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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE SI ACCENDE LA LOTTA PER LE INVESTITURE TRA IL PAPATO E L’IMPERO, UTILIZZANDO COME ARMA IL TESTO DELL’APOCALISSE ...

Lezione N.: 
20

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale     11-12-13  marzo  2015

Matilde di Canossa

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE

SI ACCENDE LA LOTTA PER LE INVESTITURE TRA IL PAPATO E L’IMPERO,

UTILIZZANDO COME ARMA IL TESTO DELL’APOCALISSE  ...


   Questo è il ventesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale” e questa sera, nella prima parte del nostro cammino, dobbiamo ancora puntare l’attenzione sul Libro che ha avuto maggior successo in Età medioevale: l’Apocalisse di Giovanni. Come abbiamo studiato la scorsa settimana, il testo di questo Libro assume una posizione di rilievo nella cultura medioevale perché è uno degli esempi più significativi di quello stile letterario che poi è stato chiamato “romanzo allegorico”: un genere che si caratterizza per la sua “essenza apologetica”, e abbiamo studiato che cosa significa questa affermazione.
Il “romanzo allegorico” è un oggetto che possiede un filo conduttore narrativo assai complicato perché, chi scrive, non bada alla trama ma vuole mettere in evidenza, vuole esaltare in modo emblematico [ricorrendo ad una continua trafila simbolica fatta di numeri, di colori, di bestie] la concretezza e la funzionalità di una o più cose ritenute di universale interesse, e nel testo dell’Apocalisse troviamo l’apologia [l’esaltazione, la promozione] di due oggetti molto significativi e tangibili che hanno contribuito ad amplificare la fama di quest’opera: il libro e la città. La fisionomia dell’Apocalisse, in quanto “romanzo simbolico di carattere apologetico”, è data soprattutto da questi due elementi: il libro e la città. Sul “libro” considerato come “strumento di salvezza” abbiamo riflettuto, con la complicità anche di Primo Levi, nel corso dell’itinerario di otto giorni fa e questa sera ci dobbiamo occupare della “città” che, anche attraverso gli ultimi due capitoli del Libro dell’Apocalisse, ha assunto, in Età medioevale, un ruolo strategico.
   Il primo dato che salta all’occhio attraversando il territorio medioevale è il gran numero di città che sono sorte [e noi ne abbiamo già visitato un certo numero e continueremo a visitarne ancora], perché la costruzione delle città è uno degli atti creativi più originali del Medioevo, e su di esso si basa lo sviluppo dell’Europa moderna. I costruttori non si limitano a ricalcare, quando esiste, il vecchio nucleo romano ma, adeguandosi alla natura del terreno, inventano un organismo urbano che definisce la forma delle città per i successivi 500-600 anni. La città, dopo l’anno Mille, cresce attraverso una somma di iniziative individuali che devono, però, sottostare ad alcuni regolamenti edilizi stabiliti dal governo comunale [quello che oggi chiamiamo “piano regolatore”] e poi, nella costruzione degli edifici, le iniziative individuali si armonizzano l’una con l’altra perché fanno tutte riferimento ad un unico sistema culturale che s’impone e che, inizialmente, è quello detto della “casa-torre”; su questo tema architettonico, e sugli argomenti che riguardano la città medioevale, ci si può sbizzarrire a fare ricerca [il numero dei saggi che si trovano depositati in biblioteca e il numero dei siti che sulla rete si occupano del tema della città medioevale è enorme], e noi viviamo in una zona del mondo dove sono presenti molti manufatti architettonici medioevali con tutta la loro forza evocativa. Ebbene, dall’XI secolo le città costituiscono un significativo polo di attrazione: abbiamo incontrato Ildegarda di Bingen in queste ultime settimane che esce spesso dalla clausura [i monasteri benedettiti sono in campagna, al di fuori dei centri urbani] e va a predicare nelle cattedrali edificate nel cuore delle città, le quali, dilatando il loro spazio, diventano l’emblema della potenza cittadina, così come si allargano e si fortificano le mura di cinta della città che devono dividere nettamente la società civile [la gente di città, libera] dalla natura selvaggia [abitata dai contadini, gli asserviti].
   Molte e molti di noi - sebbene questa sia una situazione antropologica che ha la sua origine nell’XI secolo - hanno fatto esperienza, pur vivendo in Età contemporanea, dell’epocale situazione data dalla netta divisione tra la città [la gente] e il contado [i contadini]: e basta anche solo leggere i testi contenuti nei Libri che documentano l’attività di questa esperienza didattica ai suoi albori, negli anni ’80 del secolo scorso [A due passi da San Gersolè, Scrivere a mezzanotte, Con quattro parole] per trovare, scritte dalle studentesse e dagli studenti di questa Scuola, certe espressioni ben presenti nella nostra recente tradizione popolare. Si legge, per esempio, in Scrivere a mezzanotte:

LEGERE MULTUM….
Scrivere a mezzanotte

   Dorfino [di Grassina] chiede a Gago [di Quarate]: «C’era parecchia gente alla fiera?». E Gago risponde: «Gente poca, eran tutti contadini!» …

   I carabinieri fermano il camion di Gago, tirano su il telone e scoprono che il mezzo è pieno di persone. Un carabiniere accigliato gli dice: «Lo sa che lei la gente non la può portare!». E lui risponde: «Non son mica gente, son tutti contadini!» …


