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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA COMPAIONO “CINQUE AFFERMAZIONI DI PRINCIPIO” PER DARE UN FONDAMENTO AL PENSIERO SCIENTIFICO ...

Lezione N.: 
22

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi 

La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza  18-19-20  aprile  2018

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA

COMPAIONO CINQUE AFFERMAZIONI DI PRINCIPIO

PER DARE UN FONDAMENTO AL PENSIERO SCIENTIFICO ...

      Questo è il ventiduesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna agli esordi della scienza [vi ricordo che la prossima settimana ci fermeremo in occasione della festività del 25 aprile per celebrare il ritorno alla democrazia]. Come sapete, siamo in compagnia di fra’ Tommaso Campanella.

     Fra’ Tommaso Campanella nel corso dei suoi ventisette anni di detenzione, di cui ventiquattro nel carcere di Napoli, non rimane certo inattivo: studia e scrive. Scrive il celebre dialogo La città del Sole [un’opera della quale abbiamo dipanato la tela la scorsa settimana], completa i due ampi trattati di Metaphysica [18 Libri] e di Teologia [30 libri], comincia a comporre i primi Libri di quello che diventerà un vasto trattato di Medicina e, inoltre, fra’ Tommaso tiene una fitta corrispondenza.

     Fra’ Tommaso Campanella - durante gli anni di detenzione nel carcere di Napoli - scrive e riceve Lettere: è in corrispondenza con molte persone che apprezzano i suoi Scritti e operano, con la dovuta circospezione, anche per ottenere la sua scarcerazione.

     L’Epistolario tra Tommaso Campanella e Galileo Galilei è un documento di grande valore: i due discutono soprattutto di temi scientifici ma Galileo mette anche al corrente fra’ Tommaso su ciò che succede nel mondo e su ciò che succede a lui. Ed è per questo che, nel febbraio 1616, fra’ Tommaso, in occasione del primo processo contro Galileo Galilei, ha il coraggio di scrivere una difesa in favore dello scienziato e del copernicanesimo. Fra’ Tommaso invia il testo della difesa di Galileo al cardinale Bonifacio Caetani che è, tacitamente, un copernicano. Fra’ Tommaso scrive “nella dedica” che il Caetani gli ha espressamente chiesto di scrivere questo testo per influenzare il Sant’Uffizio, ma il 5 marzo 1616 i membri del Sant’Uffizio, mentre regna papa Paolo V, Camillo Borghese, emettono l’ennesima condanna contro l’ipotesi copernicana.

     Anche in ragione del fatto di essersi esposto nella difesa di Galileo, a luglio del 1616 il nuovo viceré di Napoli, Pietro Giron duca d’Ossuna, ricaccia fra’ Tommaso nel braccio della detenzione dura della prigione di Castel Sant’Elmo e, per tutta risposta, fra’ Tommaso, detenuto da quindici anni, chiede carta e penna per iniziare a scrivere il trattato della Matematica e quello della Grammatica.

     Il testo della difesa di Galileo, scritto in latino da fra’ Tommaso Campanella, viene pubblicato nel 1622 a Francoforte dall’editore Tobia Adami con il titolo di Apologia per Galileo [il titolo completo è Apologia di Galileo, matematico fiorentino. Nella quale si discute se la teoria filosofica che Galileo sostiene sia in accordo o in contrasto con le Sacre Scritture]. L’Apologia per Galileo ha un’ampia divulgazione e diventa, in breve, un manifesto per la difesa del libero pensiero.

     Che tipo di opera è l’Apologia per Galileo? Fra’ Tommaso scrive quest’opera in forma di “quaestio” [sotto forma di indagine conoscitiva]. Il componimento inizia con il testo della dedica al cardinale Bonifacio Caetani, prosegue con un’introduzione e poi si esplicita in cinque capitoli che contengono: gli “Argomenti contro Galileo”, gli “Argomenti in favore di Galileo”, “Tre premesse prima della duplice soluzione che seguirà”, la “Risposta agli argomenti contro Galileo” e la “Valutazione degli argomenti in favore di Galileo”. Fra’ Tommaso ha conosciuto Galileo Galilei all’Università di Padova nel 1592 e, come abbiamo detto, tra i due inizia subito un fitto scambio di Lettere.

     Fra’ Tommaso nella Apologia per Galileo sostiene cinque tesi fondamentali per difendere lo scienziato [il matematico fiorentino] dalle accuse mossegli dal Sant’Uffizio, e queste cinque tesi sono anche “cinque affermazioni di principio” per dare un fondamento al pensiero scientifico.

Fra’ Tommaso afferma [e questa è la prima tesi] che «chi contrasta l’esame della realtà [chi si oppone allo studio delle leggi proprie della natura] nuoce empiamente alla fede [perché Dio invita a studiare le leggi della Natura da Lui creata]». Fra’ Tommaso afferma [e questa è la seconda tesi] che il pensiero cosmologico di Aristotele è storicamente limitato e insufficiente: «È pazzo [scrive Campanella] chi crede che Aristotele abbia stabilito una volta per tutte la verità riguardo alle cose celesti, ed è semplicemente ridicolo pensare che non si debba indagare oltre »[se si fa un’affermazione del genere - scrive Campanella - si contraddice il pensiero stesso di Aristotele che nella Metafisica sprona a non cessare mai di indagare]. Fra’ Tommaso afferma [e questa è la terza tesi] che la teoria copernicana di Galileo non è in contrasto con gli Scritti della Patristica [i Padri della Chiesa dal II al V secolo - afferma Campanella - si preoccupano di dare regole morali non norme astronomiche], la teoria copernicana di Galileo non è in contrasto con la Filosofia scolastica e Galileo prescrive delle regole etiche perché la persona si possa applicare scrupolosamente nell’osservazione diretta del mondo creato. Fra’ Tommaso afferma [e questa è la quarta tesi]: «Il fatto che la terra sia o non sia al centro dell’Universo non ha il minimo rapporto con i dogmi della fede». Fra’ Tommaso afferma [e questa è la quinta tesi] che «le significazioni [le interpretazioni] delle Sacre Scritture sono cangianti [cambiano] secondo le mutazioni de’ tempi», sicché non possono costituire il criterio per stabilire la scientificità di una teoria. Fra’ Tommaso conclude la sua Apologia affermando che Galileo, come capita a ogni persona, può aver commesso errori, ma ciò non autorizza a ritenerlo un eretico anzi va seguito come maestro per avere sperimentato e creato una valida metodologia nel campo dell’osservazione dei fenomeni.

