ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 28-29-30 novembre 2018
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL '600SI PENSA
CHE L’ESSENZA DELLA REALTÀ SI BASA
SUL PARADOSSO DELLA “FERMEZZA NELL’INCOSTANZA”...
Questo è il settimo itinerario del nostro viaggio sul territorio de “la sapienza poetica e filosofica agli albori dell’Età moderna [e vi ricordo che la prossima settimana, come da calendario, faremo una pausa e potremo così festeggiare Sant’Ambrogio, organizzarci per la prima alla Scala e prepararci a celebrare l’Immacolata concezione (concepita). Vi ricordo poi che tra quindici giorni, quando torneremo a Scuola, avremo da percorrere già l’itinerario pre-natalizio, da non perdere perché è l’ultimo di quest’anno solare].
Ci troviamo [come sapete, e siamo nella seconda metà del ‘500] in compagnia di Michel de Montaigne, l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano. Un’opera che merita di essere conosciuta [e ne abbiamo descritto la forma], di essere capita [e stiamo riflettendo su una serie di temi in essa contenuti] e sul cui testo ci si può applicare [leggendone qualche pagina al giorno; conoscere, capire, applicare sono tre delle sei principali azioni cognitive su cui ci dobbiamo esercitare perché questo è il motivo per cui è utile frequentare la Scuola, quello di imparare ad imparare].
Michel de Montaigne, nel testo dei Saggi, riflette “sulle cose della vita” [in senso moderno, anche se lui non si sente un uomo moderno ma aspira a essere un umanista classico] ponendosi, come sapete, una domanda significativa: come vivere? E le risposte che Montaigne dà alle domande che si pone sono sempre interlocutorie e rimandano, inevitabilmente, ad altri interrogativi perché, già dalle sue prime esperienze di vita che finora noi abbiamo conosciuto - gli studi di Letteratura classica e di giurisprudenza, l’attività da magistrato e da membro del Parlamento di Bordeaux, l’intenso rapporto di amicizia con Étienne de La Boétie e la traumatica esperienza della sua morte, il suo matrimonio dal quale siamo reduci, e tra poco ne riparleremo - Montaigne pensa che l’unica certezza sia “l’instabilità delle cose di questo mondo perché tutto si muove” [mentre Galileo Galilei guarda al moto dell’Universo planetario, Michel de Montaigne osserva tutto ciò che si muove nell’ambito dell’Universo della sua esistenza quotidiana].
Noi dobbiamo capire quanto sia provocatoria questa affermazione nel momento in cui le certezze si trovano inequivocabilmente nel campo della teologia [molte e molti di voi ricorderanno che anche Galileo Galilei - e così Copernico, Keplero, Bruno, Campanella e Telesio - si fa teologo per dare un fondamento alle sue osservazioni astronomiche]: Montaigne cita Dio con parsimonia e non afferma mai [e questo lo rende sospetto tanto ai cattolici (la comunità alla quale dice di appartenere) quanto ai protestanti (che non vede come avversari)] che “Dio è una certezza” [Montaigne è più propenso a credere che Dio sia un’ipotesi, forse]. E, quindi, in prima istanza, prendiamo il passo sull’itinerario di questa sera riflettendo su questo tema: “dell’instabilità delle cose di questo mondo perché tutto si muove”.
Michel de Montaigne, nel testo dei Saggi, fa molte considerazioni sull’incostanza, sull’instabilità delle cose di questo mondo e sull’impossibilità, per la persona, di conoscere fino in fondo la realtà perché tutto si muove. Montaigne, all’inizio del capitolo II del Libro III dei Saggi intitolato Del pentirsi, fa una serie di affermazioni per dire che la stesura del suo Libro lo ha fatto avvicinare, per diversi motivi, alla saggezza, e uno di questi motivi è quello di aver compreso il senso di un paradosso [e sappiamo che Montaigne si esprime spesso per paradossi]: a questo mondo, afferma Montaigne, l’unica cosa che può vantare una fermezza è l’incostanza e, quindi, l’essenza della realtà si basa sul paradosso della “fermezza nell’incostanza” [nella mutabilità, nella variabilità, nell’instabilità, nella trasformabilità, nella modificabilità]. Scrive Montaigne all’inizio del capitolo II del Libro III dei Saggi intitolato Del pentirsi: «Gli altri formano l’essere umano, io lo racconto, e in particolare ne raffiguro uno tutt’altro che ben formato, tanto che, se potessi plasmarlo di nuovo, lo farei molto diverso da come è. Ma ormai è fatto. I lineamenti del mio ritratto non sono mendaci, anche se mutano e assumono aspetti sempre diversi. Il mondo non è che una perpetua altalena. Tutto ciò che in esso si trova oscilla senza posa, la terra, le alture del Caucaso, le piramidi d’Egitto, tanto per l’oscillazione universale quanto per la loro propria. La costanza stessa è soltanto un’oscillazione più blanda. Io non posso fissare il mio oggetto: esso incede malsicuro e barcollante, per effetto di una naturale ebbrezza. Lo colgo così com’è nel preciso momento in cui me ne interesso». Montaigne - quando parla di se stesso come in questo caso - dà sempre inizio alle sue riflessioni facendo una dichiarazione di umiltà, e afferma che il suo obiettivo non è elevato ma è modesto e, a differenza di quasi tutti gli autori che vogliono istruire, che vogliono per forza plasmare le lettrici e i lettori, lui non pretende di insegnare alcuna dottrina ma sostiene di volersi solo raccontare, e dichiara che il suo intento è quello di descrivere una persona [lui stesso] che non si presenta certo come un modello da seguire: scrive Montaigne «Io sono tutt’altro che ben formato e non sono più in tempo per riformarmi e, dunque, non posso essere preso a esempio».
Ciò nonostante Montaigne afferma che bisogna tendere a cercare la verità anche se trovarla, in un mondo così instabile e turbolento, è impossibile. «Tutto scorre »[Panta rei] dice Eraclito [conosciamo questo personaggio e Montaigne lo annovera tra i suoi filosofi preferiti], e sotto il sole non c’è nulla di saldo, neppure le montagne e le piramidi, né le meraviglie della Natura né i più grandi monumenti edificati dall’uomo. Tutti gli oggetti [scrive Montaigne] si muovono, e con essi si muove il soggetto e, quindi, non possiamo pensare che la nostra conoscenza del mondo possa essere salda e affidabile. Montaigne dichiara: «Ritengo sia possibile che la verità esista ma dubito che sia accessibile alla singola persona». Montaigne si esprime come un filosofo scettico il quale ha scelto come motto «Che cosa so io? »[Que sais-je?] e a emblema prende una bilancia [si capisce perché Montaigne - attraverso il testo dei Saggi - sia diventato un interlocutore privilegiato per molte pensatrici e pensatori della tarda età moderna e contemporanea.