   C’è in queste affermazioni qualche cosa di più di una battuta di spirito: c’è la profonda interiorizzazione di un dato di fatto che si riproduce dall’anno Mille.
    La città - secondo l’ideologia che si è andata formando dopo l’anno Mille - diventa il contenitore del bene, di ciò che è buono, della grazia divina mentre la campagna, ciò che sta al di fuori della mura della città, diventa lo spazio del male, il ricettacolo del peccato, il territorio del demonio. E noi ci domandiamo: ma come è possibile che sia nato e si sia sviluppato un simile modo di pensare?
    Le ragioni per cui la città, dopo l’anno Mille, prevale sulla campagna sono molteplici a cominciare da quelle economiche: nasce una nuova classe sociale cittadina, la borghesia, che [senza restituire nulla alla campagna sebbene l’attività agricola fornisca il reddito di partenza] investe i proventi dell’agricoltura per incentivare i commerci sfruttando la manodopera salariata; poi ci sono ragioni politiche che portano a far sì che nelle città la figura di maggior prestigio sia quella del vescovo che, seduto in cattedra, esercita un potere e un’autorità straordinaria, e spesso i vescovi e i borghesi si trovano uniti nel rivendicare l’autonomia politica e amministrativa della città [del libero comune] nei confronti dell’imperatore. E sono proprio i vescovi a far maturare l’ideologia che giustifica la supremazia della città su tutto il resto del territorio, sul contado extraurbano.
   I vescovi, subito dopo l’anno Mille, nelle loro prediche [ex cattedra] si soffermano a commentare soprattutto l’Apocalisse perché “la potenza della città” trova la sua giustificazione ideologica proprio nel testo di questo libro. Il prestigio della città, dall’XI secolo, viene garantito dalle parole contenute nel testo del capitolo 21 dell’Apocalisse che hanno sempre affascinato tutte e tutti coloro i quali pensano ad un cambiamento della qualità della vita. Questo capitolo - chiamato “dei nuovi cieli e della nuova terra” - racconta che Giovanni vede, come se fosse in sogno, un cielo nuovo e una terra nuova che gli appare come se Dio avesse creato il mondo da capo, in modo completamente inedito e straordinario. Giovanni vede Gerusalemme, la città santa, scendere dal cielo in sostituzione di quella che si trova in Israele, dove c’è il tempio di Dio, e questa nuova Gerusalemme “celeste” è una città splendida, costruita con dodici varietà di pietre preziose e con dodici porte, attraversata da un fiume circondato da alberi pieni di frutti che formano il bellissimo giardino [parádeisos] simile a quello in cui Dio aveva messo in origine i progenitori: questa città è piena di Luce, dice Giovanni, anche se non si vede nessuna lampada e, a questo punto, si capisce che rappresenta la Chiesa la quale raccoglie tutta la comunità umana, e le dodici porte [e Giovanni lo intuisce] rappresentano i dodici apostoli, i discepoli di Gesù che hanno annunciato la sua risurrezione. La Luce che splende nella città di Dio è il segno della sua presenza e questa presenza si manifesta quando le persone vivono nell’amore e nella pace. E, sebbene questo sia un sogno, afferma Giovanni,, presto il Signore tornerà per trasformare il mondo secondo questa rivelazione [apo-kàlypsis].
   Naturalmente anche gli intellettuali della Scolastica, che si sono insediati nelle città, trovano che l’Apocalisse sia un libro straordinario e sanno che Agostino di Ippona - colui che viene considerato il precursore della Filosofia cristiano-latina - ne ha già fatto l’esegesi in un’opera redatta tra il 413 e il 426, intitolata La città di Dio [De civitate Dei] che, dall’XI secolo, assume una notevole importanza sul piano dell’interpretazione della realtà e viene studiata in tutte le Scuole. La città di Dio [De civitate Dei] di Agostino è una delle opere più lette e più studiate della Storia del Pensiero Umano a cominciare dall’Età medioevale. Agostino decide di scrivere La città di Dio dopo il sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico nel 410: i pagani sostenevano che questo avvenimento era stato determinato a causa dell’abbandono ufficiale degli dèi romani, protettori della Città, spodestati dalla religione cristiana. Agostino - con il testo dell’Apocalisse alla mano - sostiene, invece, che l’implosione dello Stato romano è causata dalle contraddizioni insite nel nefasto sistema imperialistico basato sulla “mentalità predatoria”. Agostino sostiene che i Romani, e tutti coloro i quali si sono definiti conquistatori, fondano il loro impero e le loro città credendo di costruire la storia mentre la fanno degenerare perché la Storia [con la S maiuscola] ha il suo fine nella realizzazione della città di Dio, della Gerusalemme celeste, governata dall’Amore. Per Agostino esistono due sistemi, due città del tutto diverse tra loro: quella materiale [dove prevale l’egoismo e l’indifferenza] e quella spirituale, che verrà [dove trionferà l’amore per Dio e per il prossimo]. Questa visione - che ha le sue radici nel capitolo 21 dell’Apocalisse - costituisce, ai primordi dell’Età medioevale, sulle macerie dell’implosione delle Istituzioni imperiali romane, un punto di riferimento fondamentale per chi spera in un cambiamento [nell’avvento di cieli nuovi e di una nuova terra] che possa portare all’edificazione di un mondo in cui “ogni lacrima possa essere asciugata”.


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali parole - non più di tre - vi fa venire in mente il termine “città”?... 
Scrivetele ...

   Il fermento provocato dai commenti sul testo dell’Apocalisse, a cominciare da quello autorevole di Agostino, fanno sì che la città venga paragonata al Paradiso - la forma del Paradiso è quella di una “città perfetta” - e questo fatto prende consistenza a livello allegorico con la comparsa di un simbolismo che si manifesta già all’ingresso in corrispondenza delle porte per mettere in evidenza l’aspetto sacrale della città. Possiamo, in proposito, fare un esempio puntando la nostra attenzione su una zona caratteristica della città di Firenze: quando ci troviamo di fronte a Porta Romana [un’immagine che tutte e tutti voi, in questo momento, avete in mente] ci rendiamo subito conto [abbiamo tuttora la precisa sensazione] che esiste un “fuori” [che oggi ci si presenta in modo caotico] e un “dentro” [che dovrebbe contenere la bellezza], e riusciamo anche a pensare che, in Età medioevale, le persone in ingresso - che erano a conoscenza dell’allegoria “apocalittica” [perché l’immagine della Gerusalemme celeste è stata inculcata nella mente di ogni persona] - erano consapevoli di entrare attraverso la porta all’interno di uno spazio “benedetto” autenticato dalla presenza di alcuni oggetti raffiguranti figure simboliche rappresentative del Paradiso]; oggi la Porta Romana [la porta lignea conserva ancora i battenti originali del 1300 e si presenta tutta completamente aperta] non mostra più, però, i simboli che mettono in evidenza il carattere sacro dell’area urbana: di quali simboli stiamo parlando? Dobbiamo imbastire una riflessione in proposito.
    Nell’XI secolo, in quella che è oggi la zona di Porta Romana [ed è un esercizio di osservazione che potete svolgere facendo due passi in loco], la cinta muraria di Firenze era più arretrata, e si entrava in via Romana all’altezza della chiesa romanica di San Pietro in Gattolino [che è stata ricostruita nella seconda metà del ‘500 secondo lo stile dell’archutetto Santi di Tito e - di conseguenza - rispetto all’anno Mille l’aspetto di questo edificio è molto cambiato]: per entrare in città, quindi, si doveva passare attraverso la porta di una chiesa sopra la quale c’era l’effigie di San Giovanni Evangelista, il protagonista dell’Apocalisse. Circa tre secoli dopo, tra il 1328 e il 1331, in seguito all’ampliamento delle mura, è stata costruita la Porta Romana dove la troviamo oggi che veniva tuttavia ancora chiamata Porta di San Pier Gattolino come la chiesa [anche se, ormai, tra la chiesa di San Pietro in Gattolino e la nuova Porta c’era una certa distanza ed era sorta anche, a ridosso delle nuove mura, una vasta piazza chiamata della Calza sulla quale era sorto il convento dei frati Ingesuati che portavano un lungo cappuccio a forma di calza ed è proprio da questo particolare che ha preso il nome la piazza]; naturalmente, per rispettare e rafforzare l’idea [apocalittica, rivelatrice] che le persone in ingresso stavano entrando nell’area sacra della città - in Paradiso - sopra la Porta Romana c’erano tre nicchie contenenti tre statue massicce in stile romanico raffiguranti, in quella centrale, la Madonna col Bambino e, ai lati, San Pietro, con in mano le chiavi, e San Paolo, con in mano la penna, scolpite nel 1328 da Paolo di Giovanni, conservate ora al Museo del Bargello.
   Alla metà del Cinquecento la struttura della Porta Romana è stata rettificata e, gradualmente, con l’avvento della modernità, anche il concetto di città è cambiato [e ne parleremo a suo tempo]: le statue sono state rimosse; però, per l’altare maggiore della chiesa del convento degli Ingesuati - il primo edificio religioso al quale si passava, e si passa ancora, dinnanzi entrando in città da Porta Romana - è stata commissionata a Jacopo Chimenti detto l’Empoli [1551-1640] una tavola raffigurante l’Evangelista San Giovanni, il protagonista dell’Apocalisse, e l’Arcangelo Michele, il capo degli angeli che sfida il Drago con i suoi demòni nel capitolo 12 dell’Apocalisse: quindi, il richiamo all’allegoria “apocalittica” che rimanda all’idea della “Gerusalemme celeste” si è conservato.
   Oggi dentro la grande aiuola che si trova al centro del Piazzale di Porta Romana c’è dal 1984 un’opera in marmo, intitolata Dietrofront, scolpita da Michelangelo Pistoletto, che nella forma ricorda lo stile medioevale [arcaico] delle statue di Paolo di Giovanni e nel contenuto rappresenta un corpo formato da due figure: una figura è in piedi, in verticale, che guarda “oltre la città”
[l’oggetto si trova appena fuori dalla città murata] e tiene in testa un’altra figura, orizzontale, che ha ancora lo sguardo rivolto verso la città: questo significa che, mentre abbiamo ancora bisogno di guardare alla città, tuttavia, vorremmo, o dovremmo, andare oltre un modello ormai obsoleto?