     Le cose cambiano secondo le mutazioni dei tempi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Come è cambiato – se è cambiato - l’ambiente [rurale o cittadino] nel quale avete vissuto o dove tuttora vivete?... Quali considerazioni potete fare?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Quando incontreremo Galileo Galilei cercheremo di capire quale sia la metodologia che ha sperimentato e che ha creato nel campo dell’osservazione dei fenomeni.

     L’Apologia per Galileo - scritta da fra’ Tommaso Campanella nel 1616 e pubblicata a Francoforte nel 1622 - come abbiamo detto ha avuto una grande diffusione a cominciare dalla Germania e dall’Olanda e poi, subito dopo, in Francia. Il testo dell’Apologia per Galileo è diventato all’inizio del nuovo secolo il principale manifesto per la difesa della libertà di pensiero e lo strumento più valido per legittimare il rifiuto della tradizione aristotelico-tolemaica, una tradizione [sostiene Campanella, così come aveva già sostenuto Giordano Bruno] che ha ancora un suo fascino proprio perché oramai appartiene al mondo antico [ha il fascino dei reperti archeologici]. La divulgazione dell’Apologia per Galileo fa nascere in Europa un movimento d’opinione che chiede la scarcerazione di fra’ Tommaso Campanella detenuto da oltre vent’anni nelle galere napoletane del regime spagnolo: un regime che non ha l’abitudine di ascoltare la voce critica [per giunta assai flebile] della società civile perché si tratta di un regime, come tutti i regimi fondati sull’autoritarismo imperialistico, che ha la volontà e possiede gli strumenti per reprimere ogni forma di dissenso. È difficile [all’inizio dell’Età moderna] anche soltanto scalfire la potenza dei regimi imperialisti e di quello spagnolo in particolare [l’insurrezione calabrese predicata da Campanella per l’abolizione della servitù della gleba fallisce così come falliscono tutti i tentativi insurrezionali di matrice contadina che si verificano in varie parti d’Europa] ma, come spesso succede, è la Letteratura a far fiorire la voce del dissenso contro l’agire dei poteri forti.

     Una voce di dissenso nei confronti dell’imperialismo secentesco spagnolo, e non solo spagnolo, è quella di un personaggio da romanzo, un personaggio da romanzo per eccellenza [il primo personaggio da romanzo moderno], e se fra’ Tommaso Campanella avesse avuto modo di conoscerlo - risulta, infatti, che fra’ Tommaso non abbia avuto l’occasione di leggere il testo, sebbene a lui contemporaneo, dell’opera che ha come protagonista il personaggio che stiamo per incontrare [troppo limitata è stata all’inizio l’aria di diffusione di quest’opera] - ebbene, se [anche se non sono i se a fare la storia] fra’ Tommaso lo avesse conosciuto si sarebbe, in buona parte, identificato con questa figura letteraria, e stiamo parlando di Don Chisciotte de la Mancha. Chi - sebbene il numero dei lettori del romanzo di cui è protagonista sia esiguo - non conosce il personaggio di Don Chisciotte? Ed è, quindi, ancora più opportuno riflettere in proposito.

     Fra’ Tommaso Campanella si sarebbe identificato nel personaggio di Don Chisciotte, si sarebbe immedesimato nella figura del cavaliere errante. Fra’ Tommaso Campanella è un personaggio che, allo stesso modo di Don Chisciotte, ama esaltare [e non solo nel testo de La città del Sole] il paradosso e l’impossibile con una magnifica e sarcastica eloquenza. Anche fra’ Tommaso - così come il personaggio di Don Chisciotte - ha recitato la follia, ma non una follia da romanzo, frutto poetico della malinconia, bensì come strumento per salvarsi concretamente la vita. Fra’ Tommaso, come il personaggio di Don Chisciotte, si getta contro ogni ostacolo e imbocca qualsiasi strada pur di cercare di cancellare la vasta e mefitica palude dell’ingiustizia che ammorba la società civile e mantiene intatte le condizioni per lo sfruttamento delle masse contadine.

     Possiamo ipotizzare che se fra’ Tommaso avesse potuto leggere il Don Chisciotte lo avrebbe considerato [per quello che è] un libro “filosofico” perché, in primo luogo, lo avrebbe ritenuto un commento alla Letteratura dei Vangeli in quanto Don Chisciotte si considera un vero ministro di Dio [un mistico profondamente laico] che, per molti aspetti, è simile a Gesù il quale, se si ripresentasse sotto mentite spoglie a sostenere la causa degli sfruttati dal regime della servitù della gleba, i cristianissimi tribunali dell’Inquisizione spagnola, dopo averlo fatto arrestare, lo processerebbero, lo condannerebbero e lo farebbero nuovamente crocifiggere.

     Se fra’ Tommaso avesse potuto leggere il Don Chisciotte avrebbe subito preso atto che questo personaggio perde la sua anima [vuole abbandonare la sua scialba vita da misero e insignificante feudatario] perché chi perde la propria anima [chi rinuncia al proprio egoismo], come dice la Letteratura dei Vangeli, si salva ed è, quindi, pronto a costruire il regno di Dio sulla terra, secondo l’Apocalisse di Giovanni.

     Se fra’ Tommaso avesse potuto leggere il Don Chisciotte ne avrebbe fatto l’esegesi e avrebbe capito che questo romanzo ricalca [così come avviene per molte altre opere letterarie] la struttura del testo biblico del Libro dell’Esodo e questo impianto [sul quale rifletteremo brevemente fra poco] infonde energia narrativa alla trama dell’opera.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes è uno di quei Libri il cui testo va letto e che andrebbe periodicamente riletto perché scandisce anche i tempi della nostra vita: per un verso o per l’altro siamo un po’ tutte e un po’ tutti dei Don Chisciotte e dei Sancho Panza, due figure che non possono stare staccate l’una dall’altra...   Cominciate a pensare di metterlo in lettura o in rilettura questo romanzo, al ritmo produttivo di quattro pagine al giorno

     Il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes viene considerato il primo romanzo moderno, e quest’opera è stata pubblicata in due tempi: nel 1605 la prima parte e nel 1615 la seconda parte, quindi, il Don Chisciotte della Mancha cammina insieme a noi sul territorio che stiamo attraversando. Di che opera si tratta, chi è il suo autore e qual è, come abbiamo accennato poco fa, il rapporto tra il Don Chisciotte e il Libro dell’Esodo?

