ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 6-7-8 marzo 2019
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600
MATURA L’IDEA CHE: “SE L’ESPRESSIONE GUADAGNA IN BELLEZZA,
L’IDEA GUADAGNA IN PROFONDITÀ” ...
Ben tornate e ben tornati a Scuola. Questo è il quattordicesimo itinerario del nostro viaggio [e abbiamo percorso due terzi del nostro cammino] sul territorio de “la sapienza poetica e filosofica agli albori dell’Età moderna: siamo alla fine del ‘500 e stiamo per incamminarci sulle vie del 1600.
Ci troviamo sempre in compagnia di Michel de Montaigne, l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano. Un’opera attraverso la quale abbiamo compreso che Montaigne, riflettendo sull’interrogativo “come vivere?”, invita le lettrici e i lettori a interrogarsi sul senso, non facile da decifrare, che ha l’esistenza umana: un’avventura che riserva spesso qualcosa di inaspettato, e anche di positivo, magari proprio quando lo sconforto attanaglia maggiormente la persona.
Nel 1588 Michel de Montaigne compie il suo ultimo viaggio a Parigi per curare una nuova edizione dei Saggi. Come sappiamo, questo viaggio lo mette a dura prova perché, strada facendo, viene assalito dagli uomini della Lega cattolica che lo minacciano di morte, e poi, nella Parigi turbolenta di questo periodo [nel maggio del 1588], le disavventure di Montaigne, considerato dai leghisti un filo-protestante, continuano: viene addirittura arrestato nella locanda dove alloggia in Faubourg Saint-Germain e rinchiuso alla Bastiglia dalla quale può uscire solo per l’intervento della regina madre Caterina de’Medici. Montaigne, che si sente vecchio, decrepito e ammalato perché oppresso dalle coliche renali, è preso dallo sconforto e, per sua fortuna, a Parigi può contare su due amici che lo sostengono: il giovane scrittore Pierre de Brach [grande ammiratore, come Montaigne, di Torquato Tasso, il grande poeta che abbiamo doverosamente onorato anche noi in queste ultime settimane], e poi Montaigne può contare sull’amichevole presenza del filosofo Pierre Charron [del quale abbiamo potuto conoscere l’opera e il pensiero quindici giorni fa]. E poi, come abbiamo anticipato due settimane fa, Montaigne a Parigi, per sua fortuna, fa un incontro che lo rianima ed è significativo il fatto che il primo e più importante personaggio che incontriamo nell’itinerario di questa sera sia una ragazza proprio nella settimana dell’8 marzo in cui celebriamo la Giornata internazionale della donna lavoratrice! [E questa è la giusta dicitura da usare secondo il pensiero delle donne che l’hanno istituita all’inizio del secolo scorso].
Michel de Montaigne a Parigi, nella tarda estate del 1588, nonostante tutte le disavventure che gli sono capitate, ha modo di tirarsi su di morale perché incontra una giovane donna: ed è un incontro romantico e insolito che lo rianima. Chi è questa ragazza destinata a diventare l’erede spirituale della sua opera? La ragazza ventitreenne che Montaigne incontra a Parigi nel 1588 abita in un piccolo paese della Piccardia, si chiama Marie Le Jars de Gournay ed è, da alcuni anni, un’appassionata lettrice dei Saggi, da quando li ha scoperti per caso.
Marie de Gournay è una ragazza emotiva e passionale, e quando incontra Montaigne per la prima volta lo travolge con il suo entusiasmo e diventa la donna più importante della sua vita: più della moglie Françoise, della madre Antoinette e della figlia Léonor, e le tre donne [la straordinaria triade] di casa Montaigne non hanno mai considerato Marie de Gournay una rivale, anzi, l’hanno benevolmente accolta. Marie de Gournay è nata a Parigi il 6 ottobre 1565 [quindi quando nel 1588 incontra Montaigne ha ventitré anni, lui ne ha cinquantacinque] e la sua condizione sociale è, in un certo senso, simile a quella di Montaigne, con due differenze, però a suo sfavore: la prima è che lei è una donna e la seconda è che non ha il patrimonio di Montaigne. I suoi genitori appartengono alla piccola nobiltà di provincia e vivono in parte a Parigi e in parte nel castello della loro tenuta di Gournay-sur-Aronde che Guglielmo Le Jars, il padre, ha acquistato nel 1568 e, da grande, Marie usa il nome di questa tenuta anche se è un diritto riservato ai figli maschi, ma lei trasgredisce a questa regola feudale perché vuole ottenere dalla vita più di quanto le sia permesso dal suo sesso e dalla sua posizione sociale [e il suo atteggiamento è in linea con la filosofia di vita contenuta nei Saggi di Montaigne].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Gournay-sur-Aronde è un piccolo comune di circa 600 abitanti nel dipartimento dell’Oise, nella regione dell’Alta Francia che – con una guida e navigando in rete - potete visitare...