Si potrebbe pensare che la posizione di Montaigne sia senza speranza ma non è così perché lui ci tiene a dire alle lettrici e ai lettori che non c’è ragione di disperarsi e, sempre nel capitolo II del Libro III dei Saggi intitolato Del pentirsi, scrive: «Io non descrivo l’essere, descrivo il passaggio, non il passaggio da un’età a un’altra, o, come si dice volgarmente, di sette anni in sette anni, bensì di giorno in giorno, di minuto in minuto. Devo aggiornare il mio racconto ora per ora. Da un istante all’altro potrebbero cambiare non solo la mia condizione, ma anche i miei intenti. Il mio è un registro di accadimenti disparati e mutevoli, e di pensieri cangianti e talora contraddittori: sia perché sono sempre diverso da me stesso, sia perché colgo gli oggetti in circostanze e da angolazioni diverse. Bisogna risolversi ad accettare la condizione umana così com’è». Quindi, l’orizzonte di Montaigne è il divenire, non è l’essere, e noi lo sappiamo che il mondo può cambiare nel giro di un istante, e noi con lui.
Nel testo dei Saggi - che riporta la registrazione di ciò che gli capita e di ciò che pensa - Montaigne si limita a rilevare come tutto muti incessantemente, ed è stato definito “un relativista”, e anche un anticipatore del “prospettivismo”, una corrente di pensiero che ritiene la persona come soggetto capace di avere un punto di vista diverso sul mondo in ogni diverso momento [ma questa è un’altra storia da raccontare viaggiando su territori futuri]. Montaigne afferma che la sua identità è instabile [oggi si scaglierebbe contro tutti gli spropositi che si sentono dire sul tema dell’identità, spropositi che conducono a compiere gesti spregevoli], e dichiara di non essere riuscito a trovare “un punto fisso” ma, contemporaneamente, sostiene di non aver mai smesso di cercarlo. Il rapporto che Montaigne ha con il mondo lo esprime bene con un’immagine sulla quale abbiamo già riflettuto strada facendo: quella dell’equitazione, del cavallo su cui la cavallerizza e il cavaliere si mantengono in equilibrio, in un assetto precario: ebbene, una delle principali parole-chiave del glossario filosofico di Montaigne è il termine “assetto”: afferma Montaigne «Il mondo si muove, io mi muovo: sta a me trovare il mio assetto nel mondo».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole – ordine, sistemazione, assestamento, collocazione, accomodamento, o quale altra – mettereste per prima accanto al termine “assetto”?…
Che cosa vi serve oggi per dare un assetto più stabile alla vostra vita?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Sapete anche che - a proposito dell’assetto da dare a questo percorso - stiamo procedendo consapevoli del fatto che esiste una relazione tra il testo dei Saggi e la biografia dell’autore: come ricorderete, la scorsa settimana abbiamo partecipato a uno degli eventi fondamentali della vita di Montaigne: il suo matrimonio con la signorina Françoise de La Chassaigne. E la parola-chiave “assetto” e il termine “matrimonio” stanno [in particolare ai tempi di Montaigne e nell’ambito della nobiltà, ma non solo] in stretto rapporto tra loro.
Ma prima di tornare su questo accadimento per domandarci che andamento ha avuto e quale assetto ha assunto la vita coniugale di Michel e di Françoise [se siano stati fiori d’arancio (amore romantico) o fiori di zucca (relazione pragmatica)], dobbiamo completare la riflessione che abbiamo appena compiuto sul paradosso della “fermezza nell’incostanza” prendendo in considerazione il fatto che Montaigne si esprime come un filosofo scettico il quale ha scelto come motto «Che cosa so io?» e come emblema ha preso una bilancia: qual è il senso per cui ha fatto questa scelta? Come spesso fa, Montaigne imbastisce una riflessione piuttosto macchinosa condendola con divagazioni e con citazioni che generano la sovrapposizione di temi diversi: ma noi sappiamo che, a suo dire, “ciò che gli viene in mente” Montaigne scrive, però, non è sempre proprio così perché certe volte usa [e lo si capisce] dei silenzi precauzionali. E, quindi, procediamo [o, per lo meno, cerchiamo di procedere] con ordine in relazione all’interrogativo che si pone Montaigne: se l’essenza della realtà si basa sul paradosso della “fermezza nell’incostanza” fino a che punto possiamo avere precise convinzioni?
Il capitolo XII del Libro II dei Saggi di Montaigne è intitolato Apologia di Raymond Sebond e, prima di trarre una citazione da questo capitolo [il più lungo capitolo dei Saggi], è necessario dire per ora che Raymond Sebond [o Ramón Sebunde] è un medico e teologo catalano, nato a Barcellona nel 1435 e morto nel 1486 a Tolosa, che ha scritto un’opera intitolata Teologia naturale o libro delle creature [Theologia naturalis sive liber creaturarum]: Montaigne traduce quest’opera dal latino [e la fa poi pubblicare a Parigi nel 1569] su richiesta di suo padre [al quale l’hanno regalata e la vorrebbe leggere tradotta in francese perché non è così esperto in latino come suo figlio Michel]. Di quest’opera, del suo contenuto e della traduzione che ne fa Montaigne [prima di iniziare a scrivere i Saggi] ce ne occuperemo strada facendo, per ora ci bastano questi dati per procedere.