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate una passeggiata dalle parti di Porta Romana per osservare gli oggetti e le strutture che abbiamo citato...  


   Non possiamo fare a meno di mettere in evidenza - riguardo a questo tema - quanto il testo della Divina Commedia di Dante sia graffiante. Dante Alighieri [siamo all’inizio del 1300] nel Canto III della Prima cantica, l’Inferno, della Commedia mette in discussione - avendo ben presente il testo dell’Apocalisse - il fatto che la città, oltre al Paradiso può anche assomigliare all’Inferno e lo fa con l’intenzione ben precisa di lanciare un’implicita invettiva contro i governanti della sua città che lo hanno mandato in esilio comportandosi in modo crudele e ingiusto nei suoi confronti.
   Leggiamo il famosissimo incipit del Canto III dell’Inferno per riflettere su questo metaforico particolare: la forma dell’Inferno è quella di una città creata da Dio [il Dio trinitario interpretato dalla Scolastica come: divina Potestate, il Padre, somma Sapienza, il Figlio, e primo Amore, lo Spirito Santo], una città creata da Dio, in principio, insieme alle cose che durano in eterno [Firenze, afferma Dante, non è la Gerusalemme celeste: è l’Inferno!]. Sulla porta della città infernale non ci sono i simboli che richiamano il capitolo 21 dell’Apocalisse ma c’è un cartello che rimanda alla trafila che va dal capitolo 13 [la Grande Tribolazione] al capitolo 20 [il Giudizio definitivo] dell’Apocalisse, opera che Dante interpreta - come spesso fa - con grande maestria, poetica ed esegetica.


LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Inferno  Canto III
PER ME SI VA NELLA CITTÀ DOLENTE,
PER ME SI VA NELL’ETERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE:
FECEMI LA DIVINA POTESTATE,
LA SOMMA SAPIENZA E IL PRIMO AMORE.

DINANZI A ME NON FUR COSE CREATE
SE NON ETERNE, ED IO ETERNO DURO:
LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH’ENTRATE.

Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta,
perch’io: “Maestro, il senso lor m’è duro”.

Ed egli a me, come persona accorta:
“Qui si convien lasciare ogni sospetto;
ogni viltà convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al luogo ov’io l’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben dello intelletto”. …


   E adesso, dopo le cose che abbiamo detto e i ragionamenti che abbiamo fatto in proposito, dobbiamo leggere il testo del capitolo 21 dell’Apocalisse.


LEGERE MULTUM….
Apocalisse  21

Allora io vidi un nuovo cielo e una nuova terra, - il primo cielo e la prima terra erano spariti, e il mare non c’era più, - e vidi venire dal cielo, da parte di Dio, la santa città, la nuova Gerusalemme, ornata come una sposa pronta per andare incontro allo sposo.
Una voce forte che veniva dal trono esclamò: «Ecco l’abitazione di Dio fra gli umani; essi saranno suo popolo ed egli sarà “Dio con loro”. Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci sarà più né lutto né pianto né dolore. Il mondo di prima è scomparso per sempre». Allora Dio dal suo trono disse: «Ora faccio nuova ogni cosa». Poi mi disse: «Scrivi, perché ciò che dico è vero e degno di essere creduto». E aggiunse: «È fatto. Io sono l’Inizio e la Fine, il Primo e l’Ultimo. A chi ha sete io darò gratuitamente l’acqua della vita. Ai vincitori toccherà questa parte dei beni. Io sarò loro Dio, ed essi saranno miei figli. Ma i vigliacchi, i miscredenti, i depravati, gli assassini, gli svergognati, i ciarlatani, gli idolatri e tutti i bugiardi andranno a finire nel lago ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte».
Poi venne uno dei sette angeli che avevano le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli, e mi disse: «Vieni, ti mostrerò la sposa dell’Agnello». Lo Spirito mi trasportò su una grande montagna, molto alta, e l’angelo mi mostrò Gerusalemme, la città santa che appartiene al Signore. Essa scendeva dal cielo, da parte di Dio. Aveva lo splendore di Dio, brillava come una pietra preziosa, come una gemma cristallina. Le sue mura erano solide ed elevate, con dodici porte. Alle porte stavano dodici angeli, e sulle porte erano scritti dodici nomi, quelli delle dodici tribù d’Israele. C’erano tre porte a oriente, tre a settentrione, tre a mezzogiorno e tre a occidente. Le mura poggiavano su dodici basamenti, e su ciascuno di questi era scritto un nome, quello di uno dei dodici apostoli dell’Agnello. L’angelo che parlava con me aveva una canna d’oro per misurare la città, le sue mura e le sue porte. La città era quadrata, di larghezza uguale alla lunghezza. L’angelo misurò la città: dodicimila stadi [più di duemila chilometri]. La lunghezza, la larghezza e l’altezza sono identiche. Poi misurò le mura: centoquarantaquattro cubiti [settanta metri], secondo la misura umana che usava l’angelo. La città era d’oro puro, splendente come cristallo; le sue mura erano di diaspro. I basamenti delle mura erano ornati di pietre preziose di ogni genere: di diaspro il primo, di zaffiro il secondo, di calcedònio il terzo, di smeraldo il quarto. Il quinto basamento era di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. Le dodici porte erano dodici perle: ognuna era ricavata da una perla sola. La piazza della città era d’oro puro, splendente come cristallo.
Non vidi nessun santuario nella città, perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo santuario.
Inoltre la città non ha bisogno di sole né di luna, per rischiararla, perché la illumina lo splendore di Dio, e l’Agnello è la sua luce. Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra verranno a lei con il loro splendore. Di giorno le porte non saranno mai chiuse, e non ci sarà più notte. A lei le nazioni porteranno il loro splendore e le loro ricchezze. Nulla di impuro vi potrà entrare, nessuno che pratichi la corruzione o commetta il falso. Entreranno soltanto quelli che sono scritti nel libro della vita [le vittime dell’ingiustizia causata dai profittatori] che appartiene all’Agnello. …


   La figura “apocalittica dell’Agnello [dipinta, scolpita, variamente interpretata]” rappresenta Gesù Risorto e la troviamo rappresentata, anche se oggi è passata in secondo piano, in tutti i più importanti punti strategici della città [in chiese, in palazzi, in biblioteche, in angoli di strade, in tabernacoli, in banche, in punti di ristoro, in centri di assistenza, in mercati, in musei e pinacoteche]. Fateci caso, e pensate che questo simbolo [l’Agnello immolato che però sta ben ritto in piedi] rimanda alla pagina che abbiamo letto, al capitolo 21 dell’Apocalisse, un testo tardo-antico che si presenta come uno dei “manifesti politici” [e come sapete il termine “polis” indica la città in greco] più espliciti dell’Età medioevale, e le ultime tre righe di questo testo sembrano composte per la contemporaneità: «Nulla [nella città] di impuro vi potrà entrare, nessuno che pratichi la corruzione o commetta il falso. Entreranno soltanto quelli che sono scritti nel libro della vita [le vittime dell’ingiustizia causata dai profittatori] che appartiene all’Agnello».
    La struttura portante [il Logos] del testo dell’Apocalisse è costituita da tre parole-chiave: l’Agnello, il Libro e la Città, tre termini che, a loro volta, inglobano tre valori, tre concetti-cardine. L’Agnello è il simbolo che preserva dal Male e prefigura la Libertà; il Libro è il simbolo che affranca dall’ignoranza e prefigura l’Uguaglianza; la Città è il simbolo che rappresenta il buon governo e prefigura la Fraternità.


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste tre parole [sebbene abbiano un rapporto sinergico] - l’Agnello, il Libro e la Città - ritenete sia meglio mettere al primo posto? ... 
Scrivetela ...


