ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 16-17-18 gennaio 2019
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600
SI CONSIGLIA AD OGNI PERSONA DI “RISERVARSI UNA RETROBOTTEGA” ...
Ben tornate e ben tornati a Scuola: buon anno di studio a tutte e a tutti voi che rendete possibile su questo territorio la presenza della Scuola pubblica degli Adulti.
Inizia, con il nono itinerario, la seconda parte di questo Percorso di Alfabetizzazione culturale che utilizza la Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura [comincia la seconda parte di questo viaggio che comprende tutta la stagione invernale fino alla prossima primavera] e, quindi, riprendiamo il nostro cammino sul territorio della “sapienza poetica e filosofica agli albori dell’Età moderna sulla soglia del secolo della scienza, il 1600. Dal mese di ottobre dello scorso anno stiamo viaggiando come ben sapete in compagnia di Michel de Montaigne, un personaggio-chiave della Storia della cultura moderna, vissuto tra il 1533 e il 1592.
Michel de Montaigne [che ormai è diventato per noi uno di famiglia] è l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano: un’opera [la prima pubblicazione è del 1580, la seconda del 1588] che abbiamo cominciato a conoscere nella sua disordinata forma strutturale riflettendo su una serie di temi in essa contenuti, in modo che, volendo, ci si possa applicare sul testo di quest’opera leggendone qualche pagina [quattro pagine] al giorno [con il metodo del LEGERE MULTUM, che è il più efficace per affrontare la lettura di un apparato letterario di questo tipo]. Michel de Montaigne, nel testo dei Saggi, riflette come ben sapete “sulle cose della vita” [ed è il primo intellettuale che - sul finire del XVI secolo - affronta questa esperienza di carattere introspettivo in senso moderno anche se lui non si sente un uomo moderno, non ha cognizione di questo termine, ma aspira a essere un umanista classico]. All’inizio del nuovo anno, prima di riprendere il passo, facciamo il punto della situazione dal momento che abbiamo già percorso un certo tragitto di questo viaggio [più di un terzo].
Montaigne riflette “sulle cose della vita” ponendosi come sapete una domanda significativa: come vivere, come vivere una buona vita, degna di essere vissuta? Itinerario dopo itinerario [del tragitto che abbiamo già percorso] si è formato un catalogo di affermazioni emergenti dalle riflessioni che Montaigne compie in relazione al quesito: come vivere una buona vita, che sia corretta e onorevole [decorosa, onesta, rispettabile] ma anche pienamente umana, appagante e prospera? Leggiamo le affermazioni che Montaigne propone senza la pretesa [come puntualizza sempre] di voler insegnare qualcosa, affermando che l’unica cosa che sa è di sapere di non sapere: «Cosa so io?», si domanda. Tuttavia Montaigne ci tiene ad affermare che per vivere una vita che sia corretta, onorevole, umana, appagante e prospera secondo lui] bisogna sempre agire in buona fede, bisogna giudicare la persona solo dalla sua autorevolezza, bisogna saper distinguere tra la pelle e la camicia, bisogna maturare la convinzione di essere le padrone di noi stesse e i padroni di noi stessi, bisogna capire che non c’è nulla di più naturale della diversità, bisogna sapere che chi ha imparato a morire ha disimparato a servire, bisogna pensare che l’essenza della realtà si basa sul paradosso della fermezza nell’incostanza, bisogna trovare il proprio assetto nel mondo perché tutto si muove e noi ci muoviamo, bisogna sempre domandarsi fino a che punto si possano avere precise convinzioni, bisogna essere consapevoli di essere filosofe e filosofi involontari, bisogna fare in modo che ciò che è artificiale non prevalga su ciò che è naturale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Leggete con attenzione queste affermazioni e sceglietene una: quella che mettereste per prima, e scrivetela…
Montaigne riflette “sulle cose della vita” chiedendosi: come vivere? E sulla scia di questo quesito si pone molte domande [perché è un quesito impegnativo] e le risposte che si dà [ed è una caratteristica dei Saggi] rimandano sempre ad altri interrogativi perché Montaigne, come abbiamo studiato strada facendo in questi mesi di viaggio, ha imparato a pensare - soprattutto attraverso la sua formazione classica acquisita fin da bambino - che l’unica certezza sia “l’instabilità delle cose di questo mondo perché tutto si muove”, e “l’instabilità delle cose di questo mondo dove tutto si muove” è caratterizzata principalmente dalla presenza certa della morte: la vita umana è scandita dalla preoccupazione dal distacco dalla vita stessa, e con quale atteggiamento, si domanda Montaigne, bisogna porsi di fronte a questo fatto inequivocabile? Questo sarebbe importante scoprire, forse più importante che sapere se sia la terra a girare intorno al sole o viceversa.
L’ammonimento che, in proposito, Montaigne riceve dallo studio delle Opere dei Classici greci e latini si configura nelle affermazioni: “bisogna imparare a vivere senza preoccuparsi della morte” e “bisogna filosofare [come dice il titolo del capitolo XX del Libro I dei Saggi] per prepararsi a morire”. Ma, nel testo della sua opera, Montaigne - che si presenta come una persona affetta dalle inquietudini esistenziali della modernità [anche se lui nega di essere moderno, se potesse usare questo termine] - mette bene in evidenza che una cosa è riflettere in teoria su questo tema [in sede di dibattito culturale], ben altra cosa è quando l’esperienza tocca concretamente la persona da vicino, costringendola a dover elaborare il lutto senza appellarsi, pensa Montaigne, né al conforto che può procurare la religione attraverso le Sacre Scritture né alla consolazione che può dare la mitologia attraverso la Letteratura [e questo pensiero - rigorosamente laico - rende Montaigne moderno suo malgrado e fa dei Saggi un’opera esemplare]. Nel momento in cui, questa sera, noi riprendiamo il nostro cammino seguendo come abbiamo fatto in questi mesi la biografia di Montaigne, consapevoli del fatto che c’è una corrispondenza tra la biografia dell’autore e il testo dei Saggi, una corrispondenza [come sappiamo, ma bisogna ripeterlo] di carattere “diacronico” [sfalsata nei tempi, nel senso che Montaigne scrive - per riflettere sugli avvenimenti salienti della sua vita - anni dopo e ciò implica dover fare molte sovrapposizioni che pregiudicano la linearità del percorso], ebbene, la vita di Montaigne viene toccata più volte dall’esperienza della morte e noi sappiamo che questo è uno dei grandi temi su cui Montaigne medita e torna di continuo [il tema della morte è il filo conduttore dei Saggi di Montaigne e si capisce che si sovrappone e s’inserisce nel contesto di quasi tutti gli argomenti su cui lo scrittore riflette].
