ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 7-8-9 novembre 2018
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600
NASCE IL DIALOGO SULLA SERVITù VOLONTARIA ...
Ben tornate e ben tornati a Scuola. Stiamo viaggiando - questo è il quarto itinerario - sul territorio de “la sapienza poetica e filosofica agli albori dell’Età moderna” [siamo alla fine del ‘500] e ci troviamo in compagnia di Michel de Montaigne, l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano.
In queste prime settimane di viaggio abbiamo preso atto che esiste una relazione tra il testo dei Saggi e la biografia dell’autore e, quindi, dobbiamo continuare a procedere tenendo conto di questo elemento, non scandito dalla continuità perché i ricordi dell’autore si dipanano - per sua stessa ammissione - in disordine; un elemento che ci obbliga, come avrete capito dagli itinerari delle scorse settimane, a seguire la via della riflessione continua in chiave diacronica [una via tortuosa]: che cosa significa? Significa che, come sappiamo, Montaigne riflette, e c’invita a riflettere, avendo sempre presente un interrogativo: “come vivere?”, e la sua è una riflessione che si sviluppa contemporaneamente su tre diversi piani cronologici: su quello in cui scrive [con dovizia di particolari] come si comporta mentre vive nel momento presente, su quello del ricordo di come ha vissuto nel passato determinate esperienze nel corso della sua vita e sul livello in cui fa il confronto - leggendo, studiando e citando incessantemente le loro Opere - su come hanno vissuto, in situazioni analoghe alle sue, gli antichi [i Classici della Storia del Pensiero Umano]. Ebbene, questi tre livelli sono connaturati nella mente di ciascuna persona e, infatti, noi assomigliamo a Montaigne [e ciò viene ripetuto in continuazione da chi studia i Saggi e dobbiamo capire il significato di questa affermazione] per cui, se assomigliamo a Montaigne, dovremmo seguire il suo esempio [dovremmo prendere la buona abitudine a fare degli “assaggi”] scrivendo quattro righe al giorno utilizzando liberamente l’impianto diacronico che dà una configurazione al nostro pensiero nel quale l’attualità [ciò che ci accade oggi], la memoria [l’emergere continuo dei ricordi] e la cultura [il dedicarci allo studio] tendono a intersecarsi [e la scrittura si rivela lo strumento adatto per “assaggiare l’esistenza” (scrive Montaigne)]. Ebbene, questi tre livelli connaturati nella mente di ciascuna persona [attualità, memoria e cultura] s’intrecciano nel testo dei Saggi e questa caratteristica [l’ordine disordinato di Montaigne] rende quest’opera un capolavoro letterario che ha, agli albori dell’Età moderna, inaugurato un genere, la saggistica. Dopo questo preambolo di natura metodologica, prendiamo il passo sull’itinerario di questa sera: abbiamo lasciato, quindici giorni fa, il giovane Montaigne alla fine del suo primo itinerario di formazione, pronto per intraprendere una carriera.
Michel de Montaigne, nel 1557 all’età di ventiquattro anni, inizia la sua carriera da magistrato e, dopo un breve tirocinio presso l’Ufficio giudiziario di Périgueux, entra a far parte, come consigliere, del Parlamento di Bordeaux dove fa un incontro importante, un incontro fondamentale per la sua esistenza. Michel ha come collega [più grande di lui di tre anni] un giovane di talento: Étienne La Boétie. Étienne e Michel stringono un’amicizia più che fraterna. Montaigne definisce il suo amico con enfasi chiamandolo: «il più grande uomo di questo secolo», ma procediamo con ordine: chi è Étienne de La Boétie?
Étienne de La Boétie è nato a Sarlat [Sarlat-la-Canèda in Dordogna] il 1° novembre 1530 e, alla morte del padre, che è stato luogotenente del re, va a vivere con lo zio Étienne, curato di Bouilhonnas. Lo zio si occupa della sua formazione e lo avvia agli studi in un momento molto favorevole perché il vescovo di Sarlat, Niccolò Gaddi - che è imparentato con la famiglia Medici [è un cugino di Caterina de’ Medici] - è un umanista formatosi sulla scia delle esperienze scolastiche attivate a suo tempo dall’Accademia platonica fiorentina [attraverso le Opere di Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano, Lorenzo de’ Medici, Michelangelo Buonarroti] e vuole che la sua diocesi - nella quale promuove molteplici attività intellettuali - diventi una sorta di “Atene [o Firenze] del Périgord”. Étienne cresce in questo ambiente culturale, in cui si trova perfettamente a suo agio, e ha la possibilità di imparare bene il greco e il latino e di conoscere un gran numero di opere classiche [a cominciare da quelle di Platone e di Aristotele] appassionandosi alle idee repubblicane dell’antichità, idee che gli permettono di sviluppare un suo pensiero politico. Étienne si iscrive alla Facoltà di Diritto dell’Università di Orléans, una facoltà all’avanguardia per l’epoca perché offre un punto di vista molto originale sugli studi di giurisprudenza: vengono tra l’altro proposte dagli insegnanti di questo ateneo le Opere filologiche di Lorenzo Valla il quale aveva insegnato [Valla è morto nel 1457, quasi un secolo prima] l’interpretazione grammaticale delle espressioni giuridiche e l’analisi semantica dei termini legali per incoraggiare la riflessione sulla Filosofia del diritto e per guidare all’esame critico dei testi giuridici. Étienne de La Boétie si laurea in giurisprudenza il 23 settembre del 1553 e, subito dopo, il 13 ottobre, ottiene la licenza reale che gli apre l’accesso alla carica di consigliere al Parlamento di Bordeaux, carica che ottiene il 17 marzo 1554. Oltre all’esercizio di questa attività istituzionale Étienne de La Boétie si dedica ad approfondire lo studio delle lingue e delle Opere classiche e diventa un ellenista molto esperto e un profondo conoscitore del pensiero e della saggezza antica.
Tre anni dopo, nel 1557 come sappiamo, tocca a Michel de Montaigne entrare, come consigliere, al Parlamento di Bordeaux ed è in questo modo che Michel ed Étienne nel 1558 hanno l’occasione di incontrarsi, di conoscersi e di far crescere la loro amicizia. Montaigne è affascinato [e lo dichiara] da questa persona e diventa un suo grande ammiratore, e La Boétie ricambia l’affetto e la stima dell’amico fraterno e lo indirizza all’approfondimento degli studi classici [parlano tra loro regolarmente in latino] e lo inizia allo studio della Filosofia stoica, epicurea, scettica ed eclettica.