     Se fra’ Tommaso Campanella avesse potuto leggere il Don Chisciotte [il cui titolo originale è El ingegnoso hidalgo Don Quijote de la Mancha (Il fantastico cavaliere don Chisciotte de la Mancha)] avrebbe fatto l’esegesi di quest’opera e avrebbe subito capito che il testo di questo romanzo ricalca [così come avviene per molte altre opere letterarie] gli elementi fondamentali che costituiscono la struttura del Libro dell’Esodo.

     Il Libro dell’Esodo contiene la descrizione dei rituali di investitura dei principali personaggi, il racconto di un lungo viaggio vagabondo nel deserto, la narrazione del manifestarsi di straordinari prodigi e l’enunciazione dell’idea della terra promessa -, e anche l’autore del Don Chisciotte segue questa trafila ed è proprio questo impianto che infonde energia narrativa alla trama di quest’opera. Chi è l’autore del Don Chisciotte? L’autore del Don Chisciotte è uno scrittore che tutte e tutti voi conoscete almeno di nome: Miguel de Cervantes Saavedra.

     Miguel de Cervantes è nato ad Alcalà de Henares nel 1547 ed è morto a Madrid nel 1616, ed è un personaggio dalla vita assai movimentata: dal 1568 vive, per un certo periodo, nascosto in Italia per sfuggire a una condanna nel suo paese. Intraprende poi la vita militare e partecipa a diverse famose battaglie [a Lepanto, a Navarino, a Biserta, a Tunisi] nelle quali viene ferito più volte. Viene anche catturato dai pirati Barbareschi e vive prigioniero a Tunisi per cinque anni prima di essere riscattato: torna in Spagna dove finisce ancora due volte in prigione. Negli ultimi anni della sua vita è oppresso da difficoltà economiche e familiari, ma riesce a trovare consolazione dandosi allo studio e a una intensa vita letteraria.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per conoscere meglio Miguel de Cervantes Saavedra potete utilizzare l’enciclopedia, la biblioteca e navigare in rete

     La Scuola consiglia anche la lettura del testo delle Novelle esemplari di Cervantes – che potete richiedere in biblioteca – le quali presentano un quadro esaustivo delle condizioni della Spagna all’inizio del XVII secolo: una nazione che vorrebbe governare il mondo [afferma l’autore] ma che non riesce a dare condizioni di vita dignitose ai suoi abitanti.

     Il Don Chisciotte di Cervantes è un’opera che non appartiene solo alla Storia della Letteratura ma che si colloca anche a pieno titolo nella Storia del Pensiero Umano. Il Don Chisciotte di Cervantes non è solo il primo vero romanzo moderno, pubblicato integralmente nel maggio del 1615, ma è anche una delle più importanti opere della Storia del Pensiero Umano. Cervantes [che ama lo studio] compone questo romanzo con lo stile della satira letteraria [conosce bene le opere satiriche latine] e, possedendo una vasta cultura biblica, ha in mente gli elementi fondamentali [l’investitura, il vagabondaggio, i prodigi e la terra promessa] del Libro dell’Esodo che è il testo più avventuroso della Letteratura beritica dell’Antico Testamento.

     Il romanzo di Cervantes [come tutte e tutti sapete] racconta la storia tragicomica di un oscuro cavaliere, un nobiluomo un po’ spiantato, di un borgo della Mancha: questo oscuro cavaliere è un vorace lettore di romanzi cavallereschi, legge mai tanto che s’immedesima completamente [perdendo il senso della realtà o acquisendo un senso più acuto della realtà] nel personaggio del “cavaliere errante” [il cavaliere medioevale senza macchia e senza paura], e veste i panni di un puro e coerente cavaliere errante che persegue con tenacia gli ideali dell’amore, dell’onestà [sempre fedele al patto di solidarietà] e della giustizia [per il rispetto della Legge che deve tutelare tutti a cominciare dai più deboli]. Don Chisciotte pensa che sono questi - l’amore, l’onestà, la giustizia - i valori che danno senso alla vita [dice Don Chisciotte: «Una persona è potente se è onesta, è sapiente se è giusta e sa amare se è misericordiosa» così come Campanella rappresenta la Trinità], ma la purezza cavalleresca di Don Chisciotte contrasta con la realtà: la realtà [del regime imperialista] in cui vive è triviale, è volgare, è ipocrita, è violenta, e gioca senza pietà con la dolorosa e ingenua follia di questo “candido” personaggio. L’unico sollievo per lui viene dal popolare buon senso [dal comune buon senso] del suo [presunto] scudiero Sancho Panza, che è la sua spalla premurosa.

     Il Don Chisciotte è un’opera che riflette non solo sulla decadenza e la crisi di una società: la società [ingiusta, sfruttatrice, ipocrita e bigotta] dell’aristocrazia feudale spagnola del suo tempo [una società altrettanto condannata nei suoi comportamenti da fra’ Tommaso Campanella e poi biasimata nelle pagine de I promessi sposi di Alessandro Manzoni]. Ma il Don Chisciotte è un’opera che - in linea con il pensiero delle correnti progressiste degli Ordini monastici, alle quali Cervantes guarda con attenzione - contiene un’ampia riflessione sulla crisi dei valori, sul senso tragico di una società che non è capace di costruire la solidarietà, l’accoglienza, la giustizia sociale, la condivisione. Quando non ci sono questi valori [i valori per cui si batte il domenicano predicatore fra’ Tommaso Campanella e che emergono nel testo del Don Chisciotte] la vita finisce per avere un senso doloroso, un risvolto drammatico.

     Don Chisciotte è diventato un personaggio universale perché Cervantes ha saputo porre attraverso questa straordinaria figura una domanda fondamentale: sono un po’ pazzi coloro i quali vogliono lottare perché l’amore, l’onestà, la giustizia e la pace abbiano un ruolo nel mondo? Sono solo dei visionari, degli apocalittici, costoro?

     Cervantes, in periodo di Controriforma, costruisce un personaggio da romanzo apparentemente “innocuo”, ma Don Chisciotte non è un personaggio innocuo e tanto meno solo comico [per giunta la sua comicità è involontaria]: Don Chisciotte si rivela come una persona molto seria che fa le cose con un grande impegno intellettuale, morale e civile, e ha poca voglia di scherzare e lo si ama anche per la malinconia e la nostalgia che ci regala.