Sappiamo che Montaigne ha ricevuto una buona formazione da giurista ed è molto sensibile al tema dell’ambiguità dei testi, di tutti i testi: non solo giuridici, ma anche letterari, filosofici, teologici. Montaigne è perfettamente consapevole che tutti i testi sono soggetti ad essere interpretati e confutati, e questa prassi, osserva Montaigne, finisce per allontanare sempre di più chi legge dal significato di base del testo [e, a questo proposito, come sappiamo, Montaigne conosce bene le Opere filologiche di Lorenzo Valla che ha, già da un secolo, codificato questo concetto], quindi anche l’esercizio dell’esegesi [dell’interpretazione dei testi sacri] è soggetto al paradosso della “fermezza nell’incostanza”. Montaigne afferma che gli studiosi [e ci si mette anche lui tra questi] non fanno altro che interporre molti strati di chiose [di commenti, di annotazioni] fra loro e i testi, e questo fenomeno [non negativo di per sé se serve unicamente ad annotare delle riflessioni in margine al testo] rende sempre meno palese l’autentico contenuto di un’opera: questo fatto Montaigne lo mette in evidenza nel capitolo XII del Libro II dei Saggi intitolato appunto Apologia di Raymond Sebond dove Montaigne scrive «Il nostro linguaggio, come ogni altra cosa, ha le sue debolezze e i suoi difetti. Le ragioni dei disordini che turbano il mondo sono perlopiù di natura grammaticale. I nostri processi nascono solo e soltanto dalle controversie sull’interpretazione delle Leggi; e la maggior parte delle guerre dall’incapacità di dare compiuta espressione alle convenzioni e ai trattati fra i principi. Quanti dissidi, e quanto importanti, hanno avuto origine, nel mondo, dal dubbio sul significato di una semplice sillaba, Hoc»[“Hoc” in latino significa “Questo”, e a che cosa si sta riferendo Montaigne?].
Montaigne è un umanista rinascimentale e, quindi, ironizza sulla consuetudine degli intellettuali medioevali di accumulare glosse [commenti, annotazioni], e ricorda come, sarcasticamente, François Rabelais, in Gargantua e Pantagruel, paragoni le glosse [i commenti, le annotazioni] agli escrementi [faeces literarum]. Montaigne ritiene si debba ritornare a studiare i testi dei Classici nella loro integrità originaria: soprattutto per quanto riguarda le opere di Platone, di Plutarco e di Seneca. Inoltre Montaigne pensa [come abbiamo letto nella citazione] che tutti i disordini del mondo - le azioni legali e le guerre, le controversie private e quelle pubbliche - derivino da malintesi sul significato delle parole e, a questo proposito Montaigne afferma, operando una (forse discutibile) semplificazione, il violento conflitto che contrappone cattolici e protestanti nasce anche da una disputa sul significato della sillaba “Hoc”. Nel sacramento dell’Eucaristia [afferma Montaigne] Gesù ha detto: «Hoc est enim corpus meum, Hoc est enim calix sanguinis mei »[Questo è in verità il mio corpo, questo in verità è il calice del mio sangue], ebbene, scrive Montaigne, secondo il dogma della transustanziazione [ovvero “della presenza reale”], il pane e il vino, per i cattolici, si convertono nel corpo e nel sangue di Cristo, mentre i calvinisti si limitano ad affermare la presenza spirituale di Cristo nel pane e nel vino. Il fatto che Montaigne riduca la Riforma ad una disputa grammaticale [come lui dice] è senza dubbio un atteggiamento semplicistico anche se è vero e inequivocabile il fatto che le controversie derivano spesso da fraintendimenti sul senso delle parole [e, a confermare questo fatto c’è un avvenimento epocale che abbiamo studiato durante il viaggio dello scorso anno: il concilio di Trento con la sua decretazione che utilizza un linguaggio che tende a dividere più che a unire]. Ma il fatto più significativo che va colto è che Montaigne, nel testo dei Saggi, non si esprime su come la pensa in particolare sul tema della natura dell’Eucaristia, e, se ha una convinzione [ammesso che ce l’abbia una precisa convinzione], la tiene per sé perché il problema che Montaigne pone è proprio questo: fino a che punto possiamo avere precise convinzioni [certezze assolute, sicurezze inequivocabili, opinioni imprescindibili]? Montaigne, nel capitolo XII del Libro II dei Saggi intitolato Apologia di Raymond Sebond, scrive: «Consideriamo l’enunciato più chiaro che ci possa presentare la logica. Se dite “Fa bel tempo” e state dicendo la verità, allora fa bel tempo. Non è questo un modo di parlare inequivocabile? E invece è ingannevole. Lo prova il seguente esempio: se dite “Io mento” e dite il vero, allora mentite. La composizione, la logica, l’efficacia di questa frase sono eguali a quelle dell’altra. Eppure eccoci impantanati». L’esempio dell’Eucaristia serve a Montaigne come conferma del suo scetticismo, che lo porta a riprendere il cosiddetto paradosso di Epimenide o “del mentitore cretese”: «Un uomo asserisce “Io mento”. Se è vero, è falso. Se è falso, è vero».
Montaigne è un seguace di Pirrone di Elide, il filosofo greco sostenitore della «sospensione del giudizio »[epoché] come unica logica conclusione del dubbio. Pirrone [vissuto tra il IV e il III secolo a.C.] è il fondatore dello scetticismo e “sképsis” in greco significa “indagine” e, infatti, gli scettici si propongono di indagare il contenuto di tutte le dottrine in modo da riconoscerle tutte non esaustive, limitate e relative. I concetti fondamentali del pensiero di Pirrone di Elide sono stati raccolti e tramandati dal suo discepolo Timone di Fliunte autore dei Silli, ovvero, “versi scherzosi contro i filosofi dogmatici”. Secondo gli scettici le cose non sono vere o false, belle o brutte per natura ma solo per convenzione: infatti è impossibile indagare sulla natura delle cose e, pertanto, le cose risultano vere o false, belle o brutte non perché “siano tali in realtà” ma perché “gli esseri umani hanno convenuto che siano tali”. Secondo gli scettici è impossibile indagare sulla natura delle cose e di fatto le sensazioni dipendono dal variare del soggetto, dell’oggetto, dell’ambiente, mentre i ragionamenti [i postulati derivati dalla ragione] essendo opposti finiscono per distruggersi a vicenda e, allora, non rimane che sospendere ogni giudizio. In greco “la sospensione del giudizio” i traduce “epoché” e con la sospensione del giudizio, affermano gli scettici, cessa ogni possibilità di errore e cessa anche ogni possibile motivo di turbamento e, quindi, dalla sospensione [l’epoché] nasce l’imperturbabilità, in greco “atarassia”. Il fatto è che Montaigne mette in discussione anche lo scetticismo perché, pur accostandosi al suo pensiero e praticandolo, ritiene sia doveroso contestare la formula «Io dubito» perché, se affermo di dubitare, di questo certo non dubito, e scrive Montaigne sempre nel capitolo XII del Libro II dei Saggi intitolato Apologia di Raymond Sebond: «A quanto vedo i filosofi pirroniani non possono esprimere la loro concezione generale in nessuna maniera, giacché avrebbero bisogno di un nuovo linguaggio» e questo nuovo linguaggio Montaigne lo trova formulando il proprio motto in forma interrogativa anziché affermativa [io dubito], e scrive: «Un’idea siffatta può essere espressa con maggior chiarezza dalla domanda “Che cosa so io?” [Que sais-je?] che ho apposto nel mio stemma, sopra l’emblema della bilancia». La bilancia in equilibrio raffigura la metodica perplessità di Montaigne [che è un altro significativo paradosso], e rappresenta la sua grande difficoltà a scegliere.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole - incertezza, insicurezza, indecisione, esitazione, o quale altra - mettereste per prima accanto al termine “perplessità”?…
Scrivetela…
C’è stato un momento in cui ultimamente vi siete trovate e trovati in difficoltà a scegliere, perché?…
Scrivete quattro righe in proposito…
La sua metodica perplessità e la sua grande difficoltà a scegliere non impedisce certo a Montaigne di prendere delle decisioni risolute come, per esempio, quando in occasione delle sue nozze chiede di modificare il protocollo, o quando predispone l’organizzazione della sua vita quotidiana dopo il matrimonio e lascia nella mani della moglie tutta l’amministrazione, o quando ritiene necessario intraprendere dei viaggi, o di come intende far uso della scrittura. La scorsa settimana [come ricorderete, ed è la terza volta che lo ripetiamo] abbiamo partecipato a uno degli eventi fondamentali della vita di Montaigne: il suo matrimonio con la signorina Françoise de La Chassaigne e, ancora una volta, stiamo per domandarci che andamento ha avuto [e quale assetto ha assunto] la vita coniugale di Michel e di Françoise: se siano stati fiori d’arancio (amore romantico) o fiori di zucca (relazione pragmatica).