Il sodalizio che si instaura tra i due, purtroppo, s’interrompe drammaticamente [nell’agosto del 1563] a causa della morte di La Boétie a soli trentatré anni, e questa esperienza lascia un segno indelebile nell’animo di Montaigne e certamente la sua opera ha affondato le radici nel rapporto con questo suo «fratello di elezione »[come Montaigne lo chiama]. L’amicizia tra Montaigne e La Boétie si sviluppa in un clima politico molto travagliato: siamo nel pieno dello scontro religioso tra cattolici e protestanti e il Parlamento di Bordeaux viene coinvolto nei sanguinosi disordini - fomentati dalla lega cattolica, associazione paramilitare e fondamentalista - che seguono al diffondersi della Riforma protestante nel sud dell’Aquitania.
Nel Parlamento di Bordeaux [nel 1559] c’è una maggioranza schierata con i cattolici intransigenti che attua una violenta repressione nei confronti dei protestanti. Montaigne e La Boétie si distinguono perché, pur dichiarandosi cattolici, hanno molti amici tra gli intellettuali protestanti e appartengono alla corrente parlamentare minoritaria che auspica la riconciliazione religiosa e la pacificazione, e questo è ciò che vorrebbe anche [mantenendo tuttavia una posizione ambigua perché non vuole scontentare i leghisti cattolici, pericolosi e violenti] Caterina de’ Medici che, in questo momento, vedova del re Enrico II, è la reggente al trono di Francia perché suo figlio, l’erede al trono Carlo IX, è ancora un bambino di dieci anni: in questa delicata situazione politica e sociale, Caterina, nel 1560, affida un incarico segreto di riconciliazione religiosa a La Boétie. Le ragioni per cui viene affidato un difficile incarico a un consigliere così giovane e “di minoranza” sono da ricercarsi soprattutto nelle doti che possiede: Caterina è stata consigliata nella scelta da suo cugino, il vescovo Niccolò Gaddi, che ha tessuto le lodi di La Boétie [che si è formato - intellettualmente, politicamente e umanamente - all’Accademia di Sarlat] il quale inizia pazientemente a operare per fermare l’azione repressiva attuata, fino a quel momento, dal Parlamento di Bordeaux nei confronti dei non cattolici. Nell’eseguire il suo delicato incarico, Étienne de La Boétie conosce e diventa amico del cancelliere Michel de l’Hospital, che nella sede del governo centrale, a Parigi, opera, incoraggiato da Caterina de’ Medici, per realizzare una politica di tolleranza religiosa e di pace sociale. Il cancelliere Michel de l’Hospital, giovandosi della consulenza di Étienne de La Boétie, che lo affianca, fa approvare un’ordinanza degli Stati Generali di Francia [del parlamento della nazione riunito a Orléans il 31 gennaio 1561] che prescrive “la tolleranza religiosa” e, a questo punto, Étienne de La Boétie ottiene che nel Parlamento di Bordeaux si giunga a una soluzione pacifica di compromesso, sostanzialmente soddisfacente per entrambe le parti, cattolica e protestante.
Étienne de La Boétie diventa una delle personalità di spicco della politica europea di conciliazione religiosa e, in proposito, scrive [e viene pubblicato nel 1561] un Mémoire sur l’Edit de Janvier in cui denuncia i pericoli connessi agli scontri religiosi e la dannosità della repressione violenta che porta alla lacerazione all’interno degli Stati, una lacerazione che produce sottosviluppo morale ed economico; a suo avviso, la strada per la pacificazione era quella di aprire un dialogo tra cattolici e protestanti per dare corso a “un cristianesimo riformato” fondato su principi condivisi attinti dalla Letteratura dei Vangeli.
Nella primavera del 1562, improvvisamente, Étienne de La Boétie si ammala e Michel de Montaigne, fortemente amareggiato, lo assiste amorevolmente. Il 14 agosto 1563 Étienne de La Boétie redige il suo testamento nominando l’amico, che non ha mai abbandonato il suo capezzale, erede delle sue Opere. Il 18 agosto 1563 Étienne de La Boétie muore tra le braccia di Montaigne che, terribilmente scosso da questa esperienza, inizia [dopo un periodo di disorientamento] a riflettere come prima non aveva mai fatto sulla morte e sul senso dell’esistenza umana, e questa riflessione lo porta a cambiare radicalmente stile di vita. Sulla scia della riflessione di Montaigne prenderanno forma, attraverso l’esercizio della scrittura, dieci anni dopo la morte dell’amico, i Saggi.
Étienne de La Boétie è nato [come abbiamo detto] a Sarlat [Sarlat-la-Canèda in Dordogna] e questa località conserva e promuove la memoria di questo importante personaggio sulla cui opera principale dobbiamo ancora riflettere. Sarlat-la-Canèda è una pittoresca cittadina del Périgord che conserva intatto il suo aspetto medioevale ed è il punto di partenza per raggiungere le celebri grotte preistoriche scoperte a ridosso di questo territorio, in particolare quella di Lascaux. La casa rinascimentale nella quale è nato Étienne de la Boétie si trova proprio nel centro dell’abitato, sulla piazza principale [la place du Peyrou, accanto all’antico palazzo vescovile del XVI secolo] ma i monumenti da visitare, di cui questa cittadina è ricca, sono molti.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Francia e navigando in rete fate un’escursione a Sarlat-la-Canèda anche per onorare la figura di Étienne de La Boétie, buon viaggio...
A Étienne de La Boétie [se vogliamo parafrasare il testo della lapide posta all’ingresso della sua casa natale a Sarlat] si riconosce di essere stato un buon politico [purtroppo muore nel momento cui arriva al vertice del suo successo politico quando si prospettava per lui una grande carriera a livello istituzionale], poi gli si riconosce di essere stato un esperto giurista, come abbiamo potuto constatare, ma ogg, lo si ricorda come filosofo e come scrittore. La Boétie è un filosofo che predilige il pensiero di Socrate e che legge i Dialoghi di Platone in chiave scettica: La Boétie legge i testi di Platone in termini socratici [ironici] più che interpretare Socrate in termini platonici e, per questo, è attratto dalle Opere di due autori che hanno questa mentalità: Senofonte e Plutarco. Diciamo subito che anche Montaigne, sulla scia del suo amico La Boétie, influenzato dai suoi studi, assume una simile mentalità e, quindi, procediamo con ordine.