La vita di Michel de Montaigne, dopo il suo matrimonio con Françoise de La Chassaigne [e, nel 1565, abbiamo partecipato virtualmente anche noi alle nozze di Michel e di Françoise e abbiamo potuto constatare che, al banchetto nuziale, alla sinistra di Michel è seduta la sposa e alla sua destra c’è una sedia vuota in ricordo dell’amico fraterno morto due anni prima, Étienne de La Boétie], viene toccata più volte dall’esperienza della morte: quella del padre Pierre nel 1568, del fratello Arnaud nel 1569, e dopo una drammatica caduta da cavallo [della quale abbiamo già parlato] lui stesso nel 1569 rischia di morire, e poi dal 1570 al 1583 subisce la tragica trafila delle morti delle sue cinque figlie: di conseguenza, queste esperienze [dopo che, nel 1563, aveva già molto sofferto, come ben sappiamo, per la perdita del suo amico fraterno Étienne de La Boétie] contribuiscono, gradualmente, a far sì che Montaigne scelga di dedicarsi a tempo pieno, e con la maggiore riservatezza possibile, all’osservazione del suo universo intimo finché sentirà anche, in modo impellente, la necessità di fissare le sue riflessioni per iscritto, ma dobbiamo procedere con ordine nel percorrere la via che conduce Montaigne a realizzare, pagina dopo pagina, la sua voluminosa opera.
Il primo passo in proposito Michel de Montaigne lo fa [e noi con lui] coltivando un’idea di derivazione classica legata all’esigenza che la persona ha di riservare per sé, pur non isolandosi dagli altri, degli ampi spazi di solitudine in funzione introspettiva per indagare nell’area della propria interiorità: in prima istanza, Montaigne utilizza, per riflettere su questo argomento, una parola-chiave che abbiamo lasciato in sospeso al termine dell’itinerario scorso [l’ultimo dell’anno 2018], ed è da qui che dobbiamo riprendere e continuare a tessere la trama della nostra rete.
Sappiamo che Montaigne nel testo dei Saggi [nel capitolo V del Libro III intitolato Su alcuni versi di Virgilio] scrive: «Le donne non hanno affatto torto quando rifiutano le norme di vita che sono adottate nel mondo, tanto più che sono gli uomini che le hanno fatte senza di loro» e da questo suo modo di pensare deriva quella che è stata chiamata “la politica domestica di Montaigne” che consiste nel distanziarsi il più possibile dall’universo femminile, in modo che, dentro le mura domestiche, le donne di casa non si accorgano neppure della sua presenza e siano libere di fare come vogliono [di stabilire delle regole alle quali lui disciplinatamente si adegua e, per giunta, come sappiamo, sarà Françoise, dopo il 1568, ad avere l’intera gestione del patrimonio di famiglia]. A tale proposito, Montaigne conia una parola-chiave: “l’arrière boutique” [la retrobottega], ma il concetto che Montaigne vuole esprimere con questo termine non riguarda solo la possibilità di avere a disposizione un posto dove la persona aspira a essere lasciata in pace ma contiene un significato esistenziale più profondo in cui il tema della morte anche in questo caso] gioca un ruolo. Il termine “la retrobottega” si trova nel capitolo XXXIX del Libro I dei Saggi intitolato Della solitudine dove si legge: «Bisogna avere moglie, figli, sostanze, e soprattutto la salute, se si può; ma non attaccarvisi in maniera che ne dipenda la nostra felicità. Bisogna riservarsi una retrobottega tutta nostra del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo trattenerci abitualmente con noi stessi, e tanto privatamente che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo: ivi discorrere e ridere come se fossimo senza moglie, senza figli e senza sostanze, senza seguito e senza servitori, affinché, quando verrà il momento di perderli non ci riesca nuovo il farne a meno». Il discorso su “la retrobottega” viene citato di continuo nei commenti ai Saggi di Montaigne ma, il più delle volte, se ne parla fuori contesto perché lui non intende “la retrobottega” come un ritiro egoistico dalla vita familiare ma, ancora una volta, riflette in equilibrio sul filo conduttore sulla necessità di proteggersi dal dolore che, inevitabilmente, si proverà quando si perderanno le varie componenti di quella stessa famiglia in quanto la vita è scandita dai distacchi. Montaigne cerca di sperimentare una forma di “distacco preventivo” perché non vorrebbe farsi troppo male nell’ora dei commiati, e scopre che questa solitudine lo aiuta a trovare quella che chiama «la nostra vera libertà», perché gli fornisce lo spazio necessario per pensare e per auto-analizzarsi. A Montaigne piacerebbe aver acquisito la capacità di praticare “un distacco stoico o scettico” [l’atarassia, l’imperturbabilità], ma il suo “stoicismo” e il suo “scetticismo” è, [come abbiamo già studiato strada facendo, un atteggiamento da “filosofo involontario e fortuito” [senza avere il sostegno che offre l’appartenenza reale a una Scuola nella quale potersi esercitare nella pratica della disciplina che la Scuola propone].
Montaigne non sa [«Cosa so io?», si domanda metodologicamente] quale forma dare alla natura preventiva da adottare nei confronti del distacco e afferma che dopo la scomparsa, in rapida successione, del suo migliore amico, del padre e del fratello non era preparato alla separazione e ha sempre provato “un pungente rimpianto e un intenso dolore”. Nei confronti della morte dell’amico, Étienne de La Boétie, sappiamo tutto del rimpianto e del dolore che Michel ha provato [dal 1563 in avanti]; per quanto riguarda il padre Pierre morto nel 1568 il rimpianto e il dolore deriva dalla riconoscenza che Michel prova nei suoi confronti [è molto legato al padre] per averlo fatto studiare, unico dei suoi sette fratelli e sorelle, nel modo migliore possibile assicurandogli delle ottime competenze e poi per avergli affidato un incarico letterario [a cui abbiamo già accennato strada facendo e di cui parleremo ancora] che si dimostra propedeutico per la realizzazione dei Saggi, vale a dire la traduzione dal latino al francese dell’opera intitolata Teologia naturale o libro delle creature del medico e teologo catalano Raymond Sebond [come sappiamo Apologia di Raymond Sebond è il titolo del capitolo XII del Libro II dei Saggi, ed è il saggio con il maggior numero di pagine]. Il rimpianto e il dolore [dal 1569] per la perdita del fratello [di poco più giovane di lui e l’unico fratello di Montaigne di cui si abbiano notizie] deriva dal fatto che è il familiare con il quale ha avuto un maggiore affiatamento [il suo compagno di giochi da bambino] e poi dal fatto che Arnaud de Montaigne è stato vittima di un tragico incidente “tennistico”, perché durante una partita riceve una violenta pallonata in testa che ne causa la morte, e Montaigne ha sempre sospettato [dolorosamente come fratello e con profondo rammarico come magistrato] che questa disgrazia non sia stata casuale.
