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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600 SI DIMOSTRA CHE LA SCRITTURA ACCOMPAGNA LA SOLITUDINE, LENISCE L’ANGOSCIA, AMMANSISCE I DEMONI E RIMUOVE GLI INCUBI ...

Lezione N.: 
10

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi 

La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza   23-24-25  gennaio 2019

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600

SI DIMOSTRA CHE LA SCRITTURA ACCOMPAGNA LA SOLITUDINE, LENISCE L’ANGOSCIA,

AMMANSISCE I DEMONI E RIMUOVE GLI INCUBI ...

     Questo è il decimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica nel corso del primo secolo dell’Età moderna [vi ricordo che la prossima settimana, come da calendario, faremo una pausa per le giornate della merla e non solo]. Come sapete, stiamo viaggiando in compagnia di Michel de Montaigne, che è vissuto tra il 1533 e il 1592. Come ormai ben sapete, Michel de Montaigne è l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano: un’opera [la prima pubblicazione è del 1580, la seconda del 1588] che merita di essere conosciuta nella sua forma, di essere compresa attraverso la riflessione sugli innumerevoli temi in essa contenuti in modo che ci si possa applicare sul suo testo leggendone qualche pagina [quattro pagine] al giorno [con il metodo del LEGERE MULTUM, che è il più efficace per affrontare la lettura di un’opera di questo tipo]. Come ricorderete, la scorsa settimana abbiamo riflettuto su alcune circostanze riguardanti la biografia di Montaigne [in primo luogo sulla morte dell’amico, del padre e del fratello e poi sul lavoro di traduzione del trattato intitolato Teologia naturale o libro delle creature di Raymond Sebond] per capire quale sia stata la ragione per cui Montaigne si è messo a scrivere i Saggi, e infine, al termine dell’itinerario scorso ci siamo domandate e domandati se lui abbia scritto qualcosa in proposito, riguardante la motivazione che lo ha portato a dedicarsi quotidianamente alla scrittura per comporre la sua opera. Lui, effettivamente, secondo il suo stile [mediante una tipica riflessione alla Montaigne], fa un’affermazione con la quale spiega la ragione per cui si è messo a scrivere i Saggi, e qual è questa ragione?

     La ragione per cui Michel de Montaigne si è messo a scrivere i Saggi la spiega in un breve capitolo [l’VIII] del Libro I intitolato Dell’ozio, chiamato anche dalle studiose e dagli studiosi Degli incubi, in cui descrive le disavventure che lo hanno portato a ritirarsi a vita privata nel 1571. Scrive Montaigne: «Quando, di recente, mi sono ritirato nella mia dimora, deciso, per quanto possibile, a non curarmi d’altro che di trascorrere in santa pace e appartato quel poco che mi resta da vivere, ho pensato che non potevo rendere alla mia mente servigio migliore che quello di lasciarla nell’ozio più assoluto, libera di conversare con se stessa, e di fermarsi e crogiolarsi in sé. Il che speravo potesse fare ormai con maggiore agio, dacché la mia mente era diventata, col tempo, più pacata e matura. E invece scopro - poiché “variam semper dant oda mentem” [«L'ozio rende sempre la mente incostante» (Lucano, Pharsalia, IV, 704)] - che al contrario, come un cavallo imbizzarrito, si dà cento volte più affanno da sé medesima di quanto non se ne desse prima per gli altri, e mi partorisce una tal congerie di chimere e mostri fantastici, senz’ordine né disegno, che per contemplarne a mio agio l’assurdità e la bizzarria ho iniziato a prenderne nota, sperando così che col tempo se ne vergogni». Montaigne, quindi, racconta di aver cominciato a scrivere i Saggi dopo essersi dimesso dalla carica di consigliere del Parlamento di Bordeaux, all’età di trentotto anni [sappiamo anche che lo ha fatto quando sua moglie rimane incinta per la seconda volta]. E scrive di aver preso questa decisione perché aspirava, sul modello dei classici antichi, a praticare “l’otium studiosum”, cioè una vita contemplativa dedicata allo studio, con l’intento di ritrovare se stesso e di conoscersi meglio. Come Cicerone, Montaigne pensa che una persona sia veramente se stessa non nella sfera della vita pubblica, mondana e professionale [in queste realtà la persona è obbligata a recitare la propria parte, aveva già scritto Cicerone a suo tempo], ma unicamente nella dimensione della solitudine, della meditazione e della lettura. Montaigne, sull’esempio dei classici, colloca la vita contemplativa al di sopra della vita attiva e, quindi, è in contrasto con quasi tutti i pensatori moderni secondo i quali la persona si realizza attraverso le sue azioni, nel “negotium”, ovvero nella negazione dell’otium. Sappiamo [perché lo abbiamo studiato nel viaggio dello scorso anno] che questa etica moderna del lavoro [il negotium] è storicamente legata al pensiero del protestantesimo [soprattutto di quello ginevrino di Giovanni Calvino, un pensiero che fornisce un motore propulsivo al capitalismo moderno], e l’otium in Età moderna diventa, quindi, sinonimo di indolenza [e chi pratica l’otium, una vita contemplativa dedicata allo studio, secondo l’etica calvinista “finisce all’inferno” perché non fa muovere l’economia]. Ma qual è la testimonianza di Montaigne al riguardo, dopo aver cominciato ad intraprendere una vita di solitudine?

     Montaigne dichiara nel capitolo VIII del Libro I dei Saggi intitolato Dell’ozio che nella solitudine, anziché trovare stabilità e serenità, si è imbattuto nell’angoscia e nell’affanno, ma non per questo pensa di dover rinunciare a vivere appartato, bensì ritiene [secondo uno stile che ormai ha acquisito] di dover imbastire una riflessione: ecco [ammonisce Montaigne] l’importanza di saper investire in intelligenza nei momenti decisivi della nostra vita. Nell’affrontare la solitudine, scrive Montaigne, si rischia sempre di contrarre una malattia spirituale, la malinconia, l’acedia [come la chiama Francesco Petrarca nel Secretum, dal greco “a-kedos, mancanza di interesse”], la depressione che affligge, scrive Montaigne, i Padri del deserto nell’ora meridiana, l’ora delle tentazioni e scrive Montaigne: «per mia fortuna ho letto, già da ragazzo col mio precettore, Vita di Antonio di Atanasio di Alessandria » [nella traduzione latina di Evagrio di Antiochia], un’opera che ha ispirato molte artiste e artisti [la trovate in biblioteca quest’opera del IV secolo]. Montaigne pensa che con l’età avanzata [a quarant’anni si sente vecchio] si sarebbe dovuto pacificare con se stesso, e invece no: la sua mente, anziché concentrarsi, si agita, si comporta [scrive Montaigne] come «un cavallo imbizzarrito», corre in ogni direzione, disperde le proprie energie molto più di quanto non facesse quando era magistrato e parlamentare. Scrive Montaigne, sempre nel capitolo intitolato Dell’ozio: «Le chimere e i mostri fantastici che s’impadroniscono della mia immaginazione sono incubi, tormenti che si presentano al posto della pace agognata», una situazione che il pittore olandese Hieronymus Bosch [vissuto tra il 1450 e il 1516] rappresenta in modo mirabile nel trittico intitolato Tentazioni di sant’Antonio [e chissà come sarebbe stato contento Montaigne di vedere quest’opera che era già stata prodotta a suo tempo ma che non ha mai visto, contrariamente l’avrebbe sicuramente citata].

