ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 14-15-16 novembre 2018
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600
EMERGE IL TEMA DELLA DIVERSITÀ IN RELAZIONE
ALL’INCONTRO TRA VECCHIO E NUOVO MONDO ...
Siamo in viaggio - questo è il quinto itinerario - sul territorio de La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’Età moderna [siamo alla fine del ‘500] e ci troviamo in compagnia di Michel de Montaigne, l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano. Un’opera che merita di essere conosciuta, di essere capita e sul cui testo ci si può applicare eggendone qualche pagina. Nei Saggi l’autore analizza “le cose della vita” [come vivere?] per sintetizzare dei pensieri dei quali valuta la leggerezza e la profondità, quindi, la lettura di qualche pagina dei Saggi di Montaigne è utile, prima di tutto, per esercitare le principali azioni dell’Apprendimento [che è il motivo per cui si frequenta la Scuola, per imparare ad imparare] che sono come ben sapete conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare: le azioni che ci permettono di “investire in intelligenza”, che è l’obiettivo fondamentale della vita materiale, intellettuale e spirituale di ogni persona.
A proposito di investimenti in intelligenza, la scorsa settimana siamo entrate ed entrati in contatto con il celebre amico di Montaigne, un personaggio di grande talento: Étienne de La Boétie, e abbiamo percorso la biografia di questo personaggio - la sua precoce carriera letteraria e politica di successo - fino alla sua morte prematura a trentatre anni il 18 agosto 1563, un avvenimento che ha cambiato la vita [lo stile di vita] di Montagne.
Sappiamo che Étienne de La Boétie ha composto, giovanissimo, un’opera significativa intitolata: Discorso sulla servitù volontaria o Contr’uno pubblicata nel 1576, dopo una lunga diffusione clandestina a causa della forma molto diretta e del contenuto molto provocatorio di quest’opera. Il Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie è un’opera che appare sempre attuale perché - scritta con un linguaggio diretto e provocatorio per l’epoca - è rivolta contro la tirannia, contro il concetto di tirannia, indipendentemente dalle forme storiche che la tirannide ha assunto e assume. Nel pensiero filosofico e politico contemporaneo il testo del Discorso di La Boétie – che, come abbiamo detto la scorsa settimana, ha avuto, in questi ultimi anni, un numero rilevante di nuove pubblicazioni editoriali [ben sei in Italia] - è stato letto e commentato dalle studiose e dagli studiosi con l’obiettivo, per ora lontano dall’essere raggiunto, di aprire un dibattito [aprire un dibattito - non significa far chiacchiere - significa promuovere attività scolastiche di alfabetizzazione funzionale e culturale, significa istituire officine di Apprendimento permanente, significa costruire e far funzionare strutture di Alfabetofanìa cioè spazi dove la pratica virtuosa dello studio si manifesta concretamente]: il testo del Discorso di La Boétie oggi si presta ad essere letto e commentato con l’obiettivo di denunciare “l’impianto tirannico” che in molti casi hanno assunto le democrazie: un governo di pochi [una cerchia fatata?] al quale, senza costrizioni e senza violenze e per libera scelta [una scelta spesso fatta sulla scia della percezione di paure immotivate], il popolo ha consegnato la sua libertà originaria [e non sarà certo la cosiddetta “democrazia diretta” esercitata sulla rete a cambiare la situazione perché si stanno constatando tutti i limiti che ha l’informatizzazione senza il supporto dell’istruzione e dell’educazione. Il Discorso di La Boétie, a quasi quttrocentosettant’anni di distanza dalla sua composizione, continua a dare la possibilità [la stessa possibilità che ha dato a Montaigne e a molte altre e altri intellettuali nel corso dei secoli] di allargare il discorso sulle dinamiche psicologiche che portano l’individuo a scegliere tra la libertà e la servitù, tra la ragione e la passione, tra la rivoluzione e l’obbedienza.
Perché l’individuo sceglie più volentieri [si domanda La Boétie] la servitù, l’esaltazione e l’obbedienza? Scrive Étienne de La Boétie: «Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tante persone, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte, sopportano un tiranno che non ha alcuna forza, se non quella che gli viene data, che non ha alcun potere di nuocere se non in quanto viene tollerato. Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? Siate dunque decise e decisi a non servire più e sarete persone libere!». Il rapporto tra l’individuo e la servitù [afferma La Boétie, e Montaigne gli fa eco] ha un carattere problematico e la gestione della libertà [bisogna imparare a essere persone libere, bisogna educarsi alla libertà, vale a dire, a non fare ciò che si vuole senza rispettare regole condivise] dipende dalla presa di coscienza della persona la quale deve acquisire una nuova mentalità [attraverso lo studio: «Bisogna - scrive Piero Calamandrei - diplomarsi e laurearsi in Libertà, la Libertà è una disciplina, non uno slogan da propaganda elettorale!»] perché, purtroppo, accanto al naturale e innato desiderio di libertà [afferma La Boétie, e Montaigne gli fa eco], nell’animo dell’individuo si annida anche “un oscuro desiderio di servire” [sottolinea La Boétie nel suo Discorso] che non è “il servire richiesto dalla solidarietà” ma è l’asservimento dettato dall’ipocrisia [mi metto al servizio del tiranno e del potere per goderne i favori]. La Boétie, da filosofo, invita a riflettere sul concetto del “servire” perché bisogna, in primo luogo, che ogni singola persona impari a distinguere tra l’essere soggetta e il prestare un servizio compartecipe, tra il sottostare e il soddisfare delle giuste richieste, tra l’essere schiava e l’essere utile.
E, ora, prendiamo il passo sull’itinerario di questa sera continuando a leggere il testo del Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie e, in queste pagine, molte e molti di voi che avete partecipato al viaggio dello scorso anno potrete ritrovare i termini di un determinato clima culturale nel quale il tema delle caratteristiche della Natura è al centro dell’attenzione.
LEGERE MULTUM….
Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria
Voi, gente misera, popoli dissennati, nazioni che vi intestardite nel vostro male, cieche al vostro bene, vi lasciate portar via sotto gli occhi il meglio e il più limpido dei vostri redditi, permettete che si saccheggino i vostri campi, che si svaligino le vostre case e le si spoglino dei mobili antichi che le arredano! Vivete in modo tale che nulla più vi appartiene. Considerate una grande fortuna conservare la metà dei vostri beni, della vostra famiglia, delle vostre vite. E tutte queste devastazioni, queste sventure, questa rovina non vengono dai vostri nemici ma da quel nemico [il tiranno, in qualsiasi forma si presenti] che a voi deve la sua posizione, per il quale affrontate così coraggiosamente le guerre e per la grandezza del quale non esitate a offrire voi stessi alla morte. Eppure questo padrone ha solo due occhi, due mani, un corpo, niente di più di quanto abbia l’ultimo abitante dell’infinito numero delle nostre città. Ciò che egli ha in più sono i mezzi per distruggervi che voi stesse e voi stessi gli fornite. Da dove gli vengono tutti quegli occhi che vi spiano, se non da voi stesse e da voi stessi? Come può aver tante mani per colpirvi, se non prendendole da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, non sono anche vostri? Ha qualche potere su di voi, che non gli derivi da voi stesse e da voi stessi? Osa attaccarvi perché può contare sulla vostra complicità! Vi fa danno perché siete i ricettatori del ladro che vi saccheggia, i complici dell’assassino che vi uccide e i traditori di voi stesse e di voi stessi!
Seminate i campi, perché egli li devasti, ammobiliate e arricchite le vostre case perché egli possa saccheggiarle, allevate le vostre figlie perché egli possa soddisfare la sua lussuria, nutrite i vostri figli perché nel migliore dei casi ne faccia dei soldati, perché li mandi in guerra, al macello, perché li faccia strumenti della sua cupidigia ed esecutori delle sue vendette. Vi logorate nelle fatiche perché egli possa abbandonarsi alle delizie e crogiolarsi nei suoi perversi piaceri. Vi indebolite perché egli sia più forte e vi tenga più corte le redini sul collo. E, di tanti infami maltrattamenti ai quali si ribellerebbero persino gli animali se vi fossero sottoposti, potreste liberarvi, se voi tentaste almeno di volerlo. Decidete una volta per tutte di non servire più, e sarete persone libere! Non vi chiedo di spingerlo, di scrollarlo, ma soltanto di smettere di sostenerlo e lo vedrete, come un colosso di cui si sia spezzata la base, crollare sotto il proprio peso e spezzarsi. I medici consigliano giustamente di non curare le piaghe inguaribili e, forse, io faccio male ad esortare così un popolo che sembra aver perduto da molto tempo qualsiasi consapevolezza del proprio male, il che dimostra chiaramente che la sua malattia è mortale. Cerchiamo piuttosto di capire, se è possibile, come questa ostinata volontà di servire si sia radicata così profondamente da far credere che lo stesso amore della libertà non sia poi così naturale. Non vi è dubbio, credo, che, se vivessimo secondo i diritti che ci derivano dalla Natura e conformemente ai suoi insegnamenti, saremmo naturalmente sottomessi ai nostri genitori, soggetti della ragione, senza esser schiavi di nessuno. Ognuno di noi riconosce in sé, molto naturalmente, l’impulso a obbedire al proprio padre e alla propria madre. Quanto a sapere se la ragione sia in noi innata o meno, - questione ampiamente dibattuta in seno alle Accademie e alle Scuole di filosofia - non penso essere in errore affermando che vi è nella nostra anima un seme naturale di ragione.
Sviluppandosi grazie ai buoni consigli e ai buoni esempi, questo seme sboccia in virtù, ma sovente abortisce, perché viene soffocato. Ciò che è evidente e chiaro, e che nessuno può ignorare, è che la Natura, ministro di Dio, governatrice degli esseri umani, ci ha modellate e modellati secondo un unico stampo, per dimostrarci che siamo uguali, o meglio fratelli e sorelle. Se distribuendo i suoi doni, essa ha avvantaggiato nel corpo e nella mente alcune persone più di altre, essa non ha tuttavia voluto metterci in questo mondo come su un campo di battaglia e non ha voluto mandar quaggiù i più forti e i più abili come fossero briganti armati in una foresta per malmenare i più deboli. Convinciamoci piuttosto che, facendo parti più grandi per certe persone e più piccole per altre, abbia voluto far nascere nelle prime l’amore fraterno e metterle in grado di praticarlo, dato che le prime hanno la possibilità di portar soccorso, di essere a servizio del Bene e le altre hanno bisogno di riceverlo. Dunque, poiché questa buona madre, la Natura, ci ha donato la terra intera come dimora, ci ha anche create e creati secondo lo stesso modello in modo che ognuna e ognuno di noi possa quasi guardarsi e riconoscersi nell’altra persona come in uno specchio, e ci ha fatto il bel dono della voce e della parola per permetterci di incontrarci e fraternizzare e render possibile, con la comunicazione, lo scambio dei nostri pensieri e la comunione delle nostre volontà. La Natura ha dimostrato in ogni cosa di volerci come se fossimo un solo essere, e come dubitare allora di essere tutte persone naturalmente libere, dato che siamo tutte persone uguali? Non si può insinuare nella mente di nessuno il sospetto che la natura abbia messo in servitù una qualsiasi persona, poiché ha messo tutte le persone in compagnia. A dire il vero, è del tutto vano chiedersi se la libertà sia naturale, poiché non si può asservire nessun essere senza fargli torto, e nulla è più contrario alla natura - interamente ragionevole - dell’ingiustizia. Dunque, la libertà è naturale e ritengo che non solo siamo nati con lei ma anche con la passione di difenderla. E se, per caso, alcune persone ne dubitassero ancora - imbastardite al punto da non riconoscere le proprie doti intellettuali - dovrei trattarli come meritano e far salire per così dire in cattedra le bestie feroci per insegnar loro qual è la loro natura e la loro condizione. Gli