Per quanto riguarda la morte delle bambine neonate ci si potrebbe aspettare una reazione sentimentale ancora più calcata di quella manifestata nei confronti della scomparsa dell’amico, del padre e del fratello e, invece, Montaigne scrive in proposito qualcosa di diverso rimanendo fedele alla regola di volersi esprimere con la massima sincerità, ma è anche possibile [si suppone] che fosse meno distaccato di quanto dà a intendere nei suoi scritti. Montaigne, nel capitolo XIV del Libro I dei Saggi intitolato Come il sapore dei beni e dei mali dipenda in buona parte dall’opinione che ne abbiamo, scrive: «Anch’io ne ho perdute due o tre di figlie, ma quando erano ancora molto piccole, se non senza rimpianto, almeno senza dolore», quindi, afferma di non aver provato dolore ma solo del rimpianto, di non avere avvertito la sofferenza ma solo del rincrescimento. Si sa che agli albori dell’Età moderna i genitori cercano di non affezionarsi troppo ai neonati, dal momento che il tasso di mortalità infantile è molto alto, ma Montaigne, con questa sua affermazione, risulta distaccato anche per gli standard dell’epoca, e poi colpisce il fatto che scrive [probabilmente siamo intorno al 1575] di aver perduto «due o tre figlie» come se non se ne ricordasse con esattezza [di averne perse già tre], ma questo può essere dovuto [e gli argomenti si sovrappongono inesorabilmente] a una sorta di ordinaria vaghezza che Montaigne ha per i numeri, una vaghezza di cui ci siamo già rese e resi conto in altre occasioni: per esempio, parlando del suo incidente a cavallo dice come ricorderete che era accaduto «durante la nostra terza guerra o la seconda (non me ne ricordo bene)». E poi, quando muore la loro prima bambina [Thoinette, nata il 28 giugno 1570] morta due mesi dopo, Montaigne come sappiamo dedica alla moglie la pubblicazione della traduzione dal greco che Étienne de La Boétie ha fatto di una Lettera scritta da Plutarco alla moglie in seguito alla morte della loro bambina [Lettera di consolazione di Plutarco a sua moglie],: nella dedica a Françoise, Michel commette un errore sorprendente scrivendo [e facendo stampare il testo] che la loro prima figlia era morta «nel suo secondo anno di vita »[invece che secondo mese] e, probabilmente, si tratta semplicemente di una svista ma c’è da dire piuttosto imbarazzante e non sappiamo come Françoise abbia commentato questo fatto perché sicuramente se n’è accorta [visto che sa leggere!].
Tutte le annotazioni che Montaigne scrive in occasione della morte delle sue figlie sono semplici ma toccanti e, anche se non ha mai parlato del proprio dolore paterno, però è stato in grado [quindi non possiamo pensare che sia distaccato da questo sentimento] di fornire descrizioni molto accurate del dolore paterno. Nel capitolo II del Libro I dei Saggi intitolato Della tristezza, composto intorno al 1575 quando aveva già perso tre figlie, Montaigne riporta in poco più di quattro pagine una significativa serie di esempi di lutto paterno e materno in Letteratura [da Le metamorfosi di Ovidio, dall’ Eneide di Virgilio, dal Canzoniere di Petrarca, dai Carmina di Catullo, dalla Phaedra di Seneca], e si trattiene sul racconto, dal Libro VI de Le metamorfosi di Ovidio, che ha come protagonista Niobe, la quale, perduti sette figli e altrettante figlie, piange così tanto che viene infine trasformata in roccia, scrive Montaigne: «Diriguisse malis [Sia stata pietrificata dalle sventure] per esprimere quella cupa, muta e sorda ebetudine che ci tramortisce quando le disgrazie ci opprimono superando le nostre forze», e scrive come se fosse un’emozione che lui conosce bene, anche se, forse, non in rapporto alla morte delle sue figlie.
Il sentimento di “rimpianto” di cui Montaigne parla in occasione della morte delle figlie deriva, quasi certamente, dal fatto che è venuto meno alla responsabilità principale di qualunque nobile dell’epoca: quella di avere un erede maschio per garantire la successione familiare, ma a questo argomento Montaigne nel testo dei Saggi non dedica neppure una parola.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Michel de Montaigne scrive di aver provato in occasione della morte dell’amico, del padre e del fratello “un pungente rimpianto e un intenso dolore”, voi per la perdita di chi avete provato questi sentimenti?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Montaigne nel testo dei Saggi non tratta l’argomento dell’importanza che ha [e non solo agli albori dell’Età moderna] per un nobile di avere un erede maschio per garantire la successione familiare, e sembra essere indifferente a questo tema, mentre si dimostra [o per lo meno appare] orgoglioso di avere un’unica figlia femmina della quale si preoccupa, da prima, della sua sopravvivenza e poi di fare in modo che cresca in buona salute.