     Ma che cosa fanno i Padri del deserto, scrive Montaigne, per contrastare l’acedia [la malinconia, la depressione]? I Padri del deserto si dedicano a scrivere perché la scrittura accompagna la solitudine e la esorcizza e, quindi, anche Montaigne decide di fare lo stesso. Quando si ritira a vita privata il suo obiettivo non è la scrittura ma la lettura, la riflessione, il raccoglimento, e alla scrittura ci arriva facendo un investimento in intelligenza, usandola come un rimedio, e scrive: «ho utilizzato la penna per lenire l’angoscia, ammansire i demoni, rimuovere gli incubi». Montaigne decide di prendere nota di tutti i pensieri che gli passano per la testa in “un registro”, in un grande quaderno in cui si segnano le entrate e le uscite: Montaigne decide di tenere i conti dei suoi pensieri, dei suoi deliri, per mettervi ordine, per ritrovare il dominio di sé. Montaigne guarisce dalle proprie allucinazioni, dai propri fantasmi, dagli incubi, registrandoli e la scrittura dei Saggi gli restituisce il dominio di sé.

     E se lo imitassimo scrivendo quattro righe al giorno per riflettere su ciò che ci passa per la mente [pensando che prima viene la riflessione e poi, eventualmente, la divulgazione]?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Su un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete andate a osservare il trittico Tentazioni di sant’Antonio di Hieronymus Bosch    

Raccontate un vostro incubo in quattro righe scritte: è bene che gli incubi durino poco ...

     Come ricorderete, la scorsa settimana la parola “incubi” ci ha permesso di poter riprendere - in funzione della didattica della lettura e della scrittura - un discorso che abbiamo lasciato in sospeso nel corso del sesto itinerario [del 21-22-23 novembre] quando, leggendo un brano dal molto famoso capitolo XX del Libro I intitolato Filosofare è imparare a morire, abbiamo detto che, in margine alla sua copia personale dei Saggi, Montaigne, come è solito fare, a penna, annota una frase: infatti la sua copia dei Saggi - il cosiddetto Esemplare di Bordeaux - è piena di annotazioni in margine.

     Scrive Montaigne in questa nota: «Spesso la mia mente genera un incubo, immagino di incontrare qualcuno capace, con uno sguardo, di predire il giorno esatto e l’ora precisa della mia morte: un individuo dotato di un simile potere sarebbe comunque [oltre che il generatore di un incubo] un personaggio da mettere in scena». E, alla fine dell’itinerario scorso, abbiamo scoperto che a mettere in scena un simile personaggio ci ha pensato Arthur Schnitzler, una nostra vecchia conoscenza, uno delle tante e dei tanti intellettuali che tra l’800 e il 900 hanno letto e commentato con interesse i Saggi di Montaigne sviluppandone le provocazioni [e la lista è molto lunga, e mi astengo dal farla e dirla perché se dimentico un nome stiamo freschi].

     Arthur Schnitzler [1862-1931] è, come molte e molti di voi già sanno, uno scrittore viennese che di professione fa il medico, è uno psichiatra contemporaneo di Sigmund Freud, ed è stato l’anticipatore - con le sue opere letterarie - della dottrina e della metodologia psicoanalitica. Arthur Schnitzler [e non è la prima volta che incontriamo questo autore] ha scritto un certo numero di testi per il teatro che sono anche contemporaneamente dei romanzi-brevi. Sono testi molto significativi dei quali si consiglia la lettura e la rilettura e, a questo proposito, ricordiamo alcuni titoli [titoli di opere che immagino possiate già aver letto e aver visto rappresentate, oltre che a teatro anche al cinema]: Anatol, Il cieco Gerolamo e suo fratello, Doppio sogno, Fuga nelle tenebre, Il sottotenente Gustl, Gioco all’alba, Beate e suo figlio, Il dottor Gräsler medico termale, La piccola commedia, Il ritorno di Casanova [che abbiamo letto qualche anno fa], La signorina Else [che abbiamo letto insieme recentemente nella primavera dell’anno 2016 e penso che nessuna e nessuno di coloro che erano presenti abbiano dimenticato questo personaggio].

     Leggere Schnitzler non è facile ma se la lettura dei suoi testi viene condotta con la dovuta attenzione risulta essere un’avventura intellettuale molto appassionante: si tratta di entrare in possesso di alcune “chiavi” [e una di queste chiavi ce la sta fornendo Montaigne]. Schnitzler   è uno di quei narratori del nostro tempo che riesce a far procedere il suo racconto in modo che i personaggi delle sue opere mentre agiscono nella realtà esterna, esprimono, contemporaneamente a quello che fanno, i loro pensieri più intimi e le loro fantasticherie più nascoste, e Schnitzler  afferma di aver acquisito questo metodo [il criterio dell’osservazione dell’universo interiore della persona] soprattutto leggendo i Saggi di Montaigne[che è - secondo Schnitzler  - il primo attento e analitico osservatore moderno del proprio universo interiore;  è per questo motivo che Schnitzler coglie al volo l’annotazione di Montaigne [sull’incubo che comporta l’incontrare un personaggio che sa svelare ai suoi simili il giorno e l’ora della loro morte] e scrive un racconto [ambientato in Italia dove Montaigne, viaggiando, è passato] che s’intitola Novella dell’avventuriero pubblicato postumo a Vienna nel 1937 e tradotto in italiano solo nel 1999, di cui la scorsa settimana abbiamo letto l’incipit.