animali - che Dio m’assista! - se le persone li ascoltano, gridano: «Viva la libertà!». Molti di loro muoiono subito dopo la cattura. Come il pesce che agonizza non appena è tolto dall’acqua, essi si lasciano morire pur di non sopravvivere alla loro libertà naturale. Se gli animali avessero scale di valori, vedrebbero nella libertà la propria nobiltà. Altri animali, dai più grossi ai più piccoli, quando vengono catturati, si dibattono con tanta forza con le unghie, le corna, il becco e la zampa da dimostrare chiaramente il prezzo che essi attribuiscono a ciò che perdono. Dopo esser stati catturati, ci dimostrano così eloquentemente di essere consapevoli della propria sventura, che è mirabile vederli languire piuttosto che vivere, e gemere sulla felicità perduta piuttosto che crogiolarsi nella servitù. Che vuol dire l’elefante quando, dopo essersi strenuamente difeso, perduta ogni speranza, sul punto di venire catturato, cozza le mascelle contro gli alberi e si spezza le zanne? Si comporta in questa miniera perché il grande desiderio di rimanere libero lo rende perspicace e gli suggerisce di trattare con i cacciatori: per vedere se potrà cavarsela a prezzo delle zanne e, se il suo avorio, ceduto come riscatto, gli restituirà la libertà. Noi coccoliamo il cavallo sin dalla nascita per abituarlo a servire. Le nostre carezze non gli impediscono di mordere il freno, di impennarsi sotto lo sperone quando lo si vuol domare. Mi sembra che voglia così dimostrare di non servire spontaneamente, ma da noi costretto. Che altro aggiungere? «Persino i buoi gemono sotto il giogo, e si lamentano in gabbia gli uccelli», lo dissi un tempo in versi … Così dunque, visto che ogni creatura, dotata di sentimento, è infelice nell’asservimento e aspira alla libertà; visto che gli animali, pur assuefatti al servizio degli esseri umani, si lasciano dominare solo dopo aver manifestato la volontà contraria, quale sventura ha potuto snaturare l’essere umano - la sola creatura nata per essere veramente libera - sino a fargli smarrire il ricordo del suo stato originario e il desiderio di riacquistarlo? …
Molte e molti di voi che hanno partecipato al viaggio dello scorso anno avranno riconosciuto il clima culturale che influenza il pensiero di Étienne de La Boétie: un clima culturale ispirato dalla corrente del “naturalismo” [ricordate questa parola-chiave?]. Dobbiamo ricordare molto brevemente che in questo periodo [dal 1529] è all’opera il fondatore del naturalismo moderno, che abbiamo incontrato lo scorso anno come molte e molti di voi ricorderanno: Bernardino Telesio, il quale divulga l’idea che per studiare la Natura bisogna partire dalla Natura stessa e, soprattutto, bisogna considerare il fatto che la Natura funziona “iuxta propria principia” [secondo Leggi sue proprie] e, come l’essere umano [scrive Telesio, e La Boétie riprende questo concetto teologico] è stato creato da Dio dotato del libero arbitrio, anche la Natura è stata creata da Dio dotata di autonomia e, quindi, usufruisce della libertà. La Boétie, in linea con il pensiero naturalista di Bernardino Telesio, scrive: «La Natura, ministro di Dio, governatrice degli esseri umani, ci ha modellate e modellati secondo un unico stampo per dimostrarci che siamo uguali, che siamo fratelli e sorelle. La Natura [godendo del dono della libertà, scrive La Boétie] ci ha create come persone naturalmente libere [due secoli dopo queste affermazioni entrano nei testi delle Costituzioni degli Stati], e non si può insinuare nella mente di nessuno il sospetto che la Natura abbia messo in servitù una qualsiasi persona e, quindi, la libertà è naturale e siamo nate e nati con la passione di difenderla, e anche gli animali considerano la loro libertà un bene supremo da difendere [noi ci domandiamo - e, in anteprima, se lo è già domandato anche La Boétie e Montaigne gli fa eco - come si è potuta conciliare l’affermazione che “tutti gli uomini sono stati creati uguali” con l’organizzazione di un sistema economico basato sulla schiavitù?]».
Continueremo ancora a leggere il testo del Discorso sulla servitù volontaria di La Boétie perché in esso non mancano gli spunti di riflessione, e adesso dobbiamo tornare a occuparci di Montaigne e della sua opera ricordando che ha concepito il primo Libro dei Saggi come se avesse dovuto diventare «un monumento alla memoria dell’amico scomparso». Montagne scrive che “al centro del suo Libro, nel punto più bello, avrebbe dovuto esserci il testo del Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie”, ma poi, come sappiamo, ha dovuto rinunciare a questo progetto perché, nel frattempo, il Discorso di La Boétie è stato pubblicato dalla comunità protestante che si sentiva perseguitata dall’azione violenta e tirannica della Lega cattolica, [un’organizzazione paramilitare che mirava a uccidere gli avversari.
E adesso riprendiamo il cammino con l’occhio rivolto verso la biografia di Montaigne: dal 1533 al 1557 lo abbiamo visto nascere, crescere, formarsi intellettualmente, laurearsi e intraprendere una carriera.
Come già sappiamo, nel 1557, all’età di ventiquattro anni, Michel de Montaigne entra in magistratura e per sedici anni, a Bordeaux, esercita la professione di magistrato «con senso di moderazione ma senza troppo amore »[come lui stesso dice perché trova sia un compito difficile quello di giudicare altre persone, seppur colpevoli di reati], per cui, se può e quando può in base agli inviti che riceve, preferisce dedicarsi ad altro come, per esempio, frequentare la corte, con il re Francesco II e poi con Carlo IX, in modo da poter anche seguire il re in viaggio nei suoi spostamenti da una città all’altra sul territorio francese per far visita alle varie regioni. Il fatto è che il suo temperamento, simile a quello di La Boétie, lo mette spesso a disagio nella società [ipocrita, falsa, servile] di corte. Montaigne scrive di poter accettare, anche se con difficoltà, la rigida etichetta della corte ma non riesce a controllare [scrive Montaigne] «la mia libertà indiscreta di dire a torto o a ragione ciò che mi viene in mente».