Buon viaggio...
Nel 1577 il padre, che amministrava in modo oculato il suo patrimonio, muore, e Marie [che è la maggiore di sei figli] subisce un trauma: la famiglia ne risente dal punto di vista economico, risiedere a Parigi è molto più caro che vivere in Piccardia e, di conseguenza, l’adolescente Marie si ritrova confinata in un mondo di provincia che le sta stretto, però è volitiva e fa di tutto per istruirsi cominciando con l’utilizzare i Libri della biblioteca di famiglia [per sua fortuna il padre ha raccolto - come il padre di Montaigne - un buon numero di Volumi]. E Marie, leggendo i testi latini e greci con la traduzione a fronte in francese, acquisisce una conoscenza dei Classici come se avesse frequentato una delle migliori Scuole dell’epoca: certo, il suo sapere è piuttosto frammentato e disorganizzato ma, tuttavia, è ricco per essere una ragazza della sua epoca. Montaigne, quando fa la sua conoscenza, apprezza questo tipo di educazione un po’ “anarchica” che la fanciulla si è data, anche se, probabilmente, vi trova molte lacune, ma approva il fatto che lei sia orgogliosa della sua istruzione [della sua cultura da autodidatta] perché ha dovuto lottare per ottenerla: è una fanciulla caparbia, e la sua caparbietà la dimostra soprattutto quando agisce per incontrare Montaigne.
La lettura dei Saggi ha avuto su Marie de Gournay [all’età di diciotto anni] un impatto decisivo perché ha avuto l’impressione di aver trovato nello scrittore il suo alter ego, la sua anima gemella, l’unica persona in grado di capirla veramente [come succederà a molte lettrici e lettori negli anni a venire]. Di conseguenza il più grande desiderio che Marie coltiva è quello di incontrare l’autore dei Saggi ma le era giunta voce [e questo la rattristava molto] che Montaigne era morto e, quindi, figuriamoci il suo entusiasmo quando, nel 1588, mentre si trova a Parigi con sua madre, viene a sapere che Montaigne è vivo ed è sulla bocca di tutti perché è una celebrità tanto come scrittore quanto come uomo politico [si è mossa la regina madre per farlo liberare dalla Bastiglia dove era stato ingiustamente rinchiuso]. Marie de Gournay, che sa dove alloggia Montaigne in Faubourg Saint-Germain, decide subito di scrivergli un messaggio nel quale esprime tutta la sua profonda ammirazione per lui e lo invita ad andarla a trovare, e lui, probabilmente lusingato e incuriosito da tanta audacia, accetta l’invito e si presenta a casa Gournay il giorno successivo. Non sappiamo nulla di preciso su come si sia svolto questo incontro anche se si racconta molto in proposito: certamente è stato un incontro cordiale, molto affettuoso, perché tra i due è nato subito un legame strettissimo e intenso che come lui stesso ha scritto ha scaldato il cuore di Montaigne nei suoi ultimi quattro anni di vita. Marie de Gournay è una ragazza intelligente e piena di vitalità, la quale, da questo momento, dedica tutta la sua esistenza allo scrittore di cui cura l’opera postuma incrementandone la diffusione in tutta Europa.
Dopo questo primo incontro Montaigne soggiorna, nell’autunno del 1588, per qualche settimana nel castello di Gournay-sur-Aronde, poi riparte per tornare a casa e i due non hanno più avuto occasione di incontrarsi ma hanno intrattenuto una regolare corrispondenza. Quando sua madre muore, nel 1591, Marie de Gournay lascia il castello a suo fratello Charles [che poi lo dovrà vendere nel 1608] e si trasferisce a Parigi e, dopo la morte di Montaigne nel 1592, quindici mesi dopo nel dicembre del 1593, riceve da Françoise, la vedova di Montaigne, una copia dei Saggi del 1588 piena di annotazioni che Montaigne, a penna, ha fatto in margine su quasi tutte le pagine del volume, pregandola di curarne la pubblicazione [e la informa che il marito l’ha lasciata erede della sua biblioteca e di quella che era stata di Étienne de La Boétie].
Marie de Gournay si mette subito al lavoro e prepara la prima edizione postuma dei Saggi pubblicata nel 1595 con una lunga Prefazione nella quale difende e mette in evidenza le idee di Montaigne, con la traduzione delle citazioni latine specificando i riferimenti [per allargare il bacino delle lettrici e dei lettori], e mettendo a punto il testo corredandolo di molte note a margine. Durante questo periodo Marie de Gournay, per quindici mesi fino a marzo del 1595, soggiorna nel castello di Montaigne ospite di Françoise e di Léonor [e le due si chiamano vicendevolmente “sorella”].
