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Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 6-7-8 febbraio 2019 SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600 SI COMINCIA A INTUIRE CHE SONO SOPRATTUTTO I DETTAGLI CHE FANNO LA STORIA ... Ben

Lezione N.: 
11

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi 

La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza  6-7-8  febbraio 2019

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600

SI COMINCIA A INTUIRE CHE SONO SOPRATTUTTO I DETTAGLI CHE FANNO LA STORIA ...

     Ben tornate e ben tornate a Scuola, dopo aver celebrato le giornate della memoria e della merla. Questo è l’undicesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica nel corso del primo periodo dell’Età moderna.

     Come sapete [cronologicamente parlando] ci troviamo nella seconda metà del ‘500 e stiamo viaggiando in compagnia di Michel de Montaigne, che è vissuto tra il 1533 e il 1592. Come ormai ben sapete, Michel de Montaigne è l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano: un’opera complessa [la prima pubblicazione è del 1580, la seconda è del 1588 è ed è la quinta edizione notevolmente ampliata dall’autore]; un’opera che stiamo conoscendo nella sua forma [“disordinata” (così viene definita) perché gli argomenti si susseguono senza un ordine né logico né cronologico] e della quale abbiamo compreso una serie di temi che l’autore propone attraverso le sue riflessioni a volte contraddittorie perché caratterizzate dall’incertezza e spesso contraddistinte dalla tecnica del paradosso perché certe situazioni che la vita ci propone sono assurde, e l’obiettivo didattico di questo Percorso è che si possano acquisire alcuni strumenti [alcune chiavi] in modo che ci si possa applicare su questo testo leggendone qualche pagina [quattro pagine] al giorno con il metodo del LEGERE MULTUM, che è il più efficace per affrontare la lettura di un’opera di questo tipo.

     Come ricorderete, quindici giorni fa abbiamo lasciato Montaigne nella biblioteca della sua torre dove [al caldo del camino per via delle giornate della merla], dal 1571, ha iniziato sistematicamente a scrivere i suoi Saggi, rimanendo appartato ma seguendo, anno dopo anno, con grande preoccupazione, i drammatici avvenimenti di questo travagliato periodo storico che si susseguono in terra di Francia e d’Europa: le guerre civili tra le opposte correnti cristiane, le epidemie di peste con le conseguenti carestie, la mancanza di investimenti in favore dell’apprendimento per ridurre l’ignoranza e la servitù volontaria. Poi, purtroppo, nel 1578, Montaigne subisce il primo attacco di calcoli renali [il cosiddetto “mal della pietra”]: una noiosissima e dolorosa malattia che, da questo momento, condiziona la sua esistenza.

     Nel 1580 Montaigne fa pubblicare la prima edizione dei Saggi ma, non per questo, cessa di scrivere [Montaigne riscontra che la scrittura è terapeutica nella cura dell’acedia, della depressione], e poi, nel giugno del 1581, decide di uscire dal suo isolamento e di fare un viaggio verso la Svizzera, la Germania e l’Italia. Quali sono le riflessioni che la mente di Montaigne produce - e che lui appunta sistematicamente - in relazione al tema della malattia e in riferimento alle esperienze maturate nel corso del suo viaggio? Prendiamo il passo sull’itinerario di questa sera con la consapevolezza che questi due temi, malattia e viaggio, spesso s’intersecano.

     Nell’ultimo capitolo [il XXXVII] del Libro II dei Saggi intitolato Della rassomiglianza dei figli ai padri, Montaigne è affascinato dal mistero della trasmissione dei tratti genetici, e scrive: «Che portento è questo, che una goccia di seme da cui siamo generati rechi in sé non solo l’impronta della forma corporea, ma anche quella del modo di pensare e delle inclinazioni dei nostri padri? Dove mai questa goccia custodisce quell’infinito numero di forme? E com’è possibile che tali affinità procedano in modo talmente imprevedibile e irregolare da far sì che il pronipote assomigli al bisavolo e il nipote allo zio?». Gli intellettuali del Rinascimento, soprattutto i medici [tra questi Rabelais], sono molto interessati a questo «portento» e anche Montaigne è convinto - come tutti i pensatori rinascimentali - che nella procreazione il seme maschile abbia un ruolo superiore a quello dell’ovulo femminile, e si è convinti che dal seme maschile derivino non soltanto le somiglianze fisiche ma anche i tratti del carattere, il temperamento, gli umori che si trasmettono di generazione in generazione per tutta la discendenza: poi la scienza approfondirà questo tema nel corso dei secoli smantellando una certa mentalità e certe credenze.

     Montaigne, però, non si appassiona all’enigma della riproduzione per motivi scientifici ma bensì per ragioni squisitamente personali: è infatti convinto che «il mal della pietra» di cui soffre - ovvero i calcoli renali che gli procurano coliche molto dolorose - gli venga da suo padre Pierre [Pietro] il nome del quale per Michel, che ha la mentalità del filologo, risulta avere un carattere profetico [Pietro e pietra sono sinonimi] e Montaigne, nel capitolo XXXVII del Libro II dei Saggi intitolato Della rassomiglianza dei figli ai padri, scrive: «C’è da credere che io debba a mio padre questa peculiarità, il mal della pietra, giacché egli morì crudelmente afflitto da una grossa pietra che aveva nella vescica. Si accorse del suo male solo nel suo sessantasettesimo anno d’età, e prima di allora non ne aveva mai avuto avvisaglia, né aveva mai avvertito alcun fastidio ai reni, alle costole o altrove. Io sono nato venticinque anni e passa prima che si palesasse la sua malattia, e in un periodo in cui era in perfetta salute, terzo dei suoi figli in ordine di nascita. Dove mai si era annidata per tutto quel tempo la sua propensione a questa anomalia? E, quando era ancora così lontano dal male, come faceva quella minuscola particola della sostanza con cui mi fece a recarne un’impronta tanto marcata? E ancora, com’è possibile che fosse così ben nascosta che solo quarantacinque anni dopo ho iniziato a sentirne gli effetti? Unico, sinora, di tanti fratelli e sorelle, e nati tutti da una stessa madre. Se qualcuno sarà in grado di spiegarmi questo processo, sarò disposto a credergli su quanti altri miracoli vorrà, a patto che non mi rifili, come spesso accade, una dottrina molto più astrusa e strampalata di quanto non sia la cosa in sé». Montaigne non si capacita di come la malattia patema abbia potuto sonnecchiare così a lungo dentro di lui prima di risvegliarsi nei suoi reni, e di come abbia colpito soltanto lui e nessuno dei suoi fratelli e delle sue sorelle, ma siccome diffida profondamente dei medici rifiuta a priori le spiegazioni fantasiose che di questo fenomeno potrebbero proporgli.

     Anche di fronte a questo “prodigio” [la comparsa in lui del mal della pietra ereditato dal padre] che lo riguarda molto da vicino Montaigne non rinuncia a esercitare il dubbio e, secondo il suo stile, vuole riflettere su tutti gli interrogativi che sorgono nella sua mente. Abbiamo detto che Montaigne non ha fiducia nei medici. Perché Montaigne si scaglia spesso contro questa categoria? Perché è convinto che i medici del suo tempo siano arretrati, che non studino abbastanza, ed è per questo che sono degli incapaci, spesso dei cialtroni che usano le arti magiche contrabbandandole per medicina e, di conseguenza, non riesce a trovare un solo medico che sappia alleviare le sofferenze che gli procurano i calcoli renali [i medici più bravi, i molti ricercatori, temono l’Inquisizione e sono costretti a defilarsi prudentemente].

     Montaigne nei Saggi è molto critico nei confronti dei medici e, sempre nel capitolo intitolato “Della rassomiglianza dei figli ai padri”, scrive: «Per quanto ne so, non esiste categoria di persone che si ammali tanto presto e guarisca tanto tardi quanto coloro che si trovano sotto la giurisdizione della medicina. La loro stessa salute è alterata e guastata dall’imposizione delle diete. Non contenti di avere il governo della malattia, i medici fanno ammalare la salute, di modo ché non si possa mai sfuggire alla loro autorità. Del resto, di una salute costante e completa non dicono forse che è il segno di una grave malattia futura?». Qui Montaigne esagera un po’ e l’esagerazione è dovuta al fatto che sta soffrendo di una malattia per la quale, a quel tempo, i rimedi sono quasi nulli. Montaigne arriva a sostenere che gli uomini e le donne che si attengono alle prescrizioni del loro medico sono più malati degli altri, e che i medici impongono rimedi e diete più dannosi che utili, aggiungendo agli inconvenienti della malattia quelli del trattamento, scrive che i medici inducono i loro pazienti a credersi malati per tenerli in loro potere, e che distorcono la salute presentandola come un presagio di malattia. Insomma secondo Montaigne è senz’altro preferibile non avere a che fare con i medici, se si vuole restare in salute ma le sue considerazioni sono esagerate e provocate dal fatto che la sua sofferenza lo rende comprensibilmente fatalista perché non tutti i medici sono dei cialtroni e sono la maggior parte quelli che studiano nella consapevolezza che, agli albori dell’Età moderna, la medicina è ancora una disciplina rozza e inaffidabile ed è questa la causa per cui la gente in generale diffida dei medici e si tiene alla larga dalla medicina confidando di più nella magia [Questo tema viene portato in scena, quasi un secolo dopo, da G.Baptiste Pochelin detto Moliere con la l’atto unico Il medico volante e nel 1673 con la famosissima commedia Il malato immaginario].

     Agli occhi di Montaigne c’è però un settore della medicina che lui considera importante, ed è la chirurgia, perché, sempre nel capitolo intitolato Della rassomiglianza dei figli ai padri, scrive Montaigne: «Il chirurgo dà un taglio netto laddove il male è incontestabile, senza perdersi in troppe congetture e pronostici, perché vede e tocca con mano ciò che fa» e Montaigne scrive queste parole anche se alla fine del ‘500 gli esiti delle operazioni chirurgiche sono piuttosto incerti così come la gran parte dei rimedi che la medicina [che però è una disciplina in via di sviluppo] propone; quindi, anche Montaigne fa come la maggior parte delle persone sue contemporanee: non vede una grande differenza fra la medicina e la magia e, in definitiva, conta soltanto sulle proprie forze per curarsi, che significa seguire la propria natura e, sempre nel capitolo intitolato Della rassomiglianza dei figli ai padri, scrive: «Io sono stato spesso malato. E senza l’aiuto dei medici ho trovato le mie malattie facili da sopportare e brevi (e dire che ne ho provate quasi di ogni genere), eppure non vi ho mai mescolato l’amarezza delle loro ricette. La mia salute è libera e intera, non ha regole né obbedisce ad altra disciplina se non a quella delle mie abitudini e del mio piacere. Ogni luogo mi va bene per fermarmi, giacché non ho, quando sono malato, necessità diverse da quelle che ho quando sono sano. Se mi ritrovo senza medico, senza speziale e senza soccorso, non mi dispero; e invece vedo che la maggior parte della gente è più afflitta da questa mancanza che dal male medesimo. Ma insomma! Ci mostrano forse i medici, nella loro vita, un benessere e una longevità che siano palese testimonianza dell’efficacia della loro scienza?». Montaigne, in nome della Natura [in pieno stile rinascimentale], cancella il confine tra la malattia e la salute. Le malattie [pensa Montaigne] sono parte integrante della natura umana, hanno una loro durata, un loro ciclo vitale e bisogna accettarle più che contrastarle. La diffidenza di Montaigne nei confronti della medicina rientra nella logica del tempo di sottomissione alle Leggi della Natura. E così, quando è malato, Montaigne cambia le sue abitudini il meno possibile e, come abbiamo letto, lancia una freccia velenosa scrivendo che i medici non vivono né meglio né più a lungo di noi, soffrono dei nostri stessi mali e non ne guariscono più in fretta.

     Questo è uno dei punti dei Saggi in cui capiamo che il tempo è passato dagli albori dell’Età moderna a oggi: i medici contemporanei non hanno più niente a che fare con i loro colleghi del Rinascimento anche se, a volte, c’è una certa tendenza, da parte di qualcuno, a fare l’apprendista stregone, e Montaigne - oggi che potrebbe curare i suoi calcoli senza troppa difficoltà - cambierebbe certo idea.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Molte e molti di noi hanno provato la spiacevole esperienza della colica: scrivete quattro righe in proposito che la scrittura fa da deterrente [frena, rallenta, inibisce, blocca certi mali]...

     Ci sono cose negative - come la morte delle persone care, i danni della guerra civile, le epidemie, la malattia che lo colpisce - a condizionare negativamente la vita di Montaigne, ma ci sono anche cose positive che lo gratificano come, per esempio, il successo che ottiene la prima edizione dei Saggi, uscita nel 1580 della quale, dopo poche settimane, è necessario fare una seconda ristampa [perché la prima è andata esaurita] e questo buon risultato, che fa aumentare la sua popolarità, lo fa uscire dalla solitudine e fa nascere in lui un nuovo interesse per il mondo che lo circonda. Nei Saggi non ne parla ma, forse, gli sarebbe piaciuto fare carriera nel campo della diplomazia internazionale [vivere in qualche importante capitale europea]: fatto sta che Montaigne [e di questo argomento ne abbiamo già parlato a suo tempo] ha sempre desiderato viaggiare. Scrive Montaigne nel capitolo XXVI del Libro I dei Saggi intitolato Dell’educazione dei fanciulli: «E fin da bambino ho sempre provato un’onesta curiosità per il mondo, o per un edificio o per una fontana o per una persona bizzarra o per il luogo di un’antica battaglia dove è passato Giulio Cesare o Carlo Magno, insomma, per qualsiasi situazione in cui potessi sfregare e limare il mio cervello contro quello delle altre persone».

     Ma Montaigne ha pure un altro motivo, più pratico [e meno ideale], per voler viaggiare: il mal della pietra. Sebbene diffidente nei confronti dei medici, come abbiamo detto poco fa,  Montaigne, per contrastare i calcoli renali, ha provato tutti i rimedi che la medicina “approssimativa” del suo tempo gli fornisce: tutti rimedi praticamente inutili. La cura più comune per i calcoli renali viene sin dal tempo dei Romani dalle acque termali, e Montaigne le prova tutte perché considera questo un metodo “naturale” privo di controindicazioni e, poi, per giunta, le terme sono spesso situate in ambienti attraenti e la compagnia che vi si trova è sempre interessante [tanto interessante che l’ambiente termale o quello della casa di cura è diventato spesso un sito dove ambientare, dal XVIII secolo in avanti, il genere letterario del romanzo]. Montaigne frequenta tutte le stazioni termali attive in Francia e, nonostante la sua malattia faccia nuovamente capolino dopo ogni periodo di cura, è lieto di insistere su questa strada e questo suo atteggiamento si trasforma anche in un ulteriore motivo per viaggiare perché i centri termali svizzeri e italiani sono, in quest’epoca, celebri in tutta Europa, e così, nell’estate del 1580, all’età di 47 anni, l’ormai famoso scrittore Michel de Montaigne lascia i suoi vigneti [tanto, come sappiamo, gli affari dell’azienda sono tutti in mano alla moglie] e si mette in viaggio.

     Però, prima di partire con Michel de Montaigne dobbiamo seguire in viaggio un altro personaggio [un personaggio letterario]: il protagonista della Novella dell’avventuriero composta da Arthur Schnitzler [e pubblicata postuma nel 1937] il quale, come sappiamo, ha preso spunto da un suggerimento lasciato in margine da Montaigne sulla sua copia personale dei Saggi, l’Esemplare di Bordeaux. Scrive Montaigne in questa nota: «Spesso la mia mente genera un incubo, immagino di incontrare qualcuno capace, con uno sguardo, di predire il giorno esatto e l’ora precisa della mia morte: un individuo dotato di un simile potere sarebbe comunque un personaggio da mettere in scena». Il giovane Anselmo Rigardi, che è il personaggio con il quale si apre la novella di Schnitzler,  non è però la figura dotata del potere di cui parla Montaigne [saper predire il giorno esatto e l’ora precisa della morte di una persona, perché questa figura la incontreremo procedendo nella lettura. Bensì Anselmo Rigardi è un giovane e abile spadaccino di nobile lignaggio che come ricorderete si ritrova solo e libero da ogni vincolo famigliare perché i suoi genitori sono morti nel corso dell’epidemia di peste che ha colpito la città di Bergamo all’inizio dell’anno 1520, un’epidemia che, gradualmente, si è portata via i tre quarti degli abitanti. Il giovane Anselmo, dopo il comprensibile scoramento iniziale, scopre un sentimento nuovo: in lui si manifesta un senso di libertà che non aveva mai conosciuto prima perché nella situazione, pur tragica, in cui si è venuto a trovare, non deve più sottostare agli ordini di alcuno [quante volte sarà venuto anche a noi il desiderio di svincolarci da ogni legame!] e ha la possibilità, quindi, di abbandonare il suo palazzo avito e piuttosto malandato, perché i Rigardi discendevano sì da un’antichissima schiatta di baroni ma il loro patrimonio si era gradualmente dissolto e, quindi, Anselmo può senza rimpianti, col poco denaro che gli resta, dirigere i suoi passi dove vuole perché il mondo è suo e può andare all’avventura. E la prima avventura - dopo aver camminato per una mattinata intera allontanandosi da Bergamo tra campi coltivati e un paesaggio ameno - gli accade [come abbiamo letto quindici giorni fa] quando si ferma in una sorta di osteria, dall’aria non proprio accogliente, quasi in rovina, con pochi tavoli piazzati di fuori, a uno dei quali sono seduti due giovani d’aspetto losco [l’uno avrebbe potuto essere un cavaliere e l’altro il suo guarda spalle] e, con loro ci sono anche due ragazze [Lorenza e Anita] che, dall’aspetto e dal modo in cui si comportano, paiono ad Anselmo provenienti da qualche casa di malaffare. Anselmo capisce che costoro hanno fatto fuori l’oste e stanno consumando ciò che di commestibile resta nella locanda, quindi, dopo aver conversato per alcune ore con loro, ritiene opportuno allontanarsi per poter riprendere indenne il suo cammino, ma il cavaliere lo coinvolge suo malgrado in una partita a dadi dalla quale Anselmo è costretto a non sottrarsi sebbene pensi che dovrà perdere parte delle monete che porta con sé, quelle meno nascoste e di minor valore. Ma succede qualcosa di strano e di misterioso: Anselmo vince sempre, ad ogni lancio. Anche se non vorrebbe, Anselmo vince non solo i soldi del cavaliere ma, alla fine, vince anche Anita che il cavaliere considera di sua proprietà e la mette in palio. Il cavaliere ordina ad Anselmo e ad Anita di andarsene, Anselmo si allontana senza esitazione e lei lo segue senza indugio.

     Per Anselmo inizia una nuova avventura e noi lo seguiamo leggendo.

LEGERE MULTUM….

Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero

Anselmo non si sarebbe stupito se il rumore dei passi di Anita si fosse rivelato solo un inganno del suo orecchio e lei stessa fosse stata per così dire risucchiata dal sinistro incantesimo di prima; ma come si girò, lei era lì, il mantello sulle spalle e premuto al petto, l’orlo lacero del vestito che le sfiorava i piedi nudi, e il viso del tutto rischiarato e con occhi molto svegli. «Non vuoi farmi sentire finalmente la tua voce?» le domandò Anselmo. La strada era deserta e il boschetto che avevano lasciato era ormai un’esile striscia dietro di loro, e sembrava quasi inconcepibile che fosse stato teatro di tutto quanto egli aveva veduto. Inconcepibile nello spazio, quell’avventura pareva tuttavia stranamente lontana anche nel tempo. Anselmo aveva l’impressione di essere rientrato solo in quel momento nel mondo reale, dove valevano le Leggi consuete. Di abitazioni se ne vedevano poche, su colline un po’ distanti svettavano qua e là piccoli castelli e rocche; per via s’incontravano contadini, frati questuanti, asinai. I cirri riflettevano ancora la luce del sole, ma intorno già calavano le ombre, perciò i passanti quasi non s’avvedevano del curioso abbigliamento con cui Anselmo e Anita andavano per la loro strada. Agli occhi della gente potevano forse sembrare una giovane coppia di nobile lignaggio abitante in uno dei piccoli castelli che troneggiavano sulle colline. In quei tempi di disordini, epidemie e decadimento si vedevano del resto, soprattutto in campagna, i costumi più stravaganti e compositi, frutto della confusione generale. «Proseguiamo alla svelta» disse finalmente Anita «e fermiamoci soltanto in un posto sicuro. Perché, a dir le cose come stanno, non mi fido di mio marito». «Tuo marito?». «Sì, siamo regolarmente sposati, e lui non mi ha rapita o rubata, come forse penserai, no, padre Celestus ci ha uniti in matrimonio non più tardi delle quattro di stamane nella cappella del chiostro di Sant’Anna. Che altro potevo fare? Vivevo in un tale stato di paura nel nostro castello, dove il vento soffiava attraverso le finestre rotte e nel salone i fratelli della mamma sbevazzavano e cantavano tutta la notte». Raccontò tante altre cose, affastellando alla rinfusa vaneggiamenti e verità, probabili invenzioni e bugie. Da tutto questo Anselmo ricavò che il padre di Anita qualche tempo prima aveva abbandonato la casa in compagnia di una donna; che, poco dopo, la stessa casa era stata completamente spogliata da una banda e lei in quelle stanze saccheggiate aveva vissuto con la madre ora tra gli stenti ora nell’abbondanza; che l’uomo di cui si diceva consorte era stato l’ultimo amante della madre, ma aveva fatto costantemente, e col dovuto rispetto, la corte a lei; che la madre ancora ieri l’aveva picchiata e lei, Anita, solo stamane, a matrimonio avvenuto, aveva lasciato la sua casa; che suo marito, il cavaliere, subito dopo l’aveva fatta incontrare in una mescita con il segnato e la sgualdrina, mai visti prima d’allora e di cui, anzi, ignorava perfino l’esistenza; che i tre avevano discusso un piano da eseguirsi quanto prima; che in quella bettola il taverniere - pur aspettandoli, secondo loro - li aveva accolti con ostilità, sicché i due uomini l’avevano spinto dentro casa ed evidentemente ucciso.    Ma raccontò tutto questo come se si trattasse non di una storia strana e perfino orrenda, bensì di un’esperienza quasi ordinaria dalla quale lei si sentiva a malapena toccata nel profondo del cuore; oppure come fa il bambino che riporta in maniera imprecisa ed esagerata una storia capita a metà. Parlava in continuazione, non rivolgeva domande ad Anselmo, ma camminando non gli lasciava un attimo la mano. Si faceva buio, la strada davanti a loro, lunga e deserta, correva scialba tra alti pioppi sotto un cielo stellato lontano. Anselmo intendeva chiedere un giaciglio per la notte non appena avesse scorto un casolare. Ma non si vedeva una masseria, una locanda, un castello, neppure sulle colline, e per via non incontravano più nessuno. Tutt’a un tratto udì avvicinarsi un cigolio di ruote. Una luce illuminò la strada, veniva da una lanterna appesa alla stanga di un carro. Anselmo si fermò, aspettò che fosse vicino, chiamò il conducente che non riusciva a vedere; il carro s’arrestò e da sotto il telone sporse fuori una testa. Subito dopo saltò giù un tipo secco secco che tenendo la frusta in atteggiamento bellicoso cominciò a urlare a squarciagola, quasi volesse anzitutto far coraggio a sè stesso. Urlava a tal punto, senza peraltro muoversi e sempre con la frusta in mano come a voler difendere il suo carro e la sua vita, che Anselmo non poté trattenersi dal ridere di cuore, e Anita si unì alla sua risata. Allora l’uomo venne loro più vicino e, quando vide che la coppia si era messa nel cerchio di luce della lanterna, smise di urlare, si calmò, rise anche lui e grato di non essere finito nelle mani di briganti, come doveva aver temuto, fece salire Anselmo e la compagna e si dichiarò disposto a portarli non in qualche locanda, come aveva chiesto Anselmo, bensì a casa propria, che non era molto lontana di lì, spiegò, e fuori dalla strada maestra. Non era affatto un carrettiere o un contadino, notava adesso Anselmo, bensì chiaramente un uomo di ceto superiore: a giudicare dall’abito nero e tutto chiuso, con tanto di gorgiera e copricapo a cono da cui spuntavano capelli bianchi, lo si sarebbe detto medico o farmacista o magistrato. Disse: «Sembrate di buona famiglia e io non voglio sapere di più, altrimenti dovrei forse rifiutarvi l’ospitalità. Potete dormire da me». Il veicolo si mise in moto. Il viaggio non durò molto tempo, e quando furono smontati l’uomo dai capelli bianchi, con modi molto compiti li guidò, attraverso un giardinetto di fiori dal lungo stelo, fin sull’uscio di casa - un edificio basso, molto esteso in lunghezza, dal tetto piatto e il colore chiaro - e li introdusse a destra nel soggiorno dove, lasciati soli, Anselmo e Anita restarono in piedi nella stanza buia, mano nella mano e in ansiosa attesa come bambini. Solo a poco a poco si delinearono i contorni di mobili graziosi e adatti a una semplice residenza di campagna e sul soffitto emerse l’orditura di travi del rivestimento. Il vecchio tornò con due alti candelieri in cui ardevano dei ceri, li posò sul tavolino quadrato, fece accomodare i giovani l’uno di fronte all’altra su due sedie dall’alta spalliera, uscì di nuovo e già un minuto dopo portava carne fredda, frutta e biscotti, servendoli con del vino agrodolce di colore rosso scuro, che versò da una caraffa di vetro in due calici a stelo. Anselmo e Anita mangiarono di gusto, felici di sapersi al sicuro. L’ospite entrò ancora due o tre volte per riempire i bicchieri e cambiare i piatti.  Quando vide che avevano finito di mangiare, fece loro capire con un gesto che era venuto il momento di alzarsi e li guidò per il corridoio fino alla stanza di fronte, dal cui basso soffitto una lampada schermata da un paralume verde diffondeva una luce fioca sull’ampio letto bianco. Alla parete più lunga era accostato un tavolo con lavabo, brocche, asciugamani e quant’altro poteva servire per pulirsi e rinfrescarsi. Il vecchio sparì chiudendosi la porta alle spalle senza che i due giovani potessero almeno augurargli la buonanotte.

Era la prima volta che ad Anselmo capitava di tenere fra le braccia una donna, e la sua inesperienza fece nascere in Anita, insieme alla tenerezza, sentimenti materni.  Anselmo provò un senso di benessere ma poi sentì montargli dentro la preoccupazione di perdersi dietro a questa donna, avvertì la paura di essere trattenuto. La prima luce dell’alba filtrata di soppiatto sul pavimento dalla leggera apertura delle tende e il primo canto d’uccelli in giardino suscitarono in lui un desiderio ardente, e già non più di colei che giaceva addormentata e inspiegabilmente estranea fra i cuscini, bensì un desiderio ardente di lontananza, di solitudine, di libertà. Il pensiero di proseguire il cammino insieme a lei gli era intollerabile, gli sembrava che avere una compagna di viaggio, non importa quale, equivalesse a trascinarsi ai piedi una catena. Era deciso a svignarsela prima che lei si ridestasse, non sentendo altro dovere nei suoi confronti se non quello di lasciarle un po’ di denaro perché potesse sopravvivere in attesa di ritrovare il marito o incontrare un nuovo amante. Anita era così immersa nel sonno che Anselmo, pur nella penombra del locale, poté nondimeno vestirsi in tutta tranquillità. Del resto il risveglio di lei non l’impensieriva.

Sentiva che Anita non poteva vantare alcun diritto su di lui o sulla sua libertà. Quanto al vecchio che magari dormiva in qualche altra stanza della casa, neppure costui, ammesso che si fossero visti, avrebbe potuto trattenerlo, né con le buone né con le cattive. Anselmo era dominato da un unico impulso: continuare il cammino che, come spinto dal fato, aveva intrapreso lasciando la sua casa in circostanze tanto cupe, e che subito all’inizio gli aveva riservato un’avventura così intricata e non priva di pericoli, presagio di altre e più importanti avventure. Solo adesso, pronto a ripartire, lanciò uno sguardo d’addio alla dormiente e vide che una lama di sole, entrata dalla leggera apertura delle tende, le attraversava i seni, le labbra, la fronte finendo nei riccioli e tagliandola in due come un pugnale d’oro. Provò una certa attrazione ma si disse che ogni ulteriore indugio gli sarebbe potuto costare non soltanto la libertà, ma anche la vita e, quindi, lasciò la stanza e si chiuse piano la porta alle spalle. Uscì nell’angusto corridoio che divideva la casa, aprì la porta, e i fiori del giardino, alti sui loro steli, gli brillarono incontro in una splendente varietà di colori. Ma, dopo l’aria dolciastra e viziata della notte nel chiuso di una stanza, quella frescura intrisa di profumi gli fece quasi venire le vertigini per lo stupore e la felicità. Era come se, dopo una notte di totale appagamento, il mattino s’annunciasse altrettanto colmo di delizie. Fermo sulla soglia respirava a pieni polmoni, quando, sbucando di lato, gli si parò davanti il cavaliere, vestito come il giorno prima eppure molto più prestante nell’aspetto e senza benda rossa sull’occhio. Anselmo, già sul chi vive, in quell’ora deliziosamente fresca sentiva la propria giovinezza pulsargli con tale forza nelle vene che non provò ombra di paura, anzi quasi neppure di stupore e, in fondo, non gl’importava sapere se qualcuno gli aveva giocato un tiro infame oppure se il cavaliere era stato capace di trovarlo con l’astuzia o per un colpo di fortuna.

     E adesso - prima di conoscere le conseguenze di questo incontro inaspettato per Anselmo - seguiamo Montaigne nel suo viaggio che è meno avventuroso di quello di Anselmo ma non meno ricco di emozioni e di curiosità che lo fanno riflettere secondo il suo stile improntato alla saggistica.

     Michel de Montaigne nell’estate del 1580, all’età di 47 anni, si mette in viaggio per lenire le sue sofferenze date dal mal della pietra e per vedere il mondo o almeno una certa parte del continente europeo. Il viaggio di Montaigne dura ben diciassette mesi [quasi un anno e mezzo], fino al novembre del 1581. Montaigne non viaggia da solo lasciandosi guidare dall’istinto [anche se gli sarebbe piaciuto far questo] ma viaggia in gruppo dopo aver ben studiato un itinerario [anche se negherà sempre di averlo fatto] che lo deve condurre in Germania, in Svizzera e in Italia fino a Roma.

     Nel suo bagaglio c’è un bauletto al quale Montaigne tiene particolarmente perché contiene tutto l’occorrente per scrivere e le sue annotazioni di viaggio sono state raccolte in un volume intitolato Diario del viaggio in Italia attraverso la Svizzera e la Germania che è stato pubblicato soltanto due secoli dopo, nel 1774.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quest’opera, il Diario di viaggio di Montaigne, è stata ristampata ultimamente [nel 2008] dalla Bur con il titolo di Viaggio in Italia e la potete sfogliare e ne potete leggere qualche pagina in biblioteca… 

     Con Montaigne - che è un nobile di rango - viaggiano un certo numero di servitori [non sappiamo quanti], dei familiari e dei conoscenti: ci sono quattro giovani, affidati dalle famiglie a Montaigne, che si aggregano per scopo educativo, c’è suo fratello minore Bertrand che ha vent’anni, c’è il giovane marito di una sua sorella, c’è il figlio adolescente di un vicino con un suo amico e, nel corso del viaggio, capita che queste persone si allontanino ogni tanto dal gruppo per perseguire i propri interessi particolari. Montaigne inizia il suo viaggio visitando alcune zone della Francia e, strada facendo, incontra e viene ricevuto dal re Enrico III al quale regala una copia dei Saggi e, forse, riceve da lui alcune missioni politiche da svolgere lungo il tragitto e, siccome la meta del viaggio di Montaigne è Roma, è probabile che il re di Francia abbia incaricato Montaigne di portare i suoi omaggi al papa.

     Montaigne scrive che viaggiare, al tempo suo, è “poco più sicuro di un duello vero e proprio  ” [e, a proposito di duelli, mi sa che, a causa dell’incontro tra Anselmo e il cavaliere, ci toccherà assistere a un duello] e, alla fine del ‘500, i nobili duellano regolarmente per risolvere questioni cosiddette d’onore, e Montaigne aborrisce questa pratica da lui considerata “arcaica”. Viaggiare [e Montaigne ne è consapevole] è pericoloso e le strade più sicure sono quelle che portano ai tradizionali luoghi di pellegrinaggio in quanto sono le più battute e le più controllate [Montaigne le studia quando prepara l’itinerario] e, di conseguenza, un viaggiatore [ci fa notare Montaigne] deve sempre essere pronto a cambiare programma all’ultimo momento sia quando giunga voce di un’epidemia di peste o della presenza di banditi lungo la via e, quindi, quasi tutti i viaggiatori noleggiano una scorta o viaggiano in carovane.

     La comitiva di Montaigne, come abbiamo detto, è piuttosto numerosa e sono tutti uomini armati e se da un lato questa è una garanzia di sicurezza dall’altro questo gruppo non passa certo inosservato e attira l’attenzione sempre interessata delle autorità locali, e Montaigne ci mette al corrente di tutte “le scocciature” che toccano ai viaggiatori: c’informa sulla dilagante corruzione dei funzionari pubblici, soprattutto in Italia, dove gli eccessi burocratici sono sorprendenti: le strade, i ponti, l’attraversamento dei confini, numerosissimi, sono quasi tutti a pagamento. In tutta Europa, non solo in Italia, le porte d’ingresso alle città sono fortemente presidiate e per entrare è necessario mostrare un passaporto valido, un permesso di viaggio, la documentazione relativa al proprio bagaglio e una Lettera ufficiale dell’autorità sanitaria che attesta che non si è passati di recente in aree colpite dalla peste. Solitamente, all’ingresso in città, si riceve un permesso per alloggiare in un albergo specifico, e il proprietario deve poi controfirmarlo.

     Montaigne ci fa sapere, inoltre, che gli spostamenti sono molto faticosi: per lo più un nobile come lui e la sua comitiva viaggia a cavallo ma è anche possibile andare in carrozza, però i sedili sono in genere più duri di una sella. Come sappiamo, Montaigne preferisce di gran lunga andare a cavallo e nel capitolo VI del Libro III dei Saggi intitolato Delle carrozze racconta come lui, quando viaggia, i cavalli li compra e li rivende lungo la strada, o li noleggia per brevi periodi. Montaigne scrive che un’alternativa [dove ne esista la possibilità] è quella di spostarsi in battello, e poi racconta che «tutte le volte che, io e la mia compagnia, abbiamo usufruito del battello ho sofferto, insieme a tutti gli altri, il mal di mare anche se il tragitto era sempre su un fiume» e si diverte a giocare sul fatto inspiegabile che non esista l’espressione “mal di fiume”, «sebbene sia la causa di un reale disagio e di una palese ingiustizia nei confronti del mare». Montaigne, quindi, preferisce sempre andare a cavallo anche se deve allungare il tragitto, e trova “la sella il posto più comodo in cui stare durante un attacco [per lui abbastanza frequente] di calcoli renali”.

     L’itinerario del viaggio è stato ben pianificato da Montaigne ma poi, strada facendo, dichiara che non ama fare programmi, però non vuole perdersi niente e, difatti, gli altri del gruppo si lamentano dell’abitudine che ha di cambiare strada ogni qualvolta gli giunge voce di una cosa nuova da vedere, e lui si giustifica [barando un po’] dicendo «che è impossibile deviare dal percorso perché non c’è nessun percorso, e l’unico obiettivo che mi sono dato è di visitare dei luoghi a me sconosciuti». Montaigne confessa che l’unico suo limite consiste nella difficoltà ad alzarsi presto la mattina: scrive Montaigne nel capitolo IX del Libro III dei Saggi intitolato Della vanità: «La mia pigrizia ad alzarmi dà modo a quelli che mi seguono di desinare con comodo prima di partire». Questa, di alzarsi tardi, è una consuetudine che ha sempre avuto però, in generale, Montaigne si sforza di scrollarsi di dosso le sue abitudini quando viaggia e, a differenza di molti viaggiatori, mangia solo cibo locale e si fa servire secondo i costumi del posto e, a un certo punto [scrive] rimpiange di non aver portato il suo cuoco, non perché gli manchi la cucina di casa ma perché avrebbe voluto che il cuoco imparasse le ricette che andava scoprendo in Italia.

     Montaigne dice di arrossire quando incontra altri francesi che viaggiano all’estero e, sempre nel capitolo intitolato Della vanità, scrive: «Eccoli i miei compatrioti che si alleano e si cuciono insieme per condannare tanti usi barbari che vedono, mentre almeno dovrebbero accorgersi che la gente del posto è diversa da loro, e il saper cogliere le diversità è il più importante obiettivo educativo di un viaggio». La capacità di adattamento di Montaigne si estende anche alla lingua e in Italia usa parlare in italiano che ha imparato per leggere soprattutto le opere di Petrarca e di Tasso, e comincia anche a scrivere il suo diario in italiano [l’italiano del ‘500].

     Le chiese giocano un ruolo importante nel viaggio di Montaigne, e non  perché abbia bisogno di luoghi in cui pregare, ma perché è affascinato dai rituali che vi si svolgono: visita le chiese protestanti in Germania con lo stesso interesse con cui entra in quelle cattoliche in Italia. Ad Augusta assiste al battesimo di un bambino e prima di andare via, mentre i presenti hanno capito che è uno straniero, rivolge agli astanti molte domande sul rito a cui ha assistito. In Italia visita varie sinagoghe ebraiche e in una casa privata, assiste anche alla circoncisione di un bambino. Montaigne, in viaggio, è attratto da ogni tipo di storia e di evento curioso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quando avete deviato dal percorso per visitare un luogo che vi era sconosciuto e ne è valsa la pena?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Montaigne è attratto da ogni tipo di storia e di evento curioso, e le curiosità che maggiormente lo colpiscono le annota mettendole in evidenza nel suo Diario, e poi queste esperienze di viaggio, secondo lui più significative, hanno avuto un riscontro anche nel testo dei Saggi e le riflessioni che Montaigne fa in proposito le troviamo riportate nella seconda edizione della sua opera, quella ampliata, del 1588.

     Montaigne, all’inizio del suo viaggio [alla fine di giugno del 1580], prima di passare il confine che dalla Francia lo avrebbe portato in Germania, ha modo d’incontrare un uomo che era nato e aveva vissuto da femmina per più di vent’anni prima di diventare maschio e [a suo tempo], nel capitolo XXI del Libro I dei Saggi intitolato Della forza dell’immaginazione, Montaigne scrive: «Passando per Vitry-le-François [con una guida della Francia e navigando in rete potete far visita a questa cittadina sulla Marna ricostruita dopo la seconda guerra mondiale sullo stesso piano a vie ortogonali che aveva nel ‘500, da qui partono gli importanti canali Marna-Saona e Marna-Reno che è la via più rapida per raggiungere Strasburgo...], ebbi modo di vedere un uomo che il vescovo di Soissons aveva cresimato con il nome di Germain, ma che tutti gli abitanti del luogo avevano conosciuto e visto femmina, con il nome di Marie, fino al suo ventitreesimo anno. A quell’epoca aveva una folta barba, era vecchio e non aveva moglie. I suoi attributi virili erano comparsi all’improvviso, così disse, una volta che aveva fatto uno sforzo nel compiere un salto. Ed è tuttora diffusa, fra le ragazze di laggiù, una canzone con cui si mettono in guardia l’una con l’altra dal prodursi in grandi balzi, per paura di diventare maschi come Marie-Germain. Non deve meravigliare che casi siffatti siano frequenti, e ci si domanda se possa essere l’immaginazione ad avere il potere di determinare cose del genere per cui se una ragazza si fissa sempre nello stesso pensiero finisce anche per incorporare in sé il membro virile».

     Che cosa sta dicendo [sebbene con circospezione] Montaigne? Procediamo con ordine. Gli studiosi del Rinascimento sono attratti dalle stranezze della Natura e, soprattutto, puntano la loro attenzione sugli ermafroditi, un vero paradosso della Natura, quegli individui [«...casi frequenti», afferma Montaigne] che sono al tempo stesso uomo e donna [persone, per giunta, completamente al di fuori dall’ordine della creazione perché le Scritture affermano che Dio creò l’essere umano “o maschio o femmina”]. Marie dichiara di essere diventata Germain in seguito a uno sforzo fisico che avrebbe snidato il suo membro virile fino ad allora rivoltato verso l’interno e nascosto a tal punto che l’avevano sempre creduto femmina, ma Montaigne dubita che questa versione corrisponda alla realtà del fenomeno, e ironizza sul fatto che alle ragazze venga consigliato di evitare [«Ragazze non saltate!», dice il testo della canzone popolare] di fare grandi balzi che potrebbero trasformarle in maschi. Come abbiamo letto, Montaigne parla di una causa derivante da «la forza dell’immaginazione» ma, anche in questo caso, la sua riflessione è improntata allo scetticismo ed è accompagnata da continui punti interrogativi: “è possibile che [si domanda], se le ragazze pensano di continuo al sesso maschile, finiscano per generarlo dentro di sé, è ammissibile che, a furia di pensarci, succeda che il sesso spunti loro in mezzo alle gambe?”. C’è chi ha pensato che Sigmund Freud abbia preso spunto da queste narrazioni popolari, scoperte leggendo i Saggi di Montaigne, per teorizzare il concetto di “invidia del pene” come stadio dello sviluppo sessuale delle bambine, ma Montaigne è su tutt’altra linea d’onda: lui, dopo aver intervistato con grande curiosità Marie-Germain, preferisce condividere la tesi teologica dei naturalisti [di Bernardino Telesio] secondo cui Dio, così come dopo averle create ha dato alle persone il libero arbitrio, allo stesso modo, dopo averla creata, lo ha donato anche alla Natura per cui la Natura si comporta in modo autonomo secondo Leggi proprie [«Iuxta propria principia» (secondo i principi che sono propri della Natura)] per cui l’esistenza degli ermafroditi corrisponde a una Legge naturale che, afferma Montaigne, non siamo ancora stati in grado di scoprire.

     Ma per Montaigne il caso dell’ermafrodito Marie-Germain incontrato in viaggio [un caso che tocca il tema della sessualità] è, come spesso succede, un pretesto che lo porta a riflettere su un argomento che lo attrae particolarmente e sul quale torna spesso, il tema del desiderio femminile che, per Montaigne, è una manifestazione misteriosa di vitalità [così come lo è anche per Rabelais che ne parla nel Libro III del Gargantua e Pantagruel]. Montaigne fa un’affermazione che nessuno dei suoi contemporanei maschi ha il coraggio di fare perché riflettere su certi argomenti per gli appartenenti al cosiddetto “sesso forte” è motivo di vergogna e, sempre nel capitolo intitolato Della forza dell’immaginazione, scrive: «Quante volte - e io voglio ammetterlo - noi maschi veniamo traditi dal nostro “cliente” [così chiama scherzosamente l’organo sessuale maschile, personalizzandolo come se avesse bisogno di un avvocato difensore] perché i rapporti che intercorrono tra il corpo e la mente sono complessi e lui [c’è un romanzo di Alberto Moravia che s’intitola Io e lui] non risponde ai comandi e fa di testa sua, come se fosse dotato di una volontà del tutto autonoma, indocile, sregolata e ribelle. La volontà vuole forse sempre ciò che noi vorremmo che volesse? Il desiderio maschile non è ben congegnato mentre quello femminile risulta armonioso: le donne non sanno che cosa sia l’impotenza e noi, sciocchi, le consideriamo una categoria debole invece in loro la mente, la volontà e l’immaginazione dialogano e non si accapigliano». Molto significativo è il fatto che Montaigne abbia capito che il desiderio nasce e si sviluppa tra due persone se, insieme, sanno far dialogare la mente, la volontà e l’immaginazione: il desiderio, quindi, scaturisce [afferma Montaigne] dalla capacità che le persone hanno acquisito di colloquiare tra loro. E partendo dal tema del desiderio sessuale, la riflessione di Montaigne si fa più acuta: ecco perché, afferma Montaigne, bisogna studiare se stessi perché «lo studio di se stessi è anche un andare verso l’altra persona»: la conoscenza di sé deve preludere allo studio della persona con cui si dialoga, e Montaigne si rende conto di conoscere meglio le altre persone proprio perché, grazie alle altre persone, ha imparato a conoscersi, e le capisce meglio di quanto loro non capiscano se stesse e, nel capitolo XIII del Libro III dei Saggi intitolato Dell’esperienza, Montaigne scrive: «L’attenzione costante che dedico all’osservazione di me stesso mi rende avvezzo a giudicare le altre persone in modo abbastanza soddisfacente. E sono poche le cose di cui parlo con maggior efficacia e cognizione di causa. Spesso mi capita di vedere e riconoscere le qualità dei miei amici con maggior esattezza di quanto non facciano loro stessi». La frequentazione dell’altra persona [pensa Montaigne] permette di andare incontro a se stessi, e la conoscenza di sé di andare verso l’altra persona: molto prima dei filosofi contemporanei Montaigne ha colto la dialettica del sé e dell’altro [«Per vivere una vita morale occorre vedere sé come se fosse un’altra persona» scrive Paul Ricoeur nel 1978]. E Montaigne , prima dei filosofi contemporanei, dà un’importanza fondamentale all’uso della parola per poter entrare positivamente in relazione con sé e, di conseguenza, con l’altra persona e, a questo proposito, basta leggere la splendida [splendida perché semplice] frase dell’ultimo capitolo dei Saggi [del capitolo XIII del Libro III intitolato Dell’esperienza]: «La parola appartiene per metà a chi parla e per metà a chi ascolta» e, quindi, Montaigne afferma la necessità di una complementarità fra il proprio io e quello dell’altra persona ma a patto che la parola sia autentica, sia condivisa fra i due interlocutori, in modo che [scrive Montaigne] «l’altra persona possa parlare attraverso di me», tuttavia si deve essere prudenti perché per raggiungere un buon livello di comunicazione [e non si può improvvisare su una materia così delicata] bisogna [insiste Montaigne] promuovere un’educazione fondata sulle discipline umanistiche, le più adatte a istruire la persona in modo che possa imparare a far dialogare correttamente tra loro la mente, la volontà e l’immaginazione. L’errore che le persone fanno [afferma Montaigne] viene dall’istinto di sopraffazione ed è quello di voler avere l’ultima parola invece di voler mettere la parola in comune.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Qual è la parola che volete mettere in comune con una delle persone che amate?...

Scrivetela, è sufficiente inserirla in una frase, non vi sarà sfuggito il fatto che ci sono parole complici, ci sono termini evocativi che hanno una natura vincolante sul piano delle relazioni...

     Ma ora, per concludere, torniamo al Diario di viaggio di Montaigne.

     Il Diario di viaggio di Montaigne è stato scoperto all’interno di un baule nel suo castello solo nel 1772 e questa scoperta è stata accolta con esultanza dagli intellettuali romantici che sono stati i primi a leggere quest’opera, ma il loro entusiasmo è andato ben presto deluso a causa del contenuto di quest’opera, o meglio, a causa delle loro aspettative, perché i lettori romantici del Diario di viaggio di Montaigne avrebbero voluto trovarvi, prima di tutto, una grande attenzione per l’aspetto artistico del viaggio e, invece, Montaigne non mostra grande interesse per l’Arte e ne parla poco nel suo Diario e, forse, per il fatto che avrebbe dovuto ripetere considerazioni già fatte dagli storici dell’Arte nei secoli precedenti; quindi, non ci si deve meravigliare che, passando da Firenze, si sia limitato a citare «le bellissime statue, eccellenti, opera di Michelangiolo» e poi a dire solo [ma non è un dettaglio da poco] che Firenze è una città ricca di bei giardini con belle fontane che spruzzano in modo da fare scherzi ai visitatori [«Abbiamo visitato un giardino - scrive Montaigne - dotato di sedili che spruzzavano acqua sul fondoschiena di chi vi si sedeva. Il giardiniere fece scaturire, da infiniti bucherelli sotto i nostri piedi e fra le gambe, certi zampilli d’acqua così minuti da esser quasi invisibili: una piacevolissima esperienza»]. Anche nei Saggi Montaigne non parla quasi mai delle Arti visive ma dobbiamo pensare che, avendo fatto affrescare tutte le pareti della sua torre, i dipinti gli piacciano ma, in genere, non ha molto altro da dire in proposito, visto che quasi tutto è già stato detto, delle celebri Opere dell’arte rinascimentale presenti in Italia.

     Oltre a una maggiore attenzione all’aspetto artistico del viaggio, i lettori romantici avrebbero voluto trovare nel Diario anche sublimi riflessioni sulla bellezza delle Alpi e malinconiche meditazioni sulle rovine di Roma e, invece, si sono trovati davanti un accurato resoconto dei problemi urinari di Montaigne intervallati da dettagliate, acute, sebbene non sublimi, ma molto realistiche, descrizioni delle locande, del cibo, della tecnologia, dei costumi e delle pratiche sociali dei vari luoghi in cui ha fatto tappa e proprio in questo sta “la modernità” [novecentesca] di quest’opera, proprio perché il suo testo è ancorato ai dettagli. Certo che i lettori romantici s’indignano nel leggere che l’acqua termale [probabilmente ricca di magnesio] che Montaigne ha bevuto il martedì «mi ha fatto andar di corpo per ben tre volte prima di mezzogiorno», e nel leggere che durante il suo soggiorno ai bagni «ho spurgato [scrive Montaigne] una pietruzza grande e lunga come un pinolo e della forma di un piccolo pene», e nel leggere «ho veramente apprezzato la straordinaria efficienza delle stufe svizzere».

     L’accoglienza gelida che i lettori romantici hanno riservato al Diario di viaggio di Montaigne ha, per molto tempo, relegato quest’opera in secondo piano rispetto ai Saggi, ma la lettura di questo testo è più piacevole di molti ampollosi racconti di viaggio romantici proprio perché, come abbiamo detto, la sua scrittura è ancorata ai dettagli e come dicono gli storici novecenteschi “sono soprattutto i dettagli che fanno la Storia” [Ecco un ulteriore aspetto della modernità dei Saggi di Montaigne].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete l’abitudine, andando in viaggio, di tenere un diario “dettagliato”?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Una serie di “dettagli” riportati da Montaigne hanno fatto Storia, e torneremo sul Diario di viaggio di Montaigne la prossima settimana per sapere che cosa lo attira nel corso della sua visita a Venezia, che cosa lo colpisce durante l’udienza dal papa a Roma, e poi quale grande emozione prova a Ferrara dove fa visita a Torquato Tasso rinchiuso in manicomio: perché Montaigne ammira questo personaggio che considera il più importante poeta del secolo, e chi è Torquato Tasso, e perché Montaigne cita l’Aminta e più volte la Gerusalemme liberata?

     Per rispondere a queste domande, dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, quindi, la Scuola è qui, e non temete, Torquato Tasso non è pazzo: conosce, capisce, si applica, analizza, sintetizza, valuta benissimo, di conseguenza, non c’è pericolo!  E Montaigne - commosso fino alle lacrime - si fa promotore di una petizione per la liberazione di Torquato Tasso, e anche noi aderiamo alla sua iniziativa e, quindi, a maggior ragione, il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 8, 2019