Sappiamo che la cerimonia di nozze di Montaigne con la signorina Françoise de La Chassaigne è stata rinviata di alcuni giorni [rispetto alla data inizialmente fissata dal contratto] perché lo sposo ha richiesto al notaio garante del contratto tra le famiglie un colloquio con la sua fidanzata [una iniziativa non in uso perché, essendo un matrimonio combinato secondo la prassi del tempo, i nubendi non erano chiamati a prendere alcuna decisione]; Michel vuole parlare con Françoise personalmente per domandarle se lei sia realmente consenziente nell’accettare il suo ruolo di procreatrice perché “il matris-monia” [come dice la parola stessa] è un contratto che si fonda su “i doveri [monia] della madre [matris]”: fin dalla rivoluzione del Neolitico, il matrimonio è un istituto finalizzato, in primo luogo, alla procreazione, e anche Montaigne è di questo avviso ma ritiene che la giurisprudenza [che lui ha studiato] non tuteli i diritti della madre ma le attribuisca solo dei doveri vincolanti per contratto senza che la donna abbia neppure la possibilità di esprimere un parere che possa magari essere utile ad apportare delle eventuali modifiche all’impianto legislativo relativo al matrimonio [e ci vorranno secoli prima che questo avvenga]. Montaigne [che, come sappiamo, non ama le novità], con la sua iniziativa, non vuole certo mettere in discussione né l’istituto matrimoniale [Montaigne, tuttavia, pensa si debba distinguere tra matrimonio e amore e paragona il matrimonio a «una transazione economica che compromette la libertà personale e l’uguaglianza»] né, tanto meno, vuol mettere in discussione l’istituto famigliare: queste due istituzioni sono [sembrano] due massicci edifici dei quali, pensa Montaigne, bisogna curare la struttura perché ci sono “elementi fatiscenti” retaggio delle Leggi Giulie di Augusto che vanno ristrutturati: quindi, la richiesta che fa di poter parlare di questi temi con la fidanzata è condizionata dalla sua mentalità razionale da magistrato che si occupa di politica e - siccome la Legge è [o dovrebbe essere] uguale per tutti - vuole almeno sentire l’opinione delle parti in causa [e questo è l’unico passo che, per il momento, gli è concesso fare visto che il concilio di Trento (un avvenimento epocale che abbiamo studiato nel corso del viaggio dello scorso anno) - che si è appena concluso con la bolla Bendictus Deus, emanata il 30 giugno 1564, da papa Paolo IV (Gian Pietro Carafa) - ha decretato in modo da affermare che è la Chiesa a dettare le regole in materia matrimoniale], ebbene, Montaigne, da giurista laico, pensa che anche il parere delle ragazze da marito dovrebbe contare qualcosa mentre, secondo il decreto tridentino sul matrimonio, conta solo l’ubbidienza della donna obbligata a essere principalmente una mera fattrice in funzione dell’interesse della famiglia del marito. Montaigne ha, molto probabilmente, con sincerità, voluto comunicare alla sua fidanzata che il matrimonio non ha una grande importanza nella sua vita affettiva ma lo considera, secondo la tradizione consolidata, uno strumento per dare continuità, con la prole, alla famiglia, nell’illusione che il prolungamento della propria stirpe possa anche procurare una sorta di immortalità: «Un’idea ingenua [scrive Montaigne sarcastico] che rende i Patriarchi degli insaziabili inseminatori, tuttavia mortali alla stessa stregua dei monaci più casti». La promessa sposa Françoise giudica molto positivamente l’iniziativa del suo fidanzato e si pensa che abbia apprezzato la sua sincerità perché è una giovane piuttosto intraprendente che ha anch’essa una visione pragmatica del matrimonio e aspira - dopo aver capito il carattere di Michel - oltre che a dare eredi alla casata, anche e soprattutto alla gestione delle proprietà di famiglia [e questo perché ha avuto un’educazione in proposito e a lei piace realizzarsi amministrando in modo oculato].