Marie de Gournay per tutta la vita ha svolto un inteso lavoro letterario, è considerata una proto-femminista e ha frequentato a Parigi l’ambiente degli intellettuali Libertini [Théophil de Viau, Gabriel Naudé, François de La Mothe Le Vayer] e per questi motivi è stata calunniata senza sosta, ma lei non ha mai dato peso alle critiche anche feroci e ha percorso la sua strada in un’epoca in cui era molto difficile per una donna far valere il proprio “diritto di pensare”.
Tra le opere composte da Marie de Gournay - oltre al grande lavoro di divulgazione dei Saggi di Montaigne - vanno ricordate le sue traduzioni dei Classici [Sallustio, Ovidio, Virgilio, Tacito], le sue opere in versi dedicate ai suoi gatti, a Léonor, a Giovanna d’Arco, e poi, soprattutto, i due “scritti femministi” in cui rivendica l’uguaglianza [gli stessi diritti e doveri] tra i sessi, intitolati Égalité des Hommes et des Femmes [L’uguaglianza degli Uomini e delle Donne, del 1622] e Grief des Dames [Lamento delle Signore, del 1626]. Di queste opere non mi risulta ci sia una traduzione italiana.
Marie de Gournay muore a Parigi il 13 luglio 1645 all’età di ottant’anni ed è stata sepolta nella chiesa di Saint-Eustache [di Sant’Eustachio].
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Con una guida di Parigi e navigando in rete fate una visita alla chiesa di Saint-Eustache [di Sant’Eustachio, e bisognerebbe domandarsi: perché la sepoltura di Marie de Gournay non viene evidenziata come quella delle numerose persone importanti che sono sepolte lì?]…
Marie de Gournay [abbiamo detto] è stata sempre diffamata, e la calunnia più grave mossa contro di lei da parte di molte e di molti critici riguarda ciò che si legge nel capitolo XVII del Libro II dei Saggi intitolato Della presunzione. Di che cosa stiamo parlando? Riflettiamo su questa questione procedendo con ordine con l’intento doveroso di rendere giustizia a questa persona.
Nel capitolo XVII del Libro II dei Saggi intitolato Della presunzione, Michel de Montaigne descrive se stesso e poi espone le qualità del carattere di alcuni illustri personaggi suoi contemporanei, e infine il suo racconto si chiude con un elogio entusiastico di Marie de Gournay, la sua figlia spirituale d’elezione. Ma questo elogio compare solo nel testo dell’edizione postuma dei Saggi, quella curata nel 1595 da Marie de Gournay, e siccome questo omaggio non figura nelle precedenti edizioni [quelle del 1580 e del 1588], i critici e i suoi molti avversari hanno messo in dubbio l’autenticità di questa pagina lusinghiera [hanno insinuato che se la sia scritta lei] in cui si legge: «Più di una volta mi è piaciuto rendere manifeste le speranze che ripongo in Marie de Gournay Le Jars, mia figlia d’elezione, che amo d’un affetto ben più che paterno, e che accolgo nel mio solitario ritiro come una delle parti migliori del mio stesso essere. A questo mondo non ho occhi che per lei. Se è vero che dalla giovinezza si possono trarre presagi, allora quest’anima un giorno sarà capace delle più grandi cose, non ultima la perfezione di quella santissima amicizia cui, a giudicare da quel che si legge nei Libri, nessun’altra del suo sesso si è finora mai innalzata».
I Saggi sono stati letti per circa trecento anni proprio nell’edizione curata da Marie de Gournay, e i personaggi che incontreremo strada facendo, come Pascal o come Rousseau, hanno utilizzato questa pubblicazione. All’inizio del ‘900 le studiose e gli studiosi hanno preferito leggere il testo del cosiddetto Esemplare di Bordeaux nella convinzione che questo volume, ricco di note in margine [circa un migliaio], fosse più affidabile sotto il profilo filologico. Oggi le studiose e gli studiosi contemporanei hanno riabilitato l’edizione postuma curata da Marie de Gournay perché ritengono che il testo su cui lei si è basata [quello che le ha inviato Françoise, anch’esso pieno di annotazioni: più di un migliaio] sia migliore rispetto all’Esemplare di Bordeaux. Pertanto le studiose e gli studiosi contemporanei ritengono autentico il bel ritratto che Montaigne ci ha lasciato della sua “figlia d’elezione” quando scrive, sempre nel capitolo XVII del Libro II dei Saggi intitolato Della presunzione: «La genuinità e la solidità dei suoi costumi sono di per sé sufficienti a dimostrarlo, così come il suo affetto più che sovrabbondante nei miei confronti, e tale insomma che non ci si deve augurare altro per lei se non che il timore che ella nutre circa la mia fine la tormenti con minore asprezza, avendomi incontrato quando avevo già cinquantacinque anni. Il giudizio che lei, donna, nata in questo secolo, così giovane, sola nella sua regione, espresse sui miei primi Saggi, e lo straordinario ardore con cui mi amò e desiderò a lungo solo in virtù della stima che aveva cominciato a nutrire nei miei confronti ancor prima di avermi incontrato sono casi degni della massima considerazione». Molte persone dedite alla Letteratura di costume si sono sempre chieste, con una curiosità un po’ morbosa che ha favorito la produzione di molte pagine scritte spesso in tono