ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 20-21-22 febbraio 2019
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600
SI TENDE A COLTIVARE UNA SAPIENZA PRATICA CHE SI AVVALGA
DELLA VIRTÙ DELLA PRUDENZA ...
Questo è il tredicesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica nel corso del primo periodo dell’Età moderna [vi ricordo che la prossima settimana, come da calendario, faremo una pausa].
Ci troviamo, cronologicamente parlando, negli ultimi decenni del ‘500 e, come ben sapete, dall’ottobre scorso stiamo viaggiando in compagnia di Michel de Montaigne [che è vissuto tra il 1533 e il 1592]. Ci siamo soffermate e soffermati in questi mesi su una serie di riflessioni - sagge, complesse, ironiche, ma anche, a volte, contraddittorie e paradossali - su svariati temi che Michel de Montaigne ci ha proposto attraverso i Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano: un’opera che è stata pubblicata per la prima volta nel 1580 e ripubblicata, notevolmente ampliata dall’autore, nel 1588. Nelle due settimane precedenti abbiamo seguito Montaigne in viaggio dall’estate del 1580 al novembre del 1581 mentre - dopo essere transitato per la Germania e la Svizzera - visita una serie di città italiane, in particolare Venezia, Firenze, Roma, Ferrara.
È proprio a Ferrara come ben sapete che Montaigne vive l’esperienza emotiva più forte del suo viaggio perché va a visitare in manicomio Torquato Tasso. Montaigne conosce le opere di Tasso e nei Saggi cita l’Aminta e, più volte, la Gerusalemme liberata. Montaigne considera Torquato Tasso il più autorevole poeta del suo tempo e ritiene sia il più importante interprete della cosiddetta crisi del tardo Rinascimento quando il trionfalismo lascia il posto all’inquietudine, generata, in particolare, dalla forte conflittualità provocata [dal 1517] dalla spaccatura del Cristianesimo e dall’assetto dell’Europa in cattolico e protestante; e il tema dello scontro con “gli infedeli”, che Tasso sviluppa in termini epico-romantici nel poema Gerusalemme liberata, risente soprattutto del fatto tragico che sono i cristiani stessi - spada alla mano, divisi tra riformatori e contro-riformatori - a rinfacciarsi l’infedeltà [molto più di quanto lo facciano i cristiani e i mussulmani].
Tasso vuole, con il suo poema, dar lustro alla liberazione del Santo Sepolcro da parte dei crociati [della prima crociata del 1099 bandita da papa Urbano II e predicata da Pietro l’Eremita] guidati militarmente da Goffredo di Buglione, ma quello che sembra il tema dominante del poema [la guerra santa] è, in realtà, un pretesto perché Tasso vuole esaltare il fatto che è l’attrazione amorosa, è l’Eros a governare i rapporti umani, e la Natura agisce in proposito secondo il proprio potere seduttivo e, quindi, fa germogliare l’Amore: di conseguenza, anche tra nemici ci si innamora [perché l’Amore scavalca i confini] e se succede che, per sbaglio, gli innamorati-nemici si ritrovano, senza riconoscersi, a duellare tra loro con l’esito drammatico che uno dei due viene ucciso per mano di chi l’ama, ebbene, come si può [si domanda Tasso angosciato] pensare che il combattere una guerra santa possa giustificare una simile tragedia [un tale evento innaturale]? Può [si domanda Tasso tormentato] una religione che adora un Dio misericordioso legittimare ciò?
Quindi, nella Gerusalemme liberata, al racconto propriamente epico dell’assedio della città, che si protrae per circa tre mesi, s’intrecciano, come abbiamo detto la scorsa settimana, “romantiche” storie d’amore fra persone nemiche: tra Olindo e Sofronia, tra la principessa Erminia e Tancredi, tra la maga Armida e Rinaldo, e tra Tancredi e la guerriera Clorinda che lui uccide in duello non avendola riconosciuta e questo - il duello tra Tancredi e Clorinda - è uno degli episodi [per tutte le implicazioni che comporta] più significativi non solo della Gerusalemme liberata ma di tutta la Letteratura poetica di ogni tempo.
Come abbiamo preannunciato la scorsa settimana, su questo episodio puntiamo ora la nostra attenzione [facciamo un assaggio del poema di Tasso considerando un episodio che comporta un’attenta riflessione che parte da una serie di interrogativi].
Torquato Tasso, in quanto scrittore lirico, ossessionato dal severo giudizio dell’Inquisizione che controlla l’ortodossia del pensiero delle artiste e degli artisti, come intende applicare un concetto poetico di carattere erotico e di impronta naturalistica facendolo conciliare con i dettami della dottrina cattolica, onde evitare una condanna? Come pensa di giustificare la composizione di un episodio - come quello del duello tra Tancredi e Clorinda - con il quale vuole dare risalto all’attrazione amorosa, e con il quale vuole celebrare l’Eros come supremo governatore dei rapporti umani, e con il quale vuole esaltare la Natura la quale, agendo secondo il proprio potere seduttivo, fa inevitabilmente germogliare l’Amore anche tra nemici [perché l’Amore scavalca i confini]?