   Per quanto riguarda l’Apocalisse dobbiamo ancora riflettere in quali circostanze questo testo è stato utilizzato alla stregua di “un’arma”, e ciò è avvenuto nel momento in cui le città sono assurte al rango di “liberi comuni” rivendicando la loro autonomia nei confronti dell’imperatore e poi, soprattutto, nel corso del più duro scontro tra il papato e l’impero avvenuto nel corso dell’XI e del XII secolo: uno scontro epocale che ha preso il nome di “lotta delle investiture”. Di questo argomento, che non possiamo ignorare, noi ora ce ne occupiamo a grandi linee in relazione al testo dell’Apocalisse [ma chi volesse approfondire trova, in biblioteca e navigando in rete, molto materiale in proposito].
    Nel 1024, alla morte di Enrico II cessa il predominio del casato di Sassonia, e succede al trono di Germania e dell’Impero la dinastia di Franconia e, nello spazio di un secolo [dal 1024 al 1125], si susseguono quattro sovrani di questa casa regnate: Corrado II il Salico, Enrico III, Enrico IV ed Enrico V.
   Corrado II il Salico, nel 1037, decide di schierarsi dalla parte dei feudatari minori, i valvassori, contro l’eccessiva potenza raggiunta dai vescovi-conti nelle città. Il più influente è il vescovo di Milano, Ariberto d’Intimiano, che - dopo aver sottomesso i piccoli feudatari [i valvassori] dell’interland milanese - ha fatto diventare la sua città [predicando l’Apocalisse] potente come uno Stato nazionale e contro di lui i valvassori si ribellano: fondano [un partito] una consorteria detta “La Motta”
[il termine “motta” è di carattere geologico e significa “blocco roccioso”] ma Ariberto fa intervenire il suo esercito e le terre dei valvassori vengono confiscate. A questo punto l’imperatore Corrado II il Salico emana la famosa “Constitutio de feudis[la Costituzione feudale] che rende ereditari anche i feudi minori [i feudi maggiori, quelli dei vassalli, lo erano già] per cui i valvassori passano alla diretta dipendenza dell’Impero. Ma l’arcivescovo Ariberto trova un valido appoggio nel popolo milanese [lo galvanizza predicando l’Apocalisse] e nella nuova classe, la borghesia. La borghesia finanzia la struttura militare della città e nasce l’esercito cittadino [la leva popolare] a difesa della città assediata dalle forze della “Motta”. L’arcivescovo guida questo esercito in campo aperto contro gli assalti della cavalleria feudale mettendosi su un carro, che prende il nome di Carroccio, sul quale durante la battaglia celebra la Messa per ribadire che è la città ad avere “il monopolio del messaggio della salvezza”. Il popolo e la borghesia di Milano combattono per il loro vescovo che - Apocalisse alla mano - sprona i cittadini ad ambire alla propria autonomia in nome della Libertà, dell’Uguaglianza e della Fraternità [le tre apocalittiche parole-chiave] e invita il suo popolo ad eleggere i propri rappresentanti perché partecipino con lui al governo della città: sorge così il primo libero Comune in Italia, nel 1044.


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - collettivo, comunitario, sociale, collegiale, pubblico, popolare, o quale altra – mettereste per prima accanto al termine “comune”?... 
Scrivetela ...


   Il successore di Corrado II, Enrico III, capisce che è necessario indebolire il potere dei vescovi-conti ed è per questo motivo che decide di avere voce in capitolo nell’elezione del pontefice che, in quanto vescovo di Roma, aveva un primato e, quindi, un’influenza su tutti gli altri vescovi: l’imperatore, avendo un’ascendente sul papa, avrebbe potuto contrastare meglio la potenza di quei vescovi che, avevano cominciato a governare autonomamente in molte città europee. Enrico III, in effetti, è preoccupato per la corruzione in cui versa la curia romana e che, dal centro della cristianità, il mal costume si trasmette su tutta l’Ecumene cattolica, ed è influenzato dal fatto che lui ha un certo numero di parenti [aristocratici tedeschi di Franconia] che sono monaci intransigenti nelle più importanti abbazie germaniche. Come sappiamo la curia romana in questo periodo sta vivendo una crisi drammatica dovuta, soprattutto, allo scontro tra le famiglie aristocratiche romane per la gestione del potere pontificio [dal 1033 al 1046 ci sono, ancora una volta, tre papi in contemporanea: Benedetto IX, Silvestro III e Gregorio VI] e, quindi, l’imperatore Enrico III coglie l’occasione per intervenire.
   Enrico III di Franconia - che guarda con attenzione alle istanze moralizzatrici della Chiesa delle abbazie - ha buon gioco nel voler far pesare la sua autorità nell’elezione del papa con l’intenzione di combattere ogni forma di corruzione e, con un atto giuridico nel 1046 stabilisce che “il clero e il popolo romano eleggano pontefice colui che, in precedenza, è stato scelto dall’imperatore”. Enrico III fa eleggere successivamente ben quattro papi [Clemente II, Damaso II, Leone IX, Vittore II] tutti tedeschi, e anche imparentati con lui, provenienti dalle abbazie e degni della loro missione, i quali hanno cercato di promuovere la riforma della Chiesa.
   Il “movimento riformatore”
[per la riforma dei costumi ecclesiastici] comincia - su impulso come sappiamo di Silvestro II - a svilupparsi intorno all’anno Mille nel monastero di Cluny, in Borgogna, dove si comincia a riflettere sul fatto che vanno recuperati i precetti dell’originaria regola benedettina [quella scritta nel Secondo libro dei Dialoghi da papa Gregorio Magno nel 594] ai quali tutti, dall’abate all’ultimo monacello, devono sottostare [quattro ore per lavorare, quattro ore per studiare, quattro ore per pregare-contemplare-meditare-riflettere, quattro ore per prendersi cura di sé e degli altri, otto ore per riposare] perché nelle abbazie è penetrata la mentalità feudale che ha prodotto [una divisione di classe] forme gerarchiche incompatibili con il dettato evangelico. La riforma, prima ancora che a Cluny [dove se ne parla molto ma poi si concretizza poco], viene attuata in altri monasteri di Francia e d’Italia con l’istituzione degli eremi, fra cui quelli di Camaldoli [il riformatore come sappiamo è San Romualdo], di Vallombrosa [località che tutte e tutti voi conoscete], di Farfa [in Sabina] e di Fonte Avellana per merito di Pier Damiani [con il quale abbiamo celebrato il Natale]: in questi monasteri va formandosi una generazione di ecclesiastici che operano per attuare il rinnovamento della Chiesa. Nel monastero di Cluny si è formato il più battagliero dei riformatori: il monaco Ildebrando di Sovana [che abbiamo citato, a dicembre, come compagno di Pier Damiani].


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

È probabile che molte e molti di voi abbiate visitato la suggestiva e solitaria località di Sovana [o Soana] di origine etrusca poi romana e, tuttora, d’impronta medioevale che si trova a circa otto chilometri da Pitigliano in provincia di Grosseto...   Con la guida della Toscana e navigando in rete fate un’escursione e andate a scoprire e ad osservare i monumenti di Sovana [le rovine della rocca Aldobrandesca, la piazza e il palazzo Pretorio, il palazzo Bourbon del Monte, la chiesetta romanica di Santa Maria, il Duomo romanico e la necropoli etrusca], buon viaggio...   