malevolo, se tra quest’uomo maturo e questa ragazza più giovane di lui di oltre trent’anni ci sia stata una storia d’amore: noi non ci occupiamo di questo filone relativo ad una questione privata mentre c’interessa il fatto che Montaigne, dopo la morte di La Boétie nel 1563, non ha più avuto amici nel senso dell’ideale antico del termine [e ne abbiamo parlato a suo tempo nel novembre scorso] e ritiene che Marie de Gournay - nonostante sia una donna e sia giovane [due attributi dei quali Montaigne vuole capovolgere la valenza negativa] - meriti di essere considerata portatrice sana di quell’amicizia che è “il solo legame veramente libero che possa nascere fra due persone” e, quindi, anche l’amicizia tra il vecchio Michel e la giovane Marie viene descritta da Montaigne come il più sublime dei sentimenti, come “un sentimento ideale che unisce due grandi anime al punto che non si possono più distinguere l’una dall’altra e che si compenetrano in modo così completo da non trovare più traccia della cucitura che le ha unite”. Anche nei confronti del suo rapporto con Marie de Gournay - così come quando parla della sua amicizia con La Boétie - Montaigne allude a un sentimento misterioso, a qualcosa di non spiegabile con le parole, e si capisce che sta pensando alla formula con la quale ha definito il suo legame di amicizia con Étienne de La Boétie, e anche per Marie de Gournay avrebbe potuto scrivere: «Questo è successo perché lei era lei, e perché io ero io». Il legame tra Montaigne e Marie de Gournay dimostra, ancora una volta, che lui non nutre pregiudizi nei confronti delle donne come fanno quasi tutti i maschi suoi contemporanei [i quali pensano alle donne come fossero oggetti di uso comune], e vuole chiaramente affermare per iscritto che proprio per una ragazza ha provato un sentimento d’amicizia “degno dell’antichità”, così come viene descritto nelle Opere dei Classici greci e latini.
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Montaigne c’informa di aver consultato a questo proposito tre testi classici [che troviamo in biblioteca]: il dialogo Liside o Dell’amicizia di Platone, il dialogo Lelio o Dell’amicizia di Cicerone e il dialogo Tossario o Dell’amicizia di Luciano di Samosata...
Ho proposto a Montaigne di leggere L’amico ritrovato [pubblicato nel 1971] di Fred Uhlman e lui lo ha giudicato un racconto [con il quale è entrato in sintonia] di straordinaria finezza e suggestione: leggete o rileggete anche voi questo romanzo breve che “assilla la memoria”, seguite l’esempio di Montaigne che Uhlman, a sua volta, ha seguito nel comporre la sua opera...
Nell’edizione postuma curata da Marie de Gournay compare anche quella annotazione che ha ispirato Arthur Schnitzler nel comporre il romanzo che stiamo leggendo, intitolato Novella dell’avventuriero pubblicato a Vienna nel 1937.
In margine, all’altezza del capitolo XX del Libro I dei Saggi intitolato Filosofare è imparare a morire, Montaigne scrive: «Spesso la mia mente genera un incubo, immagino di incontrare qualcuno capace, con uno sguardo, di predire il giorno esatto e l’ora precisa della mia morte: un individuo dotato di un simile potere sarebbe comunque un personaggio da mettere in scena.». Questo personaggio, però, non lo abbiamo ancora incontrato. Finora, come ben sapete, abbiamo seguito le avventure del giovane Anselmo Rigardi: un ragazzo nobile che come ricorderete si ritrova solo e libero da ogni vincolo perché i suoi genitori muoiono durante l’epidemia di peste che colpisce Bergamo nell’anno 1520 decimando la città. Anselmo, dopo lo sconforto iniziale, comincia a provare un senso di libertà mai conosciuto prima perché, ora, ha la possibilità di avviarsi nel mondo verso l’avventura e, nel giro di pochi giorni, vive una serie di esperienze piene di imprevisti: vince, giocando ai dadi con un losco individuo, una ragazza che costui considera di sua proprietà, Anita, con la quale Anselmo passa la prima notte d’amore della sua vita con una donna in casa di un misterioso e buffo personaggio che li ospita, e il mattino dopo uccide in duello, da abile spadaccino qual è, il marito di lei che è il conte Francesco Raspighi che, il giorno prima, si era comportato come un losco individuo giocandosi la moglie. Dopo questo tragico episodio, Anselmo riprende il suo viaggio, cammina per giorni sullo stradone che porta verso sud, dove il paesaggio che lo circonda è bello, e pranza in osterie ben tenute, e dorme in letti puliti, e in lui svanisce ogni afflizione e ogni nostalgia ma, anche se lungo il cammino gli vengono offerte varie opportunità di contatto con diverse persone, lui ne sta prudentemente alla larga. Verso la sera del settimo giorno Anselmo capita in uno spiazzo erboso traboccante di fiori di campo e, dopo un po’, vede spuntare, dove il bosco è più basso, un vecchio dalla barba bianca e con addosso un saio marrone il quale, sulle prime, non s’accorge di lui ma riempie una brocca a una fontana e beve, e quando Anselmo gli augura la buonasera, lui gli offre da bere dicendo: «Certo è solo acqua, ma è particolarmente deliziosa».