     In questa novella Schnitzler , in aderenza alla nota scritta in margine da Montaigne, descrive - facendo agire i personaggi che crea - le chimere [le fantasie], i mostri immaginari e gli incubi che la sua mente partorisce, “come un cavallo imbizzarrito”, in relazione al tema [ricorrente nelle opere di Schnitzler, come nei Saggi di Montaigne] della morte, un argomento che non va rimosso ma va affrontato, investendo in intelligenza, perché valorizza l’importanza della vita. All’inizio della Novella dell’avventuriero l’autore presenta alla lettrice e al lettore [come certamente ricorderete] la figura del giovane Anselmo Rigardi, abile spadaccino di nobile lignaggio e, attraverso questo ragazzo, ci mette al corrente della ragione per cui lui si ritrova solo e libero da ogni vincolo famigliare per cui decide di abbandonare il suo palazzo avito e la sua città per mettersi in viaggio. La scena iniziale del racconto si svolge a Bergamo dove, all’inizio dell’anno 1520, è d’improvviso scoppiata un’epidemia di peste che, gradualmente, si è portata via i tre quarti degli abitanti. Pure i genitori di Anselmo, discendenti da un’antichissima schiatta di baroni - anche se il loro ricco patrimonio, per tutta una serie di cause, si è dissolto - si ammalano e muoiono e, lui, dopo il comprensibile scoramento iniziale, scopre un sentimento nuovo: un senso di libertà che non aveva mai conosciuto prima perché nella situazione, pur tragica, in cui si è venuto a trovare è diventato semplicemente il giovane Anselmo, che non deve più, come succedeva precedentemente, sottostare agli ordini di alcuno e ha la possibilità, quindi, di dirigere i suoi passi dove vuole perché il mondo è suo e può andare all’avventura.

     E allora partiamo anche noi all’avventura con il giovane Anselmo Rigardi, continuando a leggere questa Novella, muovendoci a cavallo delle chimere [delle fantasie], dei mostri immaginari e degli incubi che la mente di Arthur Schnitzler partorisce in relazione al tema [ricorrente nelle sue opere, come nei Saggi di Montaigne] della morte: ed è scrivendo [sostiene, con risolutezza da medico, Arthur Schnitzler] che si esorcizza, in chiave terapeutica, lo spettro della morte.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

I romanzi di Arthur Schnitzler – e abbiamo stilato un elenco di una decina di titoli - li potete richiedere in biblioteca: esaminateli, leggetene qualche pagina … 

     E ora continuiamo a leggere il testo della Novella dell’avventuriero.

LEGERE MULTUM….

Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero

Anselmo, dopo aver mangiato e bevuto abbondantemente, raggiunse la stanzetta della torre dove dormiva da quando era bambino, si svestì, si stese sul letto. Nel primo sopore percepì risa e canti di giovani che salivano dalla strada, gli parve perfino di riconoscere alcune voci di amiche e amici con i quali non aveva più niente da spartire, pensava ai molti che la peste aveva ucciso, ai pochi che ancora vivevano, di alcuni quasi non ricordava se dovesse contarli tra i vivi oppure tra i morti. Quando aprì gli occhi, dalla finestra alta e stretta della torre filtravano le prime luci dell’alba.

Dopo un sonno senza sogni, mai risveglio fu più chiaro e netto. Non ebbe bisogno, come sovente accade in queste ore mattutine dopo spaventevoli esperienze vissute il giorno avanti, di raccogliere le idee a poco a poco, la consapevolezza fu immediata: padre e madre erano morti, e lui si sentiva come se si fosse già lasciato alle spalle il cordoglio. Si alzò, correndo giù per la scala risonante uscì nel cortile e si lavò alla fontana sotto il cielo che schiariva. Indossò i suoi panni migliori, infilò nella bisaccia solo qualche capo, prese da un armadio dove il padre custodiva il denaro le ultime monete d’oro e gli ultimi nichelini, cinse la spada e, in atto di chi si disponga ad abbandonare per sempre un luogo di orrore e di maledizione, uscì sulla strada. Lasciò aperti i battenti del portone: facessero pure del palazzo Rigardi quel che meglio credevano. La strada era ancora vuota, i suoi passi risuonavano sul selciato. Al primo angolo incrociò una coppia che sbucava da una traversa, uno dei suoi amici in compagnia di una giovane velata: lo fissarono e corsero via, e neppure la sua risata di scherno li indusse a voltarsi indietro. In quel momento Anselmo percepì con chiarezza assoluta qual era il suo destino, e con l’animo non del fuggiasco ma del giovane che sente sul proprio capo la benedizione del libero vagare, si diresse di buona lena verso Porta orientale, dove nessuno era di sentinella, e poi verso la strada maestra, tra due file di alti pioppi svettanti nell’azzurro del cielo, lo sguardo rivolto al sole finché il rosso pallido del disco non s’accese in un fulgore dorato che lo costrinse a posarlo altrove. Passò davanti a campi coltivati, uliveti, vigne di collina, a piccoli ruscelli, fonti, prati, incontrò contadini che andavano al lavoro, carretti che portavano in città latte, burro, frutta e verdura, col carrettiere ora a piedi ora seduto su una stretta asse, su sacchi pieni, o su una botte. Più avanti incontrò due contadinelle che quasi spaventate sgranarono gli occhi davanti al suo strano abbigliamento, a metà tra quello di un giovane cavaliere e quello di un vagabondo, con spada e giustacuore, e però una bisaccia che meglio avrebbe portato uno scudiere. Ma i suoi occhi allegri mutarono l’occhiata timorosa in uno sguardo di ammirazione. Passò anche davanti a un’osteria, dove alcuni uomini già stavano bevendo, in lontananza vide scintillare il lago piccolo ma profondo nei cui abissi silenziosi erano rimasti sepolti la sorella, l’amico e la fidanzata, e poi davanti alla fattoria che adesso era sua e dove avrebbe trovato senz’altro accoglienza da parte dei fittavoli - ma qualcosa lo spingeva oltre, via da tutto ciò che gli ricordava ancora il passato e gli eventi appena trascorsi. Fermarsi equivaleva a un pericolo indefinito, e quanto più s’allontanava dal territorio a lui noto per averlo talvolta attraversato a piedi o in carrozza, tanto più libero e sicuro andava verso una meta che l’attraeva con la malia dell’ignoto. Certo la scena, il paesaggio e il profumo dell’aria erano sempre gli stessi. E, tuttavia, quasi che il suo passo avesse avuto il dono del ricordo, a poco a poco gli parve di cominciare a camminare su un terreno che aveva il sapore della terra straniera e dell’avventura.