Come si è detto, Étienne de La Boétie oltre ad essere un buon politico, un esperto giurista, un filosofo e uno scrittore è anche, in primo luogo, un filologo molto esperto: a lui si deve la traduzione [dal greco in latino e poi in francese accompagnata da un dotto e valente commento e da un vasto apparato di note] dei testi delle Opere di Senofonte e di Plutarco, due autori che sono comparsi spesso nei nostri Percorsi in questi anni.
Montaigne, nel testo dei Saggi, cita quarantuno volte Senofonte e ottantasei volte Plutarco perché è stato favorevolmente influenzato dagli studi filologici di Étienne de La Boétie. Perché Étienne de La Boétie si dedica allo studio delle opere di questi due personaggi, chi sono e che cosa rappresentano sul piano culturale? Con una battuta possiamo rispondere dicendo che Senofonte e Plutarco attirano l’attenzione di La Boétie e di Montaigne perché nei loro testi invitano la persona che legge a riflettere sul valore etico dei temi riguardanti l’esistenza quotidiana: l’esercizio di moralità [e i giovani La Boétie e Montaigne fanno propria questa idea] deve cominciare dai semplici gesti della quotidianità [dalle forme concrete della vita etica].
E, a questo proposito, sulla scia del lavoro filologico di La Boétie, allarghiamo il nostro ventaglio di conoscenze cominciando da Senofonte. Senofonte, da giovane, è stato un assiduo discepolo di Socrate, è nato ad Atene intorno al 430 a.C. ed è stato il primo autore a scrivere su Socrate e, quindi, è stato il primo a lasciare una testimonianza fondamentale su di lui: una testimonianza più che di carattere filosofico, di carattere apologetico e privato.
L’opera di Senofonte su Socrate, in quattro Libri più uno in appendice, s’intitola Memorabili [Cose e fatti che non si devono dimenticare] ed è un’opera veramente importante per conoscere la storia della vita quotidiana dell’epoca in cui sono vissuti Socrate e Platone che Étienne de La Boétie traduce e commenta [e si capisce che si è molto divertito]. I Memorabili raccontano fatti e comportamenti della vita di Socrate in quanto “maestro” e Senofonte raccoglie i detti e le sentenze del Maestro. La parte più curiosa di quest’opera è rappresentata dal Libro in appendice intitolato Economico in cui Senofonte fa parlare Socrate in termini etici di economia domestica: su come si possa vivere spendendo poco, su come arredare modestamente, ma con gusto, la propria abitazione, su come cucinare in modo creativo e salutare, su come fare le pulizie profumando la casa e consumando poca acqua e pochi detersivi. Poi Senofonte fa parlare Socrate di agricoltura: su come integrare l’economia domestica facendo l’orto in modo da favorire anche lo scarico della nevrosi che la vita convulsa delle polis greche dell’epoca procurava [si capisce che Étienne de La Boétie prova piacere a tradurre e commentare queste opere]. Senofonte scrive anche due dialoghi dove Socrate è protagonista che s’intitolano: Simposio e Apologia di Socrate, ma queste due opere, rispetto ai dialoghi omonimi di Platone, sono considerate modeste, hanno in comune solo il titolo.
Poi Étienne de La Boétie traduce un’altra celebre opera di Senofonte intitolata Anàbasi, in sette Libri. Anàbasis, in greco, letteralmente significa “salita-ascensione”, ma, in senso più ampio, significa “spedizione dalle coste verso l’interno di una regione”, infatti in quest’opera Senofonte narra la guerra civile in Persia tra Ciro il Giovane e il fratello Artaserse. Senofonte partecipa nell’esercito di Ciro il Giovane [Atene lo sostiene militarmente] a questa guerra in cui Ciro viene sconfitto e Senofonte guida la ritirata dei diecimila Ateniesi che hanno combattuto con Ciro da Babilonia a Bisanzio e da Bisanzio ad Atene. Il fatto è che Senofonte si preoccupa in minima parte di narrare gli avvenimenti che oggi consideriamo storici, perché vuole raccontare il viaggio [e questa scelta piace molto ad Étienne de La Boétie]: Senofonte è attratto e si dedica soprattutto alla descrizione del territorio, dei fenomeni naturali, è interessato al racconto dei sogni che fa, ed è incuriosito dai caratteri delle popolazioni che incontra. Torna in Atene [accolto come un eroe ma la sua gioia ha subito fine] nella primavera del 399 a.C. proprio nei giorni dell’agonia e della morte di Socrate, il suo maestro. Senofonte si adira fortemente contro i membri del governo di Atene che non hanno preso alcun provvedimento per salvare la vita di Socrate [anche un governo che si dichiara democratico può essere tirannico? Si domanda Étienne de La Boétie] e Senofonte, di conseguenza, emigra e se ne va a vivere nel territorio di Sparta: si stabilisce nella campagna di Scillunte vicino a Olimpia e lì scrive le Opere di cui stiamo parlando, tra cui quella che viene considerata la più importante intitolata Ciropedia [L’educazione di Ciro].