     Leggere questo romanzo è una bella impresa [la Scuola consiglia di leggerne dalle due alle quattro pagine al giorno] perché ci fa capire che il pazzo non è Don Chisciotte [o fra’ Tommaso Campanella o il Nolano Giordano Bruno], ma il pazzo [insegna Cervantes, insegna Campanella, insegna Bruno] è chi calpesta i grandi valori dell’Umanesimo che sono entrati in incubazione nel periodo della Scolastica [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia] e dovrebbero fecondare l’Età moderna.

     Don Chisciotte è un personaggio “moderno” perché riceve la sua investitura [non in un palazzo reale, non in una cattedrale] ma in una Biblioteca e l’elezione gli proviene dall’esercizio della lettura: la lettura di romanzi cavallereschi che raccontano storie di soprusi riparati da cavalieri erranti, da “persone salvatrici” che non si fermano a raccogliere gli onori [perché fare il bene in nome della giustizia è un dovere] ma si rimettono subito in cammino sulla via dell’Esodo.

     Nel cuore di questo eroe intrepido e inadatto - per parafrasare il testo del Libro dell’Esodo come fa Cervantes - ci sono le tavole di una Legge che lui vuole rispettare ad ogni costo andando anche allo sbaraglio e vagabondando in ogni luogo dove possa incontrare un prodigio: ma questo prodigio avviene solo nella sua mente, una mente capace di svelare [La Mens che descrive Campanella nella Metafisica] a lui soltanto la presenza di mostri fantastici e l’esistenza di avventure straordinarie. Come faremmo a sopravvivere se anche noi, ogni tanto, non immaginassimo avventure straordinarie? 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete da raccontare la storia di un’avventura straordinaria che avete immaginato?...

Bastano quattro righe per descriverla, scrivetele...

     E ora leggiamo l’incipit di Don Chisciotte.

LEGERE MULTUM….

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte

In un borgo della Mancha, di cui non voglio ricordarmi il nome, non molto tempo fa viveva un gentiluomo di quelli con lancia nella rastrelliera, scudo antico, ronzino magro e cane da seguito. Qualcosa in pentola, più spesso vacca che castrato, quasi tutte le sere gli avanzi del desinare, in insalata, lenticchie il venerdì, un gingillo il sabato, un piccioncino ogni tanto in più la domenica, consumavano tre quarti delle sue rendite; il resto se ne andava tra una casacca di castoro con calzoni e scarpe di velluto per le feste, e un vestito di frustagno, ma del più fino, per tutti i giorni. Aveva una governante che passava i quarant’anni, una nipote che non arrivava ai venti e un garzone capace per il campo come per il mercato, buono a sellare il ronzino come a menar la roncola. L’età del nostro gentiluomo rasentava la cinquantina: era di complessione robusta, asciutto il corpo, magro il viso, molto mattiniero e amante della caccia. Dicono che avesse il soprannome di Chisciada o Chesada, perché a questo proposito c’è qualche discrepanza tra gli autori che ne hanno scritto, ma da congetture assai verosimili si arguisce che si chiamava Chisciana. Ma questo importa poco pel nostro racconto: basta che nell’esposizione dei fatti non ci si scosti una linea dalla verità. Bisogna poi sapere che questo gentiluomo, nei periodi di tempo in cui non aveva nulla da fare, cioè la maggior parte dell’anno, si dedicava alla lettura dei romanzi cavallereschi e a poco per volta ci si appassionò tanto, che dimenticò quasi del tutto la caccia e anche l’amministrazione del suo patrimonio; anzi, la sua curiosità e la smania di questa lettura arrivarono a tal segno, che vendé parecchi appezzamenti di terreno, e di quello buono anche, per comprarsi dei romanzi cavallereschi. Quindi ne portò a casa quanti ne poté avere, e i più belli di tutti gli parevano quelli del famoso Feliciano da Silva, perché la limpidezza della sua prosa e quei suoi discorsi intricati gli parevano una meraviglia, specialmente quando arrivava a leggere quelle lettere d’amore e quei cartelli di sfida, in cui molto spesso si trovava scritto: la ragione dell’irragionevole torto che alla mia ragione fassi, in guisa tale la mia ragion debilita, che della beltade vostra con ragione lagnomi; oppure: Gli alti cieli che della divinità vostra divinamente con le stelle vi fortificano, e vi fanno emerita al merito che la grandezza vostra merita. Il povero cavaliere perdeva la testa dietro a questi discorsi, e non dormiva per spiegarseli e sviscerarne il senso, mentre non ci sarebbe riuscito nemmeno Aristotele, anche se fosse risuscitato apposta. Non lo persuadevan molto i colpi che Don Belianigi dava e riceveva, perché si immaginava che, per quanto fossero bravi i chirurghi che lo avevan curato, doveva avere il corpo e il viso pieno di segni e di cicatrici. Tuttavia lodava nell’autore quel modo di terminare il libro con la promessa del seguito di quella interminabile avventura; e molte volte gli venne la voglia di pigliar la penna e di finirla lui, con grande precisione, come lì si prometteva; e lo avrebbe fatto di certo, e vi sarebbe anche riuscito, se non lo avessero distolto altri maggiori e continui pensieri. Ebbe molte discussioni col curato del paese, uomo dotto, laureato a Siguenza, a proposito di chi fosse stato il miglior cavaliere, se Palmerino d’Inghilterra o Amadigi di Gaula; ma diceva Mastro Nicola, barbiere di quello stesso borgo, che nessuno raggiungeva il Cavaliere del Febo, e che se qualcuno gli si poteva paragonare, era Don Galaor, fratello di Amadigi di Gaula, perché aveva disposizione a tutto, non era sentimentale e piagnucolone come suo fratello, e non gli cedeva punto in fatto di valore.

Insomma, si sprofondò tanto in quelle letture, che passava le notti dalla sera alla mattina, e i giorni dalla mattina alla sera, sempre a leggere; e così a forza di dormir poco e di legger molto, gli si prosciugò talmente il cervello che perse la ragione.