E ora continuiamo a leggere: in queste pagine compare il personaggio dotato di un dono inquietante evocato da Montaigne.
LEGERE MULTUM….
Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero
Anselmo bevve e nel bere s’accorse di quanto fosse assetato. E anche stanco, al punto che si stese nell’erba accanto alla fontana. «State andando nella capitale per arruolarvi?» domandò il vecchio. Solo adesso Anselmo si rese conto d’aver visto e udito negli ultimi giorni diverse cose che facevano pensare all’eventualità di una guerra. Ma, come sempre di fronte a un accidente che avrebbe imposto al suo cammino una meta certa, queste cose aveva fatto finta di non sentirle, come se non dovessero riguardarlo. Oggi però si sentiva toccato dalla domanda del vecchio, proprio come uno che al risveglio oda una voce già percepita nel sopore. E, di conseguenza, ascoltò il vecchio raccontare che il sovrano era in punto di morte, che il principe ereditario, in seguito a dissapori col padre, era partito per un viaggio in terra straniera e risultava scomparso, che un nobile di nome Oìvlis, della dinastia detronizzata decenni prima, stava diventando sempre più potente e pericoloso, che lo Stato confinante si preparava a un attacco senza formale dichiarazione di guerra. Solo negli ultimi giorni, seguitò il vecchio, anche nel Paese ci si arruolava e armava in tutta fretta, ma non in modo unitario, e c’era dunque il pericolo che le truppe, invece di marciare insieme contro il nemico esterno, divise com’erano in due fazioni, si dilaniassero in una lotta fratricida trasformando il Paese in facile preda per il nemico stesso. «Perciò la prima cosa che dovreste fare, giovanotto,» concluse il vecchio «è decidere da quale parte volete combattere». Anselmo non era in grado di dare una risposta. Non sapeva da che parte stesse la ragione, e gli pareva assurdo doversi mettere con una delle due fazioni per prender parte alla guerra. Così rispose: «Per la verità, dopo essermi ritrovato di colpo orfano ed essere uscito dalla porta della mia città, e dopo sette giorni di cammino, mi sembra di essere uno straniero, e che il Paese non sia più il mio e i suoi conflitti non mi riguardino affatto». … «Posso capirlo» replicò il vecchio. «Il nostro Paese ha cento province, spesso divise da guerre fratricide, ma adesso le cose stanno al punto che voi, essendo un uomo giovane, se non volete avere fastidi, dovrete decidervi per forza». … «Come posso farlo, egregio signore? Non so da che parte stia la ragione, se sia migliore il sovrano oppure quel pretendente. Ditemi qualcosa dei due e soprattutto chi vorreste che vincesse». … Ma ecco che all’improvviso s’udì un crepitio e poi uno schianto, come di rami spezzati e caduti al suolo. E ai margini del bosco comparve un cavaliere armato. Galoppò verso il centro del campo, seguito da un scudiero che, oltre al suo, teneva per le briglie un cavallo sellato. Il cavaliere, fermo al centro del campo, si guardò attorno. «Il posto è questo,» esclamò «ma io non vedo nulla, né il muro né la casa». In quel momento scorse il monaco e Anselmo, e tenendo la mano a imbuto davanti alla bocca gridò loro: «Ehi, voi, si può sapere dov’è la casa di Geronte?». … «Avvicinatevi» rispose il vecchio facendo segno al cavaliere. L’altro mise il cavallo al galoppo e in un attimo fu da loro, mentre lo staffiere con gli altri due palafreni rimase al centro del campo. «Allora, dov’è?» tornò a chiedere il cavaliere che era a capo scoperto, e i capelli neri e arruffati conferivano al suo viso un’espressione minacciosa. … «Guardate meglio» disse il vecchio. «Il muro è nascosto dal rampicante». … «Il muro lo vedo, ma non vedo nessun portone» gridò l’altro con stizza. … «È proprio qui davanti a voi» replicò il vecchio. «Se notate, qui traspare dal rampicante una lucentezza metallica». Anche Anselmo adesso vedeva tutto questo. Il cavaliere era balzato giù di sella e, sempre tenendo il cavallo per le briglie, tastò con la destra il portone. «La maniglia dov’è!» esclamò. … «Non c’è» disse il vecchio. «Il signor Geronte non aspetta né riceve visite, ch’io sappia. Io almeno, da quando, e sono anni ormai, vengo qui a fare la mia passeggiata serale non ho mai visto il portone aprirsi e nessuno varcarlo, neppure Geronte». … «Aprite!» ruggì