A questo proposito, dobbiamo riflettere su come Montaigne, nei Saggi, tratta “il tema della conversazione”. Affronta questo tema in modo più complesso rispetto all’affermazione che abbiamo letto ora [«Mi sento libero di dire a torto o a ragione ciò che mi viene in mente»], e questa affermazione sembra valere di più nel momento in cui Montaigne si esprime scrivendo piuttosto che conversando. Montaigne riflette sul tema della conversazione sia quando si tratta di un colloquio familiare e privato sia quando riguarda un dibattito pubblico e più formale, e ne parla nel capitolo VIII del Libro III dei Saggi intitolato Dell’arte di conversare. Montaigne utilizza il termine “conférence” che significa “dialogo” e anche “discussione”, e parla di sé come di una persona aperta alle idee altrui, disponibile, affabile, non rigido e non ostinatamente ancorato alle proprie opinioni, e scrive: «Io accolgo a braccia aperte la verità e la accarezzo ogni volta che la trovo, non importa in quali mani sia, e a lei mi arrendo con letizia, e le consegno le armi sconfitte non appena da lontano la vedo appropinquarsi [dobbiamo subito puntualizzare che quando Montaigne pronuncia il termine “verità” sfodera sempre - sorridendo - una certa ironia, proprio perché è convinto che si debba distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso: è un magistrato]. E, a patto che non lo si faccia con un piglio troppo imperioso e supponente, presto volentieri il fianco alle critiche. E concordo con chi mi contesta, più spesso per dovere di cortesia che per desiderio di emendarmi; questo perché mi piace gratificare e alimentare con la mia arrendevolezza l’altrui libertà di ammaestrarmi». Montaigne dice di rispettare sempre la verità, anche se, chi la pronuncia, è una persona antipatica [ragiona da magistrato, coltivando l’imparzialità]. Scrive di non essere orgoglioso e di non considerare un’umiliazione l’essere contraddetto, e gli piace anche essere corretto se è in errore, però non apprezza gli interlocutori arroganti, troppo sicuri di se stessi e intolleranti. Michel de Montagne, in questo capitolo del Libro III dei Saggi, si presenta come un perfetto gentiluomo [“un liberale” si comincerà a dire nei secoli successivi], rispettoso delle opinioni altrui, non condizionato dall’amor proprio, né interessato ad avere a tutti i costi l’ultima parola: Montaigne vuole mettere in evidenza il fatto che non concepisce la conversazione [la conférence] come se fosse un duello dal quale uscire vittoriosi. Ma, attenzione: per essere fedele allo spirito dei Saggi [Vi ricordate che cosa scrive nell’incipit? «Il mio, cara lettrice e caro lettore, è un Libro sincero.»] Montaigne aggiunge una precisazione [e chissà quante volte anche noi abbiamo fatto la stessa cosa, o forse no?] e scrive che “se cede a coloro che lo riprendono è più per gentilezza che per cambiare in meglio”, soprattutto se ai suoi antagonisti piace ascoltarsi parlare e, di conseguenza, rinuncia a controbattere e tace e fa finta di acconsentire, ma senza cambiare la propria opinione. E allora, che cosa dobbiamo pensare di fronte a questa palese contraddizione? Non è forse questa, da parte di Montaigne, una simulazione e, quindi, come può parlare sempre di franchezza, come fa a tessere sempre l’elogio della sincerità? Montaigne, nel testo dei Saggi, fa costantemente risaltare il fatto, e fa riflettere la lettrice e il lettore, su quanto sia sottile la linea di demarcazione tra la coerenza e l’incoerenza. Montaigne chiarisce che tende a dare ragione, senza opporre resistenza, ai suoi interlocutori più sfrontati - e anche agli altri - per pura cortesia, perché [così scrive] è un atteggiamento corretto far credere loro che lo stanno istruendo e lo stanno illuminando, in quanto, è bene che costoro non abbiano mai dubbi ad esprimere, con assoluta sincerità, il loro vero parere, perché è sempre utile, per prudenza [scrive Montaigne da diplomatico e da politico], conoscere le vere convinzioni delle persone. Poi, nel capitolo VIII del Libro III dei Saggi, prosegue il ragionamento riflettendo con il suo consueto realismo: «Tuttavia non è facile ottenere questo dalle persone del mio tempo. Non hanno il coraggio di correggere, perché non hanno il coraggio di tollerare che qualcuno le corregga. E quando sono le une in presenza delle altre dissimulano sempre. Provo un così grande piacere a essere giudicato e conosciuto che quasi non mi importa se io lo sia in bene o in male. Il mio pensiero si contraddice e si disapprova da sé tante di quelle volte che mi è indifferente se a farlo è un’altra persona, tanto più che attribuisco alle sue critiche il peso che voglio. Mi metto in urto, invece, con le persone che si mostrano altere, con quelle (e ne conosco tante) che si pentono di aver dato il proprio parere se poi non se ne tiene conto e che si offendono se ci si rifiuta di assecondarle». Montaigne si lamenta del fatto che le persone intorno a lui non lo contestano abbastanza e ne deduce che lo fanno per paura di essere a loro volta contestate perché non c’è persona [afferma Montaigne] che ama essere contraddetta, perché la critica, anche quando è motivata, è fonte di umiliazione e così succede che la rinuncia a dar corso ad un contraddittorio fa sì che ciascuna persona resti arroccata nelle proprie certezze [e Montaigne disapprova il fatto che una persona sia assolutamente ancorata alle proprie certezze]. Montaigne è consapevole che ci si debba sforzare per accettare di buon grado il punto di vista dell’altro e questo deve avvenire non solo per gentilezza e non solo per incoraggiare la propria interlocutrice e il proprio interlocutore a ribattere e, quindi, sempre nel capitolo VIII del Libro III dei Saggi, Montagne scrive: «Ritengo che io debba ascoltare il punto di vista altrui proprio perché non sono molto sicuro di me stesso, perché le mie opinioni sono mutevoli, e mi contraddico da solo e, di conseguenza, non ho bisogno neppure di altri perché questo avvenga. Ciò che detesto sopra ogni altra cosa sono le persone troppo orgogliose che si adombrano se non si aderisce al loro parere. Non sopporto la presunzione né la fatuità [chi si vanta], e lo dico a me stesso perché non ne sono immune». Montaigne, nel testo dei Saggi, ci mette di fronte ai vari aspetti che riguardano “il tema della conversazione” [della conférence]: la conversazione può essere “uno scambio di idee” in cui si mantengono fermamente le proprie; può essere “una chiacchierata” per evitare un confronto di idee; può essere “un dialogo” da cui imparare a cambiare in meglio; può essere “un colloquio” per sondare il parere altrui.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di questi aspetti - uno scambio di idee, una chiacchierata, un dialogo, un colloquio – mettereste per primo accanto al termine “conversazione”?… Quando, perché, con chi e su quale tema avete intrapreso una conversazione e con quale carattere si è svolta: come se fosse uno scambio di idee o una chiacchierata o un dialogo o un colloquio ?… Non lasciate che sia solo Montaigne a fare degli “assaggi” [a riflettere su come ci comportiamo]: scrivete quattro righe in proposito…
Il tema della conversazione [della conférence], nel testo dei Saggi di Montaigne, è strettamente legato a una caratteristica del carattere dell’autore: la sua grande smisurata curiosità. Una curiosità, quella di Montaigne, che è collegata [come è naturale che sia] con il desiderio di conoscenza e, in particolare, con la voglia di conoscere e di comprendere ciò che viene giudicato come “diverso”, e “la diversità” viene considerata da Montaigne un fenomeno positivo: in questo suo atteggiamento egli si distingue dal pensiero comune perché vive in un periodo in cui ciò che è “diverso” viene guardato con particolare diffidenza [e il fatto è che in questi quattrocentocinquant’anni non è cambiato molto perché oggi le maggioranze cosiddette sovraniste non si comportano diversamente, anzi manifestano con veemenza la diffidenza per qualunque tipo di diversità rispetto a una presunta identità, come se senza la diversità potesse esistere l’identità], mentre Montaigne considera “la diversità” un fenomeno buono e afferma che «Non c’è nulla di più naturale della diversità, in quanto senza diversità non ci sarebbe vita» [e oggi, a diversi livelli, si parla anche con preoccupazione di protezione della biodiversità]. Secondo Montaigne, la diversità è un fenomeno buono soprattutto perché risveglia la curiosità e, di conseguenza, stimola la volontà di imparare, l’impulso, senza il quale l’esistenza non avrebbe alcun senso. Montaigne, nel testo dei Saggi, riporta molti episodi in cui, in relazione al tema della diversità, mette in risalto il binomio “curiosità-conversazione”, un binomio capace di incrementare in modo emblematico le riflessioni dell’autore, e allora - sempre seguendo cronologicamente la sua biografia - ci occupiamo adesso di uno di questi episodi, di quando, nel 1562, mentre si trova a Rouen, insieme al re Carlo IX [che è poco più di un bambino] Montaigne incontra delle persone extraeuropee, provenienti [a settant’anni dalla cosiddetta “scoperta dell’America”] dal Nuovo Mondo, quindi, “persone diverse” per definizione.