   Ildebrando di Sovana è nato tra il 1013 e il 1024 in un’umile famiglia, ed è stato condotto a Roma in tenera età e avviato alla vita ecclesiale dallo zio, abate del monastero di Santa Maria sull’Aventino, e non si sa per quali circostanze si sia dovuto allontanare da Roma per rifugiarsi a Cluny dove ha completato i suoi studi nel vivace clima culturale di questa celebre abbazia [è in corso la disputa tra Berengario e Lanfranco sul tema dell’eucaristia e della transustanziazione]. Nel 1050, per le sue competenze intellettuali, Ildebrando viene chiamato a Roma dove si dedica ad un’intensa attività diplomatica per conto di tre papi tedeschi [quelli fatti nominare da Enrico III], poi, su suggerimento di Pier Damiani, viene assunto da papa Stefano IX [o X] come suo consigliere: papa Stefano IX [o X] - Federico dei duchi di Lorena, abate di Montecassino e zio della contessa Matilde di Toscana [un principe che si fa monaco e che abbiamo già incontrato a dicembre] - invia Ildebrando, dopo averlo nominato cardinale, come suo legato in Germania per far rispettare una serie di decreti che aveva emanato dopo la morte avvenuta nel 1056 dell’imperatore Enrico III perché il suo successore Enrico IV era ancora un bambino e molti ecclesiastici avevano approfittato di questa vacanza per far aumentare il tasso di corruzione [con la vendita delle cariche ecclesiastiche, delle indulgenze, delle assoluzioni dei peccati].
   Ildebrando di Sovana ha maturato una convinzione che, nel frattempo, si è rafforzata. Ildebrando di Sovana pensa [insieme ai rappresentanti della corrente riformatrice: Romualdo, Pier Damiani, Anselmo da Baggio, Desiderio di Montecassino] che debba essere la Chiesa ad avere il primato sulla scelta del pontefice, e lui riesce, con grande abilità politica e negoziatrice, ad acquisire il ruolo del grande elettore che l’imperatore Enrico III di Franconia aveva riservato per sé fino alla sua morte.
   Nel 1058, quando muore papa Stefano IX [o X], la nobiltà romana tenta di eleggere un papa che rappresenti e difenda gli interessi dell’aristocrazia pontificia e, difatti, il conte Gregorio di Tuscolo, che capeggia i nobili romani, fa nominare papa suo fratello, Giovanni vescovo di Velletri, che prende il nome di Benedetto IX ma, subito dopo, la famiglia Crescenzi elegge papa un altro nobile che prende il nome di Benedetto X. Ildebrando di Sovana agisce immediatamente: scrive una risoluzione in cui dichiara irregolari le due elezioni e una quindicina di cardinali si schierano dalla sua parte; contemporaneamente va ad interpellare l’imperatrice Agnese di Franconia [la vedova di Enrico III] che teneva la reggenza per il piccolo Enrico IV e la invita [lei non è persuasa ma si lascia convincere] a firmare un decreto scritto da Ildebrando nel quale si ordina di procedere ad una nuova elezione papale.
   Nel dicembre del 1058 i cardinali si riuniscono a Siena ed eleggono papa il candidato proposto da Ildebrando: il francese Gerardo di Borgogna vescovo di Firenze che assume il nome di Niccolò II. Niccolò II, su consiglio di Ildebrando che diventa segretario di Stato, dà inizio ad una decisa lotta per la moralizzazione della Chiesa stabilendo anche, in modo definitivo, che l’elezione del pontefice spetta al collegio dei cardinali, mentre al popolo, al clero e ai nobili resta solo la formalità dell’acclamazione.
   Alla morte di Niccolò II, nel 1061, viene eletto dal collegio cardinalizio, su proposta di Ildebrando di Sovana, un altro esponente della corrente riformatrice: Anselmo da Baggio vescovo di Lucca che prende il nome di Alessandro II. Ma, a questo punto, viene a determinarsi una frattura con l’impero: l’imperatrice reggente Agnese rivendica in nome del figlio Enrico IV il diritto imperiale che aveva stabilito il marito Enrico III di dare l’assenso all’elezione papale [di scegliere il candidato] e dichiara di non condividere la nomina di Alessandro II: l’ostilità di Agnese si concretizza con l’elezione, durante il sinodo dei vescovi tedeschi di Basilea nell’ottobre del 1061, di un antipapa, Càdalo vescovo di Parma, di origini germaniche, che prende il nome di Onorio II e che entra in Roma accompagnato dall’esercito imperiale e con l’appoggio della nobiltà romana, sempre disponibile a tramare pur di ottenere privilegi. Alessandro II è costretto a fuggire da Roma ma gli esponenti della Chiesa riformatrice fanno fronte e in loro aiuto interviene Goffredo II il Barbuto marchese di Toscana che muove su Roma con il suo esercito, respinge le milizie imperiali, mette in fuga Onorio II che, abbandonato [e ricattato] anche dalla nobiltà romana, si rifugia a Parma. Alessandro II riprende il suo posto di papa legittimo, però, a questo punto, lo scontro tra il papato e l’impero è iniziato, ed è destinato ad acuirsi perché, nel 1066, Enrico IV, diventato maggiorenne, assume le redini dell’impero coltivando un sempre maggiore atteggiamento antipapale e inizia a nominare vescovi-conti senza rispettare la proibizione pontificia che vieta ai laici di conferire cariche ecclesiastiche. Poi muore papa Alessandro II, che ha tenuto testa all’imperatore, e la corrente riformatrice ha un candidato forte da proporre ma viene addirittura anticipata perché, durante il funerale del pontefice defunto, Ildebrando di Sovana [il candidato forte delle corrente riformatrice] viene acclamato papa dal popolo romano, e i cardinali, il giorno dopo, confermano l’elezione. Siamo nell’aprile del 1073, Ildebrando attende un segnale da parte dell’imperatore Enrico IV, aspetta fino a giugno, poi, preso atto che questo segnale di assenso non arriva, si fa consacrare papa il 29 giugno prendendo il nome di Gregorio VII.
   La prima mossa di Gregorio VII è quella di assicurarsi l’appoggio di tre forti alleati: il marchese di Toscana, il normanno Roberto il Guiscardo [creato allora Duca di Puglia e di Calabria], e il popolo e il basso clero delle città che erano insorti in più luoghi contro i vescovi-conti corrotti, nominati dall’imperatore [che ne ricavava danaro], scacciandoli dalle loro sedi. Gregorio VII depone i vescovi di nomina imperiale nominandone altri: Enrico IV protesta e rivendica il diritto di nominare vescovi e abati, e allora il papa, nel 1075, convoca il concilio in Laterano. Nel Documento conclusivo, che ha preso il nome di Dictatus papae [Dichiarazione vincolante del papa], il pontefice e i padri conciliari dichiarano solennemente che “nessun signore laico, fosse pure l’imperatore, può concedere l’investitura di un feudo ecclesiastico a vescovi e abati, se prima questi non siano stati regolarmente eletti alla loro carica dalla superiore autorità ecclesiastica”. Con questo documento ha inizio fra il papato e l’impero quello scontro che ha preso il nome di “lotta delle investiture”.


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il termine “investitura” si accompagna con le parole: conferimento, nomina, attribuzione, assegnazione, mandato, carica... Avete ricevuto qualche “carica” particolare, qualche “incarico” di fiducia    ?...   
Scrivete quattro righe in proposito...