il cavaliere mentre lanciava ad Anselmo sguardi torvi, senza che questi ne sapesse la ragione. Il vecchio disse: «Ci han provato in tanti a urlare, ma non s’è mai aperto». …Il cavaliere gettò le briglie ad Anselmo e prese a martellare con entrambi i pugni sul portone. Anselmo teneva le briglie e rideva: «Avete strane usanze, signore» disse. … «Strane o no, qui non è questione di usanze. Questo è un cavallo delle scuderie reali. Rendetevi degno dell’onore di tenerne le briglie». … Riprese a martellare il portone. «Aprite - in nome del sovrano!». Intanto era sopraggiunto lo staffiere con gli altri due palafreni e contemporaneamente, sopra la cornice del portone, apparvero la faccia rugosa di un uomo e due mani che si tenevano aggrappate in alto. Senza proferir parola guardò giù verso colui che con i suoi pugni faceva rimbombare il portone. «È questa la casa di Geronte?» gridò verso l’alto il cavaliere. …«E se fosse?» rispose la faccia sopra il portone. … «Aprite dunque!». … «Qui non si fa entrare nessuno» replicò la faccia. … «E allora mandate fuori il vostro padrone». … «Il signor Geronte sono anni che non lascia la casa e il giardino». … «Temo che ora dovrà farlo. Il sovrano sta per morire, il Paese è in preda al disordine e minacciato dall’esterno, il principe è lontano, abbiamo bisogno di qualcuno che comandi; nessuno ha dimenticato il magico sguardo profetico di Geronte. Venga dunque al capezzale del sovrano e dica ai suoi consiglieri se è perduto e quando morirà». … La faccia, immobile sopra il portone, replicò: «È da un pezzo che Geronte non esercita più la sua arte. In questi ultimi anni, dacché si è isolato dal mondo, molti hanno cercato con oro e pietre preziose, con preghiere e con minacce, d’indurlo a rivelare loro il momento della morte. Nulla ha potuto smuoverlo. E anche stavolta non esaudirà il desiderio». … «Lo farà, è in gioco il destino del sovrano, del Paese, dello Stato». … «Il destino del sovrano e del Paese e dello Stato non gl’interessa. È tutto inutile. Tornate indietro». … Il cavaliere urlò: «Statemi bene a sentire! Dite al vostro padrone che se non ubbidisce, in capo a un quarto d’ora una schiera di armati sarà sul posto. Sono forniti a dovere di scale e altri mezzi, e se anche allora Geronte dovesse opporsi, in tal caso la sua bambina - diteglielo questo -, Lucrezia, la sua bella figliola sedicenne, che ha saputo custodire tanto bene, farà una brutta fine». … A quelle parole la faccia rugosa sopra il portone scomparve di colpo e un secondo dopo già si aprivano i battenti, per richiudersi subito alle spalle del cavaliere nero che era entrato senza indugio. Ma intanto Anselmo, alla luce del crepuscolo, scorgeva una schiera di cavalieri al margine del bosco. Confuso ed eccitato da quanto aveva udito e visto, si rivolse al vecchio: «Che significa tutto ciò? Non può essere vero che dietro queste mura viva qualcuno capace di predire alla gente l’ora della morte». … «È vero» disse il vecchio. E poiché Anselmo scuoteva il capo incredulo, soggiunse: «Se avete un po’ di pazienza, ne vedrete la conferma con i vostri stessi occhi, e sarò proprio io a darvela.» …
Anche noi dobbiamo avere un po’ di pazienza prima di poter ascoltare il racconto che questo vecchio monaco sta per fare all’incredulo Anselmo.
La morte coglie Montaigne il 13 settembre 1592 all’età di cinquantanove anni. Montaigne muore a causa della gotta e per le dolorose coliche renali. Negli ultimi tre giorni della sua vita non può più parlare, tuttavia, va incontro alla morte serenamente, dimostrando con i fatti quello che aveva scritto nel Libro I dei suoi Saggi: «…tra le principali preoccupazioni della mia vita vi è quella che la mia morte avvenga bene, tranquillamente e senza troppi strepiti.». Ma questo “geniale gentiluomo di provincia” [come è stato definito] cessa di vivere solo materialmente perché ha continuato nei secoli e continua oggi a essere presente intellettualmente con la sua opera, ed è anche merito di Marie de Gournay se i Saggi hanno conquistato lettrici e lettori in tutta Europa: è stata lei a sollecitarne la traduzione in inglese confidando nelle competenze di un umanista di origini italiane con il quale abbiamo già fatto conoscenza nel corso del viaggio dello scorso anno.