Michel de Montaigne si affeziona sempre di più, via via che cresce, a sua figlia Léonor [l’unica sopravvissuta], nata il 9 settembre 1571. Quando riceve la notizia della seconda gravidanza di Françoise, Michel dà le dimissioni da membro del Parlamento di Bordeaux per non doversi mai allontanare dal suo castello in modo da garantire una discreta ma continua presenza: anche in questo caso, si deve affermare che Montaigne si distingue dalla mentalità maschile [ma anche femminile] dell’epoca perché il ciclo mestruale, le gestazioni, i parti, gli aborti spontanei, le interruzioni di gravidanza procurate sono esclusivamente questioni da donne, e gli uomini tengono le dovute distanze con un certo disgusto da queste “sgradevoli faccende femminine”, mentre Montaigne, che sta cominciando nel 1571 a pensare di ritirarsi “nella retrobottega”, si comporta però diversamente [anche se spesso gli vien detto di farsi da parte, di non essere d’impiccio]. La nascita di Léonor rappresenta per Montaigne il momento dell’inizio di uno stato di crisi, di una condizione che comporta l’aspirazione a una rinascita spirituale da realizzarsi mediante lo studio [mediante la lettura e la meditazione delle Opere dei Classici] perché Montaigne è pienamente consapevole che “studiare” è un’azione di carattere terapeutico [il termine studium è sinonimo di cura]. Naturalmente vorrebbe che anche Léonor si appassionasse allo studio ma leggiamo nel testo dei Saggi che Montaigne non vuole intervenire sull’istruzione della figlia con le sue idee pedagogiche [quelle che suo padre aveva usato con lui] quasi avesse paura di farla affaticare troppo e, quindi, Léonor riceve un’educazione quasi esclusivamente femminile come imponeva la tradizione, e nel capitolo V del Libro III dei Saggi intitolato Su alcuni versi di Virgilio scrive: «La disciplina femminile ha un andamento misterioso, bisogna lasciarlo a loro». E quando Montaigne sente la governante di Léonor impartirle degli insegnamenti moralistici che lui ritiene sbagliati non interviene mai e si allontana sempre senza dire nulla perché non vuole né aprire contenziosi [le governanti le sceglie Françoise] né creare confusione nella mente della fanciulla e, difatti, a suo tempo, nel capitolo XXVI del Libro I dei Saggi intitolato Dell’educazione dei fanciulli, scriverà: «Le fanciulle e i fanciulli non devono essere coinvolti nelle discussioni degli adulti intorno alla loro educazione per non creare in loro disorientamento». Quando Montaigne descrive la figlia la fa apparire sempre più piccola della sua età anche quando raggiunge un’età da matrimonio e sempre nel capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio scrive: «Léonor è di complessione tardiva, sottile e delicata forse perché la madre le ha imposto una vita troppo appartata [dapprima scarica la responsabilità sulla moglie, ma poi ci ripensa], tuttavia la bambina ha avuto un’infanzia serena e felice come la mia e tutte le sue colpe fanciullesche non sono state punite altro che a parole, e molto dolci».
Anche se Montaigne dichiara di non interessarsi direttamente all’educazione della figlia però organizza tutto ciò che può essere utile al divertimento della famiglia e, nel capitolo XXIII del Libro I intitolato Della consuetudine e del non cambiar facilmente una legge accolta, scrive [anche con l’intento di prendersi in giro]«Io cerco sempre di interpretare al meglio il ruolo del geniale patriarca in una casa piena di donne che mi sopportano a malapena», mentre nel capitolo LIV del Libro I intitolato Delle astuzie inutili racconta di partite a carte giocate «per pochi soldi [scrive], ma ne facciamo conto come se si trattasse di dobloni», o di giochi di parole: «Poco fa si è giocato a chi sapesse trovare più cose che si tocchino per i due estremi, come il termine “Sire”, per esempio, che si usa sia per il re che per i mercanti, o “dame”, che si usa sia per l’alta nobiltà che per le donne di basso rango».
Il ritratto di Montaigne che emerge da questi racconti non è certo quello di una persona fredda, distaccata e disinteressata ma quello di un padre di famiglia che [come lui scrive] cerca di interpretare al meglio il suo ruolo e, quindi, noi non crediamo [e non lo crede neppure lui] che tutte le donne di casa, che lo attorniano, “lo sopportino a malapena” [e, probabilmente, fanno finta come avviane nel tipico gioco delle parti che caratterizza i rapporti familiari]. Solo Montaigne, in questo momento, agli albori dell’Età moderna, ritiene opportuno descrivere in un’opera l’universo della quotidianità domestica senza enfasi, con semplicità e ironia: lo stile dei Saggi certifica l’inizio della modernità ed è frutto della modernità anche il fatto che Montaigne questa affermazione si ostina a non condividerla [«Cosa ne so io?», risponde Montaigne piccato].
Léonor de Montaigne vive fino al 1616 [muore a 45 anni prima di sua madre che, come sappiamo, vive a lungo], si è sposata due volte e ha avuto due figlie.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quali giochi hanno organizzato per voi i vostri genitori e voi, come genitori e come nonne o nonni [per chi lo è già], quali giochi avete organizzato e organizzate?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E adesso dobbiamo compiere un altro passo sulla via che conduce Montaigne a realizzare, pagina dopo pagina, la sua voluminosa opera.
Ebbene, a far sì che Montaigne scelga di dedicarsi a tempo pieno a fissare per iscritto le proprie riflessioni derivanti dall’osservazione del suo universo intimo contribuisce anche [e lo abbiamo già ricordato più di una volta] la soddisfazione di una richiesta fattagli da suo padre Pierre, una richiesta che Michel, per l’affetto che ha nei confronti di suo padre, esaudisce ben volentieri sebbene senza troppo entusiasmo perché l’oggetto su cui deve operare [e si tratta di una traduzione dal latino in francese] non lo ispira, ma lui è ben contento di poter fare un favore a suo padre anche perché, se ha la possibilità di farlo questo favore, lo deve proprio alla competenza che Pierre ha voluto che Michel, fin da bambino [come sappiamo], acquisisse nella lingua latina: una competenza fondamentale di cui Michel nei suoi studi letterari e giuridici si è avvalso con grande piacere. Ma veniamo al dunque partendo da una serie di conoscenze che sono già in nostro possesso.