Michel de Montaigne, nel 1562, incontra a Rouen, tre indios appartenenti all’etnia dei Tupinamba brasiliani. Anche la Francia, sulla scia della Spagna e del Portogallo e delle altre nazioni europee, ha iniziato a colonizzare il Nuovo Mondo e questi tre indigeni sono diventati loro malgrado abitanti della cosiddetta Francia Antartica, un territorio comprendente anche la baia di Rio de Janeiro. Dobbiamo sapere che la prima colonia francese in Brasile è stata fondata da Nicolas Durand de Villegaignon nel 1557 ma, in seguito, a causa delle divisioni tra cattolici e protestanti [che si ripercuotono anche in contesto coloniale], questo territorio è stato perduto dai francesi perché conquistato dai portoghesi.
I tre indios brasiliani sono stati portati in Francia - è il loro, potremmo dire ironicamente], una sorta di viaggio diplomatico - perché costoro possano rendere omaggio al re Carlo IX, all’epoca dodicenne, che è diventato [così gli è stato spiegato] il monarca anche di questa gente “diversa” [e questo bambino deve vedere almeno alcuni rappresentati di questa gente diversa che gli è suddita]. Montaigne, a seguito della corte, e curioso com’è, è molto contento di avere l’occasione di conoscere questi abitanti del Nuovo Mondo e, quindi, si fa avanti con intraprendenza perché vuole conversare con loro e questa esperienza non la dimenticherà mai e sarà per lui, in seguito, motivo di molte riflessioni. Infatti, quando, anni dopo, nel testo dei Saggi, racconta questa sua esperienza, Montaigne riporta per iscritto una serie di riflessioni che possiamo definire straordinarie, nel senso di inconsuete e tragicamente lungimiranti per il suo tempo. Nel capitolo XXXI del Libro I dei Saggi intitolato Dei cannibali, Montaigne scrive amaramente: «Tre di loro [tre indios Tupinamba della Francia Antartica], ignorando quanto, un giorno, la conoscenza dei nostri costumi corrotti avrebbe compromesso la loro tranquillità e la loro felicità, e ignorando altresì che da questo commercio avrebbe avuto origine la loro rovina - che immagino sia ormai a uno stadio avanzato (sono davvero da compiangere per essersi lasciati irretire dal desiderio del nuovo e per aver abbandonato la dolcezza del loro cielo per venire a vedere il nostro) -, furono a Rouen nei giorni in cui vi era anche il defunto re Carlo IX [già morto giovanissimo nel 1574]. Il re parlò a lungo con costoro, furono loro mostrate le nostre usanze, la nostra opulenza, la forma di una bella città». Le parole di Montaigne non sono soltanto lo sfogo di un pessimista [come vedremo il pensiero di Montaigne è orientato verso le correnti filosofiche che coltivano la tradizione pessimista], ma contengono un lucido ragionamento sul quale siamo invitate e invitati a riflettere: il Nuovo Mondo [pensa Montaigne] che è “un mondo bambino, innocente” è destinato inesorabilmente a corrompersi a contatto con il Vecchio Mondo, anzi, scrive Montaigne, il processo è già iniziato. Nella parte finale del capitolo Dei cannibali [il XXXI del Libro I dei Saggi] Montaigne descrive il Brasile come se fosse il Paradiso terrestre o il mitico continente chiamato Atlantide. Montaigne scrive che gli indios sono “selvaggi” non perché sono crudeli ma perché conducono un’esistenza vicina allo stato di Natura [e la Natura è buona di per sé]. I veri bruti [scrive Montaigne] siamo noi che ci definiamo civili, e spiega che se gli indios mangiano i corpi dei nemici uccisi, non è per nutrirsene, ma per obbedire a un codice d’onore: è una forma di rispetto, mentre noi, i civili, dopo una battaglia, infieriamo sui cadaveri e li deprediamo. Montaigne, nel capitolo XXXI del Libro I dei Saggi, scrive: «Dopodiché ai tre indios [indios Tupinamba della Francia Antartica] presenti al cospetto del re qualcuno [lo stesso Montaigne] chiese loro che cosa pensassero, e volle sapere che cosa fosse parso loro più sorprendente di ciò che avevano visto. Risposero tre cose; ho dimenticato la terza, e me ne rammarico molto, ma serbo ancora memoria delle altre due. Dissero che in primo luogo trovavano assai strano che tutti quegli uomini aitanti, barbuti, forti e armati che circondavano il re (alludevano verosimilmente agli svizzeri della Guardia reale) accettassero di prendere ordini da un fanciullo [il re aveva dodici anni], e che per comandare non fosse stato scelto piuttosto uno di loro». Montaigne fa un’operazione letteraria che assomiglia a ciò che farà però fra circa un secolo e mezzo [e lo ristudieremo a suo tempo] Charles Louis de Secondat barone di Montesquieu con le sue Lettere persiane, pubblicate nel 1721: Montaigne effettua un rovesciamento di prospettiva che nessuno aveva ancora osato fare in cui sono gli indios a osservarci e a meravigliarsi dei nostri costumi, per rilevarne l’assurdità [la bizzarria]. Ai loro occhi la prima stranezza è quella che Étienne de La Boétie definisce “la servitù volontaria”. Com’è possibile che tanti uomini forti obbediscano a un fanciullo? Per quale mistero gli si sottomettono? Secondo La Boétie [e stiamo leggendo la sua opera] basterebbe che il popolo smettesse di obbedire al principe per farlo cadere. I tre indios Tupinamba, brasiliani della Francia Antartica, intervistati da Montaigne non arrivano a tanto, ma trovano incomprensibile il concetto di “diritto divino” attraverso il quale si governano i civili Stati del Vecchio Mondo.
Scrive ancora Montaigne: «In secondo luogo avevano notato che c’erano tra noi uomini ben pasciuti e satolli di ogni bene, e un’altra metà di persone che mendicavano alle porte di costoro, emaciate per la fame e la miseria; e trovavano strano che quella metà così bisognosa tollerasse un’ingiustizia tale e non si avventassero alla gola di quelli, né incendiassero le loro dimore». Il secondo scandalo che gli indios denunciano [scrive Montaigne] è la disuguaglianza tra ricchi e poveri, e Montaigne dichiara che la loro indignazione e il loro stupore non deriva dal fatto che sono dei rivoluzionari ante litteram ma spiega che si comportano come sostenitori della giustizia sociale e dell’uguaglianza per Natura: secondo la legge di Natura tutti gli esseri umani, creati uguali, hanno il dovere di condividere le risorse.
Poi è una cosa molto curiosa il fatto che Montaigne abbia dimenticato il terzo motivo di indignazione dei tre indios. Chissà quale bizzarria - dopo quella di ordine politico e l’altra di ordine economico - avevano individuato? Non lo sapremo mai, però, possiamo fare delle ipotesi [Montaigne fa certamente finta di averlo dimenticato].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Secondo voi ci sono dei comportamenti che sul piano sociale possono essere considerati delle bizzarrie [delle assurdità]?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Michel de Montagne, nel testo dei Saggi, interviene spesse volte per parlare del Nuovo Mondo e dei rapporti insiti nella relazione tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, e sono in molti, tra gli intellettuali europei di questo periodo, a trattare l’argomento della “scoperta dell’America” [avvenuta circa settant’anni prima, nel 1492], un avvenimento che è stato, per gli abitanti del Vecchio continente, a cominciare da quelli più informati, un evento epocale, come se oggi venissimo a contatto con forme di vita extraterrestri. Quali pensieri, su questo argomento, Montaigne riporta ancora nel testo dei suoi Saggi?
Bisogna dire che Michel de Montaigne è affascinato da tutto ciò che è americano e che, nello stesso tempo, è assai scettico nei confronti dell’avventura coloniale che, fin dall’inizio, si dimostra deleteria per il Nuovo Mondo. Per tutta la vita Montaigne ha fatto tesoro di ciò che ricordava della sua conversazione con i Tupinamba e ha collezionato numerosi oggetti sudamericani [alcuni letti, spade, braccialetti di legno, strumenti musicali fatti con le canne] e quasi tutti questi oggetti [racconta Montaigne nel capitolo XXXI del Libro I dei Saggi] glieli ha donati un suo domestico che aveva vissuto per qualche tempo nella colonia della Francia Antartica, in Brasile, e questa persona gli ha presentato anche alcuni marinai che navigavano avanti e indietro nell’Oceano Atlantico [dal porto di Bordeaux alla baia di Rio de Janeiro] dei quali Montaigne ha raccolto le testimonianze. Montaigne scrive: «Questo mio dipendente reduce dalla colonia Antartica era un uomo semplice e schietto e a me molto affezionato» e, quindi, ritiene che la sua testimonianza sia ancora più veritiera perché «quelli come lui [scrive Montaigne] non hanno motivo di infiocchettare e alterare la storia». Montaigne, nel capitolo XXXI del Libro I dei Saggi intitolato Dei cannibali, descrive ciò che lo affascina della semplicità della vita dei Tupinamba ed elogia questo popolo elencando “tutto ciò che non ha” e scrive: «Per il popolo dei Tupinamba non esiste nessuna sorta di traffici, nessuna conoscenza delle lettere seppur comunicano, nessuna scienza dei numeri seppur sappiano contare, nessun nome di magistrato, né gerarchia politica, nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di povertà, nessun contratto, nessuna successione, nessuna spartizione, nessuna occupazione se non dilettevole, nessun rispetto della parentela se non quello ordinario, nessun vestito, nessuna agricoltura, nessun metallo, nessun uso di vino o di grano. Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia, diffamazione e perdono, non le hanno mai udite». Il sistema degli “elenchi negativi” è un espediente retorico ben noto a Montaigne perché è stato molto usato dalla Letteratura classica già dall’antichità, e questa tradizione viene ampiamente utilizzata dall’autore dei Saggi per riflettere su alcuni valori che la scoperta del Nuovo Mondo mette in evidenza mentre la maggioranza dei suoi contemporanei non coltiva affatto questo pensiero: nell’utilizzo, da parte di Montaigne, di questo accorgimento stilistico [il catalogo delle cose che mancano] c’è anche un obiettivo di carattere filosofico [di Filosofia stoica, epicurea, scettica, eclettica: le correnti che Montaigne predilige] perché “l’elenco di ciò che gli indios non hanno” - elenco di cose che nel Vecchio Mondo vengono considerate “frutto della civiltà” - diventa il manifesto della bontà della Natura: l’essenza della Natura si manifesta nel “non-avere”, nel “non-possedere”. E, quindi, l’idea di fondo è che la gente è più felice quando conduce un’esistenza semplice, a stretto contatto con la Natura, rinunciando alla nefasta lotta per il possesso degli averi, come Adamo ed Eva secondo il Libro della Genesi nel Giardino dell’Eden che viene perduto dai progenitori perché il Tentatore instilla in loro [ecco il peccato originale] la voglia di essere i padroni del Giardino stesso, spodestando Dio, il Creatore.
Lucio Anneo Seneca, uno degli autori classici prediletti da Montaigne, un filosofo stoico [morto suicida nell’anno 65 poco prima che Nerone lo facesse uccidere] che ama proporre immagini provenienti dal “mito dell’età dell’oro”, prefigura un mondo in cui non esistono la proprietà privata, la violenza e i canali di scolo che inquinano i torrenti, e nelle Lettere a Lucilio, composte dal 62 al 64, scrive, ironicamente, che «la gente selvaggia non aspira ad avere un’abitazione propria in quanto senza una casa si dorme perfino meglio poiché non ci si sveglia di soprassalto nella notte a causa degli scricchiolii del legno. Come la frutta selvatica [aggiunge Seneca] la gente selvaggia mantiene intatto il suo sapore originario »[e Montaigne riprende questa espressione nel capitolo XXXI del Libro I dei Saggi].
In funzione della didattica della lettura e della scrittura dobbiamo dire che il sistema degli “elenchi negativi” è un espediente retorico che è stato utilizzato in Letteratura nei secoli a venire e, nel XIX secolo, lo scrittore Herman Melville [1819-1891] compone un romanzo intitolato Taipi. Taipi è una valle idilliaca nelle isole Marchesi ed è un luogo dove «non esistono gravami ipotecati [scrive Melville], non cambiali protestate, non conti da pagare, né debiti d’onore; non vi sono parenti poveri, vedove prive di risorse, non un solo mendicante, non una sola prigione per debitori; non vi è, in tutto Taipi, un solo nababbo pieno di sé e dal cuore di sasso; ossia, per dirla con una parola sola: a Taipi, non esiste lo sterco del diavolo, il denaro!».
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Richiedete in biblioteca il romanzo di Herman Melville intitolato Taipi e scoprite come ci è capitato e che cosa ci fa lo scrittore in questo luogo idilliaco, e fate attenzione in che modo nel testo di questo romanzo l’autore metta bene in evidenza - sulla scia di Montaigne – come l’essenza della Natura si manifesti nel “non-avere”, nel “non-possedere”… Buona lettura…
E ora torniamo a riflettere insieme a Montaigne per sviluppare ulteriormente il tema riguardante le conseguenze [umane, sociali, religiose] determinate dalla scoperta del Nuovo Mondo e dalle prime spedizioni coloniali.
Quando Michel de Montaigne, nel testo dei Saggi, riflette sul tema della scoperta dell’America e delle prime spedizioni coloniali ci fa capire che questi avvenimenti hanno segnato la coscienza delle cittadine e dei cittadini europei. Montaigne scrive che la maggior parte delle persone, in Europa, ha visto in questo evento un motivo di ottimismo, un progresso per l’Occidente, perché il Nuovo continente ha cominciato subito [a essere depredato] a dare molte cose [molti prodotti] al Vecchio: i pomodori, il tabacco, la vaniglia, il peperoncino, le patate, il mais, il cacao, lo zucchero e, soprattutto, l’oro.
Montaigne, invece [il solito bastian contrario?] si mostra preoccupato e nel capitolo VI del Libro III intitolato Delle carrozze scrive: «Il nostro mondo ne ha appena scoperto un altro (e chi ci assicura che sia l’ultimo dei suoi fratelli, visto che fino ad ora i Dèmoni, le Sibille e noi abbiamo ignorato l’esistenza di questo?), non meno grande, pieno e nerboruto del nostro, ma così fresco e così bambino che ancora gli stiamo insegnando l’alfabeto: cinquant’anni orsono non conosceva né lettere, né pesi, né misure, né vestiti, né grano, né vigne. Era ancora tutto nudo, in grembo alla madre [la Natura], e viveva soltanto di ciò che lei gli dava. Se abbiamo ragione di credere che la nostra fine è prossima, ebbene, questo altro mondo vedrà l’alba quando il nostro sarà ormai tramontato. L’Universo cadrà in uno stato di emiplegia [la paralisi degli arti]: uno dei due arti sarà paralizzato; l’altro nel pieno delle forze».
Montaigne pensa che il Nuovo Mondo, in confronto al Vecchio, sia un mondo innocente, e lo descrive elencando quello che gli manca: la scrittura, i vestiti, il pane e il vino, e con questa affermazione - facendo questo elenco emblematico di cose mancanti [la sacra scrittura, i vestiti per ovviare alla nudità dopo il peccato originale, il pane e il vino dell’eucaristia?] - Montaigne ci ricorda che, inevitabilmente, in Europa, si apre una aspra discussione di carattere teologico che riguarda alcune fondamentali questioni di natura religiosa [su cui la cristianità si divide, e la terza cosa che ha sorpreso gli indios Tupinamba e che Montaigne dice di non ricordare riguarda probabilmente una tematica religiosa che è meglio non rivelare]: in proposito, Montaigne riflette e fa riflettere le lettrici e i lettori: «Se [pensa e scrive Montaigne] le abitanti e gli abitanti del Nuovo Mondo camminano nudi senza provare vergogna, come facevano, in principio, Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, è forse perché non hanno conosciuto la Caduta? E ciò potrebbe dipendere dal fatto che il marchio, l’impronta, lo stigma del peccato originale ha, per volere divino, risparmiato queste persone?». Questi due interrogativi, emergenti dal testo dei Saggi di Montaigne, ci portano all’interno di un altro territorio [nel quale ci auguriamo di poter viaggiare il prossimo anno]: il territorio dell’Età dei Lumi. Sono molti gli argomenti, trattati nel testo dei Saggi, che fanno pensare a Michel de Montaigne come ad un autore illuminista ante litteram e, in questo caso, emerge “il tema del buon selvaggio”, un argomento complesso che tratteremo a suo tempo, caro ai filosofi della seconda metà del ‘700, come Denis Diderot e Jean-Jacques Rousseau.
Il Nuovo Mondo - contrariamente a quello Vecchio - è inequivocabilmente [scrive Montaigne] ancora vicino allo stato di Natura, e Madre Natura è sempre buona agli occhi di Montaigne, che coltiva “il pensiero naturalista” [d’impronta telesiana] e, nel testo dei Saggi, tesse di continuo le lodi della Natura, contrapponendola agli artifici della presunta “civiltà europea”. Più siamo vicini alla Natura e meglio è [pensa Montaigne] e, pertanto, le abitanti e gli abitanti del Nuovo Mondo vivevano meglio [scrive Montaigne] prima che Cristoforo Colombo li scoprisse portando “la civilizzazione”. Montaigne imbastisce un’importante riflessione di straordinaria modernità, e si domanda se il contatto fra questi due Mondi [il Vecchio e il Nuovo], che si trovano a uno stadio diverso del loro sviluppo, sia inevitabilmente destinato a produrre un profondo squilibrio nell’Universo, ed è propenso a credere che questo squilibrio si produrrà; e, per spiegare il suo pensiero, riprende la classica analogia [della Filosofia rinascimentale di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola] tra il macrocosmo e il microcosmo, una analogia che concepisce l’Universo [il macrocosmo] sul modello del corpo umano [il microcosmo]: «un corpo [scrive Montaigne] che diventerà mostruoso, con una gamba forte e l’altra invalida, un corpo che sarà deforme, storpio, claudicante »[e non è forse questa l’immagine del mondo di oggi?].
L’autore dei Saggi non crede nel progresso [nel tipo di progresso messo in atto dalla colonizzazione della quale denuncia per tempo il drammatico squilibrio che ha provocato: uno squilibrio in atto]. Per Montaigne la colonizzazione dell’America non porterà niente di buono, perché il Vecchio Mondo corromperà il Nuovo, e scrive Montagne [nel capitolo VI del Libro III dei Saggi]: «Ho ragione di credere che, contagiando il Nuovo Mondo, abbiamo di molto accelerato il suo declino e la sua rovina, e che gli abbiamo fatto pagar care le nostre idee e le nostre arti. Era un mondo bambino, ma non lo abbiamo castigato e sottomesso alla nostra disciplina facendo valere la nostra virtù e le nostre forze naturali, né lo abbiamo irretito con la nostra giustizia e bontà, né soggiogato con la nostra magnanimità. Il contatto con il Vecchio Mondo farà sì che quello Nuovo diventi decrepito in fretta senza che il Vecchio ringiovanisca perché il Nuovo non lo abbiamo conquistato con la nostra superiorità morale ma lo abbiamo piegato con la forza bruta».
Montaigne, nel testo dei Saggi, si esprime in modo fortemente critico nei confronti del colonialismo e fa anche in tempo a leggere i primi resoconti sulla crudeltà dei conquistadores spagnoli nel Nuovo Mondo [che confermano il suo pensiero] e la sua biblioteca contiene, tradotta in francese, un’opera esemplare in proposito [che abbiamo incontrato recentemente, alla fine di maggio del 2017]: la Brevissima relazione della distruzione delle Indie di un personaggio che conosciamo, Bartolomé de Las Casas, dapprima frate domenicano nominato vescovo amministratore [encomendero] per sovrintendere allo sfruttamento delle terre della corona spagnola ad Haiti e poi [dopo essere risalito al Vangelo, nel 1514] diventa libero-frate che si schiera con gli indios, li affranca dalla schiavitù e li guida in una lunga guerra di liberazione anticoloniale. La relazione di Bartolomé de Las Casas, pubblicata nel 1544, è un terribile memoriale d’accusa contro il colonialismo europeo nella quale l’autore [con taglio giornalistico] descrive, nei minimi particolari, l’allucinante barbarie della macchina coloniale che distrugge intere popolazioni e rapina le loro ricchezze. Questo memoriale è un’inquietante testimonianza degli orrori del colonialismo e, nello stesso tempo, è un invito vibrante perché l’evangelizzazione non diventi un processo di conversione forzata che favorisce lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: «L’evangelizzazione è, prima di tutto [scrive Bartolomé de Las Casas], un cammino di conversione personale e la teologia prende forma nel momento in cui siamo in grado di liberare noi stesse e noi stessi dalla iniqua volontà di sottomettere il prossimo ai nostri voleri». Montaigne condivide il pensiero di Bartolomé de Las Casas ed è il primo scrittore europeo che, investendo in intelligenza, mette in stato di accusa il colonialismo, che veniva presentato alle masse dai monarchi come se fosse una sorta di epopea eroica, di missione civilizzatrice e di cristianizzazione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La Brevissima relazione della distruzione delle Indie di Bartolomé de Las Casas la trovate in biblioteca e potete leggerne qualche pagina così come ha fatto Michel de Montaigne…
A questo proposito potete anche leggere o rileggere il testo del REPERTORIO numero 28 - in vostro possesso o reperibile sulla rete - dell’ultima Lezione [la ventottesima] del viaggio dell’anno 2016-2017 intitolato “La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna”…
Montaigne, dopo la morte di La Boétie, vive un periodo [due anni] di disorientamento e di riflessione. Come abbiamo detto, questo avvenimento gli cambia la vita e lo obbliga a fare delle scelte particolari e non convenzionali. Però, poi, arrivato il momento, fa ciò che per obbligo, qualunque nobiluomo del suo tempo, in particolare se di famiglia abbiente, deve fare: prender moglie. E così, per Michel, i suoi genitori [Pierre e Antoinette] scelgono una signorina di buona famiglia di Bordeaux che si chiama Françoise de La Chassaigne [suo nonno è un magistrato che ha lavorato al parlamento di Bordeaux con Montaigne]. A queste nozze imminenti [il 23 settembre 1565, cioè la prossima settimana (quando si studia ci si allarga la vita a piacimento)] siamo invitate e invitati anche noi [in abito da cerimonia].
Secondo il costume all’epoca, questo matrimonio è stato combinato e Montaigne, di conseguenza, decide di prendere un’iniziativa non conforme alla prassi consueta e chiede formalmente, al notaio che si occupa della stipula del contratto tra le due famiglie, che, prima della cerimonia, avvenga qualcosa che non è in uso. Montaigne è Montaigne [medita sul tema della servitù volontaria] e non rinuncia a manifestare il suo pensiero: qual è la sua richiesta?
Per rispondere a questa e ad altre domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli che non dobbiamo mai perdere la volontà d’imparare [il matrimonio - si domanda Montaigne - fa aumentare o fa diminuire la volontà d’imparare?].
La Scuola [indipendentemente dallo stato civile di ciascuna e di ciascuno di noi] è qui, e il viaggio continua…