Gli si riempì la fantasia di tutto quello che leggeva nei suoi libri: incanti, litigi, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste e stravaganze impossibili; e si ficcò talmente nella testa che tutto quell’arsenale di sogni e di invenzioni lette nei libri fosse verità pura, che secondo lui non c’era al mondo storia più certa. Sosteneva che, sì, senza dubbio, il Cid Ruy Diaz, era stato un ottimo cavaliere, ma che non poteva stare a confronto col Cavaliere dell’Ardente Spada, il quale con un solo traversone aveva diviso nel mezzo due feroci e smisurati giganti. Se la diceva di più con Bernardo del Carpio, perché a Roncisvalle aveva ucciso Roldano l’incantato, servendosi della medesima astuzia d’Ercole, quando soffocò tra le braccia Anteo, figlio della terra. Diceva molto bene di Morgante perché lui solo, contrariamente agli altri giganti che son tutti superbi e scortesi, era affabile e bene educato. Ma sopra a tutti gli andava a genio Rinaldo da Montalbano e specialmente in quei punti quando esce dal suo castello e svaligia quanta gente incontra, o quando ruba quella statua di Maometto tutta d’oro, come si racconta nella sua storia. Quanto a quel traditore di Gano di Maganza, per poterlo pigliare a calci, avrebbe dato la governante e la nipote per giunta. E così, perso ormai del tutto il cervello, gli venne il pensiero più stravagante che sia mai venuto a un pazzo; cioè gli parve opportuno e necessario, sia per accrescere il proprio onore, sia per servire il proprio paese, di farsi cavaliere errante, e di andar per il mondo con le sue armi e il suo cavallo a cercare avventure e a cimentarsi in tutte le imprese in cui aveva letto che si cimentavano i cavalieri erranti, combattendo ogni sorta di sopruso ed esponendosi a prove pericolose, da cui potesse, dopo averle condotte a termine, acquistarsi fama immortale.

     Leggendo questa pagina - soprattutto in virtù dei nomi dei personaggi citati [Don Belianigi, Palmerino d’Inghilterra, Amadigi di Gaula, il Cavaliere del Febo, Don Galaor, Rinaldo da Montalbano] - forse vi è venuto in mente che abbiamo iniziato il nostro viaggio, a ottobre, in compagnia di Ludovico Ariosto. Ebbene, tanto Ludovico Ariosto in Italia quanto Miguel de Cervantes in Spagna pescano nello stesso bacino, e non aggiungo altro se non che tanto i volumi che contengono il testo del Don Chisciotte quanto i volumi che contengono il testo de L’Orlando furioso, di solito, sono dotati di note per facilitare il riconoscimento dei personaggi citati, anche se non è propriamente necessaria una precisa identificazione di tutte le figure letterarie menzionate per capire il senso del discorso.

     L’altro protagonista fondamentale del Don Chisciotte è la celebre “spalla” del cavaliere: Sancho Panza, che è diventato un formidabile modello letterario. Sancho Panza è forse uno scudiero? Ma neppure per sogno: Sancho è un povero contadino analfabeta armato del suo buon senso popolare [e, a questo proposito, abbiamo già incontrato Bertoldo e Giulio Cesare Croce]. A colpi di buon senso Sancho cerca invano, di attenuare le bizzarre iniziative del suo padrone, iniziative “bizzarre” perché sono tutte orientate a fin di bene: voler far del bene è bizzarria nella società feudale [ironizza Cervantes]?

     Sancho Panza e Don Chisciotte sono due varianti dello stesso personaggio e, come dicono le studiose e gli studiosi, via via, su quella strada [su quella “ruta”] Sancho si “Chisciottizza” e Don Chisciotte si “Sanchifica” per cui trovano sempre il modo di dare “un comune senso” alle avventure che vivono. Cervantes fa scagliare Don Chisciotte, e con lui anche Sancho, contro “il senso-comune” [anche Cervantes è un copernicano al modo di Bruno che considera con maggior favore i paradossi piuttosto che i luoghi comuni] e se l’andare contro il senso-comune scatena la comicità e genera la sconfitta dei personaggi [non si può andare contro i mulini a vento senza pagarne le conseguenze, non si può corteggiare una presunta signora come Dulcinea senza cadere nel ridicolo] tuttavia è vero anche che il fatto del “mettersi contro” genera in chi legge la tenerezza, la compassione, la solidarietà con i personaggi stessi [e se i mulini a vento di proprietà dei feudatari - che lesinano la farina ai contadini - fossero davvero dei giganti cattivi? E perché Dulcinea non merita comunque di essere trattata come una signora? In concomitanza con ogni paradosso c’è una riflessione che Cervantes propone di fare]. Don Chisciotte e Sancho Panza fanno tenerezza soprattutto per come sanno essere solidali tra loro sebbene siano persone così diverse, e l’autore vuole che il loro rapporto rappresenti la realizzazione di un comune sentire, umano ed esistenziale [il concetto di “comunitarismo” che si ritrova ne La città del Sole di Campanella].

      Don Chisciotte ha come obiettivo quello di conquistare un’isola [una terra promessa da governare con giustizia, e Campanella colloca su un’isola La città del Sole], Don Chisciotte vuole conquistare un’isola da donare al suo popolo, un popolo che è formato da una persona sola: il suo presunto scudiero Sancho, l’incredulo, il duro di cervice ma tenace in fedeltà, in spirito di servizio e in senso del dovere.

     E ora leggiamo ancora una pagina dal Don Chisciotte. Le pagine del Don Chisciotte che abbiamo letto questa sera rappresentano la giusta razione giornaliera utile per affrontare la lettura di questo romanzo.

LEGERE MULTUM….

Miguel de Cervantes,  Don Chisciotte

In quello stesso tempo Don Chisciotte si mise a circuire un contadino del vicinato; un uomo dabbene (seppure si può dare questo nome a un povero) ma con molto poco sale nella zucca.  In conclusione tanto disse, tanto lo persuase e tante promesse gli fece, che il pover’uomo si decise a partire con lui e a fargli da scudiero.

Gli diceva fra l’altro Don Chisciotte che lo seguisse volentieri, perché poteva capitargli qualche avventura da guadagnarsi in quattro e quattr’otto un’isola, di cui allora lo avrebbe nominato governatore.  Con queste e altre simili promesse, Sancho Panza, così si chiamava il contadino, lasciò la moglie e i figliuoli, e si collocò come scudiero presso il suo vicino; poi Don Chisciotte si mise a far quattrini, e vendendo una cosa, impegnandone un’altra, ma tutte con molto scapito, mise insieme una discreta sommetta.    Si provvide anche di uno scudo rotondo che chiese in prestito ad un amico, e rabberciata meglio che poté la celata rotta, avvisò il suo scudiero Sancio del giorno e dell’ora che pensava di mettersi in cammino, perché anche lui si provvedesse del necessario, e gli disse di portar delle bisacce.