Sappiamo che il capitolo XII del Libro II dei Saggi di Montaigne s’intitola Apologia di Raymond Sebond e siamo anche a conoscenza che è il capitolo più lungo dei Saggi [e anche quello su cui si è maggiormente concentrata l’attenzione delle studiose e degli studiosi], inoltre siamo al corrente che Raymond Sebond [o Ramón Sebunde] è un medico e teologo catalano, nato a Barcellona nel 1435, quindi quasi un secolo prima di Montaigne, e morto nel 1486 a Tolosa, che ha scritto un’opera [la quale - per motivi contrastanti - ha avuto un’ampia diffusione] intitolata Teologia naturale o libro delle creature [Theologia naturalis sive liber creaturarum]. Pierre de Montaigne, da oltre dieci anni, aveva ricevuto in dono da uno dei suoi amici letterati il volume di quest’opera e nel 1567 avrebbe voluto leggerla, però tradotta in francese perché lui non è così esperto in latino come suo figlio Michel e, di conseguenza, gli domanda di fargli la cortesia di tradurgliela [«Tanto per te è una cosa facile e non perderai neppure molto tempo», gli dice anche se sa che non è proprio così perché si tratta di un lavoro piuttosto ostico]. Pierre [il quale sente che non gli resta molto da vivere] chiede a Michel questo favore anche perché lo vede in crisi e, in effetti, Michel è insoddisfatto della sua carriera di magistrato, è poco interessato alla vita da cortigiano, è sprezzante nei confronti delle Leggi che ritiene inadeguate ed è indifferente alla gestione e allo sviluppo della tenuta di famiglia e, inoltre, nonostante la sua passione per la Letteratura, sembra che Michel abbia perso interesse perfino per la lettura. Pierre sa che l’iniziativa è rischiosa perché - conoscendo il pensiero del figlio in campo teologico - la sua richiesta potrebbe creare in lui un tale disgusto da farlo allontanare per sempre dalla scrittura, oppure, come spera che avvenga, potrebbe suscitare in lui una reazione alla quale potrebbe dare sfogo proprio mediante la scrittura: Pierre pensa che a suo figlio, ormai trentacinquenne, serva una sfida perché si scuota dal torpore e dagli incubi che lo assillano [sul tema degli incubi torneremo strada facendo, Montaigne ne parla].
Michel de Montaigne vuole soddisfare il desiderio del padre [al quale è molto affezionato] e traduce dal latino il voluminoso [più di 500 pagine] trattato Teologia naturale o libro delle creature di Raymond Sebond e non senza difficoltà [gli ci vuole quasi un anno e deve impegnarsi con fatica]: Pierre, che muore pochi mesi dopo, legge l’opera con piacere e loda, riconoscente, il lavoro del figlio e si sente soddisfatto anche perché la sua iniziativa, come sperava ha funzionato: Michel ha reagito.
Cosa significa che Michel ha reagito alla provocazione? Pierre de Montaigne [abbiamo detto] possedeva l’opera di Raymond Sebond da diversi anni e aveva messo da parte questo Libro [comunque illeggibile per lui a causa della sua limitata competenza nella lingua latina] probabilmente anche perché questo trattato era stato inserito nell’Indice dei Libri proibiti nel 1558 [ed era meglio non esibirlo] e poi, però, era stato riabilitato nel 1564 al termine del concilio di Trento in quanto promuoveva una forma di teologia cosiddetta “razionale” nei confronti della quale la Chiesa [a seconda delle convenienze e delle valutazioni date dal Sant’Uffizio] cambiava continuamente idea.Il tratta to di Raymond Sebond, oltre a essere lungo e noioso, promuove una forma di teologia che Michel de Montaigne trova ripugnante, ed è proprio questo fatto che lo spinge a reagire: sente la necessità di manifestare la sua opinione sulla questione. E come si configura la questione? I teologi scolastici si stanno domandando [e lo stavano facendo da secoli, come sappiamo] se sia possibile comprovare le verità religiose per mezzo della ragione e dello studio della Natura [possiamo con la ragione formulare delle prove che confermano l’esistenza di Dio? Possiamo, studiando i fenomeni della Natura, avere conferma della creazione divina?] e Raymond Sebond ritiene che sia possibile [e riporta tutta una serie di esempi tratti dalla Filosofia scolastica che dovrebbero giustificare le verità di fede per mezzo della ragione] ma questo pensiero lo mette agli antipodi rispetto a ciò che pensa Montaigne [il suo traduttore]. Montaigne reputa che le verità religiose siano strettamente legate al concetto di “fideismo”: tra la fede e la ragione non può esserci alcun rapporto [fanno parte di due mondi separati] e la ragione umana è solo in grado di suggerire alla persona che non c’è alcuna possibilità di avvicinarsi alle verità religiose se non attraverso la fede perché la ragione non ha alcuna possibilità di entrare nel territorio della fede. Montaigne non vuole neppure però fare l’avvocato difensore del “fideismo” [sostiene le idee del fideismo ma non è un fideista] perché non sente un gran bisogno della fede [Montaigne non è uomo di fede ma tuttavia si guarda bene dal proclamarlo] e proprio per questo motivo coltiva anche una profonda avversione nei confronti dell’arroganza che spesso può avere la ragione umana, per cui è consapevole del fatto che tanto il fondamentalismo religioso quanto l’astuzia della ragione sono sullo stesso piano, un piano sul quale Montaigne non vuole stare [«Che cosa so io?» è ciò che si domanda dopo aver però praticato assiduamente l’esercizio della riflessione].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La domanda che Montaigne si pone: «Che cosa so io?» contiene anche un risvolto positivo e non solo un’accezione di carattere negativo perché obbliga comunque la persona a inventariare “ciò che sa fare”… Componete per iscritto un piccolo elenco [un catalogo di competenze] di cose che sapete fare e di cui riconoscete l’importanza per i risultati positivi che ne derivano...
Quindi Montaigne inserisce nel Libro II dei Saggi un capitolo [il XII] in cui tratta dell’opera Teologia naturale o libro delle creature di Raymond Sebond e a questo proposito non ci si può non domandare [e immagino vi siate poste e posti questa domanda] perché lo intitola Apologia di Raymond Sebond se il termine “apologia” significa “difesa”? Perché Montaigne, che trova ripugnante il contenuto di questo trattato, dovrebbe difendere l’operato dell’autore? È evidente che ci troviamo di fronte a un paradosso e che Montaigne utilizza con circospezione] il termine “apologia” in senso ironico, ma per affrontare questa questione dobbiamo procedere con ordine.
Michel de Montaigne, nel capitolo XII del Libro II dei Saggi intitolato Apologia di Raymond Sebond, scrive: «La traduzione dal latino del voluminoso (più di 500 pagine) trattato intitolato Teologia naturale o libro delle creature di Raymond Sebond era un’occupazione davvero strana e nuova per me. Ma, per caso, trovandomi allora in ozio, e non potendo rifiutar nulla alla volontà del miglior padre che fosse mai al mondo, ne venni a capo come potei». Lo svolgimento di questo lavoro di traduzione - che Montaigne ha portato a termine con fatica e con un senso di disgusto - ha però su di lui un effetto positivo perché è costretto ad analizzare le sue stesse idee e questo tirocinio, che ammette di aver fatto per merito di suo padre, è stato, quindi, per lui di grande utilità: ha capito di saper riflettere sui temi riguardanti l’esistenza e si è reso conto di essere in grado di mettere per iscritto i suoi pensieri. Nel 1569 Michel de Montaigne fa pubblicare a Parigi questo suo lavoro di traduzione dedicandolo al padre [che è morto da poche settimane].