Soltanto dopo ore - il sole era già alto e la giornata primaverile calda come d’estate - rallentò il passo. Le fontanelle alle quali aveva bevuto ogni tanto un sorso d’acqua, non spegnevano più la sua sete. La bisaccia gli pesava sulle spalle e, mentre la spostava da destra a sinistra, ripensava alle prime ore di cammino, che gli pareva d’aver fatto volando, aleggiando, fluttuando nell’aria: adesso invece andava per la sua strada al pari degli altri. Quando finalmente un boschetto di ulivi gli offerse un po’ d’ombra, gli parve quasi un dono del cielo - e una vera fortuna allorché vide trasparire in una modesta radura una casa, una sorta di osteria, dall’aria non proprio accogliente, quasi in rovina, e riconoscibile per tale solo dai pochi tavoli piazzati di fuori, a uno dei quali erano seduti due giovani d’aspetto losco, quasi selvaggio, davanti a boccali di vino tutti ammaccati. Due ragazze, evidentemente della compagnia - e in abiti trasandati, ma testimoni di una passata ricchezza - riposavano poco più in là all’ombra degli alberi, il mantello arrotolato a mo’ di cuscino sotto il capo. Sembravano immerse nel sonno, cosa in fondo nient’affatto strana dal momento che tutt’intorno regnava una quiete assoluta. Anche i giovanotti sedevano silenziosi, come trasognati, e non avevano neppure udito i passi di Anselmo che affondavano nell’erba umida del prato. Di osti neppure l’ombra, e per quanto allettante sulle prime fosse parsa ad Anselmo la prospettiva di bere, mangiare e riposare, ora che poteva agevolmente tradurla in realtà fu colto da un brivido improvviso alla vista di quei due uomini al tavolo, tanto immobili da sembrare di cera. Qualcosa gli diceva che era meglio non fermarsi e riprendere velocemente il cammino. Ma quando, per non apparire dopotutto timoroso ai suoi stessi occhi, passò, fin quasi a sfiorarlo, accanto al tavolo dei due e fissò a bella posta il più vecchio sulla cui fronte brillava una macchia rosso fuoco, questi levò il capo all’improvviso, afferrò di scatto il berretto posato lì accanto, se l’inchiodò fin sulla fronte come per nascondere il marchio, e balzò in piedi, quasi in aria di minaccia, tanto che Anselmo, la mano alla spada, si fermò davanti a lui. Dapprima stettero ambedue in silenzio, faccia a faccia per qualche secondo. Il terzo rimase tranquillo al suo posto, era vestito più elegantemente del compagno, con giustacuore e calzoni di buon velluto blu scuro, ma liso, mentre teneri riccioli bruni gli scendevano fin sulla fronte e su una strana benda rossa che gli copriva l’occhio sinistro. Portava un fine pizzetto alla francese, e sarebbe potuto passare senz’altro per un cavaliere, se non se ne fosse stato seduto lì a piedi nudi. Aveva tutta l’aria di contemplare come in una sorta di spettacolo la scena di quei due impalati l’uno di fronte all’altro in atto di aperta sfida. Poi disse con voce assai gradevole: «Penso che il giovanotto vorrà accomodarsi al nostro tavolo, ospite nostro oppure noi ospiti suoi, la qual cosa non sarebbe poi tanto diversa giacché l’oste, per un suo sgarbo, ha subito un’ora fa un grave infortunio e dunque siamo costretti a servirci da soli». «Grazie» rispose vivacemente Anselmo, cui non dispiacevano i modi del giovane anche se poteva immaginare quale fosse il grave infortunio subito dall’oste. Si liberò della bisaccia, si tolse il berretto gettandolo per terra, porse la mano prima al più vecchio e poi al giovane e si sedette a cavalcioni di una sedia tutta tarlata, le mani sulla spalliera. «Il mio nome è Anselmo» disse poi.   «Il cognome qui non ha alcuna importanza. Ieri, proprio nello stesso momento, mio padre e mia madre sono morti di peste. Altri parenti non ne ho. All’alba di stamane ho lasciato la mia casa per sempre. Ciò che possiedo lo porto con me e non è molto, la spada ho imparato a usarla da Raboldi, il celebre maestro di scherma, e prima che il sole tramonti riprenderò il cammino». … «Sapete le cose che succederanno già in anticipo!» commentò il cavaliere. Quanto all’altro, si tolse di nuovo il berretto quasi a voler mostrare che non si vergognava affatto del suo marchio, anzi ne andava semmai fiero. Aveva un viso disfatto, duro, perfino crudele, pure c’era in quei tratti tanta amarezza, per non dire disperazione, che Anselmo ne provò compassione. Prese dal tavolo vicino, al quale fino a poco prima doveva essere stata seduta della gente, un boccale di stagno, lo riempì fino all’orlo con del vino rosso di cui era colma una brocca di terracotta e bevve alla salute degli altri due, che risposero al brindisi. Poi il cavaliere decaduto ordinò con alquanta villania al compagno, il segnato, di andare a vedere se in casa c’era ancora qualcosa di commestibile. Quello, sempre muto, si alzò e, oltrepassando dopo un’impercettibile esitazione la porta spalancata, sparì nel buio del corridoio. … «Tempi grami» osservò il giovane. «Il dannato flagello non demorde. Zigzagando qua e là come un cane rabbioso, infuria di città in città, di casa in casa, quando in un posto lo si ritiene già scomparso, eccolo scoppiare di nuovo, all’improvviso, come se fosse rimasto perfidamente in agguato. Ti aggredisce anche dove ti crederesti al sicuro, in mezzo alla natura, nell’aria primaverile più mite. Quali voi qui ci vedete, siamo gli ultimi dei sette che avevano formato una compagnia l’autunno scorso. Tre se li è portati via il flagello, due un altro destino. L’ultimo è stramazzato al suolo in un prato pochi giorni or sono, come ucciso da un fulmine».

Anselmo fu colpito dal modo di parlare ricercato e un po’ lezioso del cavaliere, che pareva di buona e nobile famiglia. Ma sentì al tempo stesso che doveva guardarsi da lui. Intanto le due donne al margine del bosco si erano risvegliate e drizzate a sedere. Il cavaliere fece loro cenno di avvicinarsi, quelle rassettarono le gonne, con gesti veloci fermarono i capelli in alto: la più grande, di corporatura snella, era vestita come si conviene a una signorina di città, la più piccola - l’abito tutto strappato che le scendeva giù dalle spalle - si avvolse nel mantello rosso servito prima da cuscino, tenendolo chiuso con una mano all’altezza del petto. Si avvicinarono al tavolo, e Anselmo, che solo adesso poteva vederne chiaramente i visi giovani e impertinenti, fu certo che provenissero da qualche casa di malaffare. Lo salutarono in modo leggiadro e provocante come fosse un gioco imparato meccanicamente. E allo stesso modo, con affettata alterigia cortigiana, il cavaliere le presentò: «Lorenza e Anita,» disse «amabili personcine, vedove: l’una di sessantasette, l’altra di centoventitre uomini, a un calcolo approssimativo». … «Domani, chissà, potrebbero già essere centoventiquattro» fece la mora baciando Anselmo sulla bocca. L’altra non disse nulla e, sempre tenendo stretto il mantello rosso all’altezza del petto, osservava Anselmo con grandi occhi curiosi, innocenti, da bambino. L’uomo col marchio in fronte ricomparve portando della carne fredda, non in gran quantità. «Questo è tutto» disse. La bionda si sedette molto lentamente, come colta da improvvisa stanchezza. Il segnato disse: «Facciamo presto, non ha senso indugiare tanto. Mica ci dobbiamo dormire in questa casa». … «In primo luogo» disse l’altro «ci mangeremo in tutta calma ciò che il proprietario ci ha lasciato. Fintanto che ce ne stiamo seduti qui davanti alla porta, nessuno s’arrischierà a entrare». Anselmo mangiò di gusto, anche gli altri si servirono e le donne non si fecero pregare: di vino ce n’era a sufficienza. Nel frattempo si svolse tra i due uomini una conversazione fatta di mezze e piuttosto incomprensibili parole in cui si parlò di una strada ben esplorata, di una casa di campagna, della luna nuova, di pescatori livornesi, di un veliero greco, di monete d’oro e di una tonaca da frate. Accanto ad Anselmo la mora cicalava raccontando della sorella che era sposata con un medico, un’altra aveva preso il velo, di entrambe lei non aveva più notizie, un fratello arruolato nell’esercito era caduto nella guerra tra Pavia e Piacenza. Raccontò anche di un viaggio a Roma in una splendida carrozza in compagnia di due vecchi signori, poi di una casa nei pressi di Firenze dove aveva vissuto con otto donne come lei e dove per una sola notte non intascava mai meno di cinque monete d’oro, di un certo Ernesto che aveva veramente amato, di un cardinale che aveva voluto tenerla con sé a Roma, e intanto dispensava carezze ad Anselmo, istupidito dal chiacchiericcio e dal vino, ma lo faceva come per abitudine, senz’ombra di tenerezza o di passione. L’altra invece adagiò sul suo petto la testa di Anselmo, sempre più assonnato dal vino: e, tra la sua pelle bianca e i capelli scuri del giovane, c’era il mantello rosso. Lo risvegliarono dal suo sopore degli strani suoni secchi; nel sogno li aveva scambiati per un calpestio di cavalli che si avvicinavano, ma quando aprì gli occhi a fessura, notò che il cavaliere e il segnato tiravano i dadi da un boccale di stagno, e le poche monete d’argento migravano continuamente dall’uno all’altro.

     Torniamo a Montaigne, la cui figura, di giovane che ama cavalcare all’avventura [un argomento di cui abbiamo parlato a suo tempo], aleggia in queste prime pagine della Novella di Schnitzler. Montaigne afferma [come abbiamo sentito all’inizio di questo itinerario] di aver preso la decisione di cominciare sistematicamente a scrivere i Saggi perché aspira, sul modello dei classici antichi, a praticare “l’otium studiosum”, cioè una vita contemplativa dedicata allo studio, con l’intento di ritrovare se stesso e di conoscersi meglio. Montaigne pensa [come Cicerone, Seneca, Lucrezio] che una persona sia veramente se stessa non nella sfera della vita pubblica, mondana e professionale [realtà in cui la persona è obbligata a recitare una parte], ma pensa che possa essere se stessa unicamente nella dimensione della solitudine, della meditazione e della lettura ed è in questo contesto che s’inseriscono due parole-chiave del glossario di Montaigne: la torre e la biblioteca.

     La torre di Montaigne, a Saint-Michel-de-Montaigne in Dordogna, è diventato un sito significativo da visitare [e già nel secondo itinerario, il 17 18 e 19 ottobre siete state invitate e invitati a visitare la Torre di Montaigne]. Questo torrione cinquecentesco a pianta circolare è tutto ciò che resta del castello fatto, a suo tempo, ristrutturare - quasi edificato ex novo - dal padre di Michel, Pierre de Montaigne e, purtroppo, questo grande edificio è andato distrutto in un incendio alla fine del XIX secolo. Questa torre diventa la sede materiale della “retrobottega” [l’arrière boutique, di cui abbiamo parlato] nella quale Montaigne trascorre il maggior tempo possibile e vi si ritira per leggere, meditare e scrivere. La torre contiene “una biblioteca” [non la biblioteca del castello ma quella personale di Michel] ed è il rifugio di Montaigne dalla vita domestica e da quella civile, dai disordini del mondo e da le violenze del secolo, come lui le chiama. Montaigne, nel capitolo III del Libro III dei Saggi intitolato Di tre commerci, scrive: «Quando sono a casa, mi ritiro sempre più spesso nella mia biblioteca, e da qui, con facilità, bado al buon andamento delle cose domestiche. Mi trovo proprio sopra l’ingresso, e vedo dall’alto il giardino, il cortile, la corte, e gran parte della mia dimora. Qui sfoglio ora un Libro ora un altro, a caso, senza alcun disegno, a spizzichi e bocconi. Talora penso, talora prendo nota e detto, passeggiando, queste fantasticherie. La mia biblioteca è al terzo piano di una torre. Al primo c’è la cappella, al secondo una camera e i suoi annessi, dove spesso mi corico, per stare da solo. Sopra c’è una grande stanza. Un tempo era un guardaroba, il luogo più inutile di tutta la casa. Ora vi trascorro la maggior parte dei giorni della mia esistenza e la maggior parte delle ore della giornata». La torre, che si trova in angolo, permette a Montaigne di osservare i suoi possedimenti e di seguire dall’alto e da lontano le attività della casa, ma soprattutto gli serve come nascondiglio [come retrobottega, l’arrière boutique] in cui ritrovarsi, «riappropriarsi di se stesso», così dice, «nel grembo dei suoi Libri». Questo spazio Montaigne lo inaugura quando decide di abbandonare la carica di magistrato e di parlamentare nel 1571, e l’inaugurazione consiste nel far scrivere da un pittore sulla parete del piccolo studio attiguo alla biblioteca questa iscrizione in latino [e in terza persona] che tradotta in italiano dice: «Nell’anno del Signore 1571, all’età di 38 anni, la vigilia delle calende di marzo [il 28 febbraio], nell’anniversario della sua nascita, Michel de Montaigne, già da lungo tempo stanco della schiavitù della corte e delle cariche pubbliche, ancora in buona salute si ritirò nel seno delle dotte Vergini [le Muse], dove in calma e sicurezza trascorrerà i giorni che gli restano da vivere; sperando che il destino gli conceda di portare a compimento questa abitazione e questo dolce rifugio avito, l’ha consacrato alla sua libertà, alla sua tranquillità e al suo ozio [l’otium studiosum]».

     Poi la biblioteca è celebre per le numerose [cinquantasette] sentenze greche e latine che Montaigne, via via, fa incidere sulle travi del soffitto dell’edificio: queste sentenze testimoniano la vastità delle sue letture - sia di genere sacro [19 sono tratte dalla Sacra Scrittura] che, soprattutto, di natura profana - e queste sentenze certificano il carattere della sua filosofia “disincantata” [che non cede ad alcuna illusione]. Citiamo adesso una sola sentenza, quella che è posta maggiormente in evidenza, come se avesse un carattere riassuntivo: «Per omnia vanitas »[Tutto è vanità], tratta dal Libro biblico che Montaigne chiama ancora Ecclesiaste, ma che, nell’originale, corrisponde al Libro di Qoelet, uno dei testi biblici del settore dei “Ketubim” [i Libri sapienziali e poetici del Primo o Antico Testamento]. Questi Libri [i Libri sapienziali e poetici della Letteratura beritica] - in particolare quello di Qoelet - affascinano Montaigne perché coniugano la lezione biblica [l’apparato della sapienza ebraica] con quella della saggezza della filosofia greca, e, di conseguenza, questi testi riassumono nel modo migliore la concezione che Montaigne ha dell’esistenza. Colpisce, nel breve brano che abbiamo letto poco fa, soprattutto il modo in cui Montaigne descrive le proprie occupazioni nella biblioteca della torre: come se non avessero la minima importanza dice di sfogliare un Libro anziché leggere, di dettare le proprie fantasticherie anziché scrivere, il tutto apparentemente senza un progetto preciso. Ci sembra strano che Montaigne non prescriva che ci si debba dedicare a una lettura lineare, prolungata e continuativa, quella a cui è stato abituato, ma Montaigne sa per esperienza che l’esercizio della lettura è impegnativo e vuole probabilmente non spaventare la lettrice e il lettore proponendo, in prima istanza, un tipo di lettura agile, duttile, leggera, appena accennata e “predatoria”, che salta, senza regola, da un Libro all’altro, prendendo ciò che serve senza preoccuparsi troppo di portare a termine la lettura di un’opera. Forse - visto che, però, lui ha già letto tanto in modo lineare, prolungato e continuativo e, certamente, sa dove andare a parare [quale testo prendere in mano] - per scrivere i suoi Saggi Montaigne si comporta proprio con leggerezza e, come dice a più riprese, il suo Libro è frutto del sogno, della fantasticheria [della rèverie], più che di un calcolo. Tutti i momenti di “ozio studioso” che Montaigne trascorre nella sua biblioteca lui li dipinge con un sentimento di grande gioia.

     C’è solo una cosa che gli manca [ci fa sapere] e che avrebbe accresciuto la sua felicità: la possibilità di disporre di una balconata sulla cima della sua torre che gli avrebbe consentito di pensare camminando, ma ha dovuto rinunciare per la spesa eccessiva che avrebbe dovuto sostenere, e, sempre nel capitolo III del Libro III dei Saggi intitolato Di tre commerci, scrive: «E se non mi scoraggiasse, oltre al costo, anche l’ansia, quell’ansia che mi distoglie da qualsiasi lavoro, potrei facilmente aggiungere su ogni lato, allo stesso livello della biblioteca, una galleria lunga cento passi e larga dodici, tanto più che vi sono già dei muri, eretti per altro uso, proprio all’altezza giusta. Ogni luogo destinato alla meditazione necessita di un deambulatorio. I miei pensieri sonnecchiano se li tengo seduti. La mia mente non cammina da sola, è come se a muoverla fossero le gambe». Montaigne insiste, e la sua idea è che non si possa pensare bene se non in movimento perché tutto nella realtà è in movimento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In appendice a tutte le edizioni dei Saggi - e ne potete richiedere una in biblioteca - trovate l’elenco delle cinquantasette sentenze che Montaigne ha fatto iscrivere sulle travi della sua biblioteca: leggetele ...

Possedete un balcone su cui camminare [su cui fare almeno sette passi] per poter riflettere guardandovi attorno? ...

Scrivete quattro righe in proposito...

In ogni biblioteca domestica c’è una Bibbia e, quindi, leggete o rileggete i dodici capitoletti del Libro di Qoelet per cogliere il carattere della filosofia “disincantata [che non cede ad alcuna illusione]” di Montaigne...   

     E ora diamo subito inizio a questo esercizio leggendo l’incipit del Libro di Qoelet per capire che cosa significhi “cogliere il carattere della filosofia “disincantata” [che non cede ad alcuna illusione] di Montaigne. Il Libro di Qoelet è “infarcito” di affermazioni che sono diventate nel secolo scorso come vedremo a suo tempo, concetti della filosofia e della poetica esistenzialista.

LEGERE MULTUM….

Libro di Qoelet

Libro di Qoelet, figlio di Davide e re di Gerusalemme.

«Tutto è come un soffio di vento: vanità, vanità, tutto è vanità», dice Qoelet.

L’essere umano si affatica e tribola per tutta una vita. Ma che cosa ci guadagna? Passa una generazione e ne viene un’altra ma il mondo resta sempre lo stesso. 

Il sole sorge, il sole tramonta; si alza e corre verso il luogo da dove rispunterà di nuovo. Il vento soffia ora dal nord ora dal sud, gira e rigira, va e ritorna di nuovo.

Tutti i fiumi vanno nel mare ma il mare non è mai pieno. E l’acqua continua a scorrere dalle sorgenti dove nascono i fiumi. Tutte le cose sono in continuo movimento non si finirebbe mai di elencarle eppure gli occhi non si stancano di vedere, gli orecchi di ascoltare. Tutto ciò che è già avvenuto accadrà ancora; tutto quello che è successo in passato succederà anche in futuro. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Qualcuno forse dirà: «Guarda, questo è nuovo!». Invece quella cosa esisteva già molto tempo prima che noi nascessimo. Nessuno si ricorda delle cose passate. Anche quello che succede oggi sarà presto dimenticato da quelli che verranno.    Ho messo tutte le mie forze per indagare e scoprire il senso di tutto ciò che accade in questo mondo. Ma devo concludere che ogni sforzo è stato inutile. Dio ha dato alle persone un compito troppo faticoso! Ho meditato su tutto quel che gli umani fanno per arrivare alla conclusione che tutto il loro affannarsi è inutile. È come se andassero a caccia di vento. Non si può raddrizzare una cosa storta né si può calcolare quello che non c’è. Ero convinto di essere molto sapiente, più di tutti quelli che prima di me hanno governato a Gerusalemme. Pensavo di possedere una sapienza straordinaria poi ho cercato di capire qual è la differenza tra il sapiente e lo stolto ma ho concluso che in questa ricerca è come andare a caccia di vento. Chi sa tante cose ha molti fastidi, chi ha una grande esperienza ha molte delusioni.

     Montaigne si ritira nella biblioteca della sua torre, «nel grembo dei suoi Libri», anche perché è disgustato dai disordini del mondo e da “le violenze del secolo” [come lui le chiama], e non si capacita del fatto che in una società [come quella europea agli albori dell’Età moderna] in cui i capi di tutte le correnti politiche si dichiarano “cristiani” e difensori dell’identità cristiana non sappiano far altro, in nome dal potere da conquistare, che farsi la guerra. La riflessione di Montaigne su questo tema è particolarmente amara perché significativamente realistica.

     Sono molte le annotazioni che Montaigne scrive nei Saggi riguardo alla vita quotidiana in tempo di guerra - e di guerra civile, oltre tutto: la peggiore delle guerre, perché fratricida. Scrive Montaigne nel capitolo IX del Libro III dei Saggi intitolato Della vanità: «Quante volte mi sono coricato nel mio letto immaginando che qualcuno avrebbe potuto tradirmi e uccidermi nel cuore della notte, e scendendo a patti con la Fortuna affinché perlomeno accadesse senza spavento e senza pena. E quante volte, dopo il Padre nostro, ho esclamato: “Impius haec tam culta novalia miles habebit?” [«Questi campi che ho coltivato con tanta cura cadranno dunque nelle mani di un rozzo soldato?» (Virgilio, Bucolica, I, 70-71)]. Prima di addormentarsi Montaigne affida il proprio destino sia alla divinità pagana della Fortuna sia al Dio cristiano evocato dal Padre nostro, senza però tralasciare di citare “il classico” Virgilio per far conciliare le due cose. Con la guerra civile in corso Montaigne sa bene di non aver nessun controllo sulla propria sorte, e che la conservazione della sua casa non dipende da lui. E nota, amaramente, che alla guerra, purtroppo, ci si adatta come a qualsiasi altra cosa. Scrive sempre nel capitolo intitolato Della vanità: «Qual è il rimedio? Questo è il luogo in cui sono nato e in cui sono nati quasi tutti i miei avi, che gli hanno dato il loro affetto e il loro nome. Tutte le cose a cui ci abituiamo ci rendono più forti. E, per una condizione miserevole qual è la nostra, è stata un provvidenziale dono di natura quell’abitudine che smussa la nostra sensibilità, permettendoci di tollerare mali d’ogni sorta. Le guerre civili sono ben peggiori delle altre guerre, giacché costringono ciascuno di noi a star di vedetta nella propria casa. È una grande sventura essere perseguitati fin nell’intimo della quiete domestica. Il luogo in cui vivo è sempre il primo e l’ultimo a patire lo sconquasso dei nostri disordini, e la pace non vi mostra mai appieno il proprio volto». Montaigne torna spesso sulla sensazione di insicurezza che prova persino quando è a casa, e documenta bene come le persone finiscano per abituarsi a vivere nell’incertezza.

     Montaigne ha saputo descrivere “la banalità della guerra” cioè il suo aspetto cosiddetto “ordinario”, quindi, non racconta le battaglie [sebbene anche lui abbia combattuto a suo tempo], ma narra tutto il resto: i quotidiani espedienti per sopravvivere, come quelli dei contadini, che si mostrano saggi tanto dinanzi ai disastri della guerra quanto di fronte alle devastazioni della peste. Montaigne elabora, con rapidi tocchi, un’etica della vita quotidiana in tempo di guerra e si domanda: come comportarsi con gli amici e con i nemici? Come mantenersi onesti in circostanze tanto ostili? Come restare fedeli a se stessi quando tutto, intorno a noi, è continuamente sconvolto? Come preservare la propria libertà di movimento? Ebbene, i Saggi forniscono una quantità di consigli sparsi che troviamo raccolti in un’efficace affermazione che si può leggere nel capitolo XIII del Libro III intitolato Dell’esperienza, scrive Montaigne: «Quel poco di accortezza che possiedo, in questo tempo di guerre civili in cui ci troviamo, mira a far sì che la mia libertà di andare e venire non ne venga intralciata». Montaigne si domanda realisticamente e con inquietudine [ed è un interrogativo di capitale importanza che fa di lui una persona moderna per eccellenza] come possa la persona salvaguardare la propria libertà in tempo di guerra [ecco perché la guerra è aberrante e va condannata] perché, agli occhi di Montaigne, non esiste un bene superiore per la persona di quello della propria autonomia [dell’indipendenza, della capacità decisionale] …  I Saggi propongono alla lettrice e al lettore una riflessione sul fatto che la guerra procura schiavitù, dipendenza, sottomissione, e solo la vita pacifica, afferma Montaigne, può garantire alla persona la libertà, l’autonomia, l’indipendenza e la capacità decisionale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che cosa [perdere che cosa] genera in voi un sentimento di insicurezza?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     E, per concludere, leggiamo altre due pagine dalla Novella dell’avventuriero. Il giovane Anselmo si è venuto a trovare in una situazione in cui è senza dubbio impegnato a garantire la propria sicurezza, e non solo la sua.

LEGERE MULTUM….

Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero

Quando il cavaliere e il segnato s’accorsero che Anselmo era sveglio, il cavaliere gli allungò senz’altro il boccale con dentro i dadi. «Ora tira tu, magari hai fortuna».

«Non sono un giocatore» disse Anselmo. «Oggi lo sei» ribatté il cavaliere molto gentilmente. «Punta». Anselmo tirò fuori una scarsella di monete d’argento, ne teneva una seconda ben nascosta in una tasca segreta del mantello. Sapeva che non era il caso di opporre resistenza. Era deciso a perdere e pensava che non gli sarebbe stato poi tanto difficile con giocatori senz’altro più esperti. Invece aveva sempre la meglio lui, e il segnato rinunciò subito al gioco, mentre il cavaliere continuò a tirar fuori nuove monete, anche d’oro, da certe pieghe segrete della veste e, alla fine, quando anche le ultime monete d’oro furono passate nelle mani di Anselmo, propose come posta il mantello che copriva le spalle della bionda silenziosa. «Smettiamola» disse Anselmo che con quella sua fortuna sentiva crescere l’inquietudine. «Non voglio derubare la signorina». «La signorina è mia,» affermò il cavaliere «tanto il suo corpo quanto tutto ciò che lo ricopre. E se mi garba, impegno pure lei». Anselmo lanciò uno sguardo ad Anita la quale continuava a sedere silenziosa come se tutto quello che accadeva non la riguardasse affatto, come se la sua mente fosse prigioniera. Anselmo fece rotolare i tre dadi senza guardarli, sperando di perdere, ma un attimo dopo udì la voce del cavaliere: «Il mantello è vostro», aveva fatto diciotto punti, e già Anita faceva scivolare giù il mantello, quando Anselmo chinatosi velocemente disse: «Tenetelo, signorina, ve lo regalo». E il cavaliere, senza battere ciglio: «Visto che ora il mantello appartiene di nuovo a lei, ossia a me, io lo impegno una seconda volta». Tirò e fece diciassette punti, Anselmo diciotto, di nuovo Anita lasciò cadere il mantello e, per la seconda volta, Anselmo glielo regalò posandolo premurosamente sulle sue spalle. «Ancora» disse il cavaliere e, fatti girare i dadi nel boccale, li lanciò sul tavolo. Tredici punti. Anselmo ne fece diciassette, ma quando Anita volle di nuovo lasciar scivolare il mantello, egli non lo permise, glielo calcò sulle spalle, dichiarò che non lo avrebbe preso a nessun patto, che per lui il gioco era finito e nulla al mondo avrebbe potuto spingerlo a sfruttare ancora a danno dell’avversario l’incantesimo palese operante a suo favore. «Perché vedo bene che qui c’è sotto qualcosa, e lo vedete anche voi». Adesso Anselmo aveva un solo pensiero, come svignarsela il più in fretta possibile giacché, per quanto sicuro si sentisse della sua spada, tuttavia i suoi avversari erano in due e anche le donne erano certamente in combutta con loro, e d’altro canto non era per nulla improbabile che qualche tipaccio si tenesse nascosto nei pressi. Già si vedeva ucciso al pari dell’oste e steso accanto a lui all’interno della casa, magari in cantina, e l’angustiava il pensiero di essere scampato alla peste solo per trovare una fine ingloriosa all’inizio del cammino nel mondo della libertà e dell’avventura. Si alzò lesto e disse: «Dovete scusarmi, ma la mia sosta si è prolungata oltre misura. Prima che cali la notte, voglio percorrere ancora un buon tratto». Raccolse la bisaccia, strinse la cintura, si mise il berretto, sorpreso e insieme allarmato dal fatto che il cavaliere non facesse alcun gesto per trattenerlo. Gli parve opportuno congedarsi da lui tendendogli la mano, ma il cavaliere non la prese e indicando invece le monete che Anselmo aveva lasciate sul tavolo osservò: «Dimenticate la vostra vincita, signore». … «Non la dimentico,» replicò Anselmo «la regalo alla signorina». Ma a quelle parole l’altro scattò in piedi come se avesse ricevuto la più atroce delle offese, Anselmo afferrò d’istinto la spada e, quasi che dal ferro una forza preziosa fluisse nelle sue vene, riconquistò d’incanto il proprio coraggio. Ma già il cavaliere gentilmente diceva: «La signorina non accetta il regalo, ma noi giocheremo ancora una volta, voi impegnate tutta la vostra vincita, io invece Anita». Non era solo l’inquietudine, adesso, che faceva battere il cuore di Anselmo: egli guardò Anita, la vide chiudere gli occhi, stringersi ancor più nel mantello come se volesse sincerarsi di se stessa, come se, ora che in gioco c’era lei, il suo destino, diventasse finalmente consapevole della propria esistenza e della propria dignità. Ma poiché Anita non lo guardava, Anselmo non poteva immaginare che cosa ella desiderasse nel profondo del cuore. Sulla radura ombrosa spirava un vento lieve, presagio della notte. Erano tutti in piedi, soltanto Anita sedeva come raccolta e chiusa a riccio.  Il cavaliere tirò per primo, i dadi, come indecisi sulla via da prendere, rotolarono qua e là sul tavolo per un tempo inspiegabilmente lungo. Alla fine risultarono diciassette punti. Nessuno tuttavia si stupì quando Anselmo ne fece diciotto. Un silenzio, che pareva anche più profondo di prima, durò quasi un minuto. Tutti rimasero immobili, anche Anselmo col suo piede in avanti. Solo Anita si alzò lentamente, lo sguardo sempre chino. «Andate,» disse il cavaliere «tutti e due». Qualunque parola, qualunque esitazione - Anselmo lo sentiva - sarebbero state insensate, avrebbero significato pericolo certo. Se ne andò senza voltarsi, udì dietro di sé i passi di Anita, credette perfino di percepirne il respiro, il bosco si chiuse alle loro spalle, e già dopo pochi minuti sbucarono sull’ampia strada che egli non aveva supposto tanto vicina: e solo allora Anselmo respirò liberamente come se fosse scampato a un infernale girone dei pericoli.

     Tra quindici giorni continueremo a leggere il testo della Novella dell’avventuriero per seguire gli sviluppi dell’inquietante situazione in cui Anselmo si è venuto a trovare.

     Montaigne, nella biblioteca della sua torre, dal 1571, inizia sistematicamente a scrivere i suoi Saggi seguendo, anno dopo anno, pur rimanendo appartato, gli avvenimenti di questo travagliato periodo storico che si susseguono in terra di Francia e in tutta Europa. Poi purtroppo, nel 1578, subisce il primo attacco di calcoli renali [il cosiddetto mal della pietra]: una noiosissima e dolorosa malattia che, da questo momento, condiziona la sua esistenza.

     Nel 1580 Montaigne fa pubblicare la prima edizione dei Saggi, e poi, nel giugno del 1581, decide di uscire dal suo isolamento e di fare un viaggio verso la Svizzera, la Germania e l’Italia [e lo accompagneremo in questo viaggio].

     Quali sono le riflessioni che la mente di Montaigne produce - e che lui appunta sistematicamente - in relazione al tema della malattia e in riferimento alle esperienze maturate nel corso del suo viaggio?

     Per rispondere a queste domande dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che tanto il curarsi quanto il viaggiare [ci fa sapere Montaigne] devono far crescere nella persona la volontà di imparare: un atteggiamento che non dobbiamo mai perdere.

     Riprenderemo il nostro cammino tra quindici giorni dopo “le giornate della merla” e, soprattutto, dopo aver celebrato “la giornata della memoria” [il 27 gennaio] , e sono molte le iniziative a cui partecipare.

     Montaigne ha ragione quando scrive che “la guerra procura schiavitù, dipendenza, sottomissione, mentre la vita pacifica può garantire alla persona la libertà, l’autonomia, l’indipendenza e la capacità decisionale, e queste sono prerogative umane che è compito dell’Alfabetizzazione promuovere tanto nell’animo della persona quanto nella società e, quindi, la Scuola è qui, lo studio è cura, e il viaggio - farmaco che ravviva la memoria – continua…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 25, 2019