Ricorderete poi che in attesa della celebrazione del matrimonio di Michel e di Françoise non abbiamo fatto altro la scorsa settimana che parlare e riflettere sul tema della morte, e [disgraziatamente] non è un tema - ampiamente e non casualmente trattato da Montaigne come sappiamo in tutto il testo dei Saggi - fuori luogo [e vedremo perché] nell’esperienza matrimoniale di queste due persone. Il matrimonio di Michel e di Françoise viene celebrato il 23 settembre 1565 ed è una cerimonia nobiliare con molti illustri invitati, ma molto sobria, e ha luogo nella Cattedrale di Bordeaux [il celebrante è il vescovo] al mattino presto [«Secondo la tradizione i nobili si sposano all’alba, l’orario in cui vanno a caccia o a duello contrariamente dormono fino a tardi» scrive ironico Montaigne mettendo sullo stesso piano la caccia, il duello e il matrimonio]. Ma il matrimonio di Michel e di Françoise deve essere celebrato per tempo anche perché, dopo la cerimonia, il corteo nuziale deve raggiungere la tenuta dei Montaigne e, con le carrozze, ci vogliono quasi sei ore di viaggio: il tempo necessario per sedersi a banchetto, per il lauto pranzo nuziale, allestito nella corte del castello di Montaigne, al quale abbiamo partecipato anche noi, e poi ci sono volute anche molte ore [abbiamo preso quattro volte l’anatra cucinata in quattro modi diversi] per digerire le numerose e abbondanti portate annaffiate con il vino prodotto nella tenuta che è soprattutto un’azienda vinicola. Come è destinata a funzionare l’unione di Michel e di Françoise, che andamento ha avuto il loro matrimonio? Si capisce che è stata una relazione pragmatica [sono stati più i fiori di zucca che quelli d’arancio].
Adesso, però, prima di proseguire non possiamo rinunciare [visto che abbiamo appena citato la Cattedrale] a far visita alla città di Bordeaux che è una ricca metropoli nel sud-ovest della Francia [conta più di 270 mila abitanti] ed è il capoluogo del dipartimento della Gironda [il profondo estuario della Garonna, osservatelo sulla carta geografica]. Bordeaux è situata lungo la riva sinistra della Garonna ed è una città ricca di storia: fondata dai Romani [Bordigala], poi occupata dai Visigoti nel V secolo, capitale del ducato d’Aquitania nel X secolo, è stata in eredità alla corona inglese dal 1154 al 1453 e, quindi, dopo il 1492, con la scoperta del Nuovo Mondo, ha cominciato ad arricchirsi con i floridi commerci marittimi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Francia e navigando in rete potete constatare quanti interessanti monumenti ci siano da visitare nell’area cittadina di Bordeaux, in particolare la Cattedrale di St-André che domina, con la sua vasta mole, la place de Rohan ed è un edificio nel quale, architettonicamente, il tardo romanico e il gotico maturo convivono in armonia…
Fate un’escursione a Bordeaux, buon viaggio…
Come è destinata a funzione l’unione di Michel e di Françoise, che andamento ha avuto il loro matrimonio? Il pensiero delle studiose e degli studiosi, a seconda delle correnti, varia nei modi più disparati: c’è chi dice che è stata un’unione molto ben riuscita e chi dice che è stata una relazione infelice, noi, più che dare dei giudizi netti vogliamo attenerci ai fatti, a quei fatti che possono essere documentati. Ma prima di occuparci di questo argomento [che, a quanto pare, prima di essere trattato deve subire ancora un rinvio] dobbiamo dire che il tema della morte s’insinua anche nell’ambito del pranzo nuziale: da subito abbiamo notato che, nel tavolo d’onore [il tavolo degli sposi con i loro parenti stretti], alla sinistra di Michel c’è la sposa novella, Françoise, mentre alla destra di Michel c’è una seggiola vuota sulla quale, sopra un cuscino rosso, c’è una pila di fogli manoscritti. Penso che abbiate già capito di che cosa si tratta e chi avrebbe dovuto essere seduto su questa sedia se questa persona non fosse prematuramente scomparsa due anni prima: su questa sedia avrebbe dovuto sedersi, in qualità di testimone dello sposo, il suo amico del cuore, Étienne de La Boétie, e per evocarne la presenza ideale Montaigne vuole ci sia il manoscritto, che lui ha ereditato, contenente il testo della principale opera dell’amico intitolata Discorso sulla servitù volontaria. Prima di tagliare la torta, e con il consenso della sposa [che è al corrente di ciò che deve avvenire], Montaigne legge un brano di quest’opera che, anche noi, stiamo leggendo e, quindi, seguiamo il suo esempio ma, prima di leggere, Michel ricorda l’amico con una serie di espressioni commoventi, e anche troppo accentuate che, se la sposa non fosse stata messa al corrente, probabilmente si sarebbe risentita. Le frasi che Montaigne ha pronunciato in ricordo di Étienne de La Boétie le ha poi scritte, successivamente, nel Libro I dei Saggi al capitolo XXVIII intitolato Dell’amicizia. Leggiamole queste espressioni commoventi ed enfatiche dette da Montaigne durante il pranzo di nozze nel momento dei ringraziamenti.
LEGERE MULTUM….
Michel de Montaigne, Saggi
LIBRO I CAPITOLO XXVIII
Dell’amicizia
Se paragono tutta la mia vita rimanente a questi quattro anni che egli [Étienne de La Boétie] mi ha regalato, essa non è altro che fumo; e null’altro che una notte oscura e noiosa sono gli stessi piaceri che mi si offrono, i quali, invece di consolarmi, raddoppiano il rimpianto della sua perdita. …
Dopodiché Montaigne legge un brano della principale opera di La Boétie intitolata come sapete Discorso sulla servitù volontaria o Contr’uno pubblicata nel 1576. Il Discorso di La Boétie [del quale abbiamo già letto un certo numero di pagine] è un’opera che appare sempre attuale perché si rivolge contro “il concetto della tirannia”, indipendentemente dalle forme che questo sistema ha assunto e assume nel corso della storia, dall’antichità fino a oggi.
E ora leggiamo il brano in questione: si capisce che Montaigne vuole mettere in evidenza che ci può essere una forma di tirannia dei mariti nei confronti delle mogli prescritta persino dalla Legge. Montaigne vuole ricordare che le feste - una festa di matrimonio in questo caso - devono non istupidire ma far riflettere chi vi partecipa.
LEGERE MULTUM….
Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria
La prima ragione per cui gli individui servono volontariamente è che nascono servi e come tali sono allevati. Da questa prima causa ne deriva un’altra: sotto i tiranni, le persone diventano facilmente vigliacche e deboli. Sono grato al grande Ippocrate, padre della medicina, di averlo così efficacemente evidenziato nel suo libro Delle malattie. Quest’uomo aveva un cuore retto e lo provò quando il re di Persia cercò di attirarlo alla sua corte a forza di lusinghe e ricchi doni. Egli rispose con franchezza che avrebbe avuto degli scrupoli a dedicarsi alla guarigione dei persiani che volevano uccidere i greci, a servire con la sua arte chi voleva asservire il suo paese. La lettera che gli scrisse si trova ancora fra le sue opere e sarà sempre una testimonianza del suo coraggio e della sua nobiltà. È certo che con la libertà si perde anche il valore. Le persone soggette non mostrano né ardore né combattività nel sostenere una giusta causa. Si comportano come fossero legate e intorpidite, come se, a fatica, si liberassero di un obbligo. Non sentono fremere nel loro cuore il fuoco della libertà che fa sprezzare il pericolo e nascere il desiderio di guadagnare onore agli occhi di coloro per cui si battono. Nelle persone libere, invece, c’è ardore, emulazione, ciascuna per tutti, ciascuna per sé: sono consapevoli che, in ragione della causa per cui si battono, raccoglieranno una parte eguale del male della sconfitta o del bene della vittoria. Le persone asservite hanno invece il cuore pesante e fiacco e sono incapaci di battersi con coraggio e vivacità in nome dell’uguaglianza, della giustizia e della pace. Ben lo sanno i tiranni che fanno di tutto per fiaccarle ancor più.
Senofonte, uno dei più insigni e stimati storici greci, scrisse un piccolo Libro nel quale fa dialogare Simonide con Ierone, tiranno di Siracusa, sulle miserie dei tiranni. È un libro pieno di insegnamenti buoni e gravi che, ai miei occhi, hanno anche un grande garbo. Avesse voluto il cielo che tutti i tiranni mai esistiti se lo fossero messo davanti come uno specchio. Certamente vi avrebbero riconosciuto le brutture che deturpano il loro volto e ne avrebbero provato vergogna. Questo trattato evoca la sofferenza che affligge i tiranni che, facendo del male a tutti, sono costretti ad aver paura del mondo intero. Vi si dice fra l’altro che alcuni cattivi re arruolano mercenari stranieri, non osando più armare i propri sudditi tanto maltrattati. Anche in Francia, più nel passato che ai tempi nostri, alcuni re assoldarono milizie straniere, ma fu soprattutto per salvaguardare i propri sudditi, infatti non badavano a spese pur di risparmiare l’incolumità dei loro sottoposti. Era anche, mi sembra, l’opinione di Scipione l’Africano, che preferiva aver salvato la vita di un cittadino piuttosto che ucciso cento nemici. Ciò che è certo è che nessun tiranno ritiene di aver consolidato il proprio potere se non è riuscito ad avere per suddite solo persone senza valore. Si potrebbe ripetergli ciò che, secondo Terenzio, Trasone diceva al domatore di elefanti:
«Sei dunque tanto coraggioso da governare delle bestie?»
Questa astuzia dei tiranni, che consiste nell’istupidire i propri sudditi, non è stata mai più evidente che nel comportamento di Ciro verso i lidi. Dopo essersi impadronito della loro capitale e aver fatto prigioniero Creso, loro ricchissimo re, gli pervenne la notizia che gli abitanti di Sardes si erano ribellati. Non tardò a ridurli all’obbedienza. Ma non volendo saccheggiare una città così bella, né essere costretto a mantenervi un esercito per dominarla, escogitò un mirabile espediente per impadronirsene. Vi impiantò bordelli, taverne e giochi pubblici e fece affiggere un’ordinanza che comandava ai cittadini di frequentar quei luoghi. Quegli sciagurati si divertirono a inventar ogni sorta di giochi tanto che, dal loro stesso nome, i latini coniarono la parola con cui designavano ciò che noi chiamiamo passatempi, che essi dicevano ludi per corruzione di lydi. … Non tutti i tiranni sono stati così espliciti nel voler istupidire i propri sudditi; ma ciò che Ciro ordinò formalmente, di fatto molti altri attuarono in modo nascosto. La tendenza naturale del popolo ignorante, in genere più numeroso nelle città, è di mostrarsi sospettoso verso chi lo ama, fiducioso verso chi lo inganna. Credetemi, non vi è uccello che si lasci più facilmente prendere dalla pania, né pesce che per ingordigia del verme abbocchi all’amo più di quanto facciano tutti questi popoli che si lasciano prontamente allettare dalla servitù, non appena se ne fa loro assaporare qualche dolcezza. È sorprendente con quanta facilità vi si abbandonino, se appena li si solletica. I giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, gli animali esotici, le medaglie e altre droghe di questo genere erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della libertà perduta, gli strumenti della tirannide. Con questi mezzi, questi accorgimenti, questi allettamenti gli antichi tiranni addormentavano i loro sudditi sotto il giogo. E così quei popoli abbruttiti, trovando gradevoli tutti quei passatempi, svagati da un vano piacere che li stordiva, si abituavano a servire scioccamente, ma in modo ben maggiore, come bambini che imparano a leggere solo con figure colorate. … I tiranni romani rincararono la dose riguardo a questi mezzi facendo gozzovigliare le decurie, rimpinzando a dovere quelle canaglie sensibili soprattutto ai piaceri della gola. Così il più sveglio di essi non avrebbe abbandonato la scodella di minestra per riconquistare la libertà della Repubblica di Platone.
I tiranni largheggiavano nel distribuire il quarto di grano, la misura di vino, qualche sesterzio, ed era triste sentir allora gridare: «Viva il re!». Quegli zoticoni non si avvedevano di star recuperando solo una parte di quel che apparteneva loro e che quella parte potevano ricuperare dal tiranno, proprio perché era stata loro tolta. Oggi uno raccoglieva un sesterzio, un altro si rimpinzava in un banchetto pubblico benedicendo Tiberio o Nerone per la loro generosità, costretti il giorno dopo ad abbandonare i propri beni alla cupidigia, i loro figli alla lussuria, il loro stesso sangue alla crudeltà di quei magnifici imperatori, più muti di una pietra, più immobili di un tronco. Il popolo ignorante è sempre stato così: tutto disponibile e aperto verso il piacere che non può ottenere onestamente, insensibile al torto e alla sofferenza che può onestamente soffrire. Non vedo nessuno, oggi, che non tremi al solo nome di Nerone, al nome di quel mostro infame, di quell’immonda peste del mondo. Eppure non si deve dimenticare che dopo la morte, disgustosa quanto la vita, di quell’attaccabrighe, di quel carnefice, di quella bestia feroce, quel tanto decantato popolo romano ne provò un così vivo dispiacere, ricordando i giochi e i festini, che fu quasi sul punto di prendere il lutto. È per lo meno ciò che afferma Tacito, insigne autore e storico fra i più affidabili. E non c’è da stupirsene, ricordando ciò che quello stesso popolo aveva fatto alla morte di Giulio Cesare, che aveva posto fine alle Leggi e alla libertà di Roma. Mi sembra che di questo personaggio si lodava soprattutto “l’umanità”; ora, essa fu più funesta per il suo paese della più terribile crudeltà del più efferato dei tiranni che sia mai esistito, perché in verità fu proprio questa velenosa dolcezza a rendere gradevole per i romani la bevanda della servitù. Dopo la sua morte, il popolo che serbava in bocca il sapore dei suoi banchetti e nella mente il ricordo delle sue prodigalità, accatastò tutti i banchi del foro per fare un grande rogo in suo onore; poi gli innalzò una colonna come al Padre del popolo (questa iscrizione figura sul capitello); insomma tributò più onori a quel morto di quanto ne avrebbe dovuti dedicare a un vivo, e prima di tutto a quelli che lo avevano ucciso.
Gli imperatori non dimenticavano mai di prendere regolarmente il titolo di Tribuno del popolo, ufficio considerato sacrosanto; istituito per la difesa e la protezione del popolo, esso godeva del sommo favore all’interno dello Stato. Era un mezzo per assicurarsi che il popolo avrebbe avuto la massima fiducia in loro, come se gli fosse bastato il suono di quel nome, senza sentirne gli effetti.
Non agiscono meglio i tiranni dei tempi nostri, che prima di commettere i loro più efferati delitti, li fanno sempre precedere da bei discorsi sul bene pubblico e il soccorso agli sventurati. Conosciamo la formula di cui fanno un uso tanto sottile; ma è consentito parlare di sottigliezza laddove c’è solo tanta impudenza? …
Ci vuole poco a capire perché quasi tutti i nobili invitati [insieme a noi] a questo banchetto nuziale non faranno più visita a Montaigne e ci si domanda se era proprio questo ciò che lui voleva ottenere con quest’altra inconsueta iniziativa, così come ci si domanda quale fosse il pensiero della sposa, di Françoise, in proposito: possiamo rispondere dicendo che lei ha sempre operato per proteggere “la solitudine” [e questo è un tema che dobbiamo affrontare] del marito e non ha mai subito ripercussioni a causa dall’isolamento del coniuge ma è sempre riuscita a fare mercato e a vendere bene tutti i prodotti [a cominciare dal vino] della tenuta che ha saggiamente amministrato.
Come è destinata a funzione l’unione di Michel e di Françoise, che andamento ha avuto il loro matrimonio? Siamo finalmente in grado [ci domandiamo] di fare delle considerazioni in proposito e di conoscere meglio Françoise de La Chassaigne che nel testo dei Saggi viene nominata molto poco e in modo potrebbe sembrare non proprio lusinghiero?
Françoise de La Chassaigne, la moglie di Montaigne dal 23 settembre 1565, appartiene a una famiglia molto rispettata di Bordeaux: è la figlia di Joseph de La Chassaigne [1515-1572], signore di Javerlhac, consigliere del re e presidente del Parlamento di Bordeaux dal 1569. L’unione tra Michel de Montaigne e Françoise de La Chassaigne viene giudicata dall’opinione pubblica [da quelli che contano] come un ottimo investimento per entrambe la famiglie: si parla di “un buon affare”.
L’età degli sposi è in linea con gli usi dell’epoca: Montaigne [sull’età degli sposi ironizza], nel capitolo VIII del Libro II dei Saggi intitolato Dell’affetto dei padri per i figli, scrive che aveva trentatré anni quando si è sposato ma, in realtà, ne aveva trentadue, e poi dichiara ironicamente di aver rispettato i canoni previsti da Aristotele e scrive: «Aristotele considera ideale per l’uomo il matrimonio a trentatré anni» ma Montaigne, nella sua aspirazione a essere sempre in accordo con i classici, non la racconta giusta perché Aristotele, nel trattato intitolato Politica, sostiene che «l’età giusta per l’uomo per prender moglie è trentasette anni»[quando era già morto?]. Quindi Montaigne ha qualche anno in meno rispetto all’ideale aristotelico che vorrebbe perseguire mentre Françoise ne ha qualcuno in più della media [se si considera che l’età media delle ragazze che convogliavano a nozze era di diciassette anni] perché è nata il 13 dicembre 1544 e perciò ha già [dovremmo dire] ventun anni, ed è comunque in grado di garantire al marito una numerosa prole. Purtroppo la questione dei figli si rivela una dolorosa spina nel fianco per i due: Michel ha avuto da Françoise sei figlie delle quali cinque sono morte alla nascita [al massimo sono campate alcuni mesi] e solo una è sopravvissuta, Léonor de Montaigne, nata il 9 settembre 1571. Come sostengono tutte le studiose e gli studiosi di psicologia, questo fatto ha contribuito a condizionare il rapporto tra i due e, pur essendoci undici anni di differenza tra lui e la moglie, Michel ha fatto quello che fanno molti uomini: ha cominciato a considerare Françoise come se fosse sua madre, una situazione che crea, inevitabilmente, dei problemi e per giunta lei ha favorito questa situazione in competizione con la suocera Antoinette.
Françoise viene nominata poco nel testo dei Saggi, e i passi a lei dedicati la presentano in modo non particolarmente favorevole perché, nei suoi confronti, Michel usa lo stesso tono di quando parla di sua madre [che lui definisce spesso isterica], Antoinette [la suocera], che vive al castello nel suo appartamento. Sempre nel capitolo VIII del Libro II dei Saggi intitolato Dell’affetto dei padri per i figli, Montaigne scrive: «Le donne tendono sempre a non essere d’accordo con i loro mariti. Esse afferrano a due mani tutti i pretesti per contraddirli». E quando si presenta una situazione relativa a questa affermazione [quando scatta la discussione perché le donne esprimono con vigore il loro parere] s’immagina che Montaigne si tappi le orecchie e vada a rifugiarsi nella sua torre [dove, a suo tempo, lo andremo a trovare]. Questa affermazione, apparentemente banale, è una delle tante [a prima vista priva di originalità come se fosse un luogo comune] che rende il testo dei Saggi un capolavoro esemplare: nessun autore [agli albori dell’Età moderna] ha mai preso per ora in considerazione il fatto che “le donne abbiano un’opinione da difendere con caparbietà”, e non c’è stato ancora autore che, onestamente, abbia riconosciuto alle donne la capacità di esprimere il loro pensiero perché le donne vengono considerate prive di pensiero [femminile] e tutt’al più dipendenti, secondo la servitù volontaria, dal pensiero maschile. E Montaigne si rifà come sempre ai classici per avvalorare [per giustificare] la sua affermazione: tra i vari motivi per cui Montaigne ammira Socrate c’è il fatto che il filosofo [per eccellenza, secondo lui] ha perfezionato l’arte di vivere insieme a una moglie particolarmente aggressiva, e Montaigne spera di riuscire a emulare la pazienza e l’ironia [pazienza ed ironia invitano a riflettere] che usa Socrate quando parla della propria moglie e, nel capitolo XIII del Libro III dei Saggi intitolato Dell’esperienza, scrive: «Socrate così rispose ad Alcibiade che gli chiedeva come riuscisse a sopportare le continue lamentele della moglie. “Ci si abitua”, disse Socrate, “come quelli che abitano vicino a un mulino si abituano al suono delle ruote per attingere l’acqua; e, vedi Alcibiade, bisogna saper trasformare ogni esperienza in un’occasione di miglioramento spirituale, sfruttando il caratteraccio di mia moglie imparo a praticare l’arte della resistenza alle avversità”». Françoise, oltre a essere [come dicono le cronache] una bella ragazza, è soprattutto un tipo molto determinato che mantiene alto il proprio profilo psicologico e sa conservare il proprio fisico, e lo dimostra il fatto che è sopravvissuta al marito di ben trentacinque anni, morendo il 7 marzo 1627, ottantaduenne, un’età record per l’epoca. Françoise vive più a lungo [undici anni in più] anche di sua figlia [l’unica sopravvissuta] Léonor, morta nel 1616 a 45 anni. Anche la madre di Montaigne, Antoinette de Louppes de Villeneuve, sopravvive al figlio perché muore nove anni dopo di lui nel 1601. A leggere il testo dei Saggi si capisce che i rapporti tra [Françoise] la nuora e [Antoinette] la suocera [che entrambe si contendono Michel come figlio] non devono essere stati facili e Montaigne scrive molte volte la frase «Queste due donne non fanno altro che logorarmi nel fisico e nella mente» e viene da pensare che queste due figure abbiano contribuito ad accorciargli la vita.
Molte informazioni su Françoise riguardano la sua vecchiaia: in tarda età [ormai vedova da molti anni] è diventata una fervente devota e di lei si racconta che “digiunava tutti i venerdì e per metà dei giorni della quaresima”, e ha intrattenuto un’intensa corrispondenza con la sua guida spirituale, Dom Marc-Antoine de Saint-Bernard, e queste Lettere sono giunte fino a noi e sappiamo che lui le mandava in dono arance e limoni e lei gli spediva cotognate e fieno. Nell’ultima Lettera lei si rallegra con Dom Marc-Antoine per la buona riuscita di un affare, e scrive: «Con questo, Dio mi ha offerto i mezzi per mantenere la casa del mio defunto marito e dei miei figli»[e probabilmente per figli intende il personale di servizio]. Spesso Françoise, nell’Epistolario con Dom Marc-Antoine, usa un tono ansioso: si preoccupa di ciò che potrebbe accadere al suo confidente se affrontasse il viaggio per andarla a trovare: «Preferirei morire [scrive] che sapere che vi siete messo sulla strada con questo tempo così tremendo» e certamente, da giovane, Françoise era meno ansiosa; ma da vecchia, come abbiamo letto, continuava a essere molto attenta alle questioni legali ed economiche, molto più come sappiamo di quanto lo fosse il marito.
I coniugi Montaigne, solitamente, trascorrono le giornate in zone separate del castello: Michel sta in una torre, Françoise nell’altra, situata nella parte opposta, la cosiddetta “Tour de Madame”, che, dopo essere stata trasformata in piccionaia all’inizio del XIX secolo, è crollata e oggi non ne rimane traccia. Nell’edificio principale del castello abita Antoinette la cui presenza risulta incombente e sembra che lo scopo delle torri sia quello di offrire ai coniugi un rifugio l’uno dall’altra e, a entrambi, dalla madre di Montaigne. Montaigne, nel testo dei Saggi, non cita mai esplicitamente la madre [ne fa intuire la presenza opprimente]. L’immagine di questa famiglia divisa in scompartimenti stagni può apparire triste ma, per la maggior parte del tempo, l’atmosfera era rilassata ed è difficile che qualcuno soffra di solitudine perché nel castello c’è sempre gente in giro: domestici, sottoposti, ospiti con tutto il loro seguito, bambini che giocano. Lo stesso Montaigne non trascorre di certo le sue intere giornate a rimuginare nella sua torre ma a lui piace andare a cavallo [e ne abbiamo già parlato] e anche camminare, e nel capitolo III del Libro III dei Saggi intitolato Di tre commerci, scrive: «I miei pensieri dormono se li metto a sedere. Il mio spirito non cammina se le gambe non lo fanno muovere »[gli intellettuali illuministi, come vedremo a suo tempo, riprendono e sviluppano questo concetto]. La separazione tra uomo e donna nella vita quotidiana era normale agli albori dell’Età moderna: le case nuove o ristrutturate [di chi se lo poteva permettere] erano concepite a tal fine e, nel 1452, Leon Battista Alberti nel suo trattato De re aedificatoria [Dell’architettura] scrive: «Il marito e la moglie debbono avere una camera per uno, acciocché ciascuno possa dormire senza essere molestato da l’altro».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quali sono le condizioni in cui preferite dormire …
Scrivete quattro righe in proposito…
Il fatto è che nel castello di Montaigne le due “camere” sono separate da un ampio porticato esterno, e noi ci domandiamo se “per incontrarsi coniugalmente” si dovevano dare un appuntamento. Dei rapporti intimi [dei “doveri coniugali”] dei coniugi Montaigne ne parleremo tra quindici giorni [vi ricordo ancora che la prossima settimana, come da calendario, faremo una pausa per prendere fiato]. Come si comportano i coniugi Montaigne di fronte ai loro “doveri coniugali”? Che cosa c’è da sapere? Perché dobbiamo interessarci di questo argomento? Su questo argomento [che non ha nulla di morboso] c’è da sapere più di quanto si possa pensare.
E, di conseguenza, per rispondere a questa e ad altre domande dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che, anche di fronte a un tema così delicato [in tutti i sensi], non bisogna mai perdere la volontà di imparare e, quindi, la Scuola è qui, e il viaggio continua…