono state pubblicate come sappiamo a Londra nel 1585. In queste opere il Nolano [nei testi Bruno si cita con questo pseudonimo] propone e sviluppa una serie di temi [la questione ontologica e la questione teologica] partendo, come abbiamo studiato la scorsa settimana, dalla difesa del sistema copernicano, per poi presentare le sue ipotesi sulla forma dell’Universo che, in ragione della sua riflessione [che suscita scandalo], si presenta come un Multiverso e questo fatto condiziona la sua visione teologica, un tema che tre settimane fa abbiamo lasciato in sospeso perché non poteva essere affrontato se non dopo la nostra partecipazione a La cena delle ceneri. Adesso, attraverso i testi della trilogia cosmologica, seguiamo l’itinerario del pensiero di Giordano Bruno tenendo conto del fatto che secondo il suo stile - uno stile letterario da autore incline alla poesia di carattere mitico, perché anche Bruno come Platone tende a spiegare i concetti del suo pensiero utilizzando i personaggi e i racconti della mitologia greca trasfigurandoli attraverso la sua fervida immaginazione, e quindi non affronta mai un tema in modo lineare ma lo sviluppa nell’ambito di ampie digressioni: noi dobbiamo, di conseguenza, per motivi didattici, cercare di dare ordine alle significative riflessioni dell’autore per capire, per quanto più sia possibile, il suo pensiero.
Come sappiamo, Giordano Bruno dà inizio al suo ragionamento lanciando un’invettiva contro il teologo Andrea Osiander il quale, come ricorderete, ha curato a Norimberga, nel 1543, la pubblicazione del De rivolutionibus orbium coelestium [Sulle rivoluzioni delle sfere celesti] di Niccolò Copernico, ne ha corretto le bozze e ha creduto opportuno scrivere una Introduzione anonima all’opera [“Al lettore sulle ipotesi di questo scritto”] facendo credere che questa prefazione l’abbia composta Copernico per sostenere che l’eliocentrismo, il sistema con il Sole al centro dell’Universo, è solo un’ipotesi matematica e non una descrizione del Cosmo come effettivamente si presenta.
Questa Introduzione [che, forse, Osiander ha scritto per mettere al riparo Copernico da un’eventuale condanna da parte dell’Inquisizione] favorisce però una serie di equivoci sulle autentiche intenzioni dell’astronomo, e Giordano Bruno, ne La cena delle ceneri, si scaglia contro Osiander sostenendo che il sistema copernicano non è soltanto un’ipotesi matematica ma bensì è una descrizione veritiera della realtà fisica: la Terra è rotonda al pari degli altri corpi celesti e si muove descrivendo un’orbita intorno al Sole. Bruno ribadisce che, con la sua dottrina eliocentrica, Copernico ha avuto il merito innegabile di «essersi liberato da alcuni presupposti falsi de la comune et volgar filosofia» e di aver archiviato per sempre l’idea balzana che ogni pianeta, compresa la Luna, abbia un proprio cielo e che i cieli siano separati l’uno dall’altro. Bruno, tuttavia, insiste sul fatto che Copernico non è però riuscito a trarre tutte le conclusioni filosofiche derivanti dalla sua teoria perché, scrive Bruno «Copernico è più studioso de la matematica che de la natura» e, quindi, lui, il Nolano, si sente in dovere - per superare «la cieca, maligna proterva et invida ignoranza» - di portare a compimento nei dialoghi De la causa, principio et uno e De l’infinito, universo et mondi la rivoluzione speculativa avviata da Copernico.
Giordano Bruno, per dare corpo alla sua Filosofia, attinge in primis al pensiero “naturalistico” del «giudiciosissimo »[così lo chiama] Bernardino Telesio, un pensiero che considera l’Universo “omogeneo in ogni sua parte e costruito con la medesima stoffa, si tratti del cielo o della terra, dell’anima o del corpo”; ma Bernardino Telesio aveva tenuto il suo “naturalismo” ancora dentro una cornice tolemaica, cioè geocentrica, con la Terra al centro dell’Universo, e per prudenza senza coinvolgere Dio nei processi del mondo. Poi Bruno attinge al pensiero del «divino»[così lo chiama] cardinale Nicola Cusano il quale, ne La dotta ignoranza, pensa che il mondo creato sia “infinito”. Quindi Giordano Bruno, influenzato dal pensiero di Telesio e di Cusano, compie, rispetto alla rivoluzione copernicana, un passo in avanti dichiarando che “il nostro sistema planetario non è che una infinitesima porzione dell’Universo, dove esistono infiniti altri sistemi con altri pianeti abitati alla pari della Terra e, dunque, afferma Bruno, dobbiamo parlare di Multiverso, un sistema nel quale non c’è né alto né basso, né piccolo né grande, né centro né circonferenza e questa situazione influisce sul modo con cui ci rapportiamo con il problema ontologico [dell’Essere]: in un Universo [si domanda Bruno] dove ogni punto può essere il centro dell’Universo stesso come si pone il tema dell’Essere? Si pone certamente in modo nuovo rispetto a come se lo è posto Aristotele, perché l’Essere non è più da considerarsi il Tutto, ma come tutto intero in ogni punto e, di conseguenza, qual è la forma di Dio?