I Saggi di Montaigne [anche su sollecitazione di Marie de Gournay] sono stati tradotti in inglese da un personaggio che abbiamo già conosciuto lo scorso anno [dicendo che lo avremmo rincontrato sulla scia di Montaigne, come sta avvenendo adesso] e che si chiama John [Giovanni] Florio. John Florio è amico di Giordano Bruno [per questo motivo lo abbiamo incontrato lo scorso anno] ed è pure il precettore della figlia di Michel de Castelnau, l’ambasciatore francese a Londra, che ospita Giordano Bruno nella sua residenza, ed è qui che tra il 1584 e il 1585 il Nolano [Bruno] compone due trilogie tra le più importanti della sua produzione: si tratta di sei opere filosofiche in forma dialogica dette “dialoghi londinesi” o anche “dialoghi italiani” perché sono scritte in lingua volgare italiana, e noi, nel Percorso dello scorso anno, le abbiamo studiate nella loro forma e nel loro contenuto. E Giordano Bruno, non a caso, inserisce John Florio - con il quale è intellettualmente in sintonia - tra i protagonisti di uno di questi dialoghi intitolato La cena delle ceneri [e molte e molti di voi dovreste ricordarvi di quest’opera e anche del menu della cena con cui inizia la Quaresima]. John Florio è un umanista di origine italiana ed è un uomo di mondo [e già questi due dati lo avvicinano a Giordano Bruno e a Michel de Montaigne]: sua madre è inglese [di lei non sappiamo altro] e lui è nato a Londra nel 1553 [è di vent’anni più giovane di Montaigne], mentre suo padre, Michele Agnolo Florio, è un insegnante e uno scrittore toscano [era un frate forse di origine ebraica] che, avendo aderito alla Riforma protestante si è dovuto rifugiare in Inghilterra, e poi la famiglia Florio ha vagabondato per l’Europa. Questo fatto ha offerto al piccolo John l’opportunità di imparare un gran numero di lingue per cui quando da adulto ritorna in Inghilterra si fa un nome come insegnante di francese e di inglese [per questo sta ricoprendo il ruolo di precettore della figlia dell’ambasciatore Michel de Castelnau] e si distingue come autore di due Sillabari, intitolati Primi frutti e Secondi frutti e come autore di un grande dizionario italiano-inglese [il primo a essere composto] intitolato Un mondo di parole, comunemente detto “il Florio”. Ma l’opera principale di John [Giovanni] Florio è la traduzione inglese dei Saggi di Montaigne pubblicata nel 1603 che ha permesso la conoscenza di quest’opera ad una vasta platea di lettrici e di lettori nella quale c’è anche molto probabilmente William Shakespeare di cui Florio sembra sia stato buon amico [quando Shakespeare nel testo de La tempesta descrive “la perfetta società naturale” utilizza le stesse parole che usa Montaigne per descrivere le usanze del popolo dei Tupinamba del Nuovo Mondo].
Noi non sappiamo se Giordano Bruno, buon amico di Florio, abbia conosciuto i Saggi di Montaigne anche se tra il pensiero di Bruno e quello di Montaigne, a volte, si colgono delle affinità, e il tema delle affinità tra autori fa entrare in scena un altro personaggio che, sulla scia di Montaigne, stiamo per incontrare: Francis Bacon [Francesco Bacone]. E l’incontro con Francis Bacon [un incontro strategico sul piano didattico] presuppone tre cose. Per prima cosa Francis Bacon è per noi come se fosse “una porta” attraverso la quale facciamo [didatticamente] il nostro ingresso sul territorio del ‘600: il secolo della scienza secondo il titolo del nostro Percorso. La seconda cosa è che, quando si cita Francis Bacon, inevitabilmente emerge una questione - ormai risolta - di carattere letterario [ulla quale non ci dilunghiamo: esiste una corrente di pensiero che, nella seconda metà dell’800 e attraverso ricerche filologiche piuttosto fantasiose, ha cercato di attribuire a Francis Bacon tanto le opere teatrali di William Shakespeare quanto i Saggi di Montaigne ma i risultati di questi studi appaiono oggi completamente inverosimili. La terza cosa da dire [e questo è un dato reale] è che anche Francis Bacon ha scritto un’opera pubblicata nel 1597 intitolata Saggi in cui cita l’opera omonima di Montaigne che lui ha letto [molto probabilmente] nella versione pubblicata nel 1595 da Marie de Gournay [Francis Bacon conosce il francese e può leggere i Saggi di Montaigne prima ancora che Florio - con il quale è in contatto - li traduca in inglese].