Ma noi ci stiamo domandando: perché il capitolo XII del Libro II dei Saggi s’intitola Apologia di Raymond Sebond se il termine “apologia” significa “difesa”? Perché Montaigne, che trova ripugnante il contenuto di questo trattato, dovrebbe difendere l’operato dell’autore? Come è arrivato Montaigne alla stesura del testo di questo lungo capitolo che ha un ruolo centrale nella produzione dei Saggi? Come sono andate le cose? Succede che, circa vent’anni dopo la pubblicazione della traduzione dell’opera di Raymond Sebond, Michel de Montaigne [molto probabilmente tra il 1578 e il 1579, sebbene non ci siano documenti che attestano questo fatto] viene contattato da Margherita di Valois, sorella del re Enrico III e moglie del capo protestante Enrico di Navarra, la quale gli commissiona uno scritto in difesa della Teologia naturale o libro delle creature di Raymond Sebond che lei ha letto nella traduzione di Montaigne [che Montaigne ha fatto vent’anni prima]. Montaigne si trova in imbarazzo: gli viene chiesto di difendere un Libro che lui considera indifendibile [Montaigne non ha cambiato idea sul contenuto di quest’opera che lui ha tradotto per far piacere al padre e di cui ha favorito anche involontariamente la divulgazione] ma, senza fare nessun commento in proposito, accetta l’incarico fingendo di voler difendere quest’opera per poterla demolire utilizzando gli espedienti retorici di cui è venuto a conoscenza leggendo e studiando i Classici [Montaigne vuole cogliere l’occasione per dimostrare che la ragione è – può essere – uno strumento a doppio taglio]. Ebbene, il testo di questo scritto che Montaigne ha composto per Margherita di Valois è diventato l’Apologia di Raymond Sebond [il capitolo XII del Libro II dei Saggi] e, come abbiamo detto più volte, è di gran lunga il capitolo più lungo, copre ben 248 pagine ed è del tutto sproporzionato rispetto agli altri [che in media sono lunghi nove pagine e mezza]: è un’opera nell’opera che dal punto di vista stilistico è perfettamente in linea con tutto il resto. Montaigne scrivendo i Saggi [e questo in particolare, il capitolo XII del Libro II] si lascia sedurre dalla scrittura, sembra essere guidato dalla scrittura stessa, ed è questo il motivo per cui riesce a sua volta a sedurre anche la lettrice e il lettore se chi legge si lascia condurre - con pazienza, con perseveranza, con meticolosità [come consiglia Montaigne] - lungo il labirinto di digressioni e di divagazioni che rappresentano gli elementi portanti dello stile di Montaigne: le sue lunghe digressioni e le sue continue divagazioni hanno la funzione di completare e di arricchire l’insieme da molteplici punti di vista perché il mondo esteriore e il proprio universo interiore ciascuna persona lo guarda, in realtà afferma Montaigne, da mille punti di vista diversi e la persona, per non rischiare di perdersi, deve imparare [si deve esercitare] a selezionare le variazioni del proprio pensiero e a interpretare la molteplicità di risoluzioni che la mente propone. Questo impianto metodologico - che riguarda la didattica della lettura e della scrittura - è ben rappresentato nel testo del capitolo intitolato Apologia di Raymond Sebond. Il capitolo intitolato Apologia di Raymond Sebond inizia veramente come una difesa [una apologia] di questo scrittore, medico e teologo, almeno fino a circa la metà della prima pagina, perché poi si trasforma in qualcosa di completamente diverso: qualcosa di molto più simile a un attacco, e le studiose e gli studiosi affermano che “questo testo sostiene Sebond come la corda sostiene l’impiccato”. Come può, allora, Montaigne chiamarla un’apologia? Montaigne usa un trucco retorico: sostiene di difendere Sebond da coloro che hanno cercato di demolirlo ricorrendo ad argomentazioni razionali, e lo fa mostrando come le argomentazioni razionali, in generale, siano fallibili, perché la ragione umana non è qualcosa su cui si può fare affidamento certo. Montaigne, dunque, difende un razionalista [Raymond Sebond] dalle argomentazioni di altri razionalisti che lo criticano per l’impostazione poco scientifica che ha dato al suo trattato, sostenendo che qualunque idea basata sulla ragione ha dei limiti che ne riducono sensibilmente la validità, quindi, Montaigne disarma gli avversari di Sebond ma colpisce ovviamente, soprattutto, Sebond stesso. Anche tutte le studiose e gli studiosi che hanno criticato la lunghezza e la complessità dell’Apologia di Raymond Sebond hanno però dovuto ammettere che questo testo non annoia mai la lettrice e il lettore perché Montaigne usa una tecnica che ha preso in prestito da Plutarco, uno dei suoi autori di riferimento: costruisce le sue argomentazioni fornendo un esempio dopo l’altro in un susseguirsi di storie, di aneddoti e di curiosità che sgorgano dalle pagine come da una sorgente dalla quale zampillano “chiare, fresche e dolci acque” [e prendiamo atto che Montaigne ama il Canzoniere di Francesco Petrarca quindi la citazione non è casuale]. Quasi tutte le storie che Montaigne racconta servono a dimostrare quanto sia ambigua la ragione umana, quasi sempre governata dall’astuzia che la intacca sul piano etico, quanto siano fallaci i poteri umani e quanto siano sciocche e illuse quasi tutte le persone di questo mondo, incluso Montaigne, come lui stesso ammette candidamente. Ma la forza di questa “Apologia poco apologetica” non viene solo dagli esempi presi dagli Opuscoli di Plutarco ma viene anche e soprattutto dall’applicazione del pensiero della Scuola ellenistica dello Scetticismo della quale come sappiamo Montaigne è un discepolo “involontario e fortuito” [a suo dire] che, però, ha studiato con dedizione le opere dei maestri scettici, di Pirrone di Elide, di Timone di Fliunte e di Sesto Empirico.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il testo dei Saggi di Michel de Montaigne lo trovate in biblioteca e potete leggere - con pazienza, con perseveranza, con meticolosità [come dice l’autore] - le prime dieci pagine del capitolo XII del Libro II intitolato Apologia di Raymond Sebond... Potreste decidere di fermarvi prima di aver letto dieci pagine, ma potreste anche scegliere di proseguire...
Abbiamo citato Margherita di Valois e, a questo proposito, se non lo avete ancora fatto, leggete il romanzo intitolato La Regina Margot scritto da Alexandre Dumas padre [con la collaborazione di Auguste Maquet] nel 1845... Il personaggio viene abilmente trasfigurato dall’autore per far aumentare il divertimento della lettrice e del lettore ...
Questa sera abbiamo fatto alcuni passi per capire perché Montaigne si è messo a scrivere i Saggi, ebbene, ma lui: che cosa dice in proposito? Lui fa un’affermazione, mediante una tipica riflessione alla Montaigne, nella quale spiega la ragione per cui si è messo a scrivere i Saggi, e lo fa nel testo di un breve capitolo [l’VIII] del Libro I intitolato Dell’ozio, in cui descrive le disavventure che lo hanno portato a ritirarsi a vita privata nel 1571. Ebbene, questo capitolo viene anche chiamato dalle studiose e dagli studiosi Degli incubi ,e del motivo per cui viene chiamato anche così ce ne occuperemo la prossima settimana.
Adesso la parola “incubi” ci permette di poter riprendere - in funzione della didattica della lettura e della scrittura - un discorso che abbiamo lasciato in sospeso nel corso del sesto itinerario [del 21-22-23 novembre] quando, leggendo un brano dal molto famoso capitolo XX del Libro I intitolato Filosofare è imparare a morire, abbiamo detto che, in margine alla sua copia personale dei Saggi, Montaigne, come è solito fare, a penna, annota una frase [infatti la sua copia del Saggi è piena di annotazioni in margine]: scrive Montaigne: «Spesso la mia mente genera un incubo, immagino di incontrare qualcuno capace, con uno sguardo, di predire il giorno esatto e l’ora precisa della mia morte: uno dotato di un simile potere sarebbe comunque un personaggio da mettere in scena ».
Chi ha pensato di mettere in scena un simile personaggio? Ci ha pensato uno dei tanti intellettuali che tra l’800 e il 900 hanno letto e commentato con interesse i Saggi di Montaigne sviluppandone le provocazioni: costui è Arthur Schnitzler [che è una nostra vecchia conoscenza perché recentemente, nella primavera dell’anno 2016, abbiamo letto insieme il testo de La signorina Else]. Sulla figura e l’opera dello scrittore e medico viennese Arthur Schnitzler [1862-1931] ci rinfrescheremo brevemente la memoria la prossima settimana. Leggere Schnitzler non è facile ma se la lettura dei suoi testi viene condotta con la dovuta attenzione risulta essere un’avventura intellettuale molto appassionante: si tratta di entrare in possesso di alcune “chiavi” [una chiave ce la fornisce Montaigne]. Schnitzler è uno di quei narratori del nostro tempo che riesce a far procedere il suo racconto in modo che i personaggi delle opere che ha scritto, contemporaneamente a quello che fanno, scandiscono il loro monologo interiore, le loro fantasticherie, e Schnitzler afferma di aver imparato molto dallo stile di Montaigne [che è il primo attento osservatore moderno del suo universo interiore] e per questo Schnitzler coglie al volo l’annotazione di Montaigne e scrive un racconto, ambientato in Italia dove Montaigne, viaggiando, è passato, che s’intitola Novella dell’avventuriero pubblicato postumo a Vienna nel 1937 di cui avremo modo di parlare [perché lo leggeremo per intero] e adesso, quindi, per concludere questo primo itinerario del nuovo anno leggiamo l’incipit di questa novella: il personaggio conduttore è un giovane che si chiama Anselmo Rigardi e prima di incontrare il personaggi che Montaigne pensa debba essere messo in scena dovremo leggere un po’ di pagine.
LEGERE MULTUM….
Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero
Anselmo Rigardi non era a quei tempi il solo giovane cui fosse toccato in sorte di perdere nello stesso giorno padre e madre, e di certo non l’unico a Bergamo, dove all’inizio dell’anno 1520 era d’improvviso scoppiata la peste, che dopo aver miracolosamente risparmiato fino a quel momento la cittadina, si era poi portata via i tre quarti e più degli abitanti. Intere famiglie si estinsero, la maggior parte delle case restò vuota, mentre medici e farmacisti, come tanto spesso accadeva, morirono subito, vittime del contagio. La famiglia Rigardi ne fu sulle prime risparmiata - benché la sua casa, vecchia e piuttosto cadente, sorgesse nel cuore e dunque non nella parte più sana della città - e già il barone, sua moglie e Anselmo si ritenevano invulnerabili, già i sopravvissuti si preparavano a nuove occupazioni e a nuove gioie, quando la disgrazia si abbatté del tutto inaspettata sulla coppia, e Anselmo, che ancora la sera prima era seduto a tavola con loro, il mattino dopo si ritrovò solo accanto al giaciglio vuoto dei genitori. I domestici erano fuggiti in preda alla paura.
I cadaveri, per severe disposizioni in materia, erano stati rimossi senza indugio dagli addetti alla bisogna, senza funerali. Quando tuttavia il portone si chiuse dietro le bare, Anselmo provò, insieme alla solitudine e all’orrore, anche un terzo sentimento, per lui altrettanto inconsueto quanto la solitudine e l’orrore - o quanto il dolore, di cui peraltro aveva ancora una percezione assai vaga. Era, questa terza cosa, un senso di libertà mai prima conosciuto. Tutto a un tratto non doveva più rendere conto di niente a nessuno, né a un padre, né a una madre. Ma a questa consapevolezza per la libertà improvvisamente conquistata, non s’accompagnava un senso di sollievo e di liberazione. I Rigardi discendevano da un’antichissima schiatta di baroni, ma il loro patrimonio - che comprendeva un tempo quasi un quarto della città, fra case e terreni, oltre a vasti latifondi di là dai confini urbani - si era gradualmente dissolto.
Gli antenati avevano preso parte a varie guerre, traendone scarso profitto in caso di vittoria e rimettendoci sempre del loro quando ne uscivano sconfitti. A ciò si aggiunga che da tempo nessun Rigardi era stato capace di migliorare le proprie condizioni con un buon matrimonio; il nonno, poi, aveva sperperato tali somme giocando ai dadi che il padre di Anselmo, uomo serio e dabbene, aveva passato la vita a saldar debiti. E così, a parte una tenuta data in locazione e fonte di alimenti d’ogni genere per la famiglia, altro non gli era rimasto se non il palazzo Rigardi, che del palazzo serbava a onor del vero ben poco all’infuori del portone in ferro contro cui centocinquant’anni prima s’era infranto l’assalto dei lancieri veronesi, e del salone dall’alto soffitto a volta con i rilievi dello scultore Giuliani, dove per la verità da un pezzo non si davano più feste e dove risuonava ormai soltanto il tintinnio delle spade quando Anselmo si esercitava col suo maestro di scherma, il celeberrimo Raboldi da Napoli, autore di una parata di prima irresistibile, rimasta per decenni legata al suo nome. Ma ultimamente neppure costui incuteva più paura ad Anselmo, abilissimo spadaccino a sua volta, anzi, diventato lo scorso anno quasi un maestro, sebbene non mostrasse alcuna inclinazione propriamente guerresca e sembrasse esercitare il suo talento solo per amore dell’arte. Molti pensavano che, in grazia di un tal dono, Anselmo, qualora si fosse messo in viaggio, avrebbe potuto farsi accogliere alla corte di un principe o di un cardinale, di cui in quel Paese lacerato c’era grande abbondanza. Ma per equipaggiare Anselmo per una tale impresa ci volevano ben altri mezzi, e si era invece considerata la possibilità che il giovane s’iscrivesse all’Università di Padova per studiarvi Legge oppure Medicina. Ma né il padre né la madre l’avrebbero lasciato partire a cuor leggero, tanto più che la sua unica sorella, una florida fanciulla di quindici anni, proprio l’estate appena trascorsa, prima dello scoppio della peste - quasi avesse voluto scampare il terribile male con una morte più bella - era annegata nel lago di Iseo durante una gita in barca, insieme ai fratelli Decarli, Florio e Maria. Anselmo non sapeva per quale dei tre fosse più in lutto, se per la sorella, per Florio, il suo migliore amico, oppure per Maria, l’unica ragazza che fino a quel momento avesse suscitato in lui sentimenti di tenerezza.
Queste erano le immagini, questi i pensieri e i ricordi che si susseguivano in confuso tumulto nella mente di Anselmo mentre senza pace camminava avanti e indietro nel salone sempre più buio. Da quando, verso mezzogiorno, erano stati rimossi i cadaveri dei suoi genitori, nessun amico - dei pochi rimasti - si era fatto vedere nella casa appestata, nessun servo aveva acceso le torce che ieri alla stessa ora illuminavano il locale. Nessuno poi gli aveva cucinato il pranzo, preparato il letto, ed egli misurava senza senso e senza posa le pareti del salone, che ora restringendosi ora allargandosi pareva ora una prigione ora l’immensità stessa. E a un tratto Anselmo comprese che in quella casa, ormai, altro non poteva attendere se non la morte. Che fare? Doveva sdraiarsi sul letto in attesa della malattia e restarvi fino al momento del suo ultimo urlo mortale, che nessuno avrebbe udito? Oppure affacciarsi alla finestra e chiamare aiuto? Ma chi e come avrebbe potuto aiutarlo? La sua casa, dove adesso indugiava, era rimasta a Bergamo l’unica ancora infetta, nessuno si sarebbe azzardato a varcarne la soglia. Altrimenti almeno uno lo avrebbe già fatto. No, forse pensavano di aspettare che il destino colpisse anche lui e i monatti trascinassero fuori il suo cadavere, poi sarebbero venuti a disinfettare col fumo il palazzo Rigardi, e poi a saccheggiarlo. Così non gli restava altro da fare che fuggire. E come prese la decisione, anche il pericolo in agguato dietro ogni angolo parve subito minore. Tutt’a un tratto si sentì invulnerabile. Accese un lume, si recò nella dispensa, arraffò ogni sorta di cibarie, biscotti, frutta, anche un pollo arrosto avanzato dalla cena di ieri, prese dalla cantina una bottiglia di vino rosso, accese le torce nel salone senza più spaurirsi per le ombre che vagavano qua e là sul pavimento, scostò dall’angolo il tavolo dove ancora la sera prima aveva cenato con i genitori, e mangiò di gran gusto. E, come per miracolo, avvertì una sensazione di piacere che cancellò di colpo le esperienze terribili del giorno e della notte avanti, di più, era inspiegabilmente contento della sua solitudine, della sua tranquillità. L’essere solo, del tutto abbandonato a se stesso, senza obblighi di obbedienza verso alcuno, gl’ispirò a poco a poco un senso d’orgoglio quale mai aveva conosciuto prima di allora. Non era più Anselmo Rigardi, il figlio dei suoi genitori, non un giovanotto di famiglia decaduta, non uno che qualunque cosa volesse o facesse doveva innanzitutto chiedere consiglio e rendere conto, nulla lo costringeva più ad andare a Padova, a frequentarvi l’Università, adesso era il giovane Anselmo, poteva dirigere i suoi passi dove voleva: il mondo era suo. …
Ciò che abbiamo letto s’inserisce perfettamente nella riflessione che abbiamo condotto questa sera, e dobbiamo anche immaginare la piacevole sensazione che ha provato Montaigne nel momento in cui è venuto a conoscenza del fatto che un autore ha dato concretezza al suo appunto: questa è una manifestazione [un’epifania] della potenza evocativa che ha l’Alfabetizzazione: è un esempio di Alfabetofania, e Montaigne non vede l’ora di proseguire nella lettura di questa novella congeniale al suo stile e in linea con il motivo conduttore dei Saggi [il tema della morte].
Perché il capitolo VIII del Libro I dei Saggi intitolato Dell’ozio - dove Montaigne spiega la ragione per cui si è messo a scrivere - viene anche chiamato dalle studiose e dagli studiosi] Degli incubi? Per rispondere a questa e ad altre domande dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che il peggior incubo in cui possiamo incorrere potrebbe essere causato dalla paura di poter perdere la volontà di imparare.
Per far allontanare quest’incubo dalla nostra mente e per far sì che questo non accada, la Scuola è qui, e il viaggio - mentre batte il cuore dell’inverno - continua [non perdete la prossima Lezione perché poi la settimana successiva, come da calendario, faremo una pausa]…