   Gregorio VII pretende che l’imperatore si attenga al Dictatus papae e dichiara che se non avesse ubbidito lo avrebbe scomunicato. Enrico IV risponde facendo dichiarare il papa indegno del pontificato e convoca un’assemblea di nobili e di vescovi tedeschi a lui fedeli per far dichiarare deposto il papa. Allora il papa, usando le parole del testo dell’Apocalisse [che è l’argomento da dove siamo partite e partiti], lancia contro il sovrano, etichettato come l’Anticristo, la scomunica: lo espelle dalla Chiesa cattolica sciogliendo tutti i suoi vassalli e i suoi sudditi dal dovere di obbedienza. La scomunica - sostenuta dalle parole del testo dell’Apocalisse, nel quale i re della terra vengono considerati infedeli - produce un effetto enorme e molti vassalli ne approfittano anche per mettersi apertamente contro l’Imperatore.
    Enrico IV, scomunicato e abbandonato da tutti, deve scendere a patti con il papa e capisce che per riconciliarsi con Gregorio VII, e riacquistare l’autorevolezza perduta, deve anche umiliarsi: fare atto di contrizione, almeno formalmente. Per raggiungere questo obiettivo Enrico IV è costretto a rivolgersi alla contessa Matilde di Canossa la quale è in buoni rapporti con Gregorio VII ed è schierata con il papato nella lotta delle investiture. Matilde è figlia di Bonifacio marchese di Toscana che non si è mai voluto sottomettere all’imperatore Enrico III ed è morto in prigione, e lei, da bambina, insieme a sua madre, Beatrice di Lorena, è stata tenuta prigioniera in ostaggio presso la corte germanica. Beatrice di Lorena, quando rimane vedova, accetta di sposare Goffredo II il Barbuto al quale era stato assegnato dall’imperatore il marchesato di Toscana [è vedovo anche lui e ha un figlio] e così Beatrice, insieme a Matilde, può tornare in libertà e riprendere il suo posto. Matilde a ventitré anni sposa nel 1069 il figlio del suo patrigno, Goffredo III il Gobbo, duca della Bassa Lorena, e si stabilisce nel castello di Canossa, nell’Appennino reggiano; quando il suo patrigno Goffredo II il Barbuto muore nel 1071, lei ripudia il marito-fratellastro adducendo l’impedimento canonico del legame di parentela [e la Chiesa scioglie questo matrimonio]. Matilde, visto che il marito ripudiato se ne torna a vivere in Lorena, inizia lei a governare il marchesato di Toscana con il titolo di contessa di Canossa e poi, per motivi di sicurezza, si risposerà nel 1089 con il ventenne [lei ha 43 anni] Guelfo V [o II] di Baviera, figlio del potente feudatario Guelfo IV [o I] di Baviera che le assicura protezione e autonomia.
   Matilde di Canossa conduce le trattative, coinvolgendo Adelaide di Savoia e l’abate Ugo di Cluny, per propiziare l’incontro tra Gregorio VII ed Enrico IV. La contessa ospita Gregorio VII nel suo imponente castello e invita Enrico IV, ma il papa pretende che l’imperatore [disarmato e penitente] venga ad implorare il perdono. Nel cuore dell’inverno del 1077 il più potente sovrano d’Europa valica le Alpi con un piccolissimo seguito e, dopo due giorni e tre notti trascorsi in veste di penitente davanti al castello di Canossa, ottiene l’assoluzione dal papa e, da questo momento, è diventato proverbiale definire un atto di umiliazione con l’affermazione: “andare a Canossa”.
   È interessante sapere che Enrico IV dona al papa una copia miniata dell’Apocalisse [un oggetto assai prezioso], ed è un regalo ambiguo, come per dire: «Guarda, o papa, che le parole dell’Apocalisse valgono anche per te che sei più che mai uomo di potere», e da questa mossa si capisce che Enrico IV non è veramente pentito, è solo molto irritato più che contrito e fa finta di sottomettersi.
   Naturalmente è obbligatorio fare un’escursione al castello di Canossa che si trova nel comune di Ciano d’Enza, in provincia di Reggio Emilia. Oggi del castello di Canossa rimangono i ruderi sopra una rupe  che sovrasta a 579 metri la valle del fiume Enza. Ai ruderi del castello si accede per un’erta gradinata e i resti di varie epoche di questo grandioso edificio hanno [per chi conosce la Storia, in particolare] un fascino speciale, soprattutto i consistenti avanzi della chiesa di San Apollonio del X secolo. Presso il castello di Canossa è stato allestito e si può visitare un piccolo interessante Museo e di lassù si può godere della vista di un estesissimo panorama. A quattro chilometri da Canossa, sopra una rupe, si trova un altro castello di Matilde, quello di Rossena, completamente ristrutturato, e sede dell’Istituto superiore di Studi Matildici e rinomato centro di attività turistiche.


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida dell’Emilia-Romagna e navigando in rete andate a Canossa e a Rossena [sui siti del castello di Canossa e del castello di Rossena si possono vedere delle belle immagini e leggere i programmi delle molte iniziative messe in atto], quindi, andate a Canossa non per umiliarvi ma per divertirvi ad investire in intelligenza... Però è necessario non trascurare il fatto che è diventato proverbiale definire un atto di umiliazione con l’affermazione: “andare a Canossa”... 
Quale di queste parole - avvilimento, mortificazione, depressione, sconfitta, sottomissione, o quale altra - mettereste per prima accanto al termine “umiliazione”?... 
Scrivetela ..  
In quale circostanza siete state e stati costretti ad umiliarvi per ottenere il perdono [ad “andare a Canossa”] ?...  E quando avete concesso voi il perdono a chi ve lo ha chiesto umiliandosi? ...
Scrivete quattro righe in proposito...


   Nel frattempo i feudatari di Germania, approfittando della debolezza di Enrico IV, definito l’Anticristo dell’Apocalisse, si ribellano e gli contrappongono un altro imperatore, Rodolfo, ma Enrico lo sconfigge, e poi, siccome si è sottomesso al papa solo per calcolo politico, scende nuovamente in Italia con un forte esercito desideroso di vendicarsi: pone Roma sotto assedio e costringe Gregorio VII a barricarsi in Castel Sant’Angelo. Enrico IV fa anche eleggere un nuovo papa, Guiberto arcivescovo di Ravenna, che prede il nome di Clemente III, che oggi si trova nella lista degli antipapi. Gregorio VII chiama in suo aiuto il normanno Roberto il Guiscardo duca di Puglia e di Calabria che interviene prontamente con il suo potente esercito e costringe l’imperatore Enrico IV e l’antipapa Clemente III a fuggire, e poi le truppe di Roberto [si sa che i Normanni sono un po’ pirati] espugnano e saccheggiano Roma, depredandola, e portano con loro, a Salerno, il papa per proteggerlo.
   L’anno seguente nel 1085 Gregorio VII muore in esilio molto addolorato [forse la maledizione apocalittica ha colpito anche lui? Forse]. Aveva però già designato un suo successore [anche da morto ha voluto svolgere il ruolo di grande elettore] il quale viene eletto: si chiama Desiderio dei duchi longobardi di Benevento ed è l’abate di Montecassino, che prende il nome di Vittore III e governa la chiesa dall’abbazia di Montecassino - sotto la protezione della contessa Matilde - perché Roma è ancora una volta nel caos. Vittore III continua la politica anti-imperiale del suo predecessore, conferma il Dictatus papae, e, quindi, la lotta delle investiture prosegue senza esclusione di colpi.
    Il popolo minuto vive ai margini e non è partecipe di questi avvenimenti se non in minima parte, e al popolo minuto appartengono i tre personaggi in compagnia dei quali abbiamo viaggiato dall’inizio di questo Percorso: Millemosche, Pannocchia e Carestia. Prima di leggere gli ultimi due episodi delle loro “storie” collocate nell’anno Mille - ma noi ormai siamo andati al di là di questa fatidica data - dobbiamo dire due cose intimamente collegate insieme: Millemosche, Pannocchia e Carestia sono tre figure letterarie senza dubbio di “stampo apocalittico” nel senso che posseggono, in virtù della natura allegorica, una spiccata “capacità visionaria”, ma è anche vero, però, che i tre nostri anti-eroi non hanno paradossalmente alcun rapporto con i due elementi portanti del testo dell’Apocalisse, con il libro e con la città: infatti, non si sono mai avvicinati ad un libro [sebbene siano loro stessi un libro] e neppure sono mai entrati in una città [ne hanno assediato una ma non vi sono penetrati, ne sono rimasti fuori]. Dopo questa considerazione che rende Millemosche, Pannocchia e Carestia “apocalittici” nella forma ma non nel contenuto - come se fossero uno dei tanti concetti paradossali che il movimento della Scolastica ha ideato - leggiamo gli ultimi due racconti di Storie dell’anno Mille.