Il contadino rispose che l’avrebbe portate, e che pensava anche di portare con sé un suo asino bravissimo, perché lui di camminare a piedi non era buono. Su questo affare dell’asino Don Chisciotte stette un po’ perplesso, cercando di ricordarsi se c’era stato mai un cavaliere errante che si fosse menato dietro uno scudiero montato all’asinesca, e non gliene venne in mente punti; tuttavia gli disse di portarlo, col proposito di sistemar poi il suo scudiero su una più onorevole cavalcatura alla prima occasione in cui potesse togliere il cavallo a qualche poco cortese cavaliere in cui s’imbattesse.

Si provvide di camicie e di quante altre cose poté, conforme al consiglio che gli aveva dato l’oste, e fatti tutti questi preparativi, una bella notte, senza nemmeno dire addio, Sancho alla moglie e ai figliuoli, Don Chisciotte alla nipote e alla governante, uscirono dal paese senza essere visti da nessuno, e camminaron tanto che all’alba si tennero sicuri che, se anche li avessero cercati, non li avrebbero trovati. Andava Sancho Panza sulla sua cavalcatura come un patriarca, con le bisacce, con l’otre e con una gran voglia di vedersi governatore dell’isola che il suo padrone gli aveva promessa.

Don Chisciotte prese la medesima strada che aveva preso nel primo viaggio, cioè attraverso la pianura di Montiel, ma procedeva con minore oppressione della prima volta, perché era di mattina presto, e i raggi del sole, venendo di traverso, non davano tanta noia.

Sancho Panza intanto a un certo punto disse: «Guardi bene, signor cavaliere errante, di non dimenticarsi dell’isola che mi ha promesso, perché io la saprò governare benissimo, per quanto grande possa essere»

«Amico Sancho» gli rispose Don Chisciotte «tu devi sapere che fu un uso molto comune tra gli antichi cavalieri erranti quello di nominare i loro scudieri governatori delle isole e dei regni che conquistavano, ed io sono deciso a impedire che un uso così lodevole, vada perduto per colpa mia. Anzi penso di andar più in là, perché gli antichi molte volte, e forse le più, aspettavano che i loro scudieri fossero vecchi, e quando erano stanchi di servire e di passare giorni cattivi e peggiori notti, davan loro qualche titolo di conte, o tutt’al più di marchese, di qualche valle o provincia più o meno importante; ma se Dio ci dà vita, potrebbe essere benissimo che prima di sei giorni io conquistassi un regno, da cui ne dipendessero degli altri, in modo che l’occasione si prestasse proprio bene per darne uno a te. E non credere che questa sia cosa straordinaria, perché accadono ai cavalieri erranti cose e casi mai visti e così impensati, che facilmente ti potrei dare anche di più di quel che ti prometto».

«Allora» rispose Sancho Panza «se per qualche miracolo di quelli che dice lei, io diventassi re, la mia donna, Giannina Gutierrez, verrebbe per lo meno ad essere regina, e i miei figliuoli principi ereditari».

«E chi lo mette in dubbio?» rispose Don Chisciotte.

«Io, lo metto in dubbio» replicò Sancho Panza «perché io credo che se anche Iddio facesse piovere regni sulla terra, in capo a Maria Gutierrez non ce ne starebbero punti. Lei deve sapere che come regina non vale due soldi; contessa andrebbe un po’ meglio, e magari volesse Iddio!»

«Lascia fare a Dio, Sancho» rispose Don Chisciotte «e lui le darà quel che conviene di più, ma non ti umiliare tanto da contentarti d’essere di meno che governatore».

«Oh, no! non dubiti» rispose Sancio «tanto più che lei è un padrone così buono e così potente, che mi saprà dare tutto quello che mi starà bene a mano, e che sarò capace di reggere».

     A noi che cosa può ancora dare Don Chisciotte? Ci può dare ancora la possibilità di fare un viaggio.

     A questo punto non possiamo rinunciare a fare un viaggio nella penisola Iberica e, per la precisione, nella regione della Mancha. Per la nostra delizia di viaggiatrici e di viaggiatori dobbiamo sapere che nella regione della Mancha c’è la Strada di Don Chisciotte [la Ruta de don Quijote]. La Ruta de don Quijote parte dalla cittadina di Quintanar de la Orden che si trova in una zona ricca di vigneti. Poi la Ruta de don Quijote passa per il paese di El Toboso dove c’è un gran monumento a Don Chisciotte e dove si trova la Casa di Dulcinea che è una casa-museo del ‘500 appartenuta a Doña Ana Zarco de Morales, la Dulcinea di Cervantes, e in questa casa-museo ci sono tanti oggetti dell’epoca e poi c’è una Biblioteca che conserva tutte le edizioni mondiali del romanzo. Una cinquantina di chilometri più a sud, vicino alla cittadina di Tomelloso, c’è il paese di Argamasilla de Alba che è il borgo della Mancha dove Cervantes fa, virtualmente, nascere e morire Don Chisciotte. Poi si raggiunge Mota del Cuervo che è un pittoresco villaggio sul fianco di un colle dove, intorno a un castello diroccato, si possono vedere numerosi mulini a vento: aguzzate la vista perché potreste prenderli per giganti. Vicino a questo villaggio, a 16 chilometri in direzione nord-est, c’è Belmonte, situato a 800 metri di altitudine, un villaggio fortificato come se fosse un enorme castello, una costruzione molto armoniosa del XV secolo con molte torri, ed era l’abitazione dei marchesi di Villena e, forse, Don Chisciotte [e, di conseguenza, Cervantes] avrebbe voluto vivere qui, nel castello di Belmonte dove, invece, vi ha abitato, nell’800, Eugenia de Montijo, la futura moglie dell’imperatore francese Napoleone III [ma questa è un’altra storia che riguarda pure gli avvenimenti del Risorgimento italiano e vede coinvolti anche la contessa di Castiglione e Costantino Nigra].