La Ciropedia di Senofonte, che Étienne de La Boétie traduce con grande interesse, l’abbiamo sentita citare durante il Percorso di due anni fa, leggendo un frammento del Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione [forse ve ne ricordate] che consiglia di leggerla come opera esemplare sul tema dell’educazione. La Ciropedia, in otto Libri, è un vero e proprio “romanzo storico” in cui è descritta la vita e l’educazione di Ciro il Grande fondatore dell’impero persiano, che viene presentato come il tipo ideale del sovrano. Quest’opera vuol presentare un quadro ideale al fine di dimostrare che l’educazione migliore è quella basata sulla disciplina della vita spartana e sugli insegnamenti etici di Socrate. Étienne de La Boétie definisce Senofonte come uno scrittore che merita il titolo di “poligrafo”, un termine che noi possiamo tradurre come “giornalista di qualità”, e La Boétie intende fargli un complimento in quanto lo ritiene un artista più che uno storico e un filosofo, perché il suo stile è semplice, piano e, proprio per questo, molto elegante, e La Boétie ribadisce ciò che nei secoli è stato detto di lui: che “la sua opera è di dolce utilità” e, di conseguenza, è stato soprannominato “l’ape attica”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è qualcosa di “dolce” che voi oggi apprezzate: un oggetto, una persona, un ricordo, un paesaggio, un sentimento, o che cosa?…
Bastano quattro righe per rispondere, scrivetele…
Étienne de La Boétie ricorda come, nell’opera intitolata Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, Diogene Laerzio, che ne è l’autore alla metà del III secolo [intorno al 250 d.C.], scrive che Senofonte era «modesto e di bellissimo aspetto» e narra il suo mitico incontro con Socrate. Leggiamo questo frammento significativo, lo stesso che, probabilmente, Fedra Inghirami ha letto a Raffaello in presenza di Giulio II e del Bramante in modo che il pittore s’ispirasse per ritrarre Senofonte ne La Scuola di Atene.
LEGERE MULTUM….
Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi
Una mattina Socrate incontra Senofonte in una strada stretta del centro di Atene e gli tende il bastone per fermarlo, lo ferma e gli chiede dove si possa fare la spesa.
Senofonte - ragazzo modesto e di bellissimo aspetto - risponde e lo indirizza verso il mercato. Ma Socrate gli chiede ancora se al mercato ci sia una bancarella che venda cose con le quali le persone possano diventare virtuose. A questa domanda Senofonte non sa rispondere ma rimane a pensare. Allora Socrate, vedendolo riflettere, dice: “Vieni, seguimi e apprendi”, così Senofonte è diventato discepolo di Socrate. …
Étienne de La Boétie afferma che questo brano - con Socrate e Senofonte come protagonisti - descrive “un incontro erotico” perché questo frammento spiega qual è il vero significato del termine “erotico”: l’erotismo è la tensione verso la conoscenza, è l’opportunità per cui si mette in moto il processo di apprendimento.
Poi Étienne de La Boétie traduce e commenta le opere di Plutarco di Cheronea.
Plutarco di Cheronea è vissuto nel I secolo [tra il 46 e il 127 d.C.], ha studiato e si è formato ad Atene ma ha abitato in molti periodi della sua vita a Roma dove ha insegnato filosofia con grande successo e ha goduto il favore degli imperatori Traiano e Adriano. Plutarco ha composto molte opere che si sono conservate nel tempo: la più importante [che Étienne de La Boétie traduce con grande interesse] s’intitola Vite parallele ed è formata da cinquanta biografie di cui 46 abbinate in modo che alla vita di un greco viene contrapposta quella di un romano, quindi, quest’opera costituisce come un sommario di tutta la storia greca e romana attraverso le figure dei personaggi più famosi. Poi Plutarco ha scritto gli Opuscoli morali [in greco “Apophthegmata Plutarchensis” semplificato in “Ethica”, “Moralia” in latino]. Di questi Opuscoli ce ne sono pervenuti 83 che trattano dei più svariati argomenti: storia, letteratura, politica, filosofia, pedagogia. Questi Opuscoli [che Étienne de La Boétie traduce con grande interesse e ciascuno dei quali può essere definito un saggio] sono molto importanti per il gran numero di notizie che ci hanno tramandato, e hanno avuto un successo straordinario in età medioevale e in età moderna.
L’opera di Plutarco ha avuto un grande influsso sulla letteratura europea moderna [e la traduzione di Étienne de La Boétie ha contribuito al successo di quest’opera e all’influsso che ha avuto]: prima di tutto sui Saggi di Montaigne, poi nella tragedia, a cominciare da Shakespeare, Corneille e Racine, fino all’Alfieri, a Goethe, a Schiller, a Rousseau, a Leopardi, tutti personaggi che abbiamo già incontrato e che, a suo tempo, rincontreremo. Plutarco non è propriamente uno storico, anche lui viene considerato da Étienne de La Boétie “un poligrafo”, “un buon editorialista” che scrive per motivi politici e morali: Plutarco di Cheronea [ed Étienne de La Boétie mette bene in evidenza questo fatto] riflette, e invita a riflettere, sul tema del rapporto di amore e odio tra la cultura greca e la cultura latina, infatti Plutarco scrive in modo da mettere in evidenza la superiorità dei Greci rispetto ai Romani perché Plutarco vuole, in tutte le sue opere, sottolineare il fatto che i Romani hanno vinto e hanno sottomesso militarmente l’Ellade ma culturalmente il mondo greco continuerà a essere superiore a quello romano. Étienne de La Boétie e Michel de Montaigne fantasticavano di poter viaggiare in Grecia con Senofonte e con Plutarco e, sulla scia dei loro desideri, cogliamo l’occasione per fare un’escursione - utilizzando l’enciclopedia, una guida della Grecia e la rete - nella regione in cui è nato Plutarco, la Beozia [di solito quando si va in Grecia non si visitano questi posti che passano inosservati eppure sono importanti perché culturalmente molto evocativi]: oggi Cheronea è un villaggio di 750 abitanti circa che si chiama Herónia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Sapete che cos’è il Leone di Cheronea? Andate a fare una ricerca a Herónia... Poi c’è da visitare il capoluogo della Beozia, la cittadina di Livadià, qui ci sono le Gole dell’Erkinas, sapete di che cosa si tratta?… Poi, in Beozia, si può ancora visitare la cittadina di Orhomenós o Orcómeno dove si può cercare Minias e scoprire che cos’è il Tesoro di Minias...
Fate una ricerca in compagnia di Étienne de La Boétie e Michel de Montaigne che sono ottimi compagni di viaggio...
Ma Étienne de La Boétie più che come filologo e traduttore è conosciuto [dovrebbe essere conosciuto] per aver composto un’opera che ha lasciato il segno nella Storia del Pensiero Umano: il Discorso sulla servitù volontaria o Contr’uno. Sulla data di composizione del Discorso sulla servitù volontaria tra le studiose e gli studiosi ci sono diversità di opinioni ma le varie ipotesi [collocate tra il 1546 ed il 1552] incidono poco o nulla sulla sostanza del contenuto di quest’opera.