Francis Bacon utilizza lo stesso titolo dell’opera di Montaigne [che ormai fa tendenza] ma il titolo è praticamente l’unica cosa che le due opere hanno in comune: Francis Bacon scrive con maggiore rigore filosofico, è inflessibile, è più incisivo e più determinato ma, oltre a essere a volte noioso da morire o da dormire, i suoi “consigli civili e morali”, che insegnano come comportarsi bene nella vita, spesso si ispirano senza inibizioni e senza ipocrisia ad un utilitarismo deteriore senza slanci generosi, senza dubbi o conflitti interiori, tutto il contrario di come pensa e agisce Montaigne. Quando parla di Libri o di viaggi Bacon applica l’autoritarismo, dà degli ordini a chi legge e scrive: «Leggi questo libro, visita quel posto …», e se un tema permette la suddivisione in sottocategorie Bacon non esita ad analizzarle tutte fino in fondo perché questo è il suo stile, uno stile detto e considerato “rigoroso”. Montaigne [come sapete] non fa mai cose del genere [ecco perché Francis Bacon non avrebbe mai potuto scrivere i Saggi di Montaigne, non sarebbe stato in grado di imitarne né la scrittura né il carattere]: Montaigne compone senza un ordine predefinito, scrive tutto ciò che gli viene in mente ma con uno stile originale e ben preciso, e la scrittura di Montaigne, soprattutto nell’ultima parte dei Saggi, è di altissimo livello difficilmente imitabile. Montaigne cerca [con una falsa o sincera modestia] di farci credere di non dare una grande importanza allo stile, è pronto ad affermare che lui sta improvvisando e a scusarsi se il suo linguaggio è povero, ma sappiamo che si contraddice perché per anni e anni, fino alla morte, ritorna costantemente sulle sue pagine, lavora sui sinonimi, valutando con grande attenzione la sua scrittura, e facendo sempre collimare l’espressione letteraria con l’idea che vuole esprimere. Lo stile di Montaigne è ben governato dal pensiero, e risulta essere un esemplare incrocio tra l’asciuttezza dei Classici [Platone, Cicerone, Seneca] e la ricercatezza già barocca della sua epoca [Torquato Tasso], tanto che Montaigne, sulla scia di Torquato Tasso, afferma: «Se l’espressione guadagna in bellezza, l’idea guadagna in profondità». Le persone, quindi, devono “imparare a comunicare con stile”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole - modello, forma, qualità, eleganza, carattere, finezza, sobrietà, educazione, metodo, equilibrio, o quale altra - accostereste per prima al termine “stile”?...
Scrivetela...
Francis Bacon trova nei Saggi di Montaigne molti elementi sui quali riflettere con realistica spregiudicatezza: chi è Francis Bacon e perché si ritiene abbia inaugurato l’era dell’ideologia della scienza? Per incontrare Francis Bacon ci dobbiamo trasferire a Londra che in quest’epoca [chiamata de “la crisi del tardo Rinascimento”] è una città piena di risorse ma dove c’è anche “del marcio” [nel quale anche Bacon è stato temporaneamente ma profondamente coinvolto]. A Londra c’è “un ambiente putrido” che Shakespeare, nel testo dell’Amleto, trasferisce prudentemente in Danimarca [“C’è del marcio (ma...) in Danimarca”].
Francis Bacon è nato a Londra nel 1561 [ventotto anni dopo Montaigne] in una famiglia chiamata da tempo ad amministrare il potere: molti membri della famiglia Bacon hanno occupato alte cariche nel governo dello Stato al servizio della corona inglese. Infatti Francis cresce con una grande ambizione politica e le caratteristiche del suo carattere appaiono contrarie a quelle del carattere di Montaigne. Francis Bacon studia a Cambridge, e per un certo periodo di tempo a Parigi, e quando torna a Londra fa una rapida carriera e, nel 1584, a soli 23 anni viene eletto alla Camera dei Comuni. Nella vita pubblica Francis Bacon ha ricoperto ruoli molto importanti, prima durante il regno di Elisabetta e poi dal 1603 di Giacomo I Stuart e la sua ascesa progressiva nei ranghi dell’amministrazione dello Stato lo porta nel 1618 a ricoprire la carica di Lord Cancelliere. Sappiamo che allora [oggi non più?] gli uomini al potere non si facevano molti scrupoli [leggevano Il Principe di Machiavelli sfrondandolo dell’etica] e Francis Bacon, in una Londra teatro di rapidi mutamenti sociali, di sanguinosi contrasti religiosi, di ardite esperienze politiche, non si fa scrupoli e ne paga anche le conseguenze: viene accusato di corruzione, di peculato, e nel 1621 viene processato, e lui [coerentemente?] si riconosce colpevole, affermando che “così fan tutti perché la corruzione è un elemento strutturale nell’ambito della gestione del potere”. Francis Bacon viene condannato e rimosso da tutti gli uffici pubblici e, di conseguenza, deve cambiare vita, e questo cambiamento è facilitato dal fatto che Bacon è un valente letterato, è un umanista che ha già scritto un certo numero di opere importanti che però non ha mai pubblicato per prudenza, per non esporsi, perché contengono violenti attacchi contro la cultura dominante, arretrata e conservