ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 12-13-14 dicembre 2018
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600
CI SI DOMANDA SE SI POSSA ESSERE FILOSOFE E FILOSOFI [INVOLONTARI E FORTUITI] PER NATURA
PRIMA CHE ATTRAVERSO “L’ARTIFICIO” DELLA CULTURA ...
Questo è l’ottavo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica nel corso del primo secolo [il ‘500] dell’Età moderna e questo è l’ultimo itinerario prima della vacanza natalizia e l’ultimo di quest’anno solare che sta per finire.
Come sapete, dal mese di ottobre stiamo viaggiando in compagnia di Michel de Montaigne, vissuto tra il 1533 e il 1592. Michel de Montaigne è, come ben sapete, l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano: un’opera [la prima pubblicazione è del 1580] che merita di essere conosciuta nella sua forma, di essere compresa attraverso la riflessione sugli innumerevoli temi in essa contenuti in modo che ci si possa applicare sul suo testo leggendone qualche pagina, quattro pagine al giorno con il metodo del LEGERE MULTUM, che è il più efficace per affrontare la lettura di un’opera di questo tipo.
Come ben sapete, Michel de Montaigne, nel testo dei Saggi, riflette “sulle cose della vita” [affermazione che con Montaigne comincia a essere declinata in senso moderno], ponendosi una domanda significativa: come vivere? E le risposte che dà alle domande che si pone rimandano sempre ad altri interrogativi perché, già dalle sue prime esperienze di vita, che finora noi abbiamo conosciuto - da letterato, da giurista, da magistrato, da parlamentare, da sindaco, da amico, da marito -, l’autore dei Saggi pensa che l’unica certezza sia “l’instabilità delle cose di questo mondo perché tutto si muove”, e mentre Galileo Galilei - insieme a Copernico, a Keplero, a Bruno, a Campanella, a Telesio [nostri compagni di viaggio dello scorso anno, ve li ricordate?] - guarda al moto dell’Universo planetario, Michel de Montaigne osserva tutto ciò che si muove nell’ambito dell’Universo della sua esistenza quotidiana e, per questo motivo, conia per sé una definizione significativa, dichiara di essere “un filosofo involontario e fortuito”. Questa affermazione ha suscitato l’attenzione tanto delle prime e dei primi lettori quanto delle studiose e degli studiosi successivi: perché?
Michel de Montaigne, nel capitolo XII del Libro II dei Saggi intitolato Apologia di Raymond Sebond, scrive di considerarsi come “un filosofo involontario e fortuito” e questa affermazione, apparentemente banale, è una delle tante, a prima vista priva di originalità come se fosse un luogo comune, che rende il testo dei Saggi un capolavoro esemplare: a detta delle studiose e degli studiosi di filologia nessun autore ha mai dato di sé [agli albori dell’Età moderna] una definizione di questo genere, anzi, se pensiamo ai personaggi che abbiamo incontrato durante il viaggio dello scorso anno, dobbiamo prendere atto che ciascuno di loro [tutti in possesso di un forte carattere per cui usano sempre il verbo “essere” con supponenza] tende a dichiarare di voler essere “un filosofo a pieno titolo, dotato di una consapevolezza a priori” [e questo è il motivo primario per cui Giordano Bruno finisce al rogo, per cui fra’ Tommaso Campanella si fa ventisette anni di galera, per cui Bernardino Telesio non si allontana prudentemente da Cosenza, per cui Galileo Galilei muore agli arresti domiciliari]. Per capire questa situazione dobbiamo seguire la riflessione di Montaigne il quale, anche lui, fa questa affermazione [«mi considero un filosofo involontario e fortuito»] per ribellarsi nei confronti di coloro che pretendono di avere “un’autorità di pensiero” [i saccenti sicuri delle loro certezze come gli aristotelici fondamentalisti che considerano le Opere di Aristotele alla stregua della Sacra Scrittura imponendo come dogmi considerazioni ormai superate] e il suo comportamento - fondato sulla consapevolezza de “l’instabilità delle cose di questo mondo” - è più alla nostra portata, è più a livello di “persone moderne”: figlie delle innumerevoli incertezze che la modernità, con le sue “presunte novità” [dice Montaigne], ha prodotto. Perché [si domanda Montaigne] ciascuna e ciascuno di noi non dovrebbe considerarsi “filosofa e filosofo” quando scopre, a posteriori, senza aver studiato la Filosofia e la Teologia, che ciò che ha pensato in modo autonomo fa parte del Pensiero di qualche importante corrente filosofica di cui non conosceva neppure l’esistenza? Tutte le volte che a noi è successo questo - perché a tutte e a tutti noi è successo più di una volta [afferma Montaigne] di renderci conto di avere in mente, a nostra insaputa, un’idea proveniente da qualche antica e importante Scuola di pensiero - ecco che di fronte a questa situazione emblematica non possiamo non definirci “filosofe e filosofi involontari e fortuiti”, dove il termine “involontario” non è soltanto qualcosa di non voluto, di obbligato, di costretto ma riguarda un concetto legato alla sfera dell’inconscio, dell’istinto, del riflesso [e questa è una considerazione di tipo moderno formulata da chi, paradossalmente, non si considera moderno]: c’è, quindi, qualcosa [si domanda Montaigne] che ci fa essere filosofe e filosofi [involontari] per Natura prima che attraverso “l’artificio” della cultura? Montaigne diffida del modo troppo “artificioso” in cui, nella sua epoca, viene prodotta la cultura: l’arte, afferma Montaigne, è diventata un fenomeno che mira a essere spettacolare [la Chiesa, le monarchie, i principati hanno bisogno di scenografie] e l’educazione è diventata troppo scolastica [oggi direbbe troppo tecnologica] e questa contrapposizione, sempre in evidenza nel testo dei Saggi] tra la Natura e l’arte, tra la Natura e l’educazione, tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale produce, afferma Montaigne, una situazione molto negativa: la cultura rischia di allontanare la Natura da sé anziché rivelarla a se stessa. A questo proposito Montaigne ci tiene a sottolineare che le sue letture non lo hanno allontanato dalla sua Natura ma che, al contrario, gli hanno consentito di scoprirla, e nel capitolo XII del Libro II dei Saggi intitolato Apologia di Raymond Sebond scrive: «I miei costumi sono naturali. Per istituirli non ho fatto ricorso ad alcuna particolare disciplina. Ma, sempliciotti come sono, quando mi è venuta voglia di presentarli in pubblico e, per renderli un po’ più decorosi, mi sono sentito in dovere di sorreggerli sia con ragionamenti sia con esempi, io per primo mi sono sorpreso nel trovarli, per puro caso, conformi a tanti esempi e ragionamenti filosofici. A quale specie appartenesse la mia vita l’ho imparato solo dopo averla sperimentata e vissuta fino in fondo. Una nuova figura: un filosofo involontario e fortuito». Questa definizione che Montaigne dà, in modo così spontaneo, della sua etica personale viene considerata esemplare ed è contemporaneamente, secondo lo stile di Montaigne, molto umile ma molto ambiziosa- Montaigne, tra le righe, ci comunica due cose importanti: in primo luogo, nonostante dica di non avere fatto appello a nessuna disciplina particolare, tuttavia ci fa capire che ha studiato molto [perché lo studio è cura] e, quindi, potrebbe anche vantarsi, come fanno molti poco umilmente, di “essersi fatto da solo” e, in proposito, aggiunge che le sue letture, e ciò che da esse ha appreso, non lo hanno né trasformato né corrotto, perché i suoi costumi [il suo carattere, il suo modo di comportarsi, le qualità morali] gli appartengono “naturalmente” e non sono stati ricalcati su modelli estranei. In secondo luogo Montaigne ci comunica che quando si inizia a scrivere, a raccontarsi, a parlare di sé, con tanto di esempi e di ragionamenti - citando casi emblematici e traendone spunto per una riflessione -, ci si riconosce nei Libri a posteriori. Montaigne dice che scrivendo di sé, descrivendosi [esercizio che ogni persona dovrebbe fare], ha capito non solo chi è ma anche a quale Scuola si sente più vicino. Montaigne afferma di non aver scelto di essere stoico, epicureo, scettico, eclettico [le correnti filosofiche a cui si riferisce] ma di aver soltanto constatato, nel corso della sua esistenza, che la sua condotta era stata spontaneamente conforme [filosofo involontario e fortuito] a queste dottrine. E Montaigne vuole precisare che non si deve leggere il suo Libro facendo riferimento alla sua appartenenza a una particolare Scuola filosofica dell’antichità perché si sente refrattario [e il riferimento è ancora una volta Socrate] a ogni tipo di autoritarismo: quando Montaigne cita un autore lo fa come se l’incontro fosse casuale [Montaigne rifiuta l’idea che gli si affibbi l’etichetta di saccente perché ha letto i Classici], e quando passa sotto silenzio il nome di un autore che cita è per fare in modo che la lettrice e il lettore diffidino del principio di autorità costituita [si ribellino al dominio degli accademici pedanti] e nel capitolo X del Libro II dei Saggi intitolato Dei libri scrive: «Non conto i miei prestiti, li pondero. Se avessi badato alla loro quantità, ne avrei utilizzati due volte tanto. Provengono tutti, o quasi, da nomi talmente famosi e antichi che non mi pare abbiano bisogno di presentazioni. Delle riflessioni, dei paragoni e degli argomenti che trapianto nel mio campo, mescolandoli con i miei, ho scelto a bella posta di tenere nascosto l’autore. Preferisco che diano un buffetto a Plutarco sul mio naso, e che si entusiasmino nell’insolentire Seneca in me». Montaigne dichiara apertamente che spesso non cita gli autori di cui si serve per evitare che la lettrice e il lettore si lascino prendere dalla sindrome de “il prestigio degli antichi”: non ci si deve riferire agli antichi classici, afferma Montaigne, per la loro autorità ma per ciò che di saggio possono ancora insegnare senza che si rinunci a valutare il loro pensiero in modo da imparare a mettere continuamente in discussione anche il nostro modo di pensare, perché a detta di Montaigne l’unica cosa certa è l’instabilità delle cose di questo mondo visto che, anche nell’Universo della nostra esistenza quotidiana, tutto si muove.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In relazione a quale argomento, su cui avevate maturato delle opinioni, avete messo ultimamente in discussione il vostro pensiero?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Montaigne riflette e si domanda [e noi con lui] se la persona debba essere considerata “filosofa per Natura” prima che possa diventarlo attraverso l’artificio della cultura, e se questa caratteristica, legata al primato della Natura, faccia aumentare il valore della dignità umana: ebbene, seguendo questa articolata riflessione emerge anche un tema particolarmente sensibile che riguarda “l’utilità dell’esercizio non naturale della lettura”, un tema legato, come sempre secondo lo stile di Montaigne, a un interrogativo di più ampia portata: che valore, che importanza, che influenza hanno i Libri nella vita di una persona? Montaigne riflette guardando al suo Universo e come al solito la sua analisi speculativa [da filosofo involontario e fortuito] si dilata.
Michel de Montaigne, nel capitolo III del Libro III dei Saggi intitolato Dei tre commerci, scrive e mette a confronto i tre generi di cose [tre commerci] che fino ad allora lo hanno interessato particolarmente nel corso delle sua vita. Questi tre generi di cose sono: «le donne belle e oneste», «le amicizie rare e scelte» e «i Libri» e poi aggiunge che, a suo giudizio, il genere più proficuo, più salutare delle altre due cose [amore e amicizia] è quello dei Libri. Montaigne nel capitolo III del Libro III dei Saggi intitolato Dei tre commerci scrive: «Questi due commerci [l’amicizia e l’amore] dipendono dal caso e dalle altre persone. Uno presenta l’inconveniente della rarità [l’amicizia], l’altro [l’amore] avvizzisce col passare degli anni: ragion per cui non sarebbero bastati a soddisfare i bisogni della mia vita. Quello con i Libri, che è il terzo, è molto più sicuro e nostro. Lascia ai primi due gli altri vantaggi, ma ha dalla sua la costanza e l’agio nel goderne i servigi». Sappiamo che, dopo la morte di Étienne de La Boétie, Montaigne non ha più conosciuto la vera amicizia, e in molte parti dei Saggi [per esempio nel capitolo V del Libro III intitolato Su alcuni versi di Virgilio] si rammarica in modo particolarmente accorato dello scemare delle sue doti amatorie [del venir meno della sua virilità]. Montaigne spiega che tanto l’amicizia quanto l’amore «danno luogo a trasporti più febbrili, a sensazioni più intense, perché implicano un contatto diretto con l’altra persona, ma sono rapporti anche più effimeri, più imprevedibili e più discontinui. La lettura, invece, offre il vantaggio della costanza e della durevolezza». E noi siamo tutte pronte e tutti pronti, in questo momento, a sottoscrivere l’affermazione di Montaigne, il fatto è che lui [secondo il suo stile, dopo aver riletto ciò che ha scritto] continua la sua riflessione [e c’invita a soprassedere dal prendere decisioni affrettate] e riflette sull’accostamento che ha fatto fra l’amore, l’amicizia e la lettura, e dubita di aver fatto bene a creare questa gerarchia perché, indubbiamente, l’amore, l’amicizia e la lettura sono tre cose, a loro modo, piacevoli [perché, quindi, non farle convivere in modo paritario?].
Montaigne si domanda [e c’invita a riflettere] se la lettura, che richiede la solitudine, sia davvero in qualche modo superiore a tutte le relazioni che coinvolgono le altre persone, e si domanda se le relazioni con le altre persone debbano davvero essere considerate alla stregua di distrazioni che ci allontanano da noi stessi: la meravigliosa relazione con i Libri, si domanda Montaigne, può essere assimilabile a quella dell’amicizia e dell’amore che presuppongono rapporti in carne e ossa [naturali]? In che modo, si domanda Montaigne, possiamo essere amiche, amici e amanti di un Libro? Possiamo esserlo ma, certamente, in modo diverso da come possiamo essere amiche, amici e amanti di una persona, quindi [ci mette in guardia Montaigne], non ci si deve mai fidare, senza prima aver riflettuto, della consuetudine che abbiamo acquisito [che ci è stata imposta?] di ragionare secondo scale gerarchiche. E questo perché, afferma Montaigne, prima di sottoscrivere ogni affermazione dobbiamo ricordarci che “l’esistenza deve essere sempre concepita come una dialettica fra il mio io e quello delle altre persone” [e questa è un’altra considerazione di tipo moderno formulata da chi, paradossalmente, non si considera moderno]. Se la rarità dell’amicizia e la fugacità dell’amore inducono a privilegiare il rifugio nella lettura, è anche vero che quest’ultima, afferma Montaigne, ci riporta immancabilmente per quanto fenomeno artificioso sia verso le altre persone. E, quindi, possiamo pure ammettere [come pensavamo subito di fare] che la lettura sia il migliore degli altri due commerci [dell’amicizia e dell’amore] perché le motivazioni non mancano ma, anche e proprio quando le motivazioni non mancano, rimarca Montaigne, non dobbiamo giudicare in senso assoluto [che è un artificio] ma “secondo il bisogno” [secondo Natura], e scrive Montaigne nel capitolo III del Libro III dei Saggi intitolato Dei tre commerci: «Questo commercio [la lettura] accompagna l’intero corso della mia vita e mi soccorre in ogni occasione. Mi consola nella vecchiaia e nella solitudine. Mi allevia il peso di un ozio molesto, e in qualsiasi momento mi libera dalle compagnie che mi sono sgradite. Lenisce le fitte del dolore, quando non è eccessivo e non mi tiene in pugno. Mi basta ricorrere ai Libri per sottrarmi a un pensiero importuno, giacché i Libri mi attirano facilmente a sé, facendomelo dimenticare. E non se ne hanno a male se vedono che li cerco soltanto quando mi vengono a mancare quegli altri due piaceri, più reali, vivi e naturali. Mi accolgono sempre col medesimo viso». I Libri, ci fa notare Montaigne, sono amici sempre disponibili e sanno, nella vita di tutti i giorni, porre rimedio alla vecchiaia, alla solitudine, all’ozio, alla noia, all’ansia, al dolore a patto che non sia troppo pungente. I Libri, afferma Montaigne, temperano gli affanni, offrono sostegno e riparo, tuttavia, si avverte una consueta punta di ironia in questa rappresentazione così convincente e persuasiva dei Libri. I Libri, a differenza delle persone, afferma Montaigne,, non protestano mai, non si indispettiscono se li trascuriamo: sono una presenza sempre benevola mentre le amiche, gli amici, le amanti e gli amanti, invece, soffrono di continui sbalzi d’umore.
Agli albori dell’età moderna e agli esordi del secolo della scienza [il ‘600], Montaigne, attraverso l’elogio della lettura, si fa promotore della civiltà della carta stampata ed è bene ricordare che, nel corso dei secoli che ci dividono dalla pubblicazione dei Saggi, è nei Libri che le persone si sono conosciute e ritrovate. Purtroppo, allora come oggi, questo è avvenuto per un’esigua minoranza quasi irrilevante rappresentata dalla popolazione che legge [dal ceto riflessivo], e per Montaigne è talmente scontato questo fatto che neppure lo registra: Montaigne parla spesso di educazione [e lo vedremo], qui però, nel capitolo dei Saggi che abbiamo preso in considerazione, si dimentica di scrivere che, per usufruire di tutti i meriti che i Libri hanno e che lui ha puntigliosamente elencato, bisogna saper leggere! Ebbene, voi che sapete leggere…
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Che libro avete sul comodino, o nel posto dove vi predisponete quotidianamente a leggere?… Perché ritenete utile consigliarne la lettura?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Si legge pochissimo in Italia, in Europa, nel Mondo. Perché [c’è un solo perché!]? La maggior parte delle cittadine e dei cittadini non legge perché non sa leggere in quanto la lettura - e su questo Montaigne insiste - non viene naturale, occorre “imparare l’artificio in officina” [questa sera torniamo a casa dopo aver letto una decina di pagine per conoscere, capire, applicarci, analizzare, sintetizzare e valutare perché per leggere non basta saper decifrare dei simboli ma è necessario saper utilizzare le sei principali azioni dell’apprendimento].
Montaigne, a questo proposito, è esplicito su un punto: “il primo provvedimento repressivo che prendono i tiranni è quello di censurare i Libri [lo ripetete spesso, e si aspetta che la censura si abbatterà anche sul suo di Libro]” e questa sua affermazione è mutuata come sapete dall’opera principale del suo unico amico Étienne de La Boétie, intitolata Discorso sulla servitù volontaria o Contr’uno, del quale questa sera terminiamo la lettura.
Come ben sapete, Étienne de La Boétie ha composto in giovanissima età quest’opera significativa che è stata pubblicata nel 1576 dopo una lunga diffusione clandestina a causa [come sapete] della forma molto diretta e del contenuto considerato sedizioso di quest’opera. Il Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie [che abbiamo letto, di volta in volta, in queste settimane] è un’opera che appare sempre attuale perché si rivolge contro “il concetto della tirannia” analizzato in tutti i suoi aspetti, indipendentemente dalle forme che questo sistema ha assunto e assume nel corso della storia dall’antichità fino a oggi, e determinate affermazioni di Étienne de La Boétie, presenti nel suo Discorso, sono ancora più dirompenti oggi, in età contemporanea piuttosto che agli albori dell’Età moderna. Quando leggiamo: «Se penso [scrive La Boétie] a quelli che lusingano il tiranno per trar vantaggi dalla tirannia e dall’asservimento del popolo, sono quasi sempre stupito della loro malvagità, della loro stupidità e soprattutto della loro ignoranza: i tiranni, infatti, detestano gli studi e i Libri e i loro adulatori li assecondano nel favorire il degrado intellettuale che porta alla degenerazione morale», se oggi i tiranni non ci sono più [o non dovrebbero esserci più] tuttavia non si fa abbastanza per arginare il degrado intellettuale che porta alla degenerazione morale.
E ora leggiamo l’ultima parte di quest’opera anche per celebrare i settant’anni della Carta che contiene la Dichiarazione dei diritti universali della persona [il 10-12-1948 tutti gli Stati l’hanno sottoscritta con convinzione, oggi turba il fatto che i rappresentati dei governi di molti Stati non firmerebbero (Italia e superpotenze comprese) un documento che ribadisce il concetto di Uguaglianza e che considera l’Alfabetizzazione un diritto universale della persona].
LEGERE MULTUM….
Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria
Espongo ora un punto che, a parer mio, è la molla segreta del potere, il sostegno e il fondamento di ogni tirannide. Non sono gli squadroni a cavallo, le compagnie di fanti, le armi che difendono un tiranno, ma sono sempre quattro o cinque individui che lo sostengono (benché da principio si faccia fatica a crederlo, è l’assoluta verità) e gli consegnano l’intero paese. È sempre stato così; cinque o sei hanno ottenuto di venire ascoltati dal tiranno e gli si sono avvicinati spontaneamente, oppure sono stati chiamati da lui per diventare i complici delle sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i lenoni della sua lussuria, i beneficiari delle sue rapine. Questi sei istigano così abilmente il loro capo, che egli si comporta iniquamente verso il popolo, con la propria malvagità, ma accresciuta dalla loro. Questi sei hanno sotto di loro seicento persone che corrompono proprio come hanno corrotto il tiranno. E queste seicento persone ne hanno alle loro dipendenze seimila che innalzano di grado. Fanno dar loro il governo delle province o la gestione delle finanze allo scopo di tenerle in pugno, facendo leva sulla loro cupidigia o sulla loro crudeltà, perché esse le esercitino e facciano tanto male da non poter più sfuggire alle Leggi e alle sanzioni se non grazie alla loro protezione. E chi vorrà dipanare la matassa, vedrà che non già seimila, ma centomila, ma milioni di persone rimangono vincolate al tiranno per mezzo di questa catena ininterrotta che li lega indissolubilmente a lui, così come Giove si vantava, secondo Omero, di attirar a sé, tirando su questa catena, tutti gli dèi. Qui sta l’origine dell’accresciuto potere del Senato sotto Giulio Cesare, l’instaurazione di nuove cariche, l’istituzione di nuovi uffici, non già per riorganizzare la giustizia, ma per dar nuovi sostegni alla tirannia. Insomma, a causa dei vantaggi e dei favori strappati ai tiranni, si arriva a un punto ove le persone che traggono vantaggio dalla tirannia sono quasi numerose come quelle che aspirano alla libertà. … Allorché un re si dichiara tiranno, tutto il marcio e tutta la feccia, e non parlo di un mucchio di piccoli malfattori e manigoldi, incapaci di far del bene o del male al loro paese, ma di individui dominati da una sfrenata ambizione e da notevole avidità, gli si radunano intorno e lo sostengono per avere una parte del bottino e per diventare altrettanti piccoli tiranni e, in questo modo, il tiranno rende servi gli uni valendosi degli altri ed è protetto da individui di cui dovrebbe diffidare se mai avessero un qualche valore. Ma come si dice giustamente: per spaccare la legna si usano magli fatti dello stesso legno. … Quando penso a quelli che lusingano il tiranno per trar vantaggi dalla tirannia e dall’asservimento del popolo, sono quasi sempre stupito della loro malvagità, della loro stupidità e soprattutto della loro ignoranza: i tiranni, infatti, detestano gli studi e i Libri e gli adulatori li assecondano nel favorire il degrado intellettuale che porta alla degenerazione morale. … Avvicinarsi a un tiranno vuol dire allontanarsi dalla libertà e afferrare a piene mani il proprio asservimento: se chi lo fa studiasse il proprio comportamento, osservasse l’universo della propria umanità, capirebbe chiaramente che quegli abitanti dei villaggi, quei contadini che calpesta e tratta come schiavi, sono, per quanto maltrattati, più felici di lui e in un certo senso più liberi. Il contadino e l’artigiano, benché asserviti, devono solo ubbidire; ma il tiranno vede che quelli che gli stanno d’attorno brigano per ottenere i suoi favori e non si accontenta che eseguano i suoi ordini, pretende anche che immaginino quello che vuole e, spesso, persino che prevengano i suoi desideri. Obbedirgli non basta, bisogna pure compiacerlo; bisogna che si logorino, si affannino, si ammazzino per fare i suoi affari, e poiché si compiacciono solo nel piacere di quello, devono sacrificare i propri gusti in favore dei suoi, rinunciare al proprio temperamento, spogliarsi della propria indole. Bisogna che prestino attenzione al tono della sua voce, alle sue parole, ai suoi sguardi, ai suoi gesti; che i loro occhi, le loro mani, i loro piedi siano sempre intenti a spiare i suoi desideri, a indovinare i suoi pensieri. E questo sarebbe vivere felici? O, almeno, vivere? Vi è qualcosa al mondo che sia più insopportabile di questa condizione, non dico per ogni persona di cuore, ma anche per chi è dotato del semplice buon senso, o anche solo di un aspetto umano? Quale condizione può essere più miserabile che vivere così, senza nulla che sia nostro, dipendendo da un altro per il proprio benessere, la propria libertà, il proprio intelletto, il proprio corpo, la propria vita? … Si rileggano le storie antiche, ci si ricordi di quelle ancora presenti nella nostra memoria, e si constaterà quanto numerosi sono quelli che, ottenuta con mezzi ignobili la fiducia del principe, assecondando i suoi vizi, hanno finito per essere schiacciati da quello stesso del quale avevano goduto della familiarità. Quel che è certo è che il tiranno non ama mai e non viene mai amato. L’amicizia è un nome sacro, una cosa santa. Può esistere solo fra persone integre. Nasce da una stima reciproca e si alimenta non con i favori ma con l’onestà. Ciò che rende un amico sicuro dell’altro è la consapevolezza della sua integrità. Ne sono garanzia la bontà naturale, la fedeltà, la costanza. L’amicizia non può esistere laddove vi siano crudeltà, slealtà, ingiustizia. Quando i malvagi si radunano, non vi è un’associazione ma un complotto. Essi non si amano ma si temono. Non sono amici, ma complici. Quand’anche così non fosse, sarebbe difficile trovare in un tiranno un amore sicuro, perché essendo al di sopra di tutti e non avendo pari, egli è già oltre i confini dell’amicizia. Questa fiorisce nell’uguaglianza, il cui cammino è sempre regolare e non può mai andar di traverso. Ma i favoriti di un tiranno non possono mai contare su di lui perché sono stati loro a mostrargli che egli può tutto, che nessun diritto, nessun dovere gli pone dei limiti, che non ha altra ragione che la propria volontà, che nessuno gli sta alla pari e che è il padrone di tutti. Non è forse deplorevole che, malgrado tanti esempi eloquenti, di fronte a un pericolo così incombente, nessuno voglia trar insegnamento dalle sventure altrui e che tanta gente aspiri ancora così volentieri alla familiarità dei tiranni? Che non se ne trovi uno che abbia la saggezza e il coraggio di dirgli, come la volpe della favola al leone che si fingeva malato: «Mi piacerebbe venirti a trovare nella tua tana, ma vedo le molte orme degli animali che vi sono entrati, mentre non ne vedo alcuna di quelli che ne sono usciti». Quegli sventurati hanno l’impressione di veder luccicare il tesoro dei tiranni: ne ammirano, stupiti, la magnificenza; allettati da quel luccichio, si avvicinano senza avvedersi che vanno a gettarsi in un fuoco che finirà giocoforza per divorarli. Come l’imprudente satiro della favola che, vedendo brillare il fuoco rapito da Prometeo, lo trovò così bello che andò a baciarlo e ne fu bruciato. Così la farfalla, sperando di godere di qualche delizia, si getta nella fiamma che vede brillare, ma ben presto si accorge, come dice Lucano, che essa può anche bruciare. …
Che tormento, che martirio è questo, o Dio! Il tiranno, un individuo intento giorno e notte ad essere gradito ad ogni singola persona, e a diffidare di lei! Aver sempre l’occhio vigile, le orecchie tese, per indovinare da dove verrà il colpo, per scoprire le imboscate, per cercare di decifrare l’espressione dei propri rivali, per scoprire il traditore. Sorridere ad ognuno e diffidare di tutti, non aver né un nemico dichiarato, né un amico sicuro, mostrare sempre un viso lieto quando il cuore è angosciato; non poter essere allegri, né osare di essere tristi!
Smettiamo di essere complici, cessiamo di essere persone che servono: impariamo ad agire bene. Alziamo gli occhi al cielo per il nostro onore o per amore della virtù, meglio ancora per l’onore e l’amore di Dio Onnipotente, fedele testimone delle nostre azioni e giudice delle nostre colpe. Dal canto mio, penso - e non credo di sbagliare - dato che nulla è più contrario a un Dio buono e generoso della tirannia, che egli tenga in serbo laggiù per i tiranni e i loro complici qualche castigo del tutto particolare.
Penso che, durante la lettura di queste pagine, non vi sia sfuggita un’affermazione che rappresenta una delle motivazioni per cui Montaigne, a suo tempo, decide di iniziare a scrivere: «Avvicinarsi a un tiranno [afferma Étienne de La Boétie] vuol dire allontanarsi dalla libertà e afferrare a piene mani il proprio asservimento: se chi lo fa studiasse il proprio comportamento, osservasse l’universo della propria umanità, capirebbe …», si capirebbe qualcosa in più delle cose di questo mondo [comincia a pensare Montaigne] dove tutto si muove, e Montaigne questo esercizio [di osservare l’universo della propria umanità] lo comincia a fare mentalmente per poi iniziare a usare lo strumento della scrittura, che è il mezzo più efficace per favorire la riflessione.
Come certamente ricorderete, quindici giorni fa ci siamo occupate e occupati di quale andamento abbia avuto il matrimonio dei coniugi Montaigne [al quale abbiamo partecipato], un avvenimento che ci ha permesso di fare una serie di considerazioni.
Sappiamo che la separazione tra uomo e donna nella vita quotidiana era normale agli albori dell’Età moderna, e le case nuove o ristrutturate [di chi se lo poteva permettere] erano concepite a tal fine e, nel 1452, Leon Battista Alberti nel suo trattato De re aedificatoria [Dell’architettura] scrive come certamente ricorderete: «Il marito e la moglie debbono avere una camera per uno, acciocché ciascuno possa dormire senza essere molestato da l’altro», e si presume si parli di camere attigue, ma come abbiamo detto nel castello di Montaigne le due “camere” erano separate da un ampio porticato esterno, e noi ci siamo domandate e domandati se “per incontrarsi coniugalmente” Michel e di Françoise si dovevano dare un appuntamento. Come si comportano i coniugi Montaigne di fronte ai loro “doveri coniugali”? Potremmo sentirci rispondere dai coniugi stessi con l’espressione: «Ma, che cosa ve ne importa a voi!? »[con tanto di punto esclamativo e di punto interrogativo]. Il fatto è che Montaigne tratta questa materia con dovizia di particolari nel testo dei Saggi: ne scrive e, ciò che scrive, lo fa pubblicare [lo rende pubblico] e questo perché - non che voglia insegnare qualcosa a qualcuno anche se vuole far riflettere chi legge - ma perché, evidentemente, vuole comunicare “un disagio” [che dobbiamo intercettare] che Montaigne prova e comunica in quanto uomo, in quanto marito, in quanto amante, in quanto cristiano, in quanto persona che ragiona osservando l’universo della sua umanità. Quindi, per rispondere a questa domanda [come si comportano i coniugi Montaigne di fronte ai loro “doveri coniugali”?] non vogliamo certo andare a spiare nella camera da letto della signora Montaigne dove si trova il talamo nuziale, ma dobbiamo fare, anche in questo caso, una serie di considerazioni tenendo conto del fatto che il matrimonio [e il decreto del 1564 del concilio di Trento in materia matrimoniale lo ribadisce] è finalizzato alla procreazione. E quali sono le ripercussioni di questo diktat [Montaigne lo interpreta così] nella prassi dei “doveri coniugali”?
Le studiose e gli studiosi che hanno indagato sull’andamento del matrimonio dei coniugi Montaigne dicono, usando una formula ambigua, dettata dall’incertezza, che Michel e di Françoise “non sembrano aver avuto un rapporto tanto terribile, semmai lievemente insoddisfacente” [questa affermazione nasce anche dal fatto che Michel e Françoise si sposano nel 1565 e la loro prima figlia, che vive solo due mesi, nasce nel 1570, ben cinque anni dopo e ci si domanda se ci sia qualcosa che non vada per il verso giusto].
I sentimenti di Montaigne verso la moglie sono descritti con una frase del capitolo XXXVIII del Libro I dei Saggi intitolato Come piangiamo e ridiamo di una stessa cosa dove Montaigne scrive: «Chi, al vedermi un contegno ora freddo ora amoroso verso mia moglie, pensa che l’uno o l’altro sia simulato, è uno sciocco», come dire che lui è sempre sincero nei suoi comportamenti che dipendono dalle circostanze. Quando muore la loro prima bambina Thoinette, nata il 28 giugno 1570 e morta due mesi dopo, Michel dedica alla moglie la pubblicazione di un’opera che lui cura, un’opera significativa del suo amico Étienne de La Boétie che consiste nella traduzione dal greco di una Lettera scritta da Plutarco alla moglie in seguito alla morte della loro bambina [Lettera di consolazione di Plutarco a sua moglie] e nel farlo Michel dimostra un affetto genuino nei confronti di Françoise, e tra l’altro dedicare un Libro alla propria moglie era considerato fuori moda, un gesto antiquato e grossolano, e per questo nella dedica Michel scrive in tono affettuoso e sprezzante: «Che parlino pure male di me. Io e te, Françoise, viviamo alla maniera antica. Io penso di non avere nessuno più intimo di te» e con queste parole mette la moglie quasi allo stesso livello di Étienne de La Boétie, il che non è poco!
Tuttavia sappiamo quale sia l’idea che Montaigne ha del matrimonio [e la sua convinzione si rafforza dopo aver letto il decreto del concilio di Trento sul matrimonio che, secondo Montaigne, non lascia scampo] e, quindi, lui ribadisce di essersi sottoposto al vincolo matrimoniale “come un prigioniero che, senza opporre resistenza alcuna, offre i polsi per farsi ammanettare” e, nel capitolo V del Libro III dei Saggi intitolato Su alcuni versi di Virgilio scrive: «Di proposito, io avrei evitato di sposare la saggezza medesima, se mi avesse voluto. Ma abbiamo un bel dire, il costume, la pratica comune della vita e una certa decretazione, ci trascinano in direzione opposta, verso l’abisso». Se fosse stato libero di scegliere si sarebbe tenuto alla larga dall’istituzione e, sempre nel capitolo V del Libro III dei Saggi intitolato Su alcuni versi di Virgilio, scrive: «Le nature sregolate come la mia, che detesto ogni legame e obbligo, non sono adatte al matrimonio». Ad ogni modo, ancor prima che avvenga, prendendo, come ben sappiamo, un’iniziativa inusuale, e a cose fatte si prodiga perché la convivenza funzioni, e cerca perfino di rimanere fedele alla moglie [cosa inconsueta per un nobile dell’epoca] osservando le Leggi del matrimonio «più severamente di quanto avessi promesso o sperato » scrive nel capitolo V del Libro III dei Saggi intitolato Su alcuni versi di Virgilio.
E poi Montaign, sempre nel medesimo capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio, e ci fa ridere quando ammette che «è una cosa un po’ noiosa fare regolarmente sesso con la stessa persona» e, quindi, scrive [facendoci sorridere con l’uso di una pittoresca espressione popolare] che assolve ai suoi obblighi coniugali «con una sola chiappa, facendo solo ciò che è richiesto per mettere al mondo dei figli». Questo atteggiamento ci sembra riprovevole ma era comune [è dettato implicitamente dal decreto sul matrimonio del concilio di Trento] perché era considerato moralmente inaccettabile e peccaminoso per un marito trattare la moglie come un’amante, perché avrebbe potuto trasformarla in una sgualdrina, desiderosa di avere degli amanti, e nel Manuale dei confessori [una delle opere prodotte della commissione per l’applicazione dei decreti del concilio di Trento che, in certi capitoli, assume il carattere di un’opera buffa] si legge: «Per quanto un marito sia pieno di ardore e vitalità e abbia in moglie una donna attraente non si deve intrattenere mai con lei se non per onorare l’obbligo della procreazione, senza mai vedere nulla di lei, neppure i seni, se non le mani e il viso »[qui viene in mente Il Gattopardo]. Al matrimonio [per decreto] si addice un sesso occasionale e distaccato e, sempre nel capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio, Montaigne, sarcasticamente, cita Aristotele e scrive: «Aristotele insegna che bisogna toccare la propria moglie con saggezza e castigatezza, per paura che, solleticandola troppo lascivamente, il piacere la faccia uscire fuor dei cardini della ragione». I medici dell’epoca [la maggior parte di loro] sentenziano persino che “un piacere eccessivo può alterare il seme nel corpo della donna, impedendole il concepimento”. Su questi punti la Chiesa la pensa come i medici e come Aristotele e il Manuale dei confessori [rieccolo] insegna che «un marito che ha avuto rapporti peccaminosi con sua moglie merita una penitenza più pesante di chi ha commesso quegli stessi atti con un’altra donna »[un perfetto alibi per avere un’amante, tanto si veniva assolti con la condizionale e per continuare a dividere le donne in due categorie: le sante e le prostitute]. E si legge ancora nel Manuale dei confessori: «Corrompendo i sensi della legittima consorte un marito rischia di fuorviare la sua anima immortale, trascurando gli obblighi di responsabilità nei suoi confronti», e Montaigne commenta ironicamente giocando come fa spesso con il paradosso e, sempre nel capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio, si domanda: «Se è il marito a corrompere i sensi della moglie allora non sarebbe meglio che una donna sposata, che desidera provare soddisfazione, si unisca con qualcun altro che non sia il marito? Anche perché bisogna tener conto del fatto [afferma Montaigne dimostrandosi esperto in materia e convinto che l’appellativo di “sesso forte” poco si addica agli uomini] che il piacere maschile è poca roba mentre quello femminile è assai molto di più, e perché non dovrebbe essere soddisfatto?». E Montaigne aggiunge di essere convinto che - se potessero parlare - gran parte delle donne sarebbe d’accordo con gli uomini nel dire che sulla tematica amorosa, coniugale e non coniugale, le istituzioni [tanto religiose quanto laiche] hanno creato un grande equivoco che ha conseguenze disastrose per cui, sta di fatto [allude Montaigne, continuando a ragionare da magistrato] che per i mariti, in particolare per quelli della sua categoria, l’adulterio viene considerato quasi un merito mentre per le donne c’è la pena di morte sotto la dicitura di “delitto d’onore”.
Avendo studiato i Classici, Montaigne sa bene che “l’amore” è uno dei temi forti della tradizione letteraria e filosofica antica, ed è consapevole del fatto che “il fenomeno amoroso” possiede sempre un connotato di sacralità e di divinità, come nel dialogo di Platone intitolato Simposio [o Convivio], però Montaigne, fedele al suo realismo, la questione la racconta da un’altra angolazione: per lui l’amore, quello sacro, quello che ti cambia la vita, quello dei poeti provenzali e di Giulietta e Romeo, non esiste, ma esiste da una parte “l’Eros”, l’emozione potente e fortemente epidermica che si esplicita nel desiderio di conoscenza del corpo, e dall’altra esiste il matrimonio che potrebbe funzionare solo in quanto alleanza e amicizia tra due persone; ma, nella condizione matrimoniale, per l’Eros [secondo Montaigne e agli albori dell’Età moderna] non c’è posto e, quindi, ancora una volta ci fa sorridere quando, per descrivere “la situazione della convivenza forzata che il matrimonio impone” utilizza un significativo modo di dire popolare, e sempre nel capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio, scrive: «Il compimento dei propri doveri coniugali è come fare i propri bisogni in un paniere e poi metterselo in testa, perché ci viene insegnato che applicare nel matrimonio gli istinti e le follie della licenza amorosa, e l’emozione che procura l’Eros, sembra quasi un incesto».
Eppure, nonostante questa visione non-romantica e cinica [nel senso filosofico del termine], Montaigne costruisce un’etica dei rapporti tra coniugi fondata sulla delicatezza e sul rispetto perché Montaigne è un autore - forse il primo della Storia del Pensiero Umano - che si sforza con tutti i suoi limiti di vedere le cose dal punto di vista femminile sottolineando, sempre nel capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio, la contraddittorietà delle pretese maschili: «Ci piacciono floride in salute, e pure caste. Le vogliamo calde d’inverno e fresche d’estate». E poi prende in giro il sentimento della gelosia dei mariti suoi contemporanei nei confronti delle mogli scrivendo che «Cesare, Pompeo, Antonio e Catone portavano le corna senza darsene gran pena, eppure erano dei galantuomini certamente migliori di voi » [una delle tante stoccate contro gli aristocratici suoi contemporanei: maschilisti, ipocriti e ignoranti].
Ma soprattutto Montaigne riconosce che l’amore è una forza “che guarda al di là del recinto”: un’energia positiva che filtra attraverso i muri di tutte le istituzioni e, inevitabilmente, le prende in giro. L’amore, secondo Montaigne, che molto mutua da Ovidio, trascende le istituzioni: l’amore, come il pensiero, ha le ali ed è difficile fermare il suo volo. L’etica matrimoniale di Montaigne si fonda su alcune parole-chiave [quattro in particolare] che lui utilizza nel testo dei Saggi - dolcezza, rispetto, pazienza, condiscendenza - e che si sforza [parole sue] di trasformare in gesti concreti e, in proposito, bisognerebbe sentire l’opinione di Françoise [ma il parere di Françoise non lo si conosce], però si pensa che, compresa com’è nel suo ruolo di moglie che fa anche da madre al marito, abbia condiviso con lui lo sforzo per dare un senso a queste parole.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole - dolcezza, rispetto, pazienza, condiscendenza - mettereste per prima accanto al termine “matrimonio”?…
Scrivetela…
Si capisce che il termine “matrimonio” può essere corredato da molte altre parole-chiave oltre a queste quattro proposte da Montaigne nei suoi Saggi, quindi, aggiungetene qualcuna che ritenete significativa… Montaigne scrive pensando che ogni persona possa fare altrettanto in modo da poter meglio osservare l’universo della propria umanità: e merita di essere imitato, e bastano quattro righe scritte per fare e per dare “un as-saggio”…
Diversamente dalla maggior parte dei suoi contemporanei Montaigne, quindi, non sembra considerare le mogli semplici strumenti di riproduzione, e ha anche [essendo una persona che riflette] una visione ideale del matrimonio - o, per meglio dire, della convivenza - e pensa, e auspica, che si possa realizzare “un vero incontro fisico e mentale” tra due persone: un rapporto ancora più completo dell’amicizia. A questo proposito, però, il dubbioso Montaigne si pone il problema se sia proprio necessario un contratto matrimoniale che non contempla questo aspetto per raggiungere questo obiettivo. Sta di fatto che un uomo, per non parlare delle donne, agli albori dell’Età moderna [ma questa consuetudine che poi è continuata a lungo, e ancora continua], a differenza degli amici che se li può scegliere, una moglie non è libero di scegliersela; inoltre, è difficile trovare una donna che sia capace di un vero incontro fisico e mentale dal momento che la maggior parte di esse [e non per colpa loro], oltre a non avere i necessari requisiti intellettuali [perché la quasi totalità delle donne è analfabeta e con poca esperienza del mondo ma questo vale anche per gran parte degli uomini], è sistematicamente addestrata a ubbidire a regole che la preparano alla servitù volontaria. Da questo punto di vista, Montaigne [che non si può lamentare] ha una moglie appartenente a un’esigua minoranza perché Françoise è alfabeta [sa leggere e scrivere] e, anche se non ha una preparazione classica, è fornita di competenze fondamentali in matematica e in economia [sa far ben di conto] che le permettono di gestire in modo egregio la tenuta e l’azienda vinicola di Montaigne. I Saggi di Montaigne risultano essere l’opera che in modo esplicito denuncia la subalternità delle donne soprattutto sotto il profilo intellettuale, e obbliga alla riflessione su questo tema.
La lettura del testo dei Saggi di Montaigne obbliga a riflettere sulla subalternità delle donne in particolare sotto il profilo intellettuale, e la domanda che emerge è: quante sono realmente le donne colte agli albori dell’Età moderna? Le donne colte nel ‘500 sono rarissime e, nell’area in cui vive Montaigne, gli esempi che si possono fare sono pochissimi: Montaigne ci può suggerire solo il nome di Margherita d’Angoulême [1492-1549, la consorte del re di Navarra, detta anche Margherita di Navarra] che è l’autrice di una raccolta di racconti [settantadue novelle] intitolata Heptaméron [Le sette giornate], pubblicata postuma nel 1558, in cui l’autrice - sulla scia del Decamerone [Le dieci giornate] di Giovanni Boccaccio - narra le aspirazioni delle donne per la conquista di una vita almeno in parte liberata dal pesante fardello delle servitù per le quali vengono addestrate e a cui sono legate. Un altro esempio, ma emblematico, riguarda la poetessa Louise Labé, che nelle sue composizioni sollecita le donne «a sollevare un poco il capo dalle loro rocche » [invitandole a rifiutarsi di passare tutto il loro tempo libero a filare, in modo da potersi dedicare ad attività più godibili], ma l’emblematicità di questo esempio sta nel fatto che di questa figura non sappiamo nulla e si pensa che sia “una creatura di carta” cioè lo pseudonimo adottato da un gruppo di poeti.
Nella Francia del XVI secolo, agli albori dell’Età moderna, esiste un movimento femminista che è rappresentato da uno dei due schieramenti di un fenomeno che si chiama “la querelle des femmes” [la polemica, la contesa, il contrasto delle donne] e che consiste in un dibattito serrato tra intellettuali [femmine e maschi] sulla bontà o meno dell’emancipazione femminile. Chi è a favore dell’emancipazione esce sempre vincente dalle discussioni che animano i salotti ma questo non incide minimamente sulla vita dell’universo femminile dell’epoca. Ebbene, se Montaigne avesse preso parte a questa contesa [ma non risulta l’abbia mai fatto e per questo ha anche subito un’accusa di antifemminismo] si sarebbe sicuramente schierato dalla parte dei sostenitori delle donne, e nel testo dei Saggi è lapidario e sempre nel capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio scrive: «Le donne non hanno affatto torto quando rifiutano le norme di vita che sono adottate nel mondo, tanto più che sono gli uomini che le hanno fatte senza di loro» e sempre nel medesimo capitolo ribadisce che, per Natura, «maschi e femmine sono modellati nello stesso stampo». Da questo suo modo di pensare dipende il fatto che la politica domestica di Montaigne [chiamiamola così] consiste nel distanziarsi il più possibile dall’universo femminile, in modo che, dentro le mura domestiche, le donne di casa siano libere di fare come vogliono [difatti sarà Françoise, dopo il 1568, a gestire il patrimonio di famiglia]: a tale proposito, Montaigne conia una parola-chiave [l’arrière boutique, la retrobottega], ma degli argomenti legati a questo particolare termine ce ne occuperemo nel corso del primo itinerario [il IX del nostro viaggio] del nuovo anno che sta per arrivare.
E allora: compiti per le vacanze! Un compito per prendere atto di come Giuseppe Tomasi di Lampedusa - attento lettore dei Saggi di Montaigne - ne abbia tenuto conto nello scrivere il suo romanzo Il Gattopardo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Leggete o rileggete il capitolo … [andatelo a cercare] de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa dove Don Fabrizio discute con Padre Pirrone sul tema della sessualità nel matrimonio…
Questo romanzo, probabilmente, è presente anche nella vostra biblioteca domestica…
Siamo a Natale, ma prima di celebrare il Natale di quest’anno sono stato incaricato di leggere il bilancio della nostra - più che florida - situazione finanziaria.
Abbiamo raccolto complessivamente € 3320,30.
Abbiamo speso:
€ 700 per l’Assicurazione dell’Associazione Art. 34
€ 1600 versati alla Scuola Francesco redi per la stampa dei REPERTORI
€ 25 per l’acquisto di un microfono necessario nello Spazio Soci della Coop di Ponte a Greve
Abbiamo devoluto:
€ 500 all’Associazione Il Cuore si scioglie
€ 250 all’Associazione AISLA
€ 200 all’Associazione delle Donne messicane dei forni
Per un totale di € 3275 per cui rimangono in cassa € 45,30. Siamo in attivo e per le prossime devoluzioni di fine anno continuerete, spissiolo su spicciolo, a contribuire…
Siamo a Natale e ci troviamo in difficoltà a doverlo celebrare con Montaigne che nel testo dei Saggi non nomina alcuna festività religiosa se non in termini allusivi: perché il Natale mette in crisi Montaigne? Perché è la festa della natività [e c’è di mezzo la figura di un bambino che “scende dalle stelle come re del Cielo” e che paradossalmente “nasce in una grotta al freddo e al gelo”, secondo i popolarissimi versi di Alfonso Maria de’ Liguori], e il Natale è, soprattutto, la festa dei bambini, e questo non può che far ricordare a Montaigne la morte delle sue cinque bambine, appena neonate, e non può non rinnovare in lui la continua preoccupazione per l’unica sopravvissuta, sentimenti certamente condivisi nell’intimità con Françoise. Tuttavia ho chiesto [anche a nome vostro] di “saggiare” l’argomento e, in proposito, Montaigne, diligentemente, non ha potuto fare a meno di riflettere, oltre che sulla Letteratura dei Vangeli, anche, come è sua consuetudine, sull’insegnamento derivante dalle Opere dei Classici.
Michel de Montaigne condivide l’idea che la nostra nascita “secondo la carne” [il Natale di ciascuna e di ciascuno di noi] deve prevedere una crescita secondo lo spirito che sia favorita dallo “studio” [studium], che è sinonimo di “cura”, e il Natale è proprio una manifestazione [un’epifania] dell’atto del “prendersi cura” di sé e degli altri. Ed è con questo spirito [pensa Montaigne] che la Scuola deve contribuire a dare un significato al Natale così come all’ordinaria quotidianità. E nell’ordinaria quotidianità dobbiamo fare il presepio [non c’è bisogno ce lo ricordino le interpellanze parlamentari tutte di quelli che fino all’altro giorno andavano ad adorare il dio Po, ce le siamo dimenticate queste sceneggiate?].
Nell’ordinaria quotidianità dobbiamo fare il presepio ma non per dire ipocritamente che questo serve a garantirci una presunta identità cristiana: facciamo il presepio per affermare che quel Gesù bambino, quella Maria, quel Giuseppe - che sono stati lasciati al freddo e al gelo - vanno accolti, e con loro, vanno accolti tutti quelli come loro, contrariamente di quale identità cristiana stiamo parlando? Ed è con questo spirito interlocutorio [pensa Montaigne] che la Scuola deve contribuire a dare un significato al Natale così come all’ordinaria quotidianità.
Arrivederci, quindi, al prossimo anno e, dopo una lunga vacanza [quasi quattro settimane, durante le quali - oltre a festeggiare - potete rileggere il testo dei REPERTORI … degli itinerari fin qui percorsi], come da calendario continua ed è da “l’arrière boutique” dalla retrobottega che ci rimetteremo in cammino mercoledì 16 gennaio [a Bagno a Ripoli], giovedì 17 gennaio [ad Imprumeta-Tavarnuzze] e venerdì 18 gennaio [a Firenze] e saremo nell’anno 2019 [entriamo nel 36° di questa esperienza didattica].
E infine, nello spirito con cui Michel de Montaigne ha “saggiato” l’argomento, la Scuola augura a tutte e a tutti voi un buon Natale di studio e scenda su di voi il mio augurio: non perdete mai la volontà di imparare, perduri in voi un permanente desiderio di rinascita, di studium et cura!
Auguri a tutte e a tutti voi che, frequentando la Scuola, siete persone di buona volontà! Buon Natale di studio e il viaggio continua…