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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA VIENE PROPOSTO IL MODELLO DE “LA CITTÀ DEL SOLE” ...

Lezione N.: 
21

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi 

La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza  11-12-13  aprile  2018

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA

VIENE PROPOSTO IL MODELLO DE “LA CITTÀ DEL SOLE”  ...

Questo è il ventunesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna agli esordi della scienza e siamo in compagnia di fra’ Tommaso Campanella.

Nel luglio del 1598, quando a Napoli [dove sta nascosto] si rende conto di essere pedinato dagli agenti dell’Inquisizione, fra’ Tommaso Campanella, ben travestito e sotto falso nome, riesce a eludere la sorveglianza e, via mare a bordo di una nave da carico, fugge in Calabria e sbarca a Piana di Sant’Eufemia, raggiunge Nicastro e di qui, il 15 agosto 1598, arriva a Stilo, la sua città natale, e viene accolto nel convento domenicano di Santa Maria di Gesù dove rimane tranquillo per poco [per il tempo necessario a scrivere un trattatello sul tema del libero arbitrio]. A questo punto ci troviamo di fronte a una nuova fase dell’esperienza di fra’ Tommaso Campanella: l’esperienza così detta politico-religiosa”.

            Una delle componenti della cultura rinascimentale, di cui fra’ Tommaso Campanella è figlio, riguarda l’aspirazione a realizzare una riforma politico-religiosa e, tanto Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, fra’ Girolamo Savonarola [personaggi che abbiamo incontrato durante il viaggio dello scorso anno] quanto Giordano Bruno e fra’ Tommaso Campanella pensano sia necessario un profondo rinnovamento sul piano sociale che possa derivare da una rivoluzione di tipo etico e di carattere educativo: bisogna che le persone [scrivono Bruno e Campanella] imparino ad avere una più alta concezione del valore della vita, e imparino a coltivare una moralità più profonda, e imparino a innovare il loro cuore per preparare la nascita di una società che sia veramente umana. Fra’ Tommaso Campanella, sul terreno politico, si è espresso molto criticamente nei confronti di quello che lui chiamail machiavellismo” [il fatto che il fine giustifica i mezzi], un comportamento dominante e deleterio, sostiene Campanella, che prevede di sacrificare alla ragion di Stato qualunque principio umanitario [e Campanella sosterrà queste tesi in un’opera intitolata L’ateismo trionfato.

Il processo di maturazione dell’esperienza politico-religiosa di fra’ Tommaso Campanella raggiunge il culmine nel carcere di Tor di Nona a Roma e, a questo proposito, dobbiamo fare un piccolo passo indietro. Quando fra’ Tommaso Campanella, nel 1597, viene nuovamente tradotto nel carcere di Tor di Nona e processato a causa di ulteriori accuse [tutte infondate] mosse contro di lui, come abbiamo anticipato la scorsa settimana conosce e dialoga con il detenuto Francesco Pucci, che è in carcere dal 1594. Chi è Francesco Pucci?

Francesco Pucci è un commerciate, nato a Figline, in provincia di Firenze, nel 1543, il quale, a Lione, dove soggiorna spesso per affari, si appassiona alle dispute teologiche aderendo alla riforma luterana. Nel 1574 va a studiare teologia a Oxford associandosi alla Chiesa riformata inglese, poi va a perfezionare gli studi a Basilea dove polemizza con i calvinisti ortodossi per cui si sposta nei Paesi Bassi, poi soggiorna a Cracovia e dopo, nel 1587, si stabilisce a Praga dove rientra a far parte della Chiesa cattolica e fa stampare le sue opere, tre trattati scritti in latino intitolati Sulla predestinazione [dedicato, sotto forma di disputa, a Roberto Bellarmino], Sull’efficacia universale del sacrificio di Cristo [dedicato, sotto forma di disputa, a Fausto Socini, riformatore senese in esilio a Basilea] e Il regno di Cristo [nel cui testo Francesco Pucci commenta il capitolo 20 dell’Apocalisse di Giovanni dove si parla della fondazione di un Regno dei giusti al ritorno di Gesù Cristo in Terra]. Nel 1594, mentre da Salisburgo è in viaggio per Roma, Francesco Pucci viene arrestato, viene accusato di eresia dall’Inquisizione, rinchiuso nel carcere di Tor di Nona e processato. Francesco Pucci, che è in attesa della sentenza, e fra’ Tommaso Campanella, nella primavera del 1597, dialogano [sono compagni di cella] sul tema del millenarismo” [del Regno messianico che verrà fondato da Cristo sulla Terra]. Fra’ Tommaso concorda con Pucci che, secondo gli schemi dell’astrologia [che lui ha studiato, e ultimamente è persino comparsa una cometa nei cieli d’Europa] e con il manifestarsi delle lotte sociali, e delle lotte contadine in corso un po’ ovunque, si prevede, per la fine del secolo imminente, una rivoluzione, un nuovo ordine delle cose [Il regno messianico di Cristo] e il compito dei filosofi [dei teologi] è di darne l’annuncio.

Il 5 luglio 1597 il tribunale emette la sentenza nei confronti di Francesco Pucci e gli viene concessa anche una grazia [non la grazia] nel senso che viene decapitato in carcere [fra’ Tommaso assiste all’esecuzione e lo accompagna spiritualmente] prima di essere arso in Campo de’ Fiori a Roma, dove tre anni dopo Giordano Bruno subisce il supplizio da vivo. Fra’ Tommaso scrive - con profonda amarezza - un sonetto per Francesco Pucci dove si capisce che, se lui se la caverà, non si fermerà alla teoria, e leggiamo la prima strofa di questo sonetto: «Anima c’or lasciasti il carcer tetro | di questo mondo, d’Italia e di Roma, | del Santo Offizio e della mortal soma, | vattene al Ciel, ché noi ti verrem dietro.». Prendiamo spunto dalla poesia di Campanella per riflettere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La “mortal soma” sono i pesi che durante la nostra esistenza dobbiamo portare: c’è un peso, faticoso da portare, che oggi vi condiziona?...  

Scrivete quattro righe in proposito...

Quando nel 1598 giunge a Stilo, fra’ Tommaso, dopo una breve pausa di riflessione, passa dalla teoria alla pratica e si presenta pubblicamente con una serie di prediche tenute tra il febbraio e l’aprile del 1599 nella chiesa locale. Il tema di fondo di queste Omelie è l’annuncio della grande rivoluzione di carattere politico-religioso che sarebbe dovuta avvenire alla fine del secolo, e questo annuncio comprende l’analisi del degrado creato dal governo spagnolo in Calabria e in tutta l’Italia meridionale: fra’ Tommaso incita il popolo calabrese [le masse contadine] a liberarsi dalla dominazione spagnola anche, eventualmente, con l’aiuto dei Turchi [le navi turche navigano nel Mediterraneo e spesso le armate turche sbarcano sul territorio calabrese, prontamente fronteggiate dall’esercito spagnolo che presidia le coste].

Il Vicereame spagnolo di Napoli, afferma Campanella nelle sue Omelie, è stato degradato a terra di sfruttamento coloniale e, in modo particolare, è stato deturpato il territorio della Calabria dove ogni iniziativa locale in campo economico è stata repressa e impedita e si sono impoveriti e degradati tanto il settore dell’agricoltura quanto quello dell’artigianato, le campagne si sono spopolate e i contadini sono stati ridotti letteralmente alla fame: gli unici fermenti di vita, afferma Campanella, rimangono affidati, in campo sociale, al brigantaggio [gli uomini - non escluse le donne - diventano banditi perché vogliono rivendicare dei diritti elementari non riconosciuti, spiega Campanella, e nel campo culturale i fermenti di vita sono affidati ai centri monastici nei quali, afferma Campanella, esortando i domenicani alla rivolta, lo studio può ancora generare ribelli e, di conseguenza, è necessario agire per realizzare in Calabria una repubblica ideale, comunitaristica e insieme teocratica, a base contadina, secondo un modello utopico acquisito da tempo.

           Fra’ Tommaso Campanella, nel 1599 in Calabria, dal convento di Stilo, diventa l’animatore e il propagandista della celebre congiura contro i cosiddetti clerico-spagnoli. Tiene una corrispondenza cifrata con i principali capi dei congiurati - Maurizio de Rinaldis, fra’ Dionisio Ponzio, Bassà Cicala - e si sposta di città in città, presiede riunioni clandestine e incoraggia i ribelli. Ma come sapete, l’insurrezione fallisce per il tradimento di alcuni congiurati che sollecitano l’intervento dell’esercito spagnolo che aveva già rinforzato i presidi, e il 17 agosto fra’ Tommaso deve fuggire dal convento di Stilo e si nasconde prima a Stignano, poi nel convento di Santa Maria di Tifi, infine rimane nascosto in casa di un amico ma il 6 settembre 1599 viene arrestato e trasferito a Napoli insieme ai suoi compagni di avventura [ne vengono catturati 156] e viene rinchiuso in Castel Nuovo.

Il 23 novembre 1599 il Santo Uffizio chiede all’autorità spagnola che il religioso domenicano, imputato di sedizione ai danni della corona spagnola, venga trasferito a Roma per essere processato davanti al tribunale dell’Inquisizione. L’autorità spagnola non concede il trasferimento a Roma [Campanella deve essere processato a Napoli, dichiara il Viceré] ma acconsente il passaggio dell’imputato sotto la giurisdizione del Sant’Uffizio napoletano - una giurisdizione che nessun tribunale statale poteva violare - e questo ha permesso di ritardare la prevedibile condanna a morte di fra’ Tommaso Campanella. Fra’ Tommaso - per cercare di evitare la condanna a morte che prevede gli venga inflitta - adotta una strategia di difesa disperata e rischiosissima: si finge pazzo perché sa che un eretico insano di mente non può essere condannato a morte dal Sant’Uffizio. I giudici sono dubbiosi e dal 18 luglio del 1600 lo sottopongono quasi quotidianamente alla tortura per fargli confessare la simulazione ma lui resiste rispondendo alle domande cantando e dicendo cose senza senso, finché il 5 giugno 1601, dopo una terribile seduta di tortura durata quaranta ore, i giudici sono costretti ad accettare la pazzia dell’imputato [se gli moriva sotto tortura senza che avessero stabilito se era veramente pazzo o no, i giudici si sarebbero trovati in difficoltà, come si sarebbero giustificati?].

La resistenza morale e fisica di fra’ Tommaso gli permette di superare queste prove terribili ma per sei mesi, fino al dicembre del 1601, rimane in condizioni fisiche assai precarie, poi si riprende e si rimette in piedi per cominciare a scontare la pena perché nel giugno del 1601 era stato condannato al carcere a vita [sconterà complessivamente ventisette anni di galera nelle carceri napoletane]. Dopo qualche anno, l’amministrazione spagnola si dimentica di lui e così fra’ Tommaso, nel corso di questa detenzione che via via diventa meno rigida, può anche tenere una fitta corrispondenza con vari interlocutori [molte personalità del mondo della cultura e della scienza dialogano con lui per via epistolare, a cominciare da Galileo Galilei] e può anche scrivere tutta una serie di opere: tra queste termina la Metaphysica in diciotto Libri [di cui abbiamo parlato la scorsa settimana], una Teologia in trenta Libri e poi, già nel 1602, sulla scia della drammatica avventura che ha vissuto, compone quella che è la sua opera più famosa intitolata La città del Sole, un dialogo in cui auspica l’instaurazione di una felice e pacifica Repubblica universale retta su principi di giustizia naturale.

Fra’ Tommaso ne La città del Sole delinea una concezione collettivista della società dove tutto viene messo in comune, rifacendosi al dialogo Repubblica di Platone [Politeia, scritto dopo il 387 a.C.] e a Utopia di Tommaso Moro, pubblicata nel 1517. Lo spunto letterario de La città del Sole fra’ Tommaso lo trova nell’opera intitolata Biblioteca storica di Diodoro Siculo.

Diodoro Siculo [90-20 a.C.] è un autore siciliano, annoverato tra gli scrittori storici, che scrive in greco [in questi anni lo abbiamo citato in diversi contesti], è vissuto a Roma al tempo di Augusto e la sua opera, intitolata Biblioteca storica, è una storia universale [in 40 Libri, dei quali ce ne sono rimasti 15] in cui narra avvenimenti, spesso fantasiosi, quindi molto accattivanti sotto il profilo letterario, partendo dagli antichi regni dell’Asia fino alla conquista della Gallia [nel 59 a.C.] da parte di Giulio Cesare. Diodoro Siculo, nel secondo Libro della Biblioteca storica, narra di un mercante, certo Giambulo, che racconta dei costumi e delle usanze degli abitanti di un’isola dell’Oceano Indiano chiamata Taprobana [identificabile con l’isola di Sumatra] e fra’ Tommaso colloca la città del Sole proprio su quest’isola che si trova sotto l’equinoziale, sulla linea dell’Equatore dove si pensava che il clima costante producesse persone buone, sagge e probe.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Consultando il volume di un Atlante geografico e navigando in rete osservate come è posizionata l’isola di Sumatra sulla superficie del pianeta...

Su quale isola – anche se non l’avete mai visitata - volete scrivere quattro righe in proposito?...   

Navigate con la scrittura...

Fra’ Tommaso Campanella compone La città del Sole in italiano e poi ne redige una versione in latino [Civitas solis idea republicae philosophiae (La città del sole o idea di una repubblica filosofica) e la versione latina è stata la prima a essere pubblicata]. Leggere il testo italiano de La città del Sole di Tommaso Campanella non è un esercizio molto difficile da fare: ci vuole pazienza ma l’italiano cinquecentesco con cui fra’ Tommaso compone questa operetta di circa cinquanta pagine si presta alla comprensione [e c’è sempre poi un apparato di note per dare significato ai termini meno noti]. Inoltre è utile, in funzione della didattica della lettura e della scrittura - per chi volesse avvicinarsi al testo di quest’opera - conoscere qual è la tela di questo dialogo.

            La città del Sole di Tommaso Campanella è un’opera scritta sotto forma di dialogo platonico con due interlocutori. I due personaggi dialoganti sono un Ospitalario, vale a dire un cavaliere dell’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme e un nocchiero [un marinaio esperto che guida la nave] genovese di Cristoforo Colombo detto il Genovese”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se volete saperne di più sull’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme consultate l’enciclopedia, chiedete consiglio in biblioteca, navigate in rete...   

 L’incipit del dialogo è telegrafico: l’Ospitalario interpella il Genovese Dimmi, di grazia, tutto quello che t’avvenne in questa navigazione»] e il nocchiero di Cristoforo Colombo entra subito in argomento dicendo che egli, sbarcato sull’isola di Taprobana, incontra «un gran squadrone d’uomini e donne armate, in un gran piano [in una pianura] proprio sotto l’equinoziale [sulla linea dell’Equatore, dove, secondo la tradizione, il clima costante produce persone probe],» e aggiunge che «molti di loro intendevano la lingua mia, li quali mi condussero alla città del Sole». E, quindi, l’Ospitalario incalza con le sue domande l’interlocutore, il Genovese, affinché narri e descriva ciò che ha visto Di’, come è fatta questa città? E come si governa?»]. Questa città, racconta il Genovese, sorge per gran parte su un colle, ma si distende anche nella pianura circostante, ed è suddivisa in sette gironi, ciascuno dei quali ha il nome di un pianeta. Alla città, racconta il Genovese, si accede attraverso quattro porte rivolte verso ciascun punto cardinale, e le porte immettono in quattro strade che intersecano i sette gironi. Alla sommità dei sette gironi, saldamente fortificato, c’è «un gran piano» su cui sorge un tempio rotondo sostenuto da colonne e senza pareti. Sopra l’altare del tempio, racconta il Genovese, al posto del segno della divinità, vi è «un mappamondo assai grande, dove tutto il cielo è dipinto, e un altro dove è la terra», mentre nel cielo della cupola sono dipinte tutte le stelle maggiori «notate coi loro nomi e virtù», e «vi è sopra la cupola una banderola per mostrare i venti, e ne signano trentasei, e sanno quando spira ogni vento che stagione porta. E qui sta anco un Libro in lettere d’oro di cose importantissime» e le pagine di questo Libro sono dipinte, per diffonderne il contenuto, sui muri di ogni girone affinché tutti i Solari lo possano leggere.

Poi l’Ospitalario domanda al suo interlocutore quale sia la forma del governo della città Per tua fé, dimmi tutto il modo del governo, ché qui t’aspettavo»]. E il Genovese risponde: «È un Principe Sacerdote tra loro, che s’appella Sole, e in lingua nostra si dice Metafisico: questo è il capo di tutti in spirituale e temporale, e tutti li negozi in lui si terminano.». In tutti i manoscritti del dialogo fra’ Tommaso non scrive mai la parola Sole ma disegna il segno astrologico: un cerchio con un punto al centro, mentre nella prima edizione latina a stampa questo simbolo è stato tradotto con la parola Sole nella seconda edizione con il termine Hoh”. Il Principe Sacerdote chiamato Sole [il Metafisico] è, racconta il Genovese, il capo spirituale e temporale, religioso e civile, e con lui cooperano al governo della città tre principi, Pon, Sin e Mor - e fra’ Tommaso non poteva non introdurre i suoi tre princìpi teologici ne La città del Sole - cioè la Potestà [o Potenza, Pon], la Sapienza [Sin] e l’Amore [Mor]. Al principe della Potestà, racconta il Genovese, fanno capo le faccende riguardanti la difesa e l’arte militare. Il principe della Sapienza è preposto alle arti liberali e meccaniche e ha alle sue dipendenze tanti collaboratori quante sono le scienze: l’Astrologo, il Cosmografo, il Logico, il Retorico, il Grammatico, il Medico, il Fisico, il Politico, l’Etico. Il principe dell’Amore si occupa della generazione umana, dell’educazione, delle medicine, dell’alimentazione e del vestiario.

Il fondamento della vita sociale della città del Sole, racconta il Genovese, è la totale comunione dei bene, compresa la sessualità delle persone, e la vita dei Solari è regolata da ministri, uno per ogni virtù: la Liberalità, la Magnanimità, la Castità, la Fortezza, la Giustizia, la Solerzia, la Verità, la Beneficenza, la Gratitudine, la Misericordia, i quali compiono la loro funzione non solo vigilando e regolando, ma soprattutto educando, così che i reati tipici del nostro mondo non esistono nella città solare.

L’Ospitalario naturalmente continua a incalzare l’interlocutore con domande su vari temi: in particolare sul tema dell’educazione. L’educazione nella città del Sole, racconta il Genovese, inizia a tre anni e non ha un termine fisso [l’educazione deve essere generalizzata e permanente] e non comporta distinzioni classiste perché «ogni arte, dal governo dei campi alla medicina, è tenuta in ugual considerazione di dignità» e tutti si devono esercitare sia nelle scienze che nelle arti meccaniche. Nella città del Sole, racconta il Genovese, le abitazioni, le mense, i luoghi di ricreazione sono comuni, come è comune il vestito, di colore bianco. La generazione è regolata dal principe dell’Amore in modo che, nello svolgere tutti insieme, uomini e donne, gli esercizi fisici in palestra, nascano le simpatie e si formino le coppie più idonee per la riproduzione tenendo conto che è necessario procreare ma è altrettanto indispensabile limitare le nascite: nel testo de La città del Sole emerge con evidenza la preoccupazione di fra’ Tommaso per la piaga della dilagante proliferazione nella miseria e negli stenti delle popolazioni meridionali [bisogna educare alla procreazione responsabile per evitare lo squilibrio demografico], così come l’assetto rigidamente egualitario e comunitario che fra’ Tommaso dà a La città del Sole rispecchia la sua visione contro l’ingiusto e perdurante sistema feudale [da abbattere con un’insurrezione] che gli Spagnoli ereditano e potenziano e che genera la miseria delle masse di fronte alla sfrontata ricchezza di una minoranza di parassiti dediti all’uso della violenza e alla gestione dell’ingiustizia sociale. Per di più, sostiene fra’ Tommaso [irritatissimo], la religione ufficiale, la religione del Vangelo, pur di mantenere iniqui privilegi [quindi come può ancora essere considerata la religione del Vangelo?], si fa comodo strumento di un insopportabile regime e, inoltre, il fatto che nel testo de La città del Sole la cultura venga posta a servizio di tutta la comunità [dove i concetti-cardine vengono dipinti su tutte le pareti] costituisce una denuncia nei confronti del flagello dell’ignoranza che è stata ordinata a regime”, scrive Campanella, dalla congiunta tirannide spagnola e clericale [contro la quale ribellarsi è giusto e doveroso]. Nella città del Sole, racconta il Genovese, la morale e la religione dei Solari si reggono su alcuni elementi politici basilari: l’equilibrio demografico, l’assetto egualitario e comunitario della società, l’aderenza ai valori del Vangelo e il riferimento continuo al principio fondamentale dell’educazione.

E, alla fine, l’Ospitalario [lo stesso fra’ Tommaso in veste di antagonista dell’ordine costituito sull’ingiustizia] pone la domanda provocatoria: «Ma i Solari, sono cristiani?». E il nocchiero di Cristoforo Colombo [lo stesso fra’ Tommaso in veste di divulgatore del suo pensiero filosofico] risponde [con la mente rivolta ancora al suo maestro Bernardino Telesio] che «i Solari seguono solo la legge della natura, e che ciò li avvicina al cristianesimo, il quale è legge naturale più i sacramenti, per cui se si tolgono alla religione cristiana gli abusi e la si riconduce a legge naturale essa sarà la signora del mondo.».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di questi termini - radioso, luminoso, sfolgorante, brillante, splendente, fulgido, raggiante, chiaro - mettereste per primo accanto alla parola “solare”?... 

Scrivetelo...

Conoscendo la tela dell’opera potete leggere qualche pagina de La città del Sole di Tommaso Campanella: ci sono molti spunti che invitano alla riflessione ..

C’è anche un film del 1973 intitolato La città del sole del regista Gianni Amelio, visionatelo...

La città del Sole di Tommaso Campanella può anche essere considerata un’opera dotata di ingenuità: leggendo il testo di questo dialogo si trovano alcune considerazioni che possono sembrare semplicistiche ma ciò non annulla la potenza rivoluzionaria di quest’opera e dell’azione che fra’ Tommaso ha svolto anche dalla galera come accusatore spietato del regime reazionario clerico-spagnolo. Non si poteva certo chiedere a fra’ Tommaso di disegnare un progetto politico che non fosse utopico, ricco di idealità: lui ha voluto tracciare una linea, una linea fatta di tanti punti su cui, oggi, bisognerebbe ancora riflettere.

Fra’ Tommaso Campanella disegna l’assetto di una Repubblica ideale, comunitaristica a base contadina perché esiste in questo momento in Europa una questione contadina in quanto una consistente parte della popolazione è soggetta alla servitù della gleba senza speranza di riscatto. E questo tema ci porta inevitabilmente a prendere in considerazione un’altra opera che ha lasciato il segno nella Storia della Letteratura e del Pensiero umano portando alla ribalta un personaggio-chiave che rappresenta in modo emblematico questa questione, un personaggio che tutte e tutti voi conoscete e che si chiama Bertoldo e che compare sulla scena nel 1606, [in concomitanza con La città del Sole.

Penso che molte e molti di voi abbiate nella vostra biblioteca domestica Le sottilissime astuzie di Bertoldo, e questo personaggio come sapete è il rappresentate di un’infima categoria quella dei villani” [e lo diciamo come presa d’atto di una drammatica situazione, non vuole certo essere un insulto]: coloro che lavorano la terra in condizione di servitù della gleba nella villa, cioè in campagna, e la parola villa, in latino, corrisponde a l’ambiente della campagna, e si contrappone alla parola corte e alla parola città: il termine villano si contrappone a cortese” [proprio della corte] e a civile” [proprio della città] e quindi il villano diventa sinonimo di persona rozza, priva di creanza, di buone maniere, di garbo, di cortesia. La figura del villanoè legata a una terra che è sempre più bassa, sempre più avara [e non per sua colpa perché la Terra non è affatto matrigna], sempre più macchiata di sangue e intrisa di sudore, e Bertoldo è un essere umano, anche se esteriormente assomiglia più alla bestia, destinato a sopravvivere perché - nonostante la guerra, la fame, la malattia, il degrado, l’ingiustizia - lo tiene in vita una sua cultura” [contadina] formata da un misto di sapienza orfica, di saggezza evangelica, di arguzia filosofica ma, soprattutto, di intelligenza o finezza poetica.

Il personaggio di Bertoldo è quello di un servo della gleba [un villano] che, virtualmente, vive nel VI secolo al tempo del re longobardo Alboino, morto a Verona nel 572, ma, in questo caso, dobbiamo dire che è il re Alboino che vive al tempo di Bertoldo al quale fa da spalla. E la figura di Bertoldo la dobbiamo all’autore che l’ha saputa modellare sul piano letterario.

Le sottilissime astuzie di Bertoldo è un’opera scritta a Bologna, nel 1606, da un certo Giulio Cesare Croce, e quattro settimane fa, quando abbiamo incontrato Giovanni Keplero, abbiamo evocato questo personaggio senza citarlo nel momento in cui abbiamo detto che l’idea di ellisse” [la forma dell’orbita dei pianeti] cade e rimane ancorata alla Terra proprio perché la maggioranza delle persone [la massa contadina] non si domanda quale sia la forma migliore per l’orbita dei pianeti [i pianeti sono appena puntini luminosi troppo lontani] ma s’interroga se, sotto il sole, sia meglio un uovo oggi che una gallina domani. Giulio Cesare Croce, che tra poco conosceremo da vicino, - vivendo a stretto contatto con il popolo - si fa [rendendoci un servizio] portavoce di questa idea: con l’ultimo verso di una sua canzonetta [è anche autore di canzonette, è cantautore Giulio Cesare Croce] ci fa capire che gli oggetti cosmici - l’ellisse in questo caso come forma delle orbite spaziali - servono, soprattutto, per evocare quali sono i veri problemi della realtà terrestre. Leggiamo il testo della esplicita canzonetta di Giulio Cesare Croce [che considera l’astronomia nell’ottica delle masse contadine] intitolata L’orbita de la fame.

LEGERE MULTUM….

Giulio Cesare Croce, L’orbita de la fame [Canzonette]

Ho n’a fame che mangerbbi n’a coppia de’ bovi

Ho n’a fame che mangerebbi il canto del camino

Ho n’a fame che mangerebbi li nembi [le nuvole] pria che spiovi

Ho n’a fame che mangerebbi un campo de lupino [di erba medica]

Ho n’a fame che mangerebbi un convento de frati

Ho n’a fame che mangerebbi n’a via longa e sassosa

Ho n’a fame che mangerebbi quanti d’una montagna son li prati

Ho n’a fame che mangerebbi n’ovo grando com’è n’orbita spaziosa

 Questo è il linguaggio di Bertoldo che facciamo subito entrare in scena leggendo il proemio” [l’incipit] dell’opera intitolata Le sottilissime astuzie di Bertoldo. Lo scrittore Giulio Cesare Croce [che, come abbiamo detto, fra poco incontreremo da vicino] è da considerarsi un moderno umanista perché dissemina il testo della sua opera con innumerevoli citazioni tratte dalle Opere e dalla Tradizione della cultura greco-romana [è stato un grande lettore], e utilizza temi classici in forma di metafora per descrivere il mondo e per interpretare i comportamenti umani. Giulio Cesare Croce introduce la figura del suo personaggio dicendo della sua opera ciò che non è come per dire che Bertoldo è un campione di non-conoscenza ma è in possesso di un arguto spirito intuitivo [possiede la finezza]. Leggiamo l’incipit de Le sottilissime astuzie di Bertoldo, che non risulterà sconosciuto alle vostre orecchie.

LEGERE MULTUM….

Giulio Cesare Croce,  Le sottilissime astuzie di Bertoldo

Qui non ti narrerò, benigna lettrice e lettore, il giudizio di Paris [Paride], non il ratto di Elena, non l’incendio di Troia, non il passaggio d’Enea in Italia, non i lunghi errori di Ulisse, non le magiche operazioni di Circe, non la distruzione di Cartagine, non l’esercito di Serse, non le prove di Alessandro, non la fortezza di Pirro, non i trionfi di Mario, non le laute mense di Lucullo, non i magni fatti di Scipione, non le vittorie di Cesare, non la fortuna di Ottaviano [Augusto], poiché di simili fatti le istorie ne danno, a chi legge, piena contezza; ma bene t’appresento innanzi un villano brutto e mostruoso sì, ma accorto e astuto e di sottilissimo ingegno, a tale che, paragonando la bruttezza del corpo con la bellezza dell’animo, si può dire ch’ei sia proprio un sacco di grossa tela, foderato di dentro di seta ed oro. Quivi udirai astuzie, motti, sentenze, arguzie, proverbi e stratagemme sottilissime e ingegnose, da far trasecolare non che stupire. Leggi dunque, che di ciò trarrai grato e dolce trattenimento, essendo l’opera piacevole e di molta dilettazione.

Nel tempo che il re Alboino, re dei Longobardi, si era insignorito quasi di tutta l’Italia, tenendo il seggio regale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo; il quale era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma, dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell’ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l’acutezza dell’ingegno anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura era tale, come qui si descrive.

Prima era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe ed aspre come setole di porco, l’orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labbro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all’insù, con le nari larghissime, i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre esso parlava, parevano, tanti pignattoni, che bollissero; aveva le gambe caprine, a guisa di sàtiro, i piedi lunghi e larghi, e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio e tutte rappezzate su le ginocchia; le scarpe alte ed ornate di grossi tacconi.  Insomma costui era tutto il roverso di Narciso.

Passò dunque Bertoldo per mezo a tutti quei signori e baroni, ch’erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s’immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo: «Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei?».

«Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo».

Il linguaggio secentesco di Giulio Cesare Croce è divertente e non ci si stanca mai di rileggere il Bertoldoperché è un testo creativo sul piano filologico: la ricchezza di quest’opera non sta tanto nei contenuti buffi e nelle trovate argute ma piuttosto ne l’inventiva formale e ne l’ingegno lessicale che bisogna imparare a gustare [è interessante quello che Bertoldo dice ma, ancor più interessante, è come lo dice, come l’autore glielo fa dire]. La figura di Bertoldo è la metafora di chi lavora la terra senza considerarla sua e sulla quale, dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, nel 476, vede passare, uno dopo l’altro, i nuovi governanti-invasori che ne rivendicano la proprietà: gli Eruli, i Goti, i Bizantini, i Longobardi, i Franchi. I dominatori passano ma il servo Bertoldo rimane come depositario della cultura della Terra”. Chi è Giulio Cesare Croce?

            Giulio Cesare Croce è nato nel 1550 a San Giovanni in Persiceto che allora era un borgo: oggi è una cittadina a una ventina di chilometri a nord-ovest di Bologna. Suo padre si chiama Carlo e di professione fa il fabbro: essere un artigiano significa avere un piccolo reddito e, quindi, il fabbro Carlo Croce manda suo figlio a Scuola da diversi precettori per farne qualcosa di più di un artigiano. Ma nel 1557 Carlo muore lasciando la famiglia in miseria e Giulio Cesare, a sette anni, si deve trasferire a Castelfranco, un paese sulla via Emilia a quindici chilometri da San Giovanni, dove lo accoglie uno zio paterno che fa il fabbro pure lui, e anche lo zio lo manda a Scuola da un maestro che, invece di insegnare a questo bambino, lo utilizza e lo sfrutta nel lavoro dei campi. Giulio Cesare da questa brutta esperienza si libera con la fuga e lo zio, allora, lo prende con sé a bottega e Giulio Cesare [che intanto ha appreso a leggere, a scrivere e a far di conto] impara a fare il fabbro secondo la tradizione familiare. Nel 1563 lo zio si sposta con tutta la famiglia a Medicina: una piccola città a venticinque chilometri a est di Bologna. Medicina è piccola ma è ricca perché si trova nelle terre dei Fantuzzi, un’antica e potente famiglia bolognese e a Medicina i Fantuzzi possiedono una casa padronale, la Fantuzza, dove venivano per la villeggiatura. Oggi questa villa non esiste più, al suo posto c’è un paese che si chiama Fantuzza.

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Utilizzando la guida dell’Emilia Romagna e navigando in rete potete visitare San Giovanni in Persiceto, Castelfranco Emilia, Medicina, Fantuzza: sono i “luoghi” dell’autore di Bertoldo [e noi auspichiamo che possa diventare un “parco letterario” intitolato a Giulio Cesare Croce]… 

Buon viaggio…

A Medicina il giovane fabbro Giulio Cesare Croce incontra quotidianamente quelle genti rude che lavorano la terra: fonte di inesauribile disgusto” ma in possesso di una loro arguzia, sempre pronti a raccontare maravigliose istorie”.

Possiamo pensare che a Medicina entra in gestazione il personaggio di Bertoldo e anche quello di suo figlio Bertoldino. Il giovane Giulio Cesare Croce, che sa leggere e scrivere [e lui ha sempre pensato che questa fosse la sua vera ricchezza], comincia a comporre versi e canzonette, e quando i signori Fantuzzi alla fine dell’estate vengono in villa per godere dei frutti delle loro proprietà, chiamano Giulio Cesare a cantare e recitare le sue composizioni, ed è così che ha inizio l’esperienza di cantautore del giovane Giulio Cesare Croce che a diciotto anni, nel 1568, si trasferisce a Bologna dove prende la residenza. Compie anche qualche viaggio per portare in giro la sua arte: a Modena, a Ferrara, a Mantova, a Venezia, a Savona [1592-1593]. A Bologna Giulio Cesare Croce, per guadagnarsi da vivere, fa il garzone nella bottega di un fabbro, ma continua a studiare e a dedicarsi all’arte poetica: frequenta compagnie di cantanti nottambuli e spesso conclude la nottata in galera per schiamazzi notturni. Un giorno, in  un negozio di salumiere [i salumieri compravano i libri usati e malandati per avvolgerci la merce], trova una copia di una traduzione italiana de Le metamorfosi di Ovidio. Giulio Cesare Croce resta affascinato dalla lettura de Le metamorfosi di Ovidio e, di conseguenza, prende una decisione: comincia a girare per le strade e per le piazze di Bologna facendo il cantastorie, accompagnandosi con un violino, prende un nome d’arte, Giulio dalla Lira, e canta e recita canzonette e poesie, dialoghi e filastrocche, barzellette e frottole, cantilene e ballate” e ne vende anche il testo, stampato in opuscoli e in fogli, le ventarole, volanti [l’editoria si diffonde a livello popolare]. Gli argomenti delle sue composizioni sono quelli che oggi troviamo sulle pagine dei quotidiani locali: scene di vita popolare, fatti stagionali, casi meteorologici, le carestie, le feste, le risse, la fame, la disoccupazione, il problema degli alloggi, la cronaca nera, le prigioni, i banditi, la tortura, le esecuzioni capitali, e una raccolta di questa produzione è stata stampata col titolo di Storie di vita popolare nelle canzoni di piazza di Giulio Cesare Croce.

Ma comincia anche a scrivere testi con una certa ambizione letteraria e spera sempre, e spererà fino all’ultimo, di trovare un editore ma non lo troverà mai e resterà sempre ai margini della cultura ufficiale vivendo in decorosa miseria tirando avanti la sua famiglia: una prima moglie e sette figli e poi, dopo essere rimasto vedovo, una seconda moglie e altri sette figli [“Per non far torto a nessuna delle due”, diceva lui], e si è dovuto dare molto da fare per camparli tutti: la mattina per qualche ora fa il garzone nell’officina di un fabbro, il pomeriggio per qualche ora studia, legge e scrive nella biblioteca della Cattedrale, poi per qualche ora si dedica a istruire i suoi quattordici figli [la cucina di casa sua era come un’aula scolastica], e la sera, per qualche ora, suona e canta in piazza le sue composizioni e vende i suoi opuscoli.

Nel 1606, dopo aver scritto e fatto stampare circa quattrocento testi [canzoni e poesie, una commedia, una favola boschereccia e vari scritti di carattere religioso], Giulio Cesare Croce decide di cimentarsi nella narrativa e comincia a scrivere il rifacimento di un’opera del 1502 che si intitola Dialogo tra Salomone e Marcolfo, un testo che si presenta come un contrasto tra la sapienza sacrale [quella del famoso Re biblico] e la saggezza profana [quella di un contadino qualunque]”. Giulio Cesare Croce confeziona un’opera completamente nuova intitolata Le sottilissime astuzie di Bertoldo e l’anno successivo compone Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino.

Nel 1609 Giulio Cesare Croce muore e le sue poesie e le sue canzonette vengono dimenticate, e anche lui viene dimenticato perché sono Bertoldo e Bertoldino che entrano con i loro nomi nella Storia della Letteratura mentre il nome del loro autore passa inosservato e queste due opere avranno sempre una grande fortuna soprattutto presso un pubblico colto e sofisticato. Nel 1620 l’esperto musicista bolognese Adriano Banchieri scrive la Novella di Cacasenno figlio del semplice Bertoldino e, da questo momento, le tre opere vengono stampate insieme: Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno diventano figure inscindibili.

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Procuratevi in biblioteca i testi – che di solito stanno in un solo volume – de Le sottilissime astuzie di Bertoldo, de Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino e della Novella di Cacasenno figlio del semplice Bertoldino e leggetene qualche pagine per fare un esercizio di filologia: per riflettere sulla gustosa lingua italiana popolare del 1600…

Cercate anche sull’enciclopedia e sulla rete qualche notizia sullo scrittore e musicista Adriano Banchieri: potete pure ascoltare qualche suo brano 

Buona lettura e buon ascolto: mettete la vostra mente in ricerca …

     Nel 1721 un artista incisore, Giuseppe Maria Crespi, incide, a Bologna, venti rami all’acquaforte con altrettante storie della saga di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. La scrittura di Giulio Cesare Croce diventa immagine e queste incisioni hanno un enorme successo tanto che, nel 1730, a forza di essere torchiate per essere stampate si sono consumate e allora l’editore Lelio dalla Volpe [vecchia volpe bolognese] dà l’incarico a un altro bravo incisore, Ludovico Mattioli, di preparare venti soggetti da utilizzare per la stampa. Ne viene fuori un gran bel lavoro e l’accorto editore Lelio dalla Volpe ha un’idea: commissiona a venti poeti venti canti in ottave [un genere allora di moda] che illustrino le venti incisioni del Mattioli.

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Venticinque incisioni di Ludovico Mattioli tratte dai disegni di Giuseppe Maria Crespi si trovano a corredo dell’edizione della BUR de Le sottilissime astuzie di Bertoldo e, quindi, se in biblioteca richiedete questa edizione, le potete facilmente osservare…

Nasce così un nuovo Libro di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno che non ha più niente a che vedere con l’opera originale di Giulio Cesare Croce. E, quindi, quando, nel 1749, Carlo Goldoni scrive il dramma per musica intitolato Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, utilizza questo nuovo Libro perché non sa neppure dell’esistenza di Giulio Cesare Croce e della sua opera originale.

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Sarebbe interessante poter vedere e ascoltare qualche scena del Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno  di Carlo Goldoni…  Chissà se sarà in cartellone in qualche teatro del mondo?…

Fate una ricerca in rete: mettere in movimento la vostra curiosità…

Per fortuna l’opera di Giulio Cesare Croce  non è andata perduta e oggi la possiamo leggere o rileggere. Noi fra poco leggiamo alcuni frammenti da Le sottilissime astuzie di Bertoldo dove si capisce che molte affermazioni allegoriche che emergono nel dialogo tra il re Alboino e Bertoldo sono entrate nel linguaggio comune come metafore per descrivere la difficoltà dei rapporti umani. La scrittura di Giulio Cesare Croce vuole avere anche una valenza pedagogica: l’arguzia può essere l’unico strumento di difesa dei contadini, ma tutti dovrebbero imparare a coltivarla e a usarla come fa Bertoldo: l’arguzia non è l’astuzia del prepotente e dell’imbroglione ma è una competenza della persona saggia. Giulio Cesare Croce con il personaggio di Bertoldo propone la figura di una persona che vive in condizioni di subalternità e che ha imparato a difendersi facendo sua una competenza derivata dal repertorio dalla sapienza poetica: l’arguzia. Ai poveri braccianti che lavorano una terra non propria in cambio di un misero vitto e di un altrettanto misero alloggio non resta altro strumento di difesa.

Nel greco dei Classici - al quale Giulio Cesare Croce fa riferimento - il termine arguzia, con tutti i suoi sinonimi, corrisponde alla parola leptología e, in greco, il termine leptós significa fine, sottile, penetrante e, quindi, la leptología è l’arte della finezza intellettuale” [l’espressione “esprit de finesse, spirito di finezza, l’intuizione” la usa Blaise Pascal, che incontreremo nel corso del prossimo viaggio, per definire una particolare forma di conoscenza], la leptologíaè l’arte che possiedono le poetesse e i poeti, l’arte che permette di sentire con la ragione del cuore.

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Il termine “arguzia” è sinonimo di acutezza, vivacità, prontezza, brio, perspicacia, sottigliezza, sagacia, finezza… 

Quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “arguzia”?...

Scrivetela...

E ora leggiamo un frammento da Le sottilissime astuzie di Bertoldo. Il re Alboino pretende che Bertoldo s’inchini davanti a lui ma Bertoldo non lo ritiene un atto dignitoso: meglio stringersi la mano da pari a pari.

LEGERE MULTUM….

Giulio Cesare Croce,  Le sottilissime astuzie di Bertoldo

RE    Orsù, sia come si voglia, io voglio che tu t’inchini a me.

BERTOLDO    Io non posso far questo, abbi pazienza.

RE    Perché non puoi?

BERTOLDO    Perché io ho mangiato delle pertiche di salice e però non vorrei scavezzarle [spezzarle, romperle] nel piegarmi.

RE   Ah, villan tristo, io voglio al tuo dispetto che tu t’inchini, come tu torni alla presenza mia.

BERTOLDO    Ogni cosa può essere, ma duro gran fatica a crederlo.

RE    Domattina si vedrà l’effetto; va’ pur a casa per questa sera.

 

37. IL RE FA ABBASSAR L’USCIO DELLA SUA CAMERA ACCIÒ BERTOLDO CONVENGA INCHINARSI  NELL'ENTRAR DENTRO LA MATTINA

 

Partissi Bertoldo, e il Re fece abbassar l’uscio della sua camera tanto che chi voleva entrare in essa, bisognava per forza inchinarsi con il capo; e ciò fece acciò che Bertoldo alla tornata ch’ei faceva si dovesse inchinare nell’entrare e così venisse a fargli riverenza [l’inchino] al suo dispetto. E così stava aspettando il giorno per vedere il successo della cosa.

 

38. ASTUZIA DI BERTOLDO PER NON INCHINARSI AL RE

 

La mattina l’astuto Bertoldo tornò alla corte, come era suo solito, e veduto l’uscio abbassato in quella maniera pensò subito alla malizia e conobbe che il Re aveva fatto far questo solamente perché esso nell’entrare a lui se le inchinasse; onde in cambio di chinare il capo e abbassarlo nell’entrare dentro, voltò la schiena ed entrò all’indietro a tal che, in cambio di far riverenza al Re, gli voltò il pòdice e l’onorò con le natiche.

Allora il Re conobbe che costui era astuto sopra gli altri astuti ed ebbe caro simil piacevolezza; pur, mostrando d’essere alquanto alterato, gli disse:

RE    Chi t’ha insegnato, villan ribaldo, d’entrar nelle case a questa foggia?

BERTOLDO    Il gàmbaro.

RE    Perché il gàmbaro? Tu hai avuto un buon pedante [precettore], certo. Sì, certo, e orsù vattene a casa e torna domani da me e fa’ ch’io ti vegga e non ti vegga, e portami l’orto, la stalla e il molino.

BERTOLDO  Indovinala tu, grillo [il grillo è bestia da indovinelli]. Orsù, io vado, e m’ingegnarò di fare quel ch’io saprò.

Il re Alboino mette in continuazione alla prova Bertoldo con i suoi indovinelli e Bertoldo, esercitando la sapienza poetica, controbatte. Se volete sapere come risponde e controbatte Bertoldo continuate a leggere Le sottilissime astuzie che Giulio Cesare Croce sa, con la sua scrittura, argutamente mettere in scena.

Fra’ Tommaso Campanella durante i suoi ventisette anni di detenzione nel carcere di Napoli non rimane certo inattivo: studia e scrive. Completa i due trattati di Metaphysica e di Teologia, compone un trattato di Medicina e il dialogo La città del Sole. Inoltre scrive e riceve Lettere. L’Epistolario tra Tommaso Campanella e Galileo Galilei è un documento di grande valore: i due discutono di temi scientifici, ma Galileo mette anche al corrente fra’ Tommaso su ciò che succede nel mondo e su ciò che succede a lui. Ed è per questo che, nel febbraio 1616, fra’ Tommaso Campanella, in occasione del primo processo contro Galileo Galilei, ha il coraggio di scrivere una difesa in favore dello scienziato e del copernicanesimo. Fra’ Tommaso invia il testo della difesa di Galileo al cardinale Bonifacio Caetani [tacitamente copernicano, con il quale tiene corrispondenza], ma il 5 marzo 1616 il Sant’Uffizio emette l’ennesima  condanna contro l’ipotesi copernicana.

A luglio del 1616 il nuovo viceré di Napoli, Pietro Giron duca d’Ossuna, ricaccia fra’ Tommaso nel braccio della detenzione dura della prigione di Castel Sant’Elmo e, per tutta risposta, fra’ Tommaso chiede carta e penna per iniziare a scrivere il trattato della Matematica e quello della Grammatica.

Il testo della difesa di Galileo di fra’ Tommaso Campanella viene pubblicato nel 1622 a Francoforte dall’editore Tobia Adami con il titolo di Apologia per Galileo e diventa subito un manifesto per la difesa del libero pensiero [ne parleremo la prossima settimana].

E ora a proposito di pensiero libero concludiamo questo itinerario leggendo ancora un frammento da Le sottilissime astuzie di Bertoldo.

LEGERE MULTUM….

Giulio Cesare Croce,  Le sottilissime astuzie di Bertoldo

RE    Che hai tu da dirmi oggi con quel ghigno servatico, villan?

BERTOLDO    Ho da dirti, sire, che chi vuol ben regnare ha da sapere che chi va al mulino bisogna che s’infarini. Che una cosa pensa il ghiottone altra il taverniere. Che chi spinge la nave in mare sta sulla riva. Che è meglio essere uccello di campagna che di gabbia. Che non può far animo di leone chi ha il cuore di pecora. Che riso di signore, sereno d’inverno, cappello di matto e trotto di mula vecchia fanno una primiera di pochi punti. Che chi è scottato dalla minestra calda soffia sulla fredda. Che buone parole e tristi fatti ingannano i savi e i matti. Che la volpe talora si finge inferma per intrapolare i polastri.

E se poi per aver detto la verità ho da patir la morte, di mio piacimento vorrebbi sulla mia sepoltura un epitaffio simile a cotesto: in questa tomba tenebrosa e scura, giace un villan di sì difforme aspetto, che più d’orso che d’uomo avea figura, ma di tant’alto e nobile intelletto che stupir fece il mondo e la natura. Mentr’egli visse e fu Bertoldo detto, fu grato al re, e morì con aspri duoli per non poter mangiar rape e fagiuoli.     Pondera per te, o sire, uno epitaffio dello stesso avviso e ricorda che chi è uso alle rape non va ai pasticci, chi è uso alla zappa non piglia la lancia, chi è uso al campo non va a corte, chi vince il suo appetito è un gran capitano e chi ha cognizione di sapere nulla è più sapiente degli altri onde imbocca la via dell’imparare.

Quando si è consapevoli di sapere di non sapere si deve agire per promuovere l’apprendimento. Per questo la Scuola è qui: per rafforzare la nostra convinzione che non bisogna mai perdere la volontà di imparare e, quindi non perdete il prossimo itinerario perché la settimana successiva ci sarà la pausa per il 25 aprile e date retta a Bertoldo: non perdete la buona abitudine di mangiar rape e fagiuoli in modo da non subire aspri duoli.

Il viaggio continua…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 13, 2018