I movimenti dell’Universo, scrive Bruno, non sono dovuti a un “motore immobile” [secondo l’affermazione di Aristotele] ma derivano, afferma Bruno, da un principio interno all’Universo stesso - un principio anch’esso infinito - che corrisponde a quel che è l’anima nella persona: come nella persona l’anima, scrive Bruno, è tutta presente in ogni parte del corpo pur non avendo parti, così il principio infinito che anima il mondo [l’anima del mondo] è tutto in ogni parte e, quindi, una causa infinita non può che produrre un effetto infinito. Non c’è, di conseguenza, scrive Bruno, un momento in cui la causa [l’Essere o l’Uno o Dio] ha prodotto l’effetto [la creazione] perché l’effetto e la causa sono necessari l’uno all’altro e, dunque, sono eterni e, quindi, scrive Bruno, la creazione - così come viene narrata da tutti i testi sacri patrimonio delle varie religioni presenti sul territorio dell’Ecumene - non è mai avvenuta perché la creazione è un evento permanente che dura in eterno: la creazione non è stata, la creazione, afferma Bruno, è in corso secondo un eterno divenire che provoca l’interminabile trasmutazione di tutte le cose, le quali nascono e muoiono ma solo in quanto determinazioni molteplici e non in quanto Essere perché l’Essere [o l’Uno o Dio] è presente, scrive Bruno, per intero in ogni punto del divenire, ed è proprio questa particolarità - il fatto che l’Essere [o l’Uno o Dio] non si esaurisce in ogni punto ma è Tutto in ogni punto - che fornisce il dinamismo del divenire.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è un oggetto molto piccolo presente in Natura [nel regno animale o vegetale o minerale] che vi affascina particolarmente?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Giorgio Bassani, l’autore del racconto che stiamo per terminare di leggere intitolato Lida Mantovani facente parte della raccolta Cinque storie ferraresi, attribuisce al protagonista maschile del racconto Oreste, il quale - dopo una lunga attesa anela, essendo già vecchiotto, a sposare Lida al più presto - un’intuizione proveniente, senza che lui lo sappia, dal pensiero ontologico di Giordano Bruno: «Oreste, scrive Bassani, sembrava intuire (anche se non lo sapeva esprimere con le parole) che l’effetto e la causa sono necessari l’uno all’altro» e, in questo caso, è il matrimonio ad essere causa ed effetto della questione. Con queste due pagine termina questo racconto che abbiamo iniziato a leggere cinque settimane fa sulla scia della città di Ferrara, la città dell’Ariosto oltre che di Bassani.
Come sappiamo, con la raccolta Cinque storie ferraresi Giorgio Bassani, nel 1956 ha ricevuto il premio Strega, e quando è stato invitato a ritirare il premio la madrina [la signora Maria Bellonci] ha domandato allo scrittore se c’era un nesso tra la sua opera e quella dell’Ariosto, e Bassani ha risposto: «C’è solo un nesso nel senso che i personaggi e le situazioni di questi miei racconti rappresentano l’altra faccia della medaglia rispetto al poema dell’Ariosto e Lida Mantovani è una Angelica reale che vive le stesse tensioni dell’Angelica poetica ma non fugge e Oreste Benetti è un Orlando che sceglie di privilegiare le cortesie rispetto a tutto il resto e non sarà mai un furioso, tutt’al più perde un po’ la calma perché invecchia». Ed è il tempo la causa della vecchiaia o è l’avvento della vecchiaia che genera il tempo?
LEGERE MULTUM….
Giorgio Bassani, Cinque storie ferraresi Dentro le mura
LIDA MANTOVANI
Negli ultimi giorni Oreste aveva perduto la calma. Appariva a un tratto pieno di paura, di angoscia. Era come se la causa avesse prodotto da sempre il suo effetto e Oreste sembrava intuire (anche se non lo sapeva esprimere con le parole) che l’effetto e la causa sono necessari l’uno all’altro. Al matrimonio (causa ed effetto della questione) si era sempre riferito indirettamente - cenni, allusioni, e basta. Adesso, invece, dopo essersi accontentato per anni di una promessa nemmeno formulata a parole, dopo avere consentito a qualsiasi dilazione, voleva far presto, non perdere un giorno solo. La data della cerimonia era stata decisa da tempo: si sarebbero sposati all’inizio della terza settimana del mese. Ebbene, perché non anticiparla, la data del loro matrimonio? - arrivò a proporre -. Cosa aspettavano ancora a fare?
Stupita, Lida lo guardò. Non capiva.
Come mai all’improvviso tutta quell’ansia? - gli chiese -. Oreste tardò un poco a rispondere. La fissò con occhi disperati, poi, piano, parlò del matrimonio, di ciò che il matrimonio rappresentava per lui. Disse che lo considerava lo scopo supremo della sua vita, giacché soltanto dopo essersi sposato, non prima!, gli sarebbe forse venuto il coraggio di invocare sopra di loro la protezione della Divina Provvidenza. Certo - ammise annuendo gravemente -. Fino ad allora lui non le aveva mai fatto fretta. Ma d’altra parte come avrebbe potuto fargliene, sentendo, come sentiva, di non poter contare che sulle proprie forze?
Lida stava ad ascoltarlo. Continuava a non capire. Le bastò tuttavia alzare di nuovo gli occhi, e subito si rese conto: Oreste temeva ancora di perderla! Protendendosi attraverso il tavolo, posò una mano su quelle di lui, strette più che mai insieme come al solito. E un attimo più tardi, per la prima volta, si trovava fra le sue braccia.