Étienne de La Boétie dovrebbe aver composto il Discorso sulla servitù volontaria o Contr’uno nel periodo dell’Università, cioè attorno ai 22 anni; tuttavia, secondo Montaigne, la composizione dell’opera sarebbe precedente, cioè La Boétie l’avrebbe scritta prima del 1549, quando aveva 18 anni, e Montaigne afferma di averla letta un po’ di anni prima di aver conosciuto personalmente l’autore. Il testo del Discorso ha avuto un’ampia circolazione clandestina fino al 1576, l’anno in cui è stato pubblicato postumo, a cura della comunità calvinista. Il testo di quest’opera - scritto in modo provocatorio - tratta un tema che è stato e che continua a rimanere di grande attualità; il Discorso di La Boétie ha costituito inizialmente dal 1576 un punto di riferimento [proprio perché scritto da un cattolico] per l’opposizione calvinista alla monarchia cattolica che non tollerava la presenza protestante in Francia: successivamente questo testo è servito al movimento di opposizione contro l’assolutismo dell’Ancien Régime da cui è scaturita la Rivoluzione Francese nel 1789, poi è stato fatto proprio dalle correnti contrarie a Napoleone Bonaparte quando si è auto-incoronato imperatore nel 1804, e, in seguito, questo testo ha rafforzato la protesta repubblicana contro la Restaurazione post-napoleonica attuata dal congresso di Vienna nel 1815, e ancora, alla metà dell’’800, ha fatto da riferimento alla politica socialista e rivoluzionaria dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, in particolare per la corrente libertaria.
Il testo del Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie è stato, dunque, utilizzato per criticare regimi tra loro molto diversi, dimostrando di conservare la sua validità in ogni tempo, compreso l’attuale che, con il manifestarsi della crisi del sistema democratico, porta alla formazione delle cosiddette “democrature” [quei regimi che, sotto le apparenze democratiche, assumono caratteri dittatoriali]. La relazione tra il dominio e l’obbedienza è un tema emergente nel Dialogo di Étienne de La Boétie ed è stato ripreso e sviluppato successivamente da molte studiose e studiosi come per esempio da Simone Weil nel saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale del 1934.
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Quest’opera, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale di Simone Weil, la trovate in biblioteca e potete leggerne qualche pagina…
Dall’inizio del nuovo millennio si è intensificato il dibattito sul fatto che la crisi delle istituzioni democratiche incide negativamente sulla percezione che le persone hanno del concetto di libertà e di autonomia, ed è probabilmente in questo contesto che dal 2006 l’editoria, a livello internazionale, ha riscoperto il Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie e, in Italia, dal 2006 al 2016, quest’opera ha avuto ben sei nuove edizioni. Quali tesi sostiene Étienne de La Boétie nel testo del suo Discorso? Il Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie appare sempre attuale perché si rivolge “contro la tirannia in sé” indipendentemente dalle forme storiche che essa ha assunto e assume.
Étienne de La Boétie sostiene che qualunque tiranno detiene il potere fintanto che i suoi sudditi glielo concedono, perché la libertà originaria, che l’essere umano possiede per Natura, è andata perduta con la formazione della società, e l’individuo, per abitudine, ha preferito la servitù del cortigiano piuttosto che essere una persona libera che rifiuta la sottomissione e l’obbedienza. Il Discorso di La Boétie inizia con lo sviluppo di un’idea che dà il titolo all’opera: l’autore sostiene che la tirannia viene imposta con l’enfasi della proposta [c’è bisogno di un salvatore “provvidenziale”] ed è consensualmente accettata dal popolo il quale [magari brontola, però] acconsente volontariamente di sottomettersi al tiranno. Étienne de La Boétie, sul piano della filosofia politica, pensa che i vincoli di sudditanza siano profondamente radicati nell’intimo delle persone e che, quindi, non basti semplicisticamente “rompere le catene” per risolvere la questione della libertà, come se solo la volontà malefica del tiranno fosse la causa della situazione di asservimento. C’è qualcosa di più profondo nel rapporto tra individuo e servitù e La Boétie afferma che la gestione della libertà dipende dalla presa di coscienza della persona la quale deve acquisire una nuova mentalità [e il problema è educativo] perché, purtroppo, accanto al naturale e innato desiderio di libertà, nell’animo dell’individuo si annida anche “un oscuro desiderio di servire” che non è “il servire richiesto dalla solidarietà” ma è l’asservimento dettato dall’ipocrisia [mi metto al servizio del tiranno per goderne i favori].
La Boétie, da filosofo, invita a riflettere sul concetto del “servire” perché bisogna, in primo luogo, che ogni singola persona impari a distinguere tra l’essere soggetta e il prestare un servizio compartecipe, tra il sottostare e il soddisfare delle giuste richieste, tra l’essere schiava e l’essere utile. Étienne de La Boétie è stato uno dei primi a proporre - se la natura solidale del servire non è chiara - la non collaborazione e, quindi, una forma di disobbedienza non-violenta che possa diventare un’arma realmente efficace. La Boétie scrive di non essere interessato alle «congiure di gente ambiziosa» che vuole soltanto «far cadere una corona, vuole cacciare il despota ma per tenere in vita la tirannide» e auspica un cambiamento e una liberazione profonda dal potere che spinge inevitabilmente l’individuo a essere servile: la persona deve maturare la convinzione di essere “padrona di se stessa” [che uno solo sia il padrone, che la persona sia padrona di se stessa]. Il merito di La Boétie consiste anche nell’aver mostrato il dislivello morale che esiste tra la servitù volontaria e la coscienza critica, e il suo Discorso ha permesso a Montaigne [e a molte altre studiose e studiosi] di intrecciare il piano politico con quello etico: se l’individuo agisce in modo che non ci sia corrispondenza tra etica e politica non fa altro che riprodurre le condizioni che ingenerano il fenomeno della servitù, e i concetti di libertà, di uguaglianza e di fraternità sono destinati a perdere la loro valenza qualitativa.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è “un servizio volontario” che – a proposito di libertà, di uguaglianza e di fraternità - ritenete doveroso svolgere?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora iniziamo a leggere il testo del Discorso sulla servitù volontaria. Étienne de La Boètie inizia il suo scritto con una citazione omerica in cui è Ulisse che parla [il modello della persona che - pur con tutte le sue ambiguità - ambisce sempre ad essere padrona di se stessa], e questa citazione la utilizza mutuandola dal trattato intitolato Politica di Aristotele. Étienne de La Boètie - indipendentemente da quelle che sono, in quel particolare momento, le intenzioni di Ulisse nel prendere la parola [tenere unito l’esercito acheo in rivolta] - vuole che si punti l’attenzione non tanto sul fatto che è utile avere un solo re ma che è necessario avere un solo padrone: essere persone padrone di se stesse.