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Ci sono tante cose da vedere, da conoscere, da capire su la Ruta de don Quijote: avete i riferimenti e, quindi, potete seguire questa via sull’atlante geografico, su una guida della Spagna e navigando in rete, buon viaggio...

     E ora, per concludere, torniamo a occuparci di fra’ Tommaso Campanella che è in galera da vent’anni e, mentre circola per l’Europa la sua Apologia per Galileo, c’è anche un movimento sotterraneo che opera per la sua scarcerazione.

     All’inizio di luglio del 1623 fra’ Tommaso Campanella viene informato della morte [avvenuta l’8 luglio] del papa Gregorio XV, Alessandro Ludovisi, nato a Bologna da famiglia fiorentina nel 1554 ed eletto papa nel 1621 all’unanimità nel secondo giorno di conclave. Dopo averlo nominato cardinale, Gregorio XV aveva affidato la sovrintendenza generale della curia [che conferiva pieni poteri nel governo temporale della città di Roma] al suo amatissimo e giovane nipote Ludovico Ludovisi che era già un esperto collezionista d’arte e crea, in Roma, la grandiosa Villa Ludovisi sugli antichi orti sallustiani.

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Con una guida di Roma e navigando in rete andate a visitare Villa Ludovisi

     Con la collaborazione del nipote Ludovico, Gregorio XV aveva operato attivamente per attuare la Controriforma in tutta Europa [perché il cattolicesimo prevalesse sul protestantesimo] e questa attività era stata accompagnata dalla creazione della congregazione De propaganda Fide chiamata a organizzare e dirigere l’opera missionaria in tutto il mondo [oggi si chiama “Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli”]. Quattro grandi figure della riforma cattolica - Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Filippo Neri e Teresa d’Avila - sono state santificate contemporaneamente da Gregorio XV il 22 marzo 1622.

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Volendo con l’enciclopedia, utilizzando la biblioteca e navigando in rete potete conoscere meglio questi personaggi già piuttosto noti...

      Quando fra’ Tommaso Campanella apprende la notizia della morte di papa Gregorio XV [l’8 luglio 1623], scrive immediatamente una Pro conclavi admonitio [Monito per il prossimo conclave] e indirizza questo documento a due influenti cardinali elettori, Scipione Borghese e Ludovico Ludovisi, e il 6 agosto 1623 viene eletto il cardinale Maffeo Barberini come auspicava fra’ Tommaso nel suo scritto.

     Il cardinale Maffeo Barberini è nato a Firenze nel 1568 [è coetaneo di Campanella] in una famiglia che si è arricchita con i commerci, prende il nome di Urbano VIII e regnerà più di vent’anni, fino al 1644, e prossimamente, incontrando Galileo Galilei, avremo ancora a che fare con lui.

      Fra’ Tommaso aveva auspicato l’elezione a papa del cardinale Maffeo Barberini in quanto persona amante dell’arte e della scienza e poi perché nel 1616 si era espresso a favore di Galileo [nel momento in cui lo scienziato pisano viene convocato dal Sant’Uffizio] e poi fra’ Tommaso sa che il cardinale conosce e apprezza le sue Opere. Il cardinale Maffeo Barberini, con il titolo di arcivescovo di Nazareth, ha soggiornato fino al 1608 a Barletta in Puglia nei territori spagnoli e non è escluso che, passando per Napoli, abbia anche fatto visita [come semplice frate] a Campanella prigioniero.

     Sta di fatto che Urbano VIII, appena eletto papa il 6 agosto 1623, inizia una trattativa riservata con il re Filippo IV di Spagna, una trattativa che dura nel tempo e che va a buon fine: infatti tre anni dopo il 5 luglio 1626 fra’ Tommaso Campanella, travestito da prete e sotto il falso nome di don Giuseppe Pizzuto, sotto scorta di due agenti travestiti da frati e incatenato, s’imbarca nel porto di Napoli su una nave che lo porta a Ostia e poi, lungo il Tevere, a Roma dove viene rinchiuso nella prigione del Sant’Uffizio sotto stretta sorvegliava. Starà in questa prigione romana ancora per tre anni durante i quali scrive una serie di memorie in difesa dei contenuti delle sue maggiori Opere, finché l’11 gennaio 1629, il tribunale dell’Inquisizione di Roma, sollecitato dal papa, emette una sentenza che lo proscioglie e gli accorda la libertà, e fra’ Tommaso intraprende subito, per iscritto, una serrata trattativa con il Sant’Uffizio per chiedere la liberazione delle sue Opere dall’Indice, e il 6 aprile 1629 la sua richiesta viene accolta.

     A questo punto papa Urbano VIII assume fra’ Tommaso Campanella come consigliere per “le questioni astrologiche” [il papa ritiene sia più prudente non usare il termine “astronomiche” per non fomentare polemiche da parte dei molti nemici di Campanella] e in questo periodo s’intensifica la corrispondenza tra fra’ Tommaso e Galileo.

     Dal 1631 fra’ Tommaso Campanella viene invitato a tenere nel seminario di Frascati una serie di cicli di Lezioni di Filosofia naturale [e divulga il sistema di Bernardino Telesio] e una serie di Lezioni sulla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso. Finché succede che, all’inizio del 1634, arriva dal tribunale spagnolo di Napoli una richiesta di estradizione nei confronti di fra’ Tommaso Campanella con l’accusa di attentato alla sicurezza del Regno spagnolo in Italia. Fra’ Tommaso viene accusato di essere l’ispiratore di una congiura organizzata da Tommaso Pignatelli al fine di assassinare il Viceré spagnolo e di far scoppiare l’insurrezione. Fra’ Tommaso invia una memoria al tribunale napoletano dove dichiara di non aver nulla a che fare con questa cospirazione ma i giudici rispondono ribadendo la richiesta di estradizione e, a questo punto, con il tacito coinvolgimento del papa e dell’ambasciata francese presso la Santa Sede, nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 1634, travestito da frate minore, con il nome di fra’ Lucio Berardi, raggiunge Ostia e, via mare, fugge verso la Francia, sbarca a Marsiglia e il 15 novembre è a Lione dove scopre che i Libri del suo trattato di Medicina sono già stati stampati.