Gli anni che seguirono, laboriosi, tranquilli, sostanzialmente felici, non dettero luogo ad avvenimenti di rilievo. Perfino gli inverni - diceva Oreste, il quale morì però molto presto, nella primavera del ‘38 -, sembravano aver messo giudizio per sempre. È vero che ogni anno, verso la fine dell’autunno, amava ancora soffermarsi davanti ai vetri delle finestre nell’atteggiamento di chi studia il tempo. Ma lo faceva non già perché dubitasse, si poteva esserne certi, dell’esattezza delle sue previsioni, ferme adesso sul bello stabile o quasi, bensì allo scopo di meglio assaporare l’intimo piacere che doveva procurargli la proprietà di una casa nuova, moderna, fornita di tutto il necessario per viverci comodi, in modesta agiatezza, incluso un ottimo impianto di riscaldamento centrale. Era evidente insomma che il futuro non lo preoccupava più, sotto nessun aspetto. Dopo il matrimonio Lida si era subito conformata alle sue abitudini devote, prendendo a frequentare con regolarità la non lontana chiesa di San Benedetto, appena dentro le mura. Inoltre si era ingrassata. La ragazza magra, limata dall’ansia, degli anni che lui aveva cominciato a farsi vedere in una certa stanza di via Salinguerra, era ormai diventata una bella sposa, calma, serena, un po’ pingue.
Cos’altro gli rimaneva da desiderare, a lui, d’ora in poi? Che cosa di migliore?
Talvolta, a proposito della bellezza di Lida, ci scherzavano sopra assieme.
Meno incredula di quanto non volesse apparire, lei si schermiva. “Io bella?”
“Altroché!” rispondeva lui sorridendo, mentre con una punta d’orgoglio la guardava dritto negli occhi. E tuttavia non c’era, neppure di ciò - proseguiva tornato già serio -, da meravigliarsi proprio per niente. Questa sua nuova bellezza, così giusta e opportuna, così da moglie, della quale non gli pareva in fondo presuntuoso attribuirsi una parte di merito, arrivava in buon punto a dimostrare, seppure ce ne fosse stato ancora bisogno, che la loro unione il Signore l’aveva non soltanto approvata ma anche gradita.
“E stato felice,” si diceva Lida, a volte. Senonché, non appena le accadeva di formulare mentalmente queste parole, ecco una specie di risonanza interna subito deformarle, distorcerle. Intrise di dubbio, di invidia dolorosa, si trasformavano in una domanda alla quale nessuno, e lei per prima, sarebbe stato in grado di rispondere altrimenti che con un no. Povero Oreste. Anche lui non era stato felice, no davvero, qualcosa anche a lui era sempre mancato. E bastavano a provarlo le cure tenerissime, più che paterne, di cui per anni, per tutti gli anni del loro matrimonio, aveva fatto oggetto Ireneo. Quando Ireneo era uscito dal Seminario con la licenza media inferiore in tasca, Oreste lo aveva immediatamente preso con sé, in bottega, dove tra la macchina rifilatrice e la porta a vetri gli aveva sistemato un piccolo banco. Gli aveva voluto insegnare il mestiere. E a lei che certi pomeriggi, sull’imbrunire, attraversava mezza città per raggiungere la legatoria di via Salinguerra (più tardi tornavano verso casa tutti e tre in compagnia, risalendo la Giovecca o via Mazzini, ma passando ogni volta davanti al Caffè della Borsa, in pieno centro), a lei pareva ancora di vederlo mentre da dietro il banco grande covava con occhi ardenti di zelo affettuoso quell’allievo così triste, così silenzioso, e insieme così pronto a distrarsi per la minima cosa che succedesse fuori, nel piazzale antistante. Le pareva ancora di vederlo, di udirlo: con quel suo torso vigoroso, sproporzionato rispetto alla misura delle gambe, che si ergeva sullo sgabello di là dal banco, con quelle sue mani grosse e dure stranamente ingentilite dalla fede matrimoniale (del loro anello non volle separarsi mai: nemmeno nel ‘35, all’epoca delle Sanzioni!), con quella sua voce forte, allegra, squillante … Oh, quanto doveva avere lottato perché lei, Lida, non si accorgesse del suo desiderio di un figlio! Come doveva essersi segretamente tormentato, se quasi a punire il proprio desiderio, a soffocarlo dentro se stesso, a un certo punto aveva perfino preteso che Ireneo assumesse il suo cognome!
Eppure, nonostante tutto - pensava Lida -, Oreste non aveva mai cessato di sperare. Per esserne certa le era sufficiente ricordare l’occhiata che sempre le rivolgeva ogni qualvolta la vedesse entrare in bottega: un’occhiata interrogativa ma tranquilla, piena di una fiducia incrollabile. Se non adesso, così diceva il suo sguardo, presto, molto presto, lei gli sarebbe venuta incontro con la grande notizia. Gli avrebbe dato un figlio, sicuro, che fosse sul serio suo, del suo sangue, e perciò diverso nel fisico e nel carattere dal figlio che lei aveva avuto prima di sposarsi, il quale, sebbene lui gli avesse dato il proprio cognome, sebbene gli venisse insegnando il proprio mestiere con tutta la passione di cui era capace, ciò nondimeno non aveva mai voluto chiamarlo altro che zio, “zio Oreste”. Un figlio sul serio suo - pensava Lida, ancora -: questa la cosa che gli era mancata, questa l’unica ombra che avesse turbato la serenità della loro vita coniugale. Per tornare a parlare di quell’età dell’oro della quale nel febbraio del ‘29 aveva predetto il ritorno, non aspettava evidentemente che di sentirle dire: “Sono incinta”. Era chiaro però, con altrettanta evidenza, che la morte, cogliendolo di sorpresa, aveva prevenuto l’insorgere in lui di qualsiasi principio di disperazione.
Giordano Bruno nel 1585 a Londra [vivo, vegeto, libero ed attivo] dopo aver esposto la questione ontologica [il tema dell’Essere] asserendo che l’Essere [o l’Uno o Dio] è presente per intero in ogni punto del divenire e che l’Essere è Tutto in ogni punto, espone - sulla scia del principio ontologico da lui presentato - il suo pensiero teologico: qual è, si domanda Bruno, la natura di Dio? Giordano Bruno ha già da tempo - da quando, ancora studente a Napoli, ha letto la Dotta ignoranza di Nicola Cusano - formulato un’ipotesi: di Dio, afferma Bruno, possiamo dire che è “in-finito” e questa affermazione comporta uno sviluppo, prevede una riflessione intellettuale mediante la quale Bruno disegna [ipotizza] un significativo e complesso quadro teologico.
Giordano Bruno sostiene che l’Universo è infinito e che, di conseguenza, “ogni punto del Cosmo diventa contemporaneamente il centro e la periferia” e sulla base di questo concetto, fortemente inviso al Sant’Uffizio che sostiene fermamente - e anche anacronisticamente - la centralità della Terra, Giordano Bruno elabora la sua visione teologica. Se l’Universo, ribadisce Bruno, è infinito questo fatto non può non incidere sul modo in cui ci raffiguriamo la forma di Dio. E allora, si domanda Bruno, alla luce del concetto di infinità, quale può essere la natura di Dio? Dobbiamo pensare vi sia un Dio, afferma Bruno, che è “unità trascendente e soprannaturale” al quale Bruno, in linea con il pensiero di Tommaso d’Aquino, dà il nome di “Mens super omnia” [la Mente che sta al di sopra di ogni cosa] e che rimane inaccessibile alla ragione. La ragione può dare, scrive Bruno, una rappresentazione di questa “Mente superiore” solo “per vestigia” [cogliendone l’impronta, il segno, l’ombra] perché dalla Natura non si può risalire a Dio che ne è l’autore e, di conseguenza, solo mediante la fede è possibile avvicinare la “Mens super omnia” [la Mente che sta al di sopra di ogni cosa]. La Filosofia, a questo riguardo, deve riconoscere la propria inadeguatezza [la Filosofia non è in grado di interpretare la trascendenza], però, afferma Bruno, la Filosofia deve comunque agire mettendosi a servizio della ragione e, quindi, la Filosofia, scrive Bruno, insieme alla ragione, può giungere a inquadrare quella che Bruno chiama [alla luce della Filosofia rinascimentale] la “Mens insita omnibus” [la Mente che si inserisce in tutte le cose] perché “la forma della Divinità” non può non essere presente nella Natura. Così come l’anima è presente nel corpo, “la forma della Divinità” è presente nella Natura, e questa forma, sostiene Bruno, è come se fosse un’ombra: “la forma della Divinità” è il riverbero della “Mens super omnia” che si riflette sulla Natura.
La “Mente che sta al di sopra di ogni cosa” , crive Bruno con il suo stile poetico, illuminata dalla fede, riverbera la sua ombra nella Natura, e quest’ombra è la “Mente che si inserisce in tutte le cose”, ma non si tratta [afferma Bruno per non cadere nel dualismo] di due distinte Divinità ma di un unico Dio visto nel suo aspetto trascendente [la Mens super omnia] e nella sua dimensione immanente [la Mens insita omnibus]: Dio, in ragione [la sua ragione] della propria infinità, afferma Bruno, è tanto trascendente quanto immanente ma la ragione umana può giungere a comprendere solo la forma immanente del Divino, mentre l’altra, la trascendente, è un puro oggetto di fede.
La “Mens insita omnibus” [la Mente che si inserisce in tutte le cose] corrisponde anche, nella speculazione di Giordano Bruno, all’Anima del mondo di stampo neoplatonico che è, afferma Bruno, il principio ordinatore delle cose: in questo senso l’Universo, sostiene Bruno, risulta distinto in una parte attiva, che è la “Mens insita o Anima del mondo”, e in una parte passiva corrispondente alla Materia: ma questi due principi sono come le due facce di una stessa sostanza [l’Anima del mondo e la Materia sono Tutt’Uno] e possono essere distinti dal nostro intelletto solo per pura astrazione perché, in realtà, formano, appunto, un Tutto unico.
Giordano Bruno ipotizza che la Mens insita o l’Anima del mondo [la dimensione immanente di Dio] è come un Artefice interno all’Universo [un concetto che ricorda il mito del Demiurgo di Platone] che suscita e fa sorgere dal seno della Materia le varie forme: infatti la Materia ha in sé tutte le forme, e compito dell’Artefice, afferma Bruno, è quello di far sì che ogni forma si manifesti e si sviluppi. Ma, oltre che in funzione di Artefice, la dimensione immanente di Dio [l’Anima del mondo o la Mens insita] si presenta anche come un Intelletto universale [e questo concetto rimanda alla Metafisica di Aristotele] che provvede a conservare le cose man mano che prendono forma e dispone che si armonizzino in modo da dare al Tutto la Bellezza: perché è nella Bellezza del creato che anche le singole imperfezioni trovano la loro compensazione [ed è su questo ragionamento di Bruno che i Romantici, più di due secoli dopo, affermeranno che “la Bellezza può salvare il mondo” ma solo se gli umani saranno in grado di dare un valore positivo anche alle imperfezioni].
La dimensione immanente di Dio [l’Anima del mondo o la Mens insita] - oltre ad essere la Causa e l’Artefice dell’Universo - si rivela, afferma Bruno, come una Provvidenza che volge le cose verso il loro meglio, verso il loro fine migliore, nella direzione dell’in-finito, che è la qualità suprema di Dio e del Mutiverso: Dio dura all’in-finito perché corrisponde alla qualità assoluta dell’Essere.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Voi possedete un oggetto che, nonostante abbia delle imperfezioni, continua tuttavia a svolgere [si potrebbe dire: provvidenzialmente] la sua funzione nel migliore dei modi?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Dopo aver disegnato, nella trilogia cosmologica, il quadro ontologico e quello teologico della sua Filosofia, Giordano Bruno [il Nolano] sviluppa la sua riflessione sul tema dell’etica in tre opere che prendono il nome di “dialoghi morali” [la cosiddetta “trilogia morale”], e anche queste tre opere, così come quelle della trilogia cosmologica, sono state pubblicate a Londra nel 1585.
La prima opera della cosiddetta trilogia morale di Giordano Bruno - pubblicata a Londra nel 1585 - s’intitola Cabala del cavallo pegaseo e contiene, nello stesso volume, un altro scritto intitolato L’Asino cillenico, in modo che queste due opere, integrandosi tra loro, formino un unico testo. Che significato hanno questi due titoli così complessi e, come è nello stile di Bruno, inconsueti? Il titolo Cabala del cavallo pegaseo allude a Pegaso, il cavallo alato della mitologia greca: questo mitico cavallo, racconta la leggenda, è nato dal sangue di Medusa decapitata da Perseo e, dopo aver compiuto molte imprese sulla terra, si narra sia volato in cielo trasformandosi in costellazione, quella di Pegaso.
Claudio Tolomeo, l’astronomo greco che, nel II secolo d.C., ha codificato [nell’opera intitolata Grande composizione della astronomia, tradotta anche in arabo con il nome di Almagesto] il sistema geocentrico [con la Terra al centro dell’Universo e tutti gli altri pianeti, compreso il Sole, che ruotano attorno ad essa], ebbene, Tolomeo in termini aristotelici prevede che l’Universo sia racchiuso dentro la sfera delle Stelle fisse che sono raggruppate [secondo Tolomeo che, a questo proposito, segue i dettami della mitologia] in 48 costellazioni e una delle più importanti è proprio quella di Pegaso. Poi Giordano Bruno utilizza, in riferimento a Pegaso, il termine “cabala” e non lo fa per richiamare la metodologia utilizzata per interpretare in termini allegorici i testi biblici [in particolare i testi dei Libri del Pentateuco] ma usa questo termine seguendo una tradizione popolare ormai acquisita secondo la quale la parola “cabala” ha assunto il significato di “intrigo, imbroglio, raggiro, inganno, sotterfugio e, anche, [in particolare in area napoletana] di libro dei sogni [la smorfia]”.
Il titolo dell’opera associata alla Cabala del cavallo pegaseo, vale a dire L’Asino cillenico, allude alla caratteristica che, anche se ingiustamente, è stata attribuita agli asini, l’asinità, che corrisponde a “la stupidità, l’ignoranza, la testardaggine” mentre il termine “cillenico” fa riferimento al monte Cillene - che si trova nella regione greca dell’Arcadia - dove è nato Ermes [che i Romani chiamano Mercurio e ha le ali ai piedi] il quale appena svezzato da sua madre Maia, che era stata fecondata da Zeus, ruba cinquanta giovenche dalle mandrie di Apollo e le nasconde in modo che nessuno riesca a trovarle; quando Apollo [che ci vede molto bene] scopre il ladro, dopo aver tergiversato un po’ [come narrano molti racconti leggendari], lo perdona ma gli attribuisce il titolo di dio degli imbroglioni e degli inganni [nessuna divinità dell’Olimpo voleva assumersi questo compito]. Giordano Bruno in quest’opera - che contiene i testi della Cabala del cavallo pegaseo e de L’Asino cillenico, a completamento l’uno dell’altro - esercita la sua vena comica e satirica per manifestare tutta la sua indignazione contro la piaga dell’ignoranza: non tanto contro l’ignoranza endemica della gente del popolo tenuta in condizioni di indigenza materiale, intellettuale e morale, scrive Bruno, da “i tromboni accademici” i quali pensano di essere saccenti e spacciano la mitologia come se fosse la verità facendo crescere l’ignoranza. Non c’è niente di peggio, scrive Bruno, di un pedante presuntuoso che angaria le persone prive di cognizioni facendo sfoggio della propria insipienza.
Il cavallo Pegaso idealizzato nel cielo, scrive Bruno, sotto forma di luminosa costellazione non è altro che un asino cillenico [l’allegoria degli imbroglioni]: è una figura, afferma Bruno, che rimanda all’asinità umana, in particolare all’ignoranza dei “cabalisti” [quei bricconi degli accademici fondamentalisti che fanno finta di conoscere le Opere di Aristotele] e dei religiosi in generale i quali fanno continui riferimenti ai Testi sacri che, se non vengono interpretati a fin di bene, possono giustificare, confondendo la gente ignorante, le peggiori malefatte [come dire, paradossalmente, che i pedofili potrebbero giustificarsi affermando che Gesù dice: «Lasciate che i piccoli vengano a me»].
Per elevare il tasso di moralità nella società, [in particolare, per scongiurare le guerre di religione e lo sfruttamento dei più deboli, Giordano Bruno auspica una lotta senza quartiere contro l’ignoranza e termina il suo primo dialogo morale [la Cabala del cavallo pegaseo e L’Asino cillenico] auspicando, in chiave metaforica, che Pegaso possa tornare a esercitare la funzione migliore che il mito lo ha chiamato a svolgere, quello di essere il cavallo delle Muse [il veicolo che muove l’Intelligenza], e cessi di essere additato come l’immagine di un tassello di cielo, quello delle Stelle fisse, che, scrive Bruno sarcastico, non esiste perché l’Universo [il Multiverso] non ha confini.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca e navigando in rete andate a conoscere meglio la figura di Pegaso e a osservare in quante opere d’Arte è presente questa immagine...
Mettete le ali alla vostra curiosità ...
Spaccio de la bestia trionfante è il titolo enigmatico ed emblematico del secondo dialogo [una delle opere più celebri di Giordano Bruno] della “trilogia morale”. Già l’interpretazione del titolo di quest’opera, per giunta studiatissima nel corso dei secoli, comporta un certo impegno. Giordano Bruno - in questo testo - invita la lettrice e il lettore ad aprire gli occhi e a prendere coscienza della necessità di ribaltare la visione che la società presenta di se stessa come se fosse la migliore possibile in quanto, scrive Bruno, sul territorio dell’Ecumene, al posto dell’etica si è radicata l’egemonia dell’immoralità nella sua forma peggiore perché “è stato dato al vizio il valore di virtù” per cui le persone hanno accettato, in uno stato di assuefazione, di vivere in un contesto, scrive Bruno, in cui si “spacciano” i vizi per virtù “[si fa spaccio della bestia trionfante]”. Sul frontespizio del volume di quest’opera, dopo il titolo e la dedica, si legge: “stampato a Parigi - 1584” e non conosciamo la ragione di questa “inesattezza” [Bruno vuole proteggere lo stampatore londinese?] perché i cosiddetti “dialoghi italiani” [la trilogia cosmologica e la trilogia morale] sono stati tutti e sei stampati a Londra nel 1585.
La seconda opera della cosiddetta “trilogia morale” di Giordano Bruno è stata pubblicata a Londra nel 1585 nell’Officina tipografica di John Charlewood [e non a Parigi nel 1584 come è scritto sul frontespizio]. Il titolo emblematico ed enigmatico dell’opera, Spaccio de la bestia trionfante, è completato da un lungo sottotitolo: Proposto da Giove, effettuato dal conseglio, revelato da Mercurio, recitato da Sophia, udito da Saulino, registrato dal Nolano. Diviso in tre dialoghi subdivisi in tre parti. Consecrato al molto illustre ed eccellente cavalliero sig. Filippo Sidneo. Questo sottotitolo descrive la forma che quest’opera ha, presenta i protagonisti dei tre dialoghi di cui si compone, e annuncia, attraverso la dedica, che il volume si apre con una Lettera esplicatoria indirizzata al signor Filippo Sidneo - amico ed estimatore di Giordano Bruno - che è uno dei più importanti rappresentanti del Rinascimento inglese, autore di molte opere poetiche e severo critico come Bruno dei “pedanti oxfordiani” [della pedanteria di certi aristotelici bigotti].
In Spaccio de la bestia trionfante Giordano Bruno compone il quadro di un sistema morale alternativo a quello corrente che si dimostra, afferma Bruno, fondato sull’ipocrisia: un sistema deleterio che è stato imposto da tutti i potentati e viene sopportato e accettato acriticamente da tutta la gente tenuta nell’ignoranza e addestrata ad adeguarsi ai canoni di un ordine presunto basato sull’immoralità in cui si “spacciano i vizi come fossero virtù”.
Giordano Bruno, nel testo de lo Spaccio de la bestia trionfante, conduce il suo discorso sotto forma di dialogo nell’ambito di “una favola mitologica”, e questo metodo fa parte dello straordinario stile letterario di Giordano Bruno che, come già abbiamo potuto constatare, utilizza e rielabora, in chiave allegorica, da grande poeta qual è, le grandiose e significative narrazioni della mitologia greco-romana per dare alla sua scrittura un respiro di carattere sapienziale.
Ne lo Spaccio de la bestia trionfante Giordano Bruno narra che nel giorno in cui in cielo si celebra la festa della Gigantoteomachìa [la guerra tra i Giganti e Dio] - un avvenimento mitico che corrisponde, metaforicamente, alla lotta dell’anima contro la cupidigia [l’avidità di beni, la bramosia di potere] - Giove, che simboleggia l’Intelletto di cui dispone ciascuna persona, decide di porre in atto il proposito che coltiva da molto tempo di «dare lo spaccio alla bestia trionfante» cioè di «liquidare gli vizi, scrive Bruno, che predominano e sogliono conculcare la parte divina della persona». Pertanto - per conseguire l’obiettivo - Giove [l’Intelletto umano] chiama in cielo le Virtù a prendere il posto degli dèi e degli animali che dimorano nelle costellazioni per cui viene a formarsi un nuovo mondo: uno scenario etico pienamente realizzato.
Il fatto è, allude Bruno amaramente, che questa è una favola e anche se si realizzasse e se questo nuovo paesaggio virtuoso brillasse nel cielo, succederebbe che agli occhi delle persone, tenute prigioniere dell’ignoranza [non abituate a investire in intelligenza], arriverebbero solo dei lontani bagliori non ben identificati.
E, si domanda Bruno, chi è la bestia trionfante, chi sono «i fomentatori di vizi» colpevoli del degrado morale per cui non è stato possibile promuovere un’etica universale basata sull’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia come dovrebbe essere logico che fosse in una società cristiana? E siccome si è capito che il cristianesimo, afferma Bruno - così come è stato concepito con tutti i suoi apparati e i suoi orpelli - non funziona come deterrente contro la malvagità, allora si deve tornare, afferma Bruno, alla religione naturale e, quindi, è molto meglio seguire la dottrina dell’Ermetismo che invita la persona a cercare l’ombra di Dio immanente nella Natura.
Giordano Bruno chiama in causa la figura de “la bestia trionfante” indicando come ben sapete quel testo straordinario che è l’Apocalisse di Giovanni, un’opera che, in questi anni, abbiamo incontrato decine di volte in contesti diversi. Bruno attualizza il linguaggio del capitolo 13 dell’Apocalisse di Giovanni e personifica “la bestia” facendo esplicite allusioni: la colpa del degrado morale, allude Bruno, è innanzitutto dei papi che, invece di attuare la Riforma della Chiesa, hanno imbastito una Controriforma che ha decretato la divisione della cristianità e che fa funzionare solo i tribunali che devono imporre l’osservanza di una dottrina che spesso non rispetta i principi evangelici; ma la colpa, afferma Bruno, è anche di Lutero che ha avviato una Riforma ma poi si è lasciato imbrigliare dai feudatari tedeschi cadendo in un deprecabile autoritarismo che si è manifestato con la condanna delle lotte dei contadini e contro la ricerca filosofica proclamando la dottrina della predestinazione [per cui Dio ha già deciso chi salvare e chi no], una dottrina, afferma Bruno, che genera l’irresponsabilità morale delle persone e mina «la civile conversazione» e causa le guerre di religione che insanguinano «la misera e infelice Europa»; poi la colpa, scrive Bruno, è dei monarchi e degli imperatori che - a causa delle loro bieche azioni finalizzate solamente a mantenere il potere - non sono capaci di favorire la promozione di una visione etica del mondo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
L’intento didattico di Giordano Bruno è anche quello di attirare la nostra attenzione sul capitolo 13 de l’Apocalisse di Giovanni che descrive “il mostro che sale dal mare” e “la bestia che sale dalla terra”, quindi, leggete o rileggete questo capitolo composto con l’utilizzo di una prosa poetica molto apprezzata dal filosofo Nolano ...
Nel testo de lo Spaccio de la bestia trionfante Giordano Bruno ha l’ardire di presentare un progetto di riforma della religione universale, di una religione che abbia un carattere “civile”.
Giordano Bruno, nel testo de lo Spaccio de la bestia trionfante, presenta il suo progetto di riforma della religione, di una religione che abbia una prerogativa universale [che sia valida per tutte le persone del Mondo] e, attraverso la quale, la persona possa ristabilire il legame con ciò che è divino, con la Mente di Dio che è insita nella Natura, e questo legame deve essere, afferma Bruno, di carattere “civile”, deve creare delle relazioni che stimolino “la convivenza civile”, deve suscitare accordi che facciano nascere e sviluppare “la società civile”. Per questo, afferma Bruno, occorre che «quanto prima togliamo dalle nostre spalli la grieve somma d’errori che ne trattiene», e per correggere gli errori che, pesando sulle nostre spalle, non permettono alla persona di progredire [la grieve somma d’errori che ne trattiene] è necessario attuare “lo spaccio” [nel senso di espellere] cioè favorire l’espulsione di tutto quello che ha deteriorato il legame con ciò che è divino: bisogna espellere, bisogna “spacciare”, le bestie trionfanti. Bruno conduce il suo discorso con lo stile a lui convenzionale de “la favola mitologica” e, di conseguenza, le bestie trionfanti sono allegoricamente immaginate nelle costellazioni celesti che raffigurano quasi tutte degli animali, e queste bestie devono essere “spacciate” cioè cacciate dal cielo perché sono state, loro malgrado, costrette a rappresentare dei vizi. Ed è tempo, afferma Bruno, di sostituire i vizi con le Virtù attraverso un programma che educhi la persona a rimuovere dal proprio animo la Falsità, l’Ipocrisia, la Malizia, la Stolta fede, la Stupidità, la Crudeltà, la Fiacchezza, la Viltà, l’Ozio, l’Avarizia, l’Invidia, l’Impostura, l’Adulazione.
È necessario insegnare alla persona, afferma Bruno, che occorre tornare alla Semplicità, alla Verità e all’Operosità, e per questo bisogna ribaltare [attuando lo spaccio della bestia trionfante] le concezioni immorali che si sono ormai imposte nel mondo e che vengono [a loro volta] “spacciate, smerciate” come se generassero situazioni virtuose [i vizi sono diventati virtù], secondo le quali, afferma Bruno facendo un elenco di straordinaria attualità: “le opere generose e gli affetti sinceri sono privi di valore”, dove “credere senza riflettere è sapienza”, dove “le imposture umane sono fatte passare per consigli divini”, dove “la perversione della legge naturale è considerata fonte di ricchezza ”, dove “”, dove “ lo studiare è considerato follia e l’ignoranza pregio atto a salvarsi l’animal’onore è posto nelle ricchezze, la dignità nel lusso, la prudenza nella malizia, l’accortezza nel tradimento, il saper vivere nella finzione, la giustizia nella tirannia e il giudizio nella violenza ”.
Nella nuova gerarchia di valori, afferma Bruno, dobbiamo dare posto alla Verità che è la guida necessaria per non sbagliare, alla Prudenza che è la caratteristica della persona saggia la quale dopo aver conosciuto la Realtà delle cose ne trae le conseguenze tenendo un comportamento adeguato, poi, afferma Bruno, dobbiamo dare posto a Sofia che secondo Bruno è l’impegno nello studio [nell’attività di ricerca], poi è necessaria la Legge che disciplina il comportamento civile delle persone, e il Giudizio che va emesso tenendo conto del fatto che, afferma Bruno, la Legge deve derivare dalla Sapienza, deve scaturire dalla visione razionale acquisita dalla persona che studia. Di conseguenza, afferma Bruno, la religione deve essere “civile” [Bruno considera inutili e superstiziosi tanto i riti quanto i sacramenti], la religione deve costituire il legame utile per favorire «la communione e la civile conversazione tra le persone».
Bruno conclude lo Spaccio de la bestia trionfante rivolgendosi in modo beffardo nei confronti di coloro che [siano essi vili preti di ogni risma, politicanti bugiardi e millantatori di ogni specie] promettono di dare a tutti “il regno dei cieli” mentre, afferma Bruno, è necessario - imparando a cogliere le indicazioni provenienti dalla Mente di Dio insita nella Natura - operare per dare spazio all’uguaglianza, alla giustizia, alla pace, alla solidarietà e alla misericordia, qui sulla terra; quindi, Bruno fa dire a Sofia: «Vediamo quanto siano atti a guadagnarsi un palmo di terra questi millantatori che sono cossí effusi e prodighi a donar falsi regni de’ cieli a tutti quando la terra è priva di Giustizia; indi v’esorto di convertirvi a Essa [convertitevi alla Giustizia], perché da Ella disgiunti [perché separati dalla Giustizia] siamo da noi medesimi disgiunti [siamo separati da noi stessi], e ne sopraviene che, colla mente immoti, più non si discerne [e succede che, se si rimane fermi con la mente, non si è più in grado di capire] che l’ingiustizia è patina greve [che l’ingiustizia è un pesante impedimento] recante oppilazione [che fa da ostruzione] all’andar nostro sulla via del cangiar costumi [al nostro procedere sulla strada che ci deve portare a sostituire i vizi con le virtù]».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Mettete una parola significativa o una frase esplicativa [che contenga un vostro pensiero] accanto a ciascuno di questi elementi - la Verità, la Prudenza, l’Impegno nello studio, la Legge, il Giudizio – che Giordano Bruno considera strumenti utili per rimuovere i vizi...
Scrivete il vostro catalogo dei mezzi opportuni per attuare lo spaccio della bestia trionfante...
Scrive Bruno: «Convertitevi alla Giustizia perché separati da essa siamo separati da noi stessi e la nostra mente va in panne …» e possiamo tradurre il pensiero di Bruno in questo modo, utilizzando la parola “panne”, perché dalla parola tardo-latina “pàtina”, che significa “impedimento”, deriva il termine “panne” che indica “l’arresto di un mezzo per un’avaria”. Ebbene, il ragionamento bruniano - che invita a riflettere sull’affermazione che “senza Giustizia la mente va in panne - ci porterà la prossima settimana nel campo della didattica della lettura e della scrittura [c’è - come vedremo - chi, in età contemporanea, ha fatto tesoro di questo ragionamento].
Si capisce - dopo questo faticoso itinerario - che Bruno ha intessuto un ragionamento progressivo sulla natura del Bene e del Male che ha influenzato il mondo della cultura di ogni epoca a cominciare naturalmente della sua. Esiste uno stretto rapporto tra le Opere di Giordano Bruno, in particolare lo Spaccio de la bestia trionfante e De gl’heroici furori [che studieremo prossimamente], e le Opere degli autori di teatro che vivono a Londra nel momento in cui il Nolano vi soggiorna e vi pubblica i suoi dialoghi.
Tutte le contraddizioni di ordine morale, religioso e politico che, nel 1585, Giordano Bruno mette in evidenza nei dialoghi della trilogia morale entrano, nel ventennio successivo, nei testi teatrali rappresentati sui palcoscenici prima londinesi e poi di tutta Europa, e di questo argomento [seppur brevemente perché Giordano Bruno ha ancora da vivere un quindicennio molto intenso e noi lo dobbiamo seguire] ne parleremo la prossima settimana.
Quando Amleto [immagino che lo abbiate sentito nominare] dice che «c’è del marcio in Danimarca» e aggiunge che questo dipende dal fatto che il potere, senza che nessuno reagisca, è stato consegnato nella mani di furfanti, per giunta poltroni, e che il dramma di questa situazione è che risulta difficile ribellarsi di fronte a questa circostanza in una società dove tutti si sono assuefatti a spacciare i vizi per virtù: ebbene, l’autore di Amleto, chiunque sia, usa quasi le stesse parole scritte da Giordano Bruno nella seconda parte del secondo dialogo de lo Spaccio de la bestia trionfante. Giordano Bruno fa dire a Sofia.
LEGERE MULTUM….
Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante
SOFIA Quando aviene che un poltrone o un furfante monta a essere principe o ricco, non è per colpa mia, ma per iniquità di voi altri che, per esser scarsi del lume di intelletto, non lo sforfantaste o spoltronaste prima, o al presente, o almeno appresso, al fine che un tale non presieda. Non è errore che sia fatto un principe, ma grave errore che sia fatto principe un furfante. …
I grandi imbroglioni, afferma Bruno per bocca di Sofia, sanno sfruttare ad arte l’ignoranza dilagante, quindi, per sforfantare, per cacciare i furfanti, e spoltronare, per togliere la poltrona a chi fa biecamente tesoro dell’ignoranza altrui [ed è prassi consolidata, scrive Bruno] bisogna coltivare [e ce lo spiegherà la prossima settimana] l’eroico furore per la conoscenza in modo da [scrive Bruno] «non essere scarsi del lume di intelletto» ma consapevoli del fatto che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare [di imparare a imparare, questo è il problema].
Per questo la Scuola è qui e il viaggio continua…