LEGERE MULTUM….
Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria
«Non è bene aver più padroni; abbiamone uno solo;
Che uno solo sia il padrone, uno solo il re»
Così, secondo Omero, dichiarò in pubblico Ulisse.
Se avesse detto soltanto: «Non è bene aver più padroni», sarebbe bastato. Ma invece di dedurne che la signoria di molti non può essere salutare, poiché il potere di uno solo non appena questi assume il titolo di signore, è aspro e contrario alla ragione, egli aggiunge invece: «Abbiamo un solo padrone …».
Bisogna forse scusare Ulisse di aver tenuto un simile discorso che gli era necessario per sedare l’esercito in rivolta: penso che egli adeguasse le proprie parole più alle circostanze che alla verità. Ma se si riflette, è un’immane sventura esser soggetti a un signore della cui bontà non si può aver mai certezza e che ogni volta che lo vorrà potrà mostrarsi malvagio. L’obbedire a più padroni è quasi sempre un’altrettanto grande sventura. Non intendo qui affrontare la questione tante volte dibattuta, cioè «se altre forme di repubblica siano migliori della monarchia». Se dovessi discuterne, prima di cercare qual posto spetta alla monarchia fra i vari tipi di governo, chiederei se è poi il caso di attribuirgliene uno, poiché è difficile che vi sia qualcosa di pubblico in un governo dove tutto è di uno solo. Ma rimandiamo ad altro momento una questione che meriterebbe un trattato a parte e che scatenerebbe tutte le possibili controversie politiche. Per il momento vorrei solo capire come mai possa talvolta accadere che tante persone, tanti borghi, tante città, tante nazioni subiscano un solo tiranno che non ha che il potere che essi gli attribuiscono, che può far loro del male solo nella misura in cui esse sono disposte a tollerarlo, e che non potrebbe farne loro alcuno se esse non preferissero subire tutto da lui piuttosto che contraddirlo. E cosa sorprendente - ma così frequente che bisogna più rammaricarsene che stupirsene - di vedere un milione di individui miseramente asserviti, la testa china sotto il giogo, non perché costretti da forza maggiore, ma perché affascinati, per non dire stregati, dal solo nome di quell’uno, che non dovrebbero né temere, perché è solo, né amare perché è inumano e crudele verso tutti loro. Eppure questa è la debolezza degli esseri umani: costretti all’obbedienza, obbligati a temporeggiare, non possono esser sempre i più forti. Se dunque una nazione, piegata con la forza delle armi, viene sottomessa al potere di uno solo - come accadde alla città di Atene durante il dominio dei trenta tiranni - non ci si deve stupire che essa sia asservita, ma deplorarlo. O piuttosto né stupirsene né rammaricarsene, ma sopportare la sventura con pazienza preservandosi per un avvenire migliore. Siamo fatti in modo tale che le occupazioni comuni dell’amicizia assorbono gran parte della nostra vita. È conforme alla ragione amare la virtù, apprezzare le azioni nobili, essere grati dei benefici ricevuti, rinunciare spesso a parte del nostro benessere per accrescere l’onore e il vantaggio di chi amiamo e che merita il nostro amore. Se dunque gli abitanti di un paese trovassero fra di loro una di quelle persone rare che desse loro prova di una lungimiranza tale da salvaguardarli, di un grande ardimento per difenderli, di grande saggezza per governarli; se finissero per abituarsi a obbedirgli e a fidarsi di lei sino ad accordarle una certa supremazia, non so se sarebbe saggio toglierla da lì dove faceva del bene per metterla là dove potrà fare del male; infatti sembra naturale avere buoni sentimenti per chi ci fa del bene e non temer da parte sua alcun male. Ma, che è mai ciò? Come chiameremo questa sciagura? Qual è quel vizio, quel vizio orribile, che fa sì che si veda un numero infinito di persone non solo obbedire, ma servire, non essere governate ma tiranneggiate, senza più beni, né genitori, né figli, né la loro stessa vita che siano veramente loro? Vederle subire le rapine, le prepotenze, le crudeltà non già di un esercito, di un’orda di barbari contro i quali ognuno dovrebbe difendere la propria progenie e la propria vita, ma di un solo individuo! Non già di un Ercole, o di un Sansone, ma di un omiciattolo, spesso il più codardo, il più titubante di quel paese, che mai ha annusato la polvere delle battaglie, né calpestato la sabbia dei tornei, che non solo è incapace di comandare gli uomini ma nemmeno di attirare l’attenzione della più misera donnicciola. La chiameremo viltà? Chiameremo vigliacche e codarde le persone sottomesse? Se due, se tre, se quattro sottostanno a un solo individuo, è strano, ma pur possibile; si potrebbe forse dire: è mancanza di coraggio. Ma se cento, mille persone subiscono l’oppressione di un solo individuo, si potrà ancora dire che essi non osano affrontarlo o che non vogliono farlo, che non è viltà, ma piuttosto disprezzo o sdegno? Infine, se si vedono non cento, non mille persone, ma cento paesi, mille città, un milione di esseri umani non ribellarsi a chi li tratta come servi e schiavi, come qualificheremo tutto ciò? Si tratta di viltà? Ma tutti i vizi hanno i loro limiti. È possibile che due persone e persino dieci abbiano paura di un solo individuo; ma quando mille, un milione di persone, mille città non si difendono contro uno solo, non può trattarsi di viltà: essa non giunge a tanto, così come il coraggio non chiede a una sola persona di scalare una fortezza, di attaccare un esercito, di conquistare un regno. Che vizio mostruoso è mai questo, che non trova un nome sufficientemente brutto, che la natura sconfessa e che la lingua rifiuta di nominare? Si mettano cinquantamila uomini gli uni contro gli altri, li si schierino in ordine di battaglia e che vengano alle mani: gli uni, liberi, combattono per la libertà, gli altri lottano per toglierla ai primi. A quali predireste la vittoria? Quali affronteranno più valorosamente la battaglia: quelli che sperano come ricompensa la salvaguardia della propria libertà, o quelli che si aspettano come ricompensa dei colpi che infergono [danno] e che ricevono solo l’asservimento degli altri? Gli uni hanno sempre davanti agli occhi la felicità passata e la speranza di un’eguale felicità in futuro. Pensano più a quello che dovrebbero soffrire loro stessi, i loro figli e la loro discendenza se venissero sconfitti, che non a quel che soffrono durante una battaglia. Gli altri sono pungolati solo da una confusa cupidigia che si smussa sovente nel pericolo e il cui ardore si spegne nel sangue della prima ferita. Nelle tante famose battaglie di Milziade, Leonida e Temistocle che risalgono a duemila anni fa, ma che nella memoria dei libri e delle persone sono ancora vivide come se fossero state combattute ieri, in Grecia per il bene dei greci e come esempio per il mondo intero, cosa diede a un esiguo drappello di greci non la potenza, ma il coraggio di resistere all’attacco di tante navi che lo stesso mare non poteva contenerle, di vincere un tal numero di nazioni che tutti i soldati greci, messi insieme, non avrebbero fornito un numero sufficiente di capitani agli eserciti nemici? In quelle giornate gloriose, non si trattava solo della battaglia dei greci contro i persiani ma della vittoria della libertà contro la tirannide, della lotta della liberazione contro la cupidigia.