Tasso non può apertamente denunciare il fatto che le guerre di religione, benedette dai papi e in corso in questo periodo in tutta Europa tra cattolici e protestanti, rappresentano un dramma epocale perché svalutano e annientano il valore universale dell’Amore, un valore che tutte le fedi esaltano come fondamentale elemento salvifico, e quindi Tasso [che scrive guardando alla realtà della sua epoca, nel periodo della crisi del tardo Rinascimento, così come fa Montaigne], sul piano ideologico, inserisce l’episodio del duello tra Trancredi e Clorinda in una sorta di involucro protettivo [nell’ambito dell’incontro tra l’amore terreno e l’amore celeste]: per prima cosa, agisce sulla biografia dei personaggi a cominciare da Clorinda, mettendo in evidenza, attraverso la narrazione mitica, che non ha alcuna importanza se questa donna sia mussulmana o cristiana ma l’importante è che “viene amata per la persona che è” e questa allusione rende Tasso un filosofo caro a Montaigne [e a tutte le persone che, nei secoli, hanno visto nelle differenze una ricchezza che costituisce il patrimonio dell’unica razza che esiste, quella umana]. In che modo Tasso mette in relazione la figura di Tancredi con quella di Clorinda?
Nel canto III della Gerusalemme liberata Tancredi vede Clorinda per la prima volta - nel corso di uno dei tanti scontri davanti alle mura della città – mentre, dopo essersi tolta l’elmo, beve a una fonte, e Tancredi rimane abbagliato dalla sua bellezza [come succede a Dante nel vedere Beatrice e a Francesco Petrarca nel vedere Laura]. Poi, in un secondo momento [sempre nel canto III], i due hanno modo di scontrarsi perché, nel corso della battaglia, Clorinda si trova di fronte Tancredi, che è il più forte dei cavalieri cristiani, e quindi, pone la lancia in resta e dirige il suo cavallo al galoppo contro di lui: i due si colpiscono sulle visiere e l’elmo di Clorinda le balza di testa e le sue chiome dorate si spargono al vento [«... e le chiome dorate al vento sparse, / giovane donna in mezzo ‘l campo apparse»]. Tancredi, vedendola, rimane impietrito, mentre Clorinda si aggiusta l’elmo e torna all’assalto, ma Tancredi indietreggia, lei lo incalza, lui è deciso a morire piuttosto che farle del male ma prima vuole dichiarle il suo amore e la invita a uscire dalla mischia. Clorinda accetta la proposta decisa, però, a continuare il combattimento e, difatti, lo attacca subito e lo ferisce seppur superficialmente, perché lui non si difende ma le dichiara il suo amore ardente e incondizionato, esortandola, se lei vuole, a trafiggergli il cuore [ecco - spiega poeticamente Tasso - in che cosa consiste l’Amore: non è un voler possedere ma è un voler donare. E Tancredi è il vero eroe del poema: è un gentiluomo delicato e nobile, malinconico, assorto, amabile, e Tasso si identifica con questa figura alla quale dà alcuni attributi del suo carattere].
Clorinda, assai stupita, indugia, e i due finiscono nuovamente per ritrovarsi in mezzo alla battaglia e un crociato, passando e vedendo le chiome sparse di Clorinda, la ferisce lievemente sul collo e Tancredi lo assale, lo respinge e lo mette in fuga. Clorinda, molto meravigliata dalle parole appassionate di Tancredi e dal suo comportamento, rimane disorientata e in questo momento dubita di vedere in lui un nemico ma [e il poeta fa delle chiare allusioni in proposito] si accorge che Tancredi è anche un bell’uomo ed è un gentiluomo, di conseguenza, in questa situazione, non sarebbe stata certo disposta a trafiggerlo come lui le aveva chiesto di fare [e Tasso ci orienta verso un retro-pensiero di Clorinda che lui non può direttamente riportare ma le allusioni, in poesia, sono più indicative delle puntualizzazioni per cui una donna come Clorinda, nel pieno della sua giovinezza, non può non pensare che sarebbe meglio fare l’amore che la guerra]; quindi, Clorinda si ritira spostandosi in un’altra zona di combattimento, e se leggiamo gli ultimi due versi della trentunesima ottava del canto III della Gerusalemme liberata vediamo che contengono [a proposito di allusioni] parole che sembrano da battaglia ma che fanno anche parte del glossario madrigalesco del corteggiamento, e scrive Tasso: «[Clorinda mentre si allontana da Tancredi] or si volge, or rivolge, or fugge or fuga, / né si può dir la sua caccia né fuga [come guerriera si deve allontanare ma come donna amata vorrebbe anche restare]».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Senza alcun timore reverenziale procuratevi un volume contenente il testo della Gerusalemme liberata - lo trovate in biblioteca, magari anche nella vostra biblioteca domestica - e, seguendo le note, leggete, dalla ventunesima alla trentunesima ottava del canto III, dove il poeta descrive l’incontro-scontro tra Clorinda e Tancredi...
Torquato Tasso riesce a fondere insieme l’elemento erotico [l’amore terreno] con quello religioso [l’amore celeste] narrando in versi la storia di Clorinda: e chi è Clorinda e qual è la sua storia? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare appello alla Letteratura tardo alessandrina del III e IV secolo quando prende forma il genere del romanzo, in particolare il genere del romanzo amoroso [abbiamo viaggiato in questo territorio qualche anno fa].
Torquato Tasso elabora la storia di Clorinda mutuandola da un’opera, un romanzo, di Eliodòro di Èmesa che s’intitola Etiopiche. Chi è Eliodòro di Èmesa e di che opera stiamo parlando? Eliodòro [non sappiamo molto di lui, il suo nome significa “dono del Sole”] è uno scrittore greco nato e vissuto nel III secolo d.C. nella città siriana di Èmesa [l’odierna Homs]. Suo padre Teodosio è il sommo sacerdote di Eliòs [il dio Sole] che proprio a Èmesa aveva il suo principale luogo di culto. Eliodòro di Èmesa è un intellettuale di tendenze neopitagoriche e neoplatoniche, e si pensa che si sia anche convertito al cristianesimo, assumendo persino, forse, il titolo di vescovo di Tricca in Tessaglia, ma è passato alla Storia della Letteratura per aver composto uno dei migliori romanzi cosiddetti alessandrini che ci siano pervenuti. Quest’opera - che s’intitola Etiopiche - narra gli amori di Cariclea, la figlia del re d’Etiopia, abbandonata dalla madre subito dopo la nascita perché teme di essere accusata di adulterio essendo la bambina troppo bianca anziché di pelle scura come gli Etiopi. Cariclea è innamorata del greco Teàgine, bellissimo e discendente di Achille, il quale si innamora anche lui a prima vista di Cariclea durante una festa a Delfi. Il romanzo, in dieci libri o capitoli, ha una trama lineare [che adesso non possiamo raccontare] nella quale l’autore inserisce lunghe analessi [digressioni in cui racconta altre storie “accadute in precedenza”] che hanno contribuito al successo del romanzo tanto nel Medioevo in area bizantina [dove, nel IX secolo, viene recensito positivamente dall’umanista e patriarca Fozio di Costantinopoli] quanto nel Rinascimento quando il romanzo Etiopiche di Eliodòro di Èmesa viene tradotto in molte lingue moderne e ha esercitato il suo influsso su Torquato Tasso, su Miguel de Cervantes, su molti autori francesi del ‘600 e continua a essere tradotto e pubblicato anche in italiano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è una pubblicazione [arcaica] di quest’opera intitolata Il romanzo d’Etiopia dell’editore Formiggini del 1922 mentre, nel 1993, la casa editrice Sansoni di Firenze ha pubblicato il testo delle Etiopiche in un volume [piuttosto corposo] intitolato Il romanzo antico greco e latino. Nella mia memoria di studente ricordo di aver consultato, per la prima volta [negli anni ‘70], quest’opera in una edizione della Utet a cura di Aristide Colonna [con testo greco a fronte] e credo sia stata ristampata nel 2006… Volendo, quindi, potete richiedere quest’opera in biblioteca in modo da sfogliarla e leggere qualche riga o qualche pagina di un libro che Torquato Tasso ha consultato con interesse per servirsene in funzione poetica [questi sono esercizi che allargano la vita, in prima istanza, di circa quattro secoli e mezzo e, in seconda istanza, di circa 1700 anni]…
Ma chi è Clorinda e come riesce Torquato Tasso a far conciliare in questa figura l’elemento erotico [l’oggetto d’amore di Tancredi, un gentiluomo che lei, in tempo di pace, avrebbe certamente amato] con quello religioso [il tema della salvezza eterna acquisibile con il rito del battesimo]?
Torquato Tasso racconta la mitica storia di Clorinda nel canto XII della Gerusalemme liberata quando la guerriera, in compagnia del prode cavaliere Argante, decide di compiere un’azione molto pericolosa che consiste nell’uscire dalle mura di Gerusalemme assediata e - con il favore delle tenebre e utilizzando una miscela incendiaria preparata dal mago Ismeno - nel dare fuoco alla torre di legno che i crociati hanno costruito per colpire all’interno la città. Clorinda, per l’occasione, depone la sua consueta armatura e ne indossa una rugginosa e nera [diventando irriconoscibile], mentre Arsete - il vecchio servitore che vive con lei come se le fosse padre - cerca di dissuaderla da questa impresa pericolosissima ma poi, non essendoci riuscito, decide di svelarle il segreto della sua nascita, e in questo racconto Tasso inserisce tutti gli elementi più significativi della rete [archis] dei racconti mitici [della mitos-archis ampiamente utilizzata nelle trame dei romanzi alessandrini]. Clorinda, di conseguenza, viene a sapere di essere la figlia di Senàpe, il re d’Etiopia, di religione cristiana come il suo popolo. Egli [che aveva la carnagione scura come gli Etiopi] era gelosissimo della moglie anch’essa di colore, e la teneva segregata in una stanza del suo palazzo. In questa stanza vi era un dipinto, che rappresentava San Giorgio che libera da un drago una fanciulla bianca e bionda. Ora succede che la regina, la quale pregava spesso dinanzi al dipinto, dà alla luce una bambina di pelle bianca, Clorinda, e temendo che il marito la ritenga infedele, prima di mostrargliela, la scambia con una bambina nera, figlia di una delle sue ancelle, nata da poco, e poi affida Clorinda ad Arsete [un fedele servitore] perché la conduca lontano anche se la bambina non ha ricevuto il battesimo e, anche per questo, in lacrime, invoca su di lei la protezione di San Giorgio. Arsete nasconde la bambina in un canestro di fiori e di fronde ed esce dalla reggia senza destare alcun sospetto ma giunto nella foresta si imbatte in una tigre e per lo spavento sale su un albero lasciando il cesto con la neonata sull’erba, ma la tigre la sente piangere e, fattasi improvvisamente mansueta, le si accosta e la allatta, e dopo si allontana. Arsete scende dall’albero e porta Clorinda in un piccolo borgo dove la fa allevare di nascosto e, quando la bambina comincia a muovere i primi passi, decide di partire e di tornare in Egitto, la sua terra natale. Una notte, nel corso del viaggio, gli è apparso in sogno un guerriero [San Giorgio] che, minacciandolo con la spada, gli impone di battezzare la bambina, ma Arsete, che è mussulmano, decide di allevarla secondo la propria fede, e Clorinda cresce bella, valorosa e mussulmana. Clorinda, dopo aver ascoltato il racconto di Arsete, che teme per la sua sorte e la scongiura di desistere dall’impresa che vuole compiere, rimane per qualche istante pensosa, dopodiché decide di rimanere fedele alla religione che finora ha seguito. Quindi, Clorinda ed Argante, ricevuta da Ismeno la miscela incendiaria, escono dalla città per attuare il loro piano ma le sentinelle cristiane li intercettano e danno l’allarme, ma Clorinda ed Argante si aprono un varco, giungono alla torre, vi appiccano il fuoco che, in breve tempo, la distrugge. Vengono assaliti da due squadre di crociati e, combattendo, si ritirano lentamente fino alla porta Aurea della città ma, mentre Argante riesce a entrare, Clorinda rimane fuori dalle mura dove, per la gran confusione, riesce a non farsi riconoscere da alcuno. Solo Tancredi si accorge di lei e, credendola un guerriero nemico [lei non ha la sua armatura], lo insegue per sfidarlo a duello. Clorinda, da prima, tenta di fuggire verso un’altra porta, poi, sentendo risuonare le armi di Tancredi si volta e lo aspetta. Lui scende da cavallo e tra i due inizia un terribile duello, un corpo a corpo, che dura tutta la notte condotto senza esclusione di colpi finché, al sorger dell’alba, stanchi e ansanti, dopo essersi feriti reciprocamente più volte, interrompono il duello per riprender fiato dopo tanta fatica. Tancredi, vede che l’avversario perde più sangue di lui, e si rallegra per questo ma non prevede quanto sarà terribilmente dolorosa la sua vittoria, e chiede all’avversario di farsi riconoscere, ma Clorinda rifiuta fieramente affermando soltanto di essere uno dei due guerrieri che hanno dato fuoco alla torre. Tancredi riprende allora con maggior accanimento il combattimento finché immerge la punta della spada nel seno di lei che cade a terra in un fiotto di sangue. Allora Clorinda, come ispirata da Dio, pronuncia parole di perdono verso l’avversario, e domanda il battesimo. Tancredi, commosso, corre a un ruscello vicino, riempie d’acqua l’elmo e ritorna prontamente a compiere il rito ma, scoperto il volto dell’avversario, si trova di fronte Clorinda e resta quasi privo di sensi ma, pure disperato, raccoglie tutte le sue forze e le impartisce il battesimo [e questo è uno di quei momenti in cui si rivela la cosiddetta “ironia tassiana”: vince la religione ma l’Amore muore]. Mentre egli pronuncia la formula rituale, Clorinda si trasfigura, sorride e sembra dire: «Il Cielo si schiude alla mia anima, io vado in pace». Poi rivolge un dolce cenno d’addio a Tancredi e la sua morte si presenta come se fosse un placido sonno, ma Tancredi non resiste al suo dolore e cade svenuto accanto all’amata e, forse, sarebbe morto, se non fosse passata di là una schiera di crociati che raccoglie la guerriera morta e il cavaliere tramortito, e li porta al campo.
Questa narrazione è l’elemento portante dell’involucro protettivo che Tasso costruisce poeticamente per far conciliare, mediante la figura di Clorinda, l’elemento erotico [Clorinda è il soggetto che valorizza l’amore terreno di Tancredi] con quello religioso [Clorinda è il soggetto che esalta il tema della salvezza eterna acquisibile con il rito del battesimo] e, a sovrintendere su tutto il racconto, a garanzia, c’è la figura di San Giorgio. Torquato Tasso è molto interessato alla vasta iconografia di San Giorgio [un santo che nel 1960 è stato dichiarato “minore” per la scarsità di notizie biografiche] e ha osservato, prima di tutto, la figura di San Giorgio sul rilievo nel timpano della cattedrale di Ferrara, ed è probabile che abbia visto lo stupendo dipinto di Vittore Carpaccio a Venezia nella Scuola o confraternita di San Giorgio degli Schiavoni. E anche Montaigne deve aver osservato la figura di San Giorgio nella stupenda vetrata della cattedrale di Chartres, e chissà se a Firenze ha avuto modo di vedere il San Giorgio di Donatello scolpito per l’Arte dei corazzai?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Nei cataloghi di Storia dell’Arte che trovate in biblioteca e navigando in rete andate ad osservare le opere che raffigurano il personaggio di San Giorgio accompagnato dai suoi attributi: il drago, la fanciulla, la lancia spezzata, la spada sguainata, lo scudo crociato, lo stendardo bianco con la croce rossa… Scegliete - tra le tante opere dipinte e scolpite - la raffigurazione di San Giorgio che vi piace di più e proponetela all’osservazione scrivendo quattro righe in proposito…
E adesso - in modo da fare un assaggio della poesia di Tasso - leggiamo un frammento: sette ottave [dalla 64 alla 70] del canto XII della Gerusalemme liberata. Tutte le studiose e gli studiosi affermano che se Tasso avesse scritto anche solo l’episodio del duello di Clorinda e di Tancredi avrebbe meritato l’immortalità soprattutto per il fatto di aver dato, con questo esemplare brano poetico, linfa vitale al genio creativo di molte artiste e artisti.
LEGERE MULTUM….
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata Canto XII
Siamo nel momento del combattimento in cui è giunta l’ora fatale che mette fine alla vita di Clorinda perché Tancredi [che non l’ha riconosciuta] spinge di punta la spada [il ferro] nel suo bel seno, e l’arma vi si conficca e ne beve avidamente il sangue…
64. Ma ecco ormai l’ora fatale è giunta
che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;
... e le imbeve [l’empie] di un caldo fiume [di sangue] la veste, che ricamata di bell’oro, le avvolge morbida e leggera [tenera e leve] le mammelle. Ella [Clorinda] si sente già morire, e il piede le vacilla, debole e sfinito [egro e languente]…
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ‘l pié le manca egro e languente.
Tancredi rincorre la vittoria e, minacciandola, incalza e costringe a cadere in ginocchio [preme], la fanciulla trafitta. Ella, mentre cade, muovendo la bocca sofferente per parlare [il verbo muovere è riferito alla voce e non alla bocca], proferisce le sue ultime parole…
65. Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
... parole che le vengono dettate da un nuovo spirito, uno spirito di fede, di carità, di speranza: una virtù che adesso Dio le infonde e, se ella in vita è stata un’infedele [rubella, ribelle], nella morte [Dio] la vuole sua ancella [sua devota]…
parole ch’a lei nuovo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtù ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
Clorinda parla e dice «Amico, hai vinto: io ti perdono… perdona anche tu: non il mio corpo, che non ha più nulla da temere [che nulla pave], ma l’anima. Suvvia [deh!]! prega per lei, e dammi il battesimo che mi purifichi [lave] da ogni mia colpa …
66. «Amico, hai vinto: io ti perdon … perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sì; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave».
In queste parole deboli [voci languide] risuona un qualcosa di delicato [flebile] e soave, che scende fino al cuore di Tancredi, e spegne [ammorza] ogni rancore, e invoglia e conduce [sforza] i suoi occhi a piangere…
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
Poco lontano da lì [quindi], sul fianco [sen] della collina, scorreva un piccolo ruscello [rio] mormorante. Tancredi vi corse e riempì l’elmo alla sorgente, e tornò serio al compito [ufficio] grande e pio [la celebrazione del battesimo] …
67. Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturìa mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Sentì che la sua mano tremava, quando liberò l’elmo [sciolse] e scoprì la fronte della persona ancora sconosciuta. La vide, la riconobbe, e restò paralizzato e senza parole. Ah che vista! Che [terribile] scoperta!…
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprìo.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
[Tancredi] non morì soltanto perché in quell’istante [punto] chiamò a raccolta [accolse] tutte le sue forze [virtuti], e le mise a protezione del cuore, e reprimendo [premendo] la sua angoscia si rivolse a dare la vita [spirituale] con l’acqua a colei che aveva uccisa con la spada…
68. Non morì già, che sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ‘l ferro uccise.
Mentre egli pronunciò [il suon… sciolse] la formula rituale del battesimo, Clorinda cambiò volto [trasmutossi] per la gioia, e sorrise; e nell’atteggiamento di una morte lieta e vivificatrice [vivace], sembrava che dicesse: «Il paradiso si sta schiudendo, io vado in pace»…
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace».
[Clorinda] ha il volto bianco cosparso [asperso] di un bel pallore, come sarebbero [sarian] le viole frammiste ai gigli [il rosa delle guance si mescola al pallore della morte], e rivolge fissamente [affisa] gli occhi al cielo, e il cielo e il sole sembrano rivolti [converso] verso di lei, per la pietà…
D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
... e, alzando la mano nuda [senza guanto] e fredda verso il cavaliere, al posto delle parole gli rivolge un segno di pace [gli porge la mano]. In questo modo [forma] trapassa [passa] la bella donna, e sembra che si sia addormentata…
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliere in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
Non appena egli vede che l’anima nobile [gentile] ha abbandonato il corpo, lascia affievolire [rallenta] quelle forze [vigor] che aveva raccolto; Tancredi abbandona [cede] il completo dominio [libero imperio] di sé al dolore [duol], divenuto [fatto] frattanto violentissimo e selvaggio [stolto], che gli si stringe al cuore e che, confinata la vita in un piccolo spazio [in breve sede], riempie il volto e i sensi di morte.
70. Come l’alma gentile uscita ei vede
rallenta quel vigor ch’avea raccolto;
e l’imperio di sé libero cede
al duol già fatto impetuoso e stolto,
ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede
la vita, empie di morte i sensi e ‘l volto.
Il vivo [Tancredi] giace ormai privo di sensi [langue] simile a una persona morta [all’estinto] quanto al colorito, al silenzio, all’atteggiamento, al sangue…
Già simile all’estinto il vivo langue,
al colore, al silenzio, a gli atti, il sangue. …
Il brano poetico del duello di Clorinda e Tancredi ha ispirato il genio creatore di molte artiste e artisti, per esempio [citiamone due] di Claudio Monteverdi e di Tintoretto. Il celebre musicista Claudio Monteverdi ha composto nel 1624 su testo di Torquato Tasso [dall’ottava 52 alla 62 e dall’ottava 64 alla 68 del canto XII della Gerusalemme liberata] un madrigale intitolato Il combattimento di Tancredi e Clorinda per soprano, due tenori, quattro viole da braccio e basso continuo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Ascoltate quest’opera, non è difficile poterlo fare [in questa composizione viene utilizzato per la prima volta il tremolo (la veloce ripetizione dello stesso suono) e il pizzicato (per ottenere effetti speciali nelle scene drammatiche)], e in questi due modi si esprime anche il sentimento di inquietudine che caratterizza l’epoca della crisi del tardo Rinascimento], e questo brano costituisce un esempio di quella che è la ricca colonna sonora del territorio che stiamo attraversando…
Per capire in quale direzione sta andando l’Arte della modernità è utile sapere che esiste un parallelo tra i modi propri della poesia di Tasso [che influenzano la tecnica pittorica] e lo stile espressivo di Tintoretto [Jacopo Robusti, Venezia 1518 o 1519 - 1594].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Su un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete potete osservare il dipinto [eseguito nel 1585] intitolato Tancredi battezza Clorinda di Tintoretto…
Montaigne considera Torquato Tasso [e non si può non essere d’accordo con lui] il più autorevole poeta del suo tempo e ritiene sia il più importante interprete della cosiddetta crisi del tardo Rinascimento quando il trionfalismo lascia il posto all’inquietudine: Tasso se ne fa interprete in poesia e Montaigne in prosa.
Come sappiamo, Montaigne, mentre nel corso del suo viaggio in Italia è a Bagni di Lucca [alle terme], apprende di essere stato eletto sindaco di Bordeaux e viene sollecitato a rientrare immediatamente, ma lui non torna subito.
Di Montaigne sindaco ce ne siamo già occupate e occupati all’inizio di questo Percorso [alla fine dell’ottobre scorso] e sappiamo che ha ricoperto questo incarico dal 1581 al 1585 dando prova di grande abilità diplomatica. Alla fine del suo mandato sfugge alla peste e poi si rituffa nel suo lavoro creativo finché non compie il suo ultimo viaggio a Parigi nel 1588 che mette a dura prova il suo sangue freddo perché viene a trovarsi veramente in difficoltà: che cosa gli succede?
Nel 1588 Michel de Montaigne si reca a Parigi [è il suo ultimo viaggio a Parigi], per curare non i suoi disturbi legati alla calcolosi ma una nuova edizione dei Saggi. Questo viaggio mette a dura prova il suo sangue freddo perché strada facendo viene assalito dagli uomini della Lega cattolica, «venti gentiluomini mascherati, accompagnati da arcieri a cavallo» [scrive Montaigne]. Il suo bagaglio viene sequestrato, i suoi cavalli requisiti, gli si chiede un riscatto, lo si minaccia di morte, ma poche ore dopo viene rimesso in libertà e gli vengono restituiti i suoi beni: i capibanda diranno di essere stati colpiti dalla sua assoluta tranquillità e dalla sua fermezza, ma gli è stato dato comunque un avvertimento. E nella Parigi turbolenta di questo periodo, nel maggio del 1588, le disavventure di Montaigne [sospetto ai leghisti di essere filo-protestante] continuano e, mentre subisce un attacco del suo male, Montaigne viene arrestato nella locanda dove alloggia in Faubourg Saint-Germain e viene tradotto alla Bastiglia dalla quale può uscire solo per l’intervento della regina madre Caterina de’Medici. Montaigne, che si sente vecchio e decrepito, è fortemente deluso e viene colpito da un’inquietudine più profonda del solito, meno male che a Parigi ha due punti di riferimento, due amici che lo sostengono: un giovane poeta guascone anche lui ammiratore di Tasso, Pierre de Brach e il filosofo Pierre Charron.
Charron è un grande estimatore di Montaigne ed è un esponente autorevole di quella che è stata chiamata “la corrente scettica [o ambigua]” della crisi del tardo Rinascimento. Pierre Charron [1541-1603, di otto anni più giovane di Montaigne] nasce a Parigi, studia diritto, acquisisce una laurea in giurisprudenza e diventa avvocato, ma qualche anno più tardi inizia a studiare Teologia e si fa prete. A Bordeaux, dove vive diversi anni, diventa amico, estimatore e attento lettore delle riflessioni saggistiche di Montaigne, e dai Saggi trae ispirazione per scrivere le sue opere. Spiccano, nella produzione di Charron, due opere: Apologia della chiesa cattolica e La saggezza che, per il contenuto, sono in aperta contraddizione tra loro. Ne La saggezza Charron riprende un tema che abbiamo già studiato in Montaigne e afferma che bisogna saper distinguere e separare noi stessi dalle cariche pubbliche, e scrive: «Ciascuno di noi fa due parti e due personaggi, l’uno estraneo e apparente, l’altro proprio ed essenziale. Bisogna saper distinguere [scrive Charron citando Montaigne] la pelle dalla camicia sebbene [come pensa e scrive Montaigne] sia necessario avere comunque la pelle ben curata e la camicia ben stirata: la persona abile farà bene la sua funzione, ma non tralascerà di giudicare con scrupolo la stupidaggine, il vizio, l’astuzia che in quella funzione si annidano. Bisogna servirsi e valersi del mondo così come si trova, ma considerarlo tuttavia come cosa estranea a sé e saper godere di sé a parte, scegliendosi sempre un buon confidente». Anche Charron ritiene che si debbano accettare le apparenze, unite però alla difesa dell’autonomia del proprio spirito, che in queste apparenze deve sapersi muovere senza perdere se stesso e, con le stesse parole di Montaigne, afferma, sempre nel testo de La saggezza, che: «Tutti nella vita recitano una parte e questo vale soprattutto per il saggio, che interiormente sarà sempre un altro da quello che può mostrarsi all’esterno», e in questa affermazione si trova il motivo del contrasto tra la sua opera filosofica e lo scritto dogmatico intitolato Apologia della chiesa cattolica in cui Charron proclama le tre verità del cristianesimo, decretate dal concilio di Trento: «Vi è un unico Dio, la religione cristiana è la sola vera, la chiesa cattolica è la sola autentica chiesa». Si potrebbe pensare che, essendosi fatto prete, voglia ribadire i punti dogmatici della dottrina controriformista, ma sta di fatto che nel testo de La saggezza si legge, a chiare lettere, che il valore della persona non dipende dalla sua appartenenza a una determinata forma di fede e che, anzi, quando la fede esercita un influsso totale sulla morale individuale, finisce per spingere l’individuo verso forme violente di fanatismo [diventa malevola], e scrive Charron: «Non si può aver fiducia in chi ha una morale basata soltanto su scrupoli religiosi: religione senza morale è, se non peggiore, certamente più pericolosa della mancanza completa di ambedue». Quindi, che tipo di prete è Pierre Charron? È un prete [che viene definito con lo stesso attributo attribuito a Montaigne] “scettico” [ma c’è chi usa anche il termine “ambiguo”] e che cosa significa attribuire a Charron l’attributo di “prete scettico”? Si presume che Charron, facendo finta di aderire ai dettami della dottrina in cui non crede, si sia fatto prete con l’intenzione di fare opposizione dall’interno dell’apparato ecclesiastico ma, tuttavia, non è possibile fare una verifica perché non c’è una documentazione che confermi questo suo proposito. Sappiamo invece che Pierre Charron è considerato l’iniziatore di un fenomeno che, di lì a poco tempo, diventa un significativo movimento di opinione: il fenomeno del “libertinage” [se traduciamo questa parola con il termine “libertinaggio” - che è avvolto da un alone di negatività - rischiamo di non comprendere] ma di questo tema ce ne occuperemo strada facendo quando in un contesto adeguato potremo conoscere e capire la questione. L’ideale per Charron è coltivare una sapienza pratica che, in campo politico e religioso, si deve avvalere della virtù della prudenza [non tanto in chiave cristiana e religiosa ma secondo la tradizione laica dei Classici greci e latini] fondata - come ne parla Montaigne nei Saggi - sulla coscienza umana.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La prudenza [secondo Montaigne e Charron] è una virtù collegata all’attenzione, alla misura, alla verifica e alla riflessione... Quale di queste parole - attenzione, misura, verifica, riflessione - mettereste per prima accanto al termine “prudenza”?...
Scrivetela...
La parola-chiave “prudenza” c’indirizza verso il testo del racconto che *da qualche settimana stiamo leggendo e che s’intitola la Novella dell’avventuriero [pubblicato postumo nel 1937] e composto dallo scrittore e medico viennese Arthur Schnitzler il quale ha sviluppato un appunto di Montaigne sul tema della morte [meglio - scrive Montaigne - non incontrare qualcuno che ci sappia predire il giorno e l’ora della nostra morte perché questa notizia ci rende “persone mortali”].
Il protagonista del racconto, come sapete, è Anselmo Rigardi, un ragazzo nobile che come ricorderete si ritrova solo e libero da ogni vincolo perché i suoi genitori muoiono durante l’epidemia di peste che colpisce Bergamo nell’anno 1520 decimando la città. Anselmo, dopo lo sconforto iniziale, comincia a provare un senso di libertà che non aveva mai conosciuto prima perché, ora, ha la possibilità di avviarsi nel mondo verso l’avventura e, nella prima situazione avventurosa in cui viene a trovarsi, incontra, nei pressi di una malandata locanda, due loschi individui [un presunto cavaliere e il suo guardaspalle] e due ragazze: Anselmo, anche se non vorrebbe, vince ai dadi una di queste due fanciulle, Anita, con la quale si allontana venendo a sapere da lei che è la moglie del cavaliere che se l’è giocata. Anselmo passa con Anita - in casa di un misterioso e buffo personaggio che li ospita - la sua prima notte d’amore con una donna e, sebbene soddisfatto da questa esperienza inaspettata, all’alba della mattina seguente, mentre Anita dorme ancora, lui pensa di allontanarsi furtivamente per continuare il suo viaggio ma si trova di fronte il cavaliere che è, in realtà, il conte Francesco Raspighi il quale sfida Anselmo a duello, e Anselmo, che è un abile spadaccino, lo uccide. Anita, svegliatasi e resasi conto della drammatica situazione, intima ad Anselmo, che vorrebbe giustificarsi, di andare via, e lui riprende il cammino senza poter rinunciare a pensare che si era proposto di partire all’avventura comportandosi sempre con prudenza.
E ora proseguiamo nella lettura del racconto andando avanti di una pagina perché ci basta sapere, prima che Anselmo faccia un nuovo incontro, che, molto “saggiamente”, Schnitzler associa alla parola “prudenza” gli stessi termini utilizzati da Montaigne e Charron. E ora leggiamo il testo di questa pagina.
LEGERE MULTUM….
Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero
Anselmo camminò per giorni e, lungo il cammino, pensava che, sebbene, dal momento della sua partenza, si fosse proposto di agire sempre con prudenza, ciò che gli era capitato aveva contraddetto la realizzazione di questo intento e, anche se riteneva di non avere delle responsabilità, tuttavia, si propose di usare maggior attenzione e misura e controllo e riflessione. Anselmo camminò sullo stradone che portava a sud, in mezzo a prati, campi coltivati, albereti. Credeva di capire da certi segni che qui l’epidemia era scomparsa da un pezzo oppure aveva risparmiato la zona. Il mondo gli appariva più luminoso, promettente, allegro. Pranzava in osterie ben tenute, e dormiva in letti puliti. I nomi delle località gli suonavano per lo più nuovi. Anche le persone con le quali talvolta discorreva gli sembravano diverse non solo nella parlata ma anche nell’atteggiamento, più disinvolto, meno curioso e insieme più riservato di quello della gente conosciuta fino allora. Egli, quindi, andava sicuro per la sua strada nonostante il termine prudenza gli ronzasse sempre nella mente. Il paesaggio si stendeva ampio e gradevole, e intorno a lui spirava quasi sempre un gradevole venticello. Accompagnava il suo cammino una linea montuosa ma il vento in arrivo portava con sé un odore acre e Anselmo intuì che la sua strada correva lungo il mare. Camminava leggero, non si stancava neppure dopo ore e si sentiva trasformato da ragazzo in giovanotto. Svanita ogni paura, afflizione o nostalgia, provava la felicità di sapersi libero e di essere, come per miracolo, all’inizio di un’avventura. … Lungo il cammino gli si erano offerte varie opportunità di contatto, ma lui se n’era prudentemente difeso: da due fanciulle si congedò con un sorriso quando vollero invitarlo in una vicina masseria; a una giovane signora elegante che fece fermare la carrozza offrendogli un passaggio rispose con un garbato diniego; a due giovanotti che, dopo una vivace conversazione, l’avevano invitato al castello dei loro genitori, i baroni de Vincenti, oppose analogo rifiuto così come ai soldati di un piccolo drappello, arruolati al reggimento del conte Tovaldi, che avevano cercato di convincerlo a unirsi a loro; non si fece coinvolgere nel gioco dei dadi da due giovani con i quali si era trovato a chiacchierare, così come non accattò l’invito di una vecchia per una cena con le sue figlie di dodici e quattordici anni e, meraviglia delle meraviglie, non raccolse le frecciate di due tipi insolenti che, naturalmente, batterono subito in ritirata quando Anselmo mise la mano sull’elsa della spada. Ed era soddisfatto di aver sempre usato prudenza.
Verso la sera del settimo giorno, dopo aver camminato per ore, Anselmo, che si era allontanato dalla strada maestra, capitò in uno spiazzo erboso traboccante di fiori di campo rossi, bianchi e azzurri. Neppure il sentiero che l’aveva condotto fin lì pareva proseguire, era come se il tappeto di fiori l’avesse per così dire inghiottito. Ai margini del prato si ergeva una parete d’alberi pressoché impenetrabile. Alla sua destra scorse un muro talmente coperto di vegetazione che riusciva a distinguerne solo alcuni merli dietro i quali si figurava la presenza di un castello con un parco. Cominciò a pensare di trovarsi di fronte a qualcosa di particolare e non sapeva neppure lui come spiegare questa sua sensazione. Quand’ecco spuntare alla sua sinistra, là dove il bosco era più basso, una figura umana; era un vecchio dalla barba bianca e con addosso un saio marrone, il quale sulle prime non s’accorse di lui, fece pochi passi lungo i cespugli, poi si fermò, si chinò leggermente e - come Anselmo notò - tenne una brocca di terracotta sotto la cannella di una fontana, bevve dalla brocca, quindi si sedette lì sul bordo, estrasse da un sacco un tozzo di pane e mangiò. Adesso che Anselmo era sempre più vicino, il vecchio gli fece un cenno di saluto, tanto confidenziale da far pensare che l’aspettasse, e quando il giovane gli augurò la buonasera, gli offrì un sorso. «Certo è solo acqua,» disse il vecchio con voce esile, «è solo acqua ma è deliziosa come nessun’altra qui». [Tra quindici giorni sapremo chi è questo personaggio]…
Molte opere [nei secoli] sono state scritte sulla tragica figura di Tasso con il genere del dramma mentre Achille Campanile [nel 1973], nel libro Manuale di conversazione, inserisce un racconto intitolato La quercia del tasso scritto con lo stile suo proprio del gioco di parole: leggiamo questo brano in onore di Torquato Tasso. Si tratta di un gioco di parole ma non c’è niente di più serio di un gioco di parole per quanto riguarda la didattica della lettura.
LEGERE MULTUM….
Achille Campanile, Manuale di conversazione La quercia del tasso
Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada, si chiama la quercia del Tasso perché, come avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto quand’essa era frondosa. Anche a quei tempi la chiamavano così. Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide. Meno noto è che poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi. Un caso. Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la t maiuscola e della quercia del tasso con la t minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso. Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano il tasso del Tasso e l’albero era detto la quercia del tasso del Tasso da alcuni, e la quercia del Tasso del tasso da altri. Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, e poeta anch’egli) il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “È il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?” … Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta la guercia del Tasso della quercia, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due). Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta la quercia della guercia del Tasso; mentre quella del Tasso era detta la quercia del Tasso della guercia: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso. … Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi. Viveva. E lo chiamavano il tasso della quercia della guercia del Tasso, mentre l’albero era detto la quercia del tasso della guercia del Tasso e lei la guercia del Tasso della quercia del tasso. Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto il tasso del Tasso. Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente e, durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come il tasso del tasso del Tasso. Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora il tasso barbasso del Tasso; e Bernardo fu chiamato il Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal Tasso del tasso. Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora l’animaletto fu indicato da alcuni come il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; e da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.
Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso. …
Questo testo piace non solo a Torquato Tasso ma anche a Montaigne e a Charron perché “il gioco di parole” fa esercitare le lettrici e i lettori in quanto sono indotti ad alzare il livello di attenzione per la comprensione dei significati.
Concludiamo dicendo che a Parigi Montaigne, nonostante tutte le disavventure che gli capitano [come abbiamo detto], ha però modo di tirarsi su di morale perché incontra una giovane donna che lui adotta come figlia, è un incontro romantico e insolito: chi è questa fanciulla destinata a diventare l’erede spirituale della sua opera?
Per rispondere a questa [che si fa presto] e a molte altre domande [che effetto fanno quando sbarcano in Inghilterra i Saggi di Montaigne?] dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé.
Il nostro cammino riprende tra quindici giorni: ci fermiamo anche per festeggiare i 771 anni dalla stesura del Manifesto pedagogico della facoltà delle Arti di Parigi in data 28 febbraio 1247 che ha dato impulso allo sviluppo della didattica moderna in modo che l’intelletto di ogni persona trovi sempre nuova linfa e non perda mai la volontà di imparare. Per cui la Scuola è qui e il viaggio continua…