     Il 5 febbraio 1635 fra’ Tommaso è a Parigi dove viene ricevuto, molto benevolmente, dal re Luigi XIII [molto soddisfatto di essere riuscito a fare un torto agli Spagnoli] il quale gli assegna anche una modesta pensione [«Che mi viene pagata sempre in modo discontinuo e in ritardo», scrive amareggiato Campanella]. A Parigi fra’ Tommaso Campanella cura, insieme al tipografo Dubray, una nuova edizione di tutte le sue Opere più importanti e continua a tenere una fitta corrispondenza con molte persone, papa Urbano VIII e Galileo Galilei compresi.

     [Inoltre fra’ Tommaso entra nelle grazie anche del cardinale Richelieu che si è molto divertito a leggere La città del Sole, ma mi par di capire che fra’ Tommaso non è particolarmente interessato a che si metta in evidenza questa sua frequentazione. A me è venuto in mente un incipit: «Il primo lunedì di aprile del 1625 ...», ’incipit di un romanzo che s’intitola I tre moschettieri di Alexandre Dumas padre. Da quanto tempo non rileggete questo romanzo? Fra’ Tommaso si sarebbe divertito moltissimo a leggere il testo di una narrazione a lui contemporanea. E con l’incipit de I tre moschettieri siamo giunti all’epilogo].

     Il 21 giugno 1639 fra’ Tommaso, attorniato dai suoi confratelli, muore nel convento di rue Saint-Honoré, dove fra’ Tommaso ha alloggiato da quando si è trasferito a Parigi. Il convento dei domenicani di rue Saint-Honoré diventerà poi il convento di San Giacomo dove nel 1789 verrà fondato il club dei Giacobini, ma questa è un’altra storia della quale ce ne occuperemo a suo tempo. La notizia della morte di fra’ Tommaso viene data dal padre priore Sébastien con questo scarno comunicato: «Oggi, 21 giugno 1639, il frate calabrese Tommaso Campanella è santamente spirato tra le preghiere dei confratelli in pace con Dio e con il mondo».  E capiamo quale sia stata l’ultima volontà di fra’ Tommaso Campanella: essere ricordato con il termine “calabrese”, a monito dei potenti!

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Anche il nome di fra’ Tommaso Campanella [come quello di Giordano Bruno] è stato collocato dalle studiose e dagli studiosi di astronomia nell’alto dei cieli, infatti, gli è stato dedicato un asteroide che si chiama “Tommaso 4653”…

     Fra’ Tommaso Campanella ha scritto numerose poesie per riflettere sulle sue convinzioni religiose, filosofiche e politiche. Le Poesie di fra’ Tommaso Campanella sono state pubblicate nel 1622 a Francoforte dall’editore Tobia Adami insieme alla Apologia per Galileo e con Galileo Galilei - sponsorizzato da fra’ Tommaso - abbiamo appuntamento tra due settimane.

     Le Poesie di fra’ Tommaso Campanella le trovate in biblioteca e si possono leggere con l’utile ausilio delle note. Il testo di una di queste poesie è sempre stato indicato come se fosse il testamento religioso, filosofico e politico di fra’ Tommaso e s’intitola Io nacqui a debellar tre mali estremi. Quali sono i mali che fra’ Tommaso vuole debellare? Sono: la tirannide [il sistema feudale profondamente ingiusto che non riconosce i diritti della persona], la sofistica [il sistema accademico che non vuole e non sa divulgare il sapere tra le persone] e l’ipocrisia [il sistema ecclesiastico che spesso non è coerente con i valori del Vangelo]. Per fortuna, scrive Campanella, la Giustizia divina [Temi, la dea della Giustizia] mi ha insegnato i tre supremi principi - la Potenza, la Sapienza e l’Amore [gli attributi divini] - sui quali si basa la nuova filosofia, una filosofia capace di contrastare i tre mali che fanno piangere il mondo perché producono tante sciagure [carestie, guerre, pesti, invidia, inganno, ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno] e che alimentano l’egoismo [il cieco amor proprio] che è figlio dell’ignoranza, la mala pianta che tutte e tutti, scrive Campanella, ci dobbiamo impegnare a debellare.

     Leggiamo, per concludere, il testo di questa poesia che trovate in REPERTORIO ... [e, poi, con comodo, se necessario, leggerete per conto vostro anche le note tra parentesi che ne facilitano la comprensione].

LEGERE MULTUM….

Tommaso Campanella, Io nacqui a debellar tre mali estremi

Io nacqui a debellar tre mali estremi [Io sono nato per debellare i tre mali più gravi]:

tirannide, sofismi, ipocrisia  [la tirannide, la sofistica e l’ipocrisia];

ond’or m’accorgo con quanta armonia [e m’accorgo quanto armonicamente]

Possanza, Senno, Amor m’insegnò Temi. [la Giustizia divina mi abbia insegnato la Potenza, la Sapienza e l’Amore]

 

Questi princìpi son veri e sopremi [Questi tre princìpi sono le verità supreme]

della scoverta gran filosofia, [della grande filosofia ora riscoperta]

rimedio contra la trina bugia, [a rimedio della triplice menzogna]

sotto cui tu piangendo, o mondo, fremi. [sotto cui tu, o mondo, fremi piangendo]

 

Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno, [Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno]

ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno, [ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno]

tutti a que’ tre gran mali sottostanno, [da quei tre gravi mali discendono]

che nel cieco amor proprio, figlio degno d’ignoranza, [e nel cieco amor proprio figlio degno dell’ignoranza

radice e fomento hanno. [quei tre gravi mali si fondano e trovano sostentamento]

Dunque a diveller l’ignoranza io vegno. [Perciò io vengo a sradicare l’ignoranza.]

     Abbiamo il diritto e il dovere, scrive Campanella, di promuovere l’Apprendimento permanente per “sradicare l’ignoranza”. Per contrastare l’ignoranza “non dobbiamo mai perdere la volontà d’imparare” e questa è un’affermazione che ha costituito e costituisce il patrimonio ideale di ogni movimento di liberazione [Un esempio per tutti: il professor Leone Ginsburg, nell’ultima lettera scritta a sua moglie Natalia prima di morire il 5 febbraio 1944 a causa dei maltrattamenti subiti nel carcere di Regina Coeli da parte dei nazisti, scrive: «Mia cara, qualunque cosa succeda tu continua a leggere, a scrivere e non perdere mai la volontà di imparare …».

     Quindi, consapevoli del fatto che bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, la Scuola è qui e il viaggio continua, tra quindi giorni, a maggio.

      Ebbene: viva il 25 aprile e viva il 1° maggio!...

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 20, 2018