Veramente straordinari sono i racconti del coraggio che la libertà ispira ai cuori di quelli che la difendono! Ma quel che avviene ovunque e ogni giorno: che un individuo solo ne opprima centomila privandoli della libertà, chi potrebbe crederlo, se lo sentisse raccontare e non ne fosse testimone? Se avvenisse solo in paesi stranieri, in terre lontane e ce lo sentissimo raccontare, non ci sembrerebbe pura invenzione?
Ora, questo tiranno solo, non è necessario combatterlo, né abbatterlo. Si dissolve da sé, purché il paese non accetti di essergli asservito. Non si tratta di togliergli qualcosa, ma di non dargli nulla. Non è necessario che il paese si affanni per far qualcosa per sé, purché non faccia niente contro di sé. Sono dunque i popoli stessi a lasciarsi o, per meglio dire, a farsi maltrattare, e sarebbero salvi solo se smettessero di servire. È il popolo che si fa servo e si taglia la gola; che, potendo scegliere fra essere soggetto o essere libero, rifiuta la libertà e sceglie il giogo; che accetta il suo male, anzi lo cerca … Se gli dovesse costare qualcosa la riconquista della propria libertà, non cercherei di spingerlo; anche se deve, più di ogni altra cosa, aver a cuore di riacquistare i suoi diritti naturali e, per così dire, da bestia ridiventare essere umano.
Ma neppure mi aspetto da lui tanto ardire; ammetto che egli possa preferire la sicurezza di una vita misera piuttosto che l’incerta speranza di vivere come desidera.
Ma come! Se per ottenere la libertà, basta desiderarla, se non vi è bisogno di null’altro che una semplice volontà, vi sarà una sola nazione al mondo che reputi di pagarla troppo cara acquistandola con un semplice desiderio? E chi rimpiangerebbe il proprio desiderio di riottenere un bene che si dovrebbe riconquistare a prezzo del proprio sangue e la cui perdita rende amara la vita ad ogni persona e gradita la morte? Certo, come la fiamma di una piccola favilla divampa e va rafforzandosi sempre di più, e più trova legna da ardere, più ne divora, ma si consuma e finisce per estinguersi da sé non appena si cessi di alimentarla, nello stesso modo, più i tiranni saccheggiano, più esigono; più devastano e distruggono, più si dà loro, più li si serve. Questo aumenta la loro forza e li rende sempre più pronti a tutto annientare e distruggere. Ma se non si dà loro più niente, se più non si obbedisce loro, senza bisogno che li si combatta e colpisca, restano nudi e sconfitti e non sono più niente, come il ramo che, non avendo più linfa e alimento alla radice, inaridisce e muore.
Per conquistare il bene desiderato, la persona coraggiosa non teme nessun pericolo, la persona saggia non si scoraggia dinanzi a nessuna fatica. Solo i vigliacchi e i rammolliti non sanno né sopportare il dolore, né riconquistare un bene che si limitano a desiderare. L’energia per pretenderlo viene annullata dalla loro stessa viltà, non resta loro che il naturale desiderio di possederlo. Questo desiderio, questa volontà comune alle persone sagge e alle stolte, alle coraggiose e alle codarde, fa desiderare tutte le cose il cui possesso le renderebbe felici e soddisfatte. Vi è una sola cosa che - non so perché - gli esseri umani non hanno la forza di desiderare: la libertà, un bene tanto grande e dolce! Non appena la si perde, sopravvengono tutti i mali possibili e senza di essa, tutti gli altri beni, corrotti dalla servitù, perdono del tutto gusto e sapore. Sembra che gli esseri umani tengano in poco conto la libertà, infatti, se la desiderassero, l’otterrebbero; si direbbe quasi che rifiutino di fare questa preziosa conquista, perché è troppo facile. …
Una forma di scrittura così diretta e così provocatoria costituisce una novità agli albori dell’Età moderna [le Opere incisive di Giordano Bruno e di fra’ Tommaso Campanella, nostri compagni di viaggio lo scorso anno, sono state scritte nei decenni successivi].
Noi continueremo ancora a leggere il testo del Discorso sulla servitù volontaria di La Boétie e adesso, mentre ci avviamo alla conclusione di questo itinerario, dopo aver fatto conoscenza con questo importante personaggio [purtroppo Étienne de La Boétie è morto troppo presto e - come dicono le studiose e gli studiosi di Storia - non ha potuto sviluppare tutte le sue potenzialità soprattutto sul piano politico], adesso dobbiamo ridare la parola a Montaigne perché Montaigne ha riflettuto sull’intimo rapporto di amicizia che ha coltivato con Étienne de La Boétie: un rapporto che gli ha cambiato la vita.