LEGERE MULTUM….

Tonino Guerra  Luigi Malerba,  Storie dell’anno Mille
I PIRATI SARACENI

Una specie di barcone sgangherato con le vele rattoppate si avvicina a Millemosche che sta ancora a cavallo sul suo tronco in mezzo al mare. Il barcone è carico di pirati saraceni e che sono pirati saraceni si capisce subito dalle loro facce, dai loro gesti, dal modo di parlare, dagli stracci che portano addosso e dai lunghi pugnali che manovrano con grande furbizia. In un altro momento Millemosche avrebbe fatto di tutto per scappare, ma qui si tratta di morire affogato o mangiato dai pescecani.
Allora sono meglio i pirati. Gli sembra perfino di aver sentito dire che ci sono dei pirati buoni che vanno in giro per il mare a salvare quelli che sono naufragati e se per caso non lo ha sentito dire adesso gli fa comodo pensarlo. Fa dei gran gesti di amicizia in direzione del barcone piratesco saraceno e grida con la poca voce che gli è rimasta. «Tiratemi su e salvatemi. Sono carico d’oro».

... continua la lettura ...

 

   Ci congediamo da Millemosche, da Pannocchia e da Carestia dopo aver letto tutto intero il libro intitolato Storie dell’anno Mille di Tonino Guerra e Luigi Malerba, e di sicuro questi tre personaggi, soprattutto in virtù della loro dimensione allegorica, sono rimasti impressi nella nostra “fantasia” [direbbe Aristotele] per la loro attitudine “visionaria” [apocalittica].
    Il Libro dell’Apocalisse è servito come arma durante il lungo periodo della lotta delle investiture ma ha contribuito anche allo sviluppo della cultura scolastica, e nel mezzo secolo di duro scontro tra il papato e l’impero [dal 1075 al 1122] il mondo della cultura scolastica ha esteso la sua influenza soprattutto nelle città dove è aumentato il numero delle Scuole. Ma come si conclude la lotta per le investiture?
Dopo una pausa - dovuta ad una fase caotica provocata dalle fibrillazioni determinate dalla conflittualità per la conquista del potere tanto ai vertici dell’impero quanto nella città di Roma - la lotta per le investiture riprende quota. La lotta per le investiture riprende quando l’imperatore Enrico V, il figlio e successore di Enrico IV, non intende, come aveva fatto suo padre, sottostare al Dictatus papae [la Dichiarazione di Gregorio VII che sancisce la supremazia del potere spirituale del papa sul potere materiale dell’imperatore] e l’imperatore ricomincia a nominare i vescovi senza l’autorizzazione ecclesiastica approfittando anche del fatto che a Roma la situazione è caotica: dal 1087 al 1119 a tre papi legittimi [Urbano II, Pasquale II, Gelasio II], tutti monaci della Chiesa delle abbazie, vengono contrapposti dall’aristocrazia romana ben quattro antipapi [Teodorico, Alberto, Silvestro IV e Gregorio VIII]. Tuttavia l’istituzione ecclesiastica reagisce ed Enrico V viene scomunicato con il titolo apocalittico di Anticristo nel 1112 dal concilio di Vienne presieduto dal cardinale Guido di Borgogna, legato pontificio di papa Pasquale II [Raniero di Bieda, monaco cluniacense] che non può muoversi da Roma perché ci sono ben due antipapi [Teodorico e Alberto] che vorrebbero prendere il suo posto.
   Cogliamo l’occasione per fare una visita a Vienne [capitale, fino all’XI secolo, del regno burgundo, e sede di più di un concilio ecumenico]: una città di circa 30 mila abitanti, a 28 chilometri a sud di Lione sulle rive del fiume Rodano, ricca di monumenti romani ben conservati [il Portico, il Teatro e soprattutto il Tempio di Augusto e di Livia che è il più bell’edificio romano presente in Francia] e ben fornita di strutture medioevali [la Cattedrale di St-Maurice, la Chiesa-museo di St-Pierre, la Chiesa romanica di St-André-le-Bas].


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete fate un’escursione a Vienne nella valle del Rodano, buon viaggio...


   La situazione a Roma si stabilizza quando viene eletto papa, nel 1119, proprio il cardinale Guido di Borgogna [nativo di Vienne] che prende il nome di Callisto II e decide di revocare la scomunica all’imperatore Enrico V e lo invita ad avviare con lui una seria trattativa sul tema delle investiture, ed Enrico V accoglie di buon grado gli ambasciatori papali a Worms, città della Prussia Renana, per una conferenza che dura tre anni [tra i delegati papali - fino al 1121, l’anno della sua morte - c’è anche il vescovo Guglielmo di Champeaux che incontreremo fra poco]: la conferenza si conclude nel 1122 con il famoso Concordato di Worms. Con questo Concordato si stabilisce che i vescovi devono essere nominati secondo le norme della Chiesa, e quando hanno un dominio feudale l’investitura spirituale, con la consegna dell’anello e del pastorale, è riservata al papa mentre quella temporale, la consegna dello scettro e della spada, spetta in seconda istanza all’imperatore. In definitiva la lotta delle investiture finisce con la vittoria del papato.
    Cogliamo l’occasione per fare anche visita a Worms, città di circa 73 mila abitanti del Palatinato Renano posta sulla riva sinistra del Reno: di origine celtica, poi città romana, poi burgunda, poi libera città dell’Impero, sede di sinodi ecclesiali e di diete imperiali e ricca di monumenti tra i quali spicca il Duomo di St-Peter, uno dei più significativi edifici romanici europei, capolavoro dell’architettura renana.


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Germania e navigando in rete fate un’escursione a Worms nella valle del Reno, buon viaggio...


   Ora cambiamo tonalità senza però cambiare registro: i due elementi-chiave, il libro e la città, contenuti nel testo dell’Apocalisse incidono sullo sviluppo della cultura.
   Le città, sulla scia del modello apocalittico della Gerusalemme celeste, crescono e, quindi, cresce l’importanza delle Scuole cittadine e cresce il numero delle persone che, pur rimanendo una ridottissima minoranza, si dedicano all’esercizio della lettura in funzione dello studio e, di conseguenza, aumenta anche la produzione e la diffusione di libri manoscritti.
   Nelle città le Scholae [le Scuole cittadine] sono per lo più annesse alle cattedrali e vengono gestite da gruppi di maestri [magìsteri] che si sono dati un regolamento [un canone, per cui si dicono “canonici”], ma un certo numero di Scuole vengono anche fondate in proprio da quelli che cominciano ad essere chiamati “maestri di grido”
[magìsteri nominis, maestri che si sono fatti un nome] come succede, per esempio, a Chartres, la cui Scuola, come vedremo, diventa un importante centro di animazione umanistica, e come succede soprattutto a Parigi.
   A Parigi sorgono molte Scuole e trovano ubicazione nei due punti strategici della città: l’Ile de la Cité e la collina di Santa Genoveffa. Ora che siamo arrivati a Parigi [in una sera di marzo dell’anno 1101] incontriamo - davanti al paesaggio intellettuale che porta il suo nome - il personaggio che rappresenta meglio la situazione culturale del momento: Pietro Abelardo di Le Pallet. Chi è Pietro Abelardo?
   Innanzi tutto c’è da dire che con Pietro Abelardo la figura del “magister” cambia pelle facendosi più complessa. Pietro Abelardo è nato a Le Pallet, nei pressi di Nantes in Bretagna, nel 1079 e suo padre, che è il signore del feudo di Le Pallet [un piccolo feudo], sebbene sia amante dello studio, tuttavia vuole avviare il suo figlio primogenito alla carriera militare; ma Abelardo, fin da bambino, è attratto non dalle armi ma dai libri e invece di seguire i corsi di addestramento all’accademia militare di Nantes lui, di nascosto, frequenta la biblioteca e la Scuola dei benedettini dove legge [appropriandosi delle parole-chiave e della idee-cardine] una serie di testi fondamentali: il De consolatione philosophiae di Severino Boezio, l’Isagoge di Porfirio, le Enneadi di Plotino, il Dionigi Areopagita, i Dialoghi di Platone, la Metafisica di Aristotele, e la sua passione per lo studio aumenta, in particolare per la dialettica, una disciplina che, dopo aver terminato il ciclo del quadrivio, lui è perfettamente in grado di insegnare. Quando il padre scopre che Abelardo si è dedicato esclusivamente allo studio e che non ha alcuna intenzione di fare il condottiero e tanto meno il feudatario, minaccia di diseredarlo e Abelardo, nonostante sia assai rattristato per dover dare un dispiacere a suo padre, è lui stesso che rinuncia all’eredità: lascia il castello di Le Pallet e inizia a girare per la provincia come maestro peripatetico finché arriva Compiègne una città a circa 75 chilometri a nord di Parigi, situata sulla riva sinistra del fiume Oise, ai margini di una bellissima foresta e qui Abelardo s’iscrive alla rinomata Scuola di Roscellino di Compiègne.
   La località di Compiègne ha perso nei secoli il suo aspetto medioevale, nonostante conservi monumenti di quest’epoca, perché è cresciuta [dal 1500 alla fine del 1700] dal punto di vista qualitativo e, anche se oggi è una cittadina di poco più di 40 mila abitanti, si presenta come un importante centro turistico e di villeggiatura noto per il suo castello [o palazzo imponente] e per i suoi molti monumenti che sono sorti in ragione della vita fastosa tenuta qui al tempo di Luigi XV, di Luigi XVI, di Napoleone I e di Napoleone III.


REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida della Francia [o meglio con la guida di “Parigi e dintorni”] e navigando in rete fate una visita a Compiègne e un’escursione nella sua vasta foresta [di faggi, querce, carpini]: la foresta di Compiègne è attraversata da belle strade che portano ad ampi valloni, a pittoreschi stagni e a graziosi villaggi che sono il punto di riferimento per molti itinerari da percorrere a piedi...    Mettetevi in viaggio...


   Abelardo s’iscrive e frequenta la Scuola di Compiègne ma, dopo qualche settimana, viene espulso perché contesta e demolisce [con animosità ma con validi argomenti] la tesi “nominalista” di Roscellino e, di conseguenza, si trasferisce a Parigi nel 1101 dove s’iscrive, dopo aver superato l’esame di ammissione, alla Scuola più rinomata della città: quella di Guglielmo di Champeaux [il prelato che abbiamo citato poco fa perché diciotto anni dopo, da vescovo, sarà tra i delegati papali alla conferenza di Worms] e frequenta questa Scuola finché anche qui non viene espulso perché contesta, con irruenza ma con validi argomenti, le tesi del più celebre magister parigino del momento.
   È necessario imbastire una riflessione per spiegare questa situazione in cui Abelardo si mette in luce. È una riflessione piuttosto complessa e va fatta a mente fresca, non certamente a quest’ora e, quindi, nell’itinerario della prossima settimana ci avventureremo sul terreno accidentato del pensiero dialettico di Abelardo.
   Agli albori del XII secolo in tutte le Scuole europee è in corso la polemica sul tema degli universali [un argomento che abbiamo introdotto a suo tempo dicendo che ne avremmo ancora parlato arrivando a Parigi] e Parigi [ora ci siamo] diventa il centro di un animato dibattito soprattutto per impulso di due importanti Scuole contrapposte: quella di Guglielmo di Champeaux e quella di Roscellino di Compiègne, entrambe frequentate da Abelardo con spirito critico tanto da esserne espulso. Sulla scia della discussione intorno al tema degli universali [sulla provenienza e sulla natura delle idee] sono andate formandosi tre correnti di pensiero che hanno cercato di fare chiarezza su questo argomento [forzando anche la logica e Abelardo mette proprio in rilievo questo fatto] e poi - nel clima di effervescenza culturale che la Scolastica ha creato - ogni corrente ha cercato di imporsi a scapito delle altre e, di conseguenza, lo scontro diventa inevitabile e Abelardo ci si trova a meraviglia in mezzo allo scontro facendo valere le sue indubbie doti dialettiche.
    Abelardo anima talmente il dibattito da far rimettere in modo - in termini più complessi - il contrasto tra la dialettica [la Ragione] e il misticismo [la Fede]: Abelardo viene etichettato dai suoi avversari come “razionalista” ma questa caratterizzazione non è esatta perché lui si serve della dialettica [della Ragione] principalmente per affermare i principi della teologia [della Fede] e propende per il misticismo. Abelardo diventa celebre a Parigi per la critica che porta a tutte le correnti che prendono posizione sul tema degli universali e poi formula la sua tesi su questo argomento scrivendo una serie di opere importanti. Abelardo per i suoi avversari [e non ha che avversari!] è solo un demolitore molto abile nell’uso della dialettica ma, in realtà, la sua azione critica si basa su un pensiero logico racchiuso in una famosa massima, sulla quale ci soffermeremo la prossima settimana quando la troverete anche scritta in REPERTORIO...: «Nihil credendum nisi prius intellectum [Non si deve credere in nulla se prima non lo si è capito]». Rifletteremo su questa affermazione.
    Abelardo scrive anche la sua autobiografia - sotto forma di Lettera ad un amico [ne viene fuori un’importante romanzo epistolare che è diventato la sua opera più conosciuta] - che lui intitola Historia calamitatum mearum [Storia delle mie disgrazie], e Abelardo è diventato famoso più per le sue tragiche vicende private che non per i suoi innovativi principi filosofici. Diamo, per concludere, la parola ad Abelardo utilizzando un frammento della sua autobiografia.


LEGERE MULTUM….

Pietro Abelardo,  Historia calamitatum mearum [Storia delle mie disgrazie]

Preferii i conflitti delle dispute ai trofei guerreschi. Quindi girai disputando per diverse province, dovunque udivo che fiorisse lo studio dell’arte dialettica, e diventai emulo dei peripatetici. Finalmente arrivai a Parigi, dove la dialettica era in auge, alla scuola di Guglielmo di Champeaux, maestro illustre di questa disciplina, per fama e per valore. Rimasi un certo tempo presso di lui, prima bene accetto, poi a lui spiacentissimo, perché cercavo di confutare le sue opinioni e spesso mi mettevo a discutere con lui e mi rivelavo a lui superiore nella disputa. Il che suscitava tanto maggiore indignazione anche tra i migliori miei condiscepoli, in quanto ero il più giovane e studiavo da meno tempo. Di qui cominciarono le mie disgrazie, che continuano fino ad oggi; e quanto più si estendeva la mia fama tanto più si accendeva l’invidia degli altri per me.
Un bel giorno, presumendo del mio ingegno più di quanto consentissero le forze della mia età, ero poco più di un ragazzo, mi misi in mente di dirigere una scuola, e mi cercai il posto. …


   La prossima settimana cercheremo di occuparci in modo equilibrato tanto degli innovativi principi filosofici proposti da Abelardo quanto delle sue tragiche [ma anche in parte gioiose] vicende private [e, a questo proposito, incontreremo Eloisa] e lo faremo procedendo sulla via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale consapevoli del fatto che non si deve mai perdere la volontà d’imparare perché, ci suggerisce Abelardo, nihil credendum nisi prius intellectum [Non si deve credere in nulla se prima non lo si è capito] e questa affermazione rafforza l’idea che ciascuna e ciascuno di noi debba coltivare lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé.
Non perdete il penultimo itinerario prima della vacanza pasquale.
    La Scuola è qui, il viaggio continua e finché c’è vita c’è fatica!…


















 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 13, 2015