L’incontro con Étienne de La Boétie è l’evento centrale della vita di Montagne: come sappiamo, i due s’incontrano a Bordeaux nel 1558 e la loro amicizia dura sino alla morte di La Boétie nel 1563, e, quindi, la loro relazione si protrae per soli cinque anni ma sempre nella più grande intimità per cui dalla perdita dell’amico Montaigne non si è mai ripreso. Michel de Montaigne racconta l’agonia di Étienne de La Boétie in una lunga e commovente Lettera indirizzata a suo padre e, in seguito, concepisce il primo Libro dei Saggi come se avesse dovuto diventare «un monumento alla memoria dell’amico scomparso».
Montaigne, nel Libro I dei Saggi, al capitolo XXVIII intitolato Dell’amicizia, scrive: «Al centro di questo Libro, nel punto più bello, avrebbe dovuto esserci il testo del Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie e le mie pagine non sarebbero state altro che delle grottesche, ovvero delle pitture decorative destinate a mettere in risalto il capolavoro del mio amico». Se poi, però, in seguito, Montaigne ha dovuto rinunciare a questo progetto, è perché nel frattempo il Discorso di La Boétie - in cui si perora la causa della libertà contro l’arbitrio dei tiranni - è stato pubblicato dalla comunità protestante che si sentiva perseguitata dall’azione violenta della Lega cattolica. Montaigne, quindi, non inserisce il testo del Discorso di La Boétie ma lo sostituisce con un capitolo [il XXVIII del Libro I dei Saggi] che consiste in un elogio dell’amicizia scritto nel solco della tradizione classica di Aristotele, di Cicerone e di Plutarco. Scrive Montaigne: «Quando nel linguaggio corrente parliamo di amici e di amicizie, in realtà alludiamo a frequentazioni e dimestichezze, allacciate o per un caso fortuito o per una qualche utilità, per mezzo delle quali le nostre anime comunicano. Nell’amicizia di cui parlo io le anime si mischiano e si confondono l’una nell’altra, compenetrandosi in modo così completo da cancellare e non trovare più traccia della cucitura che le ha unite. Se qualcuno si ostinasse a chiedermi perché lo amavo [perché amavo Étienne de La Boétie], sento che per spiegarlo non potrei rispondere altro che: Perché era lui, perché ero io». E, su questa affermazione emblematica, è necessario imbastire una riflessione.
Montaigne contrappone l’amicizia, un sentimento [scrive] più temperato e costante, all’amore [scrive «all’amore per le donne»] che, afferma Montaigne, è un impulso più febbrile e volubile, e distingue l’amicizia anche dal matrimonio che Montaigne paragona a una transazione economica che compromette la libertà personale e l’uguaglianza [i giudizi di Montaigne sul matrimonio sono sempre caustici, perché realistici]. Agli occhi di Montaigne l’amicizia è il solo legame veramente libero che possa nascere fra due persone, un legame inconcepibile sotto una tirannia [il tiranno non ha amici e non conosce l’amicizia perché pretende la sottomissione]. L’amicizia per Montaigne è il più sublime dei sentimenti ma non si tratta di quella che lui definisce “l’amicizia ordinaria” bensì «di un sentimento ideale che unisce due grandi anime al punto che non si possono più distinguere l’una dall’altra». Ma se si concepisce l’amicizia in questi termini, non è poi facile definirla e, di conseguenza, Montaigne parla della sua amicizia con La Boétie come se si trattasse di un mistero inspiegabile e, difatti, come abbiamo osservato, scrive: «Perché era lui, perché ero io». E Montaigne ci ha messo molti anni per arrivare a concepire questa formula che viene considerata “memorabile”, ed è una formula che manca sia nell’edizione dei Saggi del 1580 sia in quella del 1588. In entrambe le due edizioni il brano si ferma alla formulazione dell’enigma [«…sento che per spiegarlo non potrei rispondere.»] e, solo in un secondo tempo, sulla sua copia personale, aggiunge dapprima la frase «perché era lui», e poi, con un inchiostro diverso, scrive «perché ero io» e, nel tentativo di spiegare la situazione, simile a quella del colpo di fulmine, scrive ancora: «Al di là di tutto ciò che posso dirne in generale, e di quanto posso aggiungere in particolare, artefice di questa nostra unione fu non so quale forza inspiegabile e ineluttabile. Ancora prima d’incontrarci, già ci cercavamo credo per una qualche disposizione celeste. Ci abbracciavamo già attraverso i nostri nomi. E, al nostro primo incontro, che ebbe luogo per caso durante una grande festa cittadina, in mezzo alla folla, ci ritrovammo così attratti, così familiari, così legati che da allora niente ci fu tanto prossimo quanto l’uno all’altro».
Nell’incontro fra Montaigne e La Boétie c’è dunque una predestinazione? Ci si domanda se Montaigne ci creda davvero oppure voglia enfatizzare un’esperienza coinvolgente. Molto più tardi, pensando espressamente a Étienne de La Boétie, nel Libro I al capitolo XXXIX intitolato Della solitudine, Montaigne scrive che non avrebbe mai composto i Saggi se avesse avuto ancora un amico a cui scrivere delle Lettere: che cosa si deve pensare in proposito che, se La Boétie fosse vissuto più a lungo, non ci sarebbero i Saggi di Montaigne? Ebbene, alla fine di questa riflessione, ci troviamo di fronte a un bel paradosso: dobbiamo l’esistenza dei Saggi alla presenza di Étienne de La Boétie ma, soprattutto, li dobbiamo alla sua assenza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avrete senz’altro avuto e avrete tuttora un’amica o un amico del cuore: scrivete quattro righe in proposito…
Montaigne non si riprenderà mai dal trauma subito a causa della morte dell’amico del cuore ma, per chi resta, come nel suo caso, la vita continua: e quali vie prende l’esistenza di Montaigne? Per rispondere a questa e ad altre domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli che non dobbiamo mai perdere la volontà d’imparare e, quindi, la Scuola - in modo da dare l’opportunità di mettere in moto il processo di apprendimento a tutte le persone che vogliono coltivare la loro volontà di imparare - è qui, e il viaggio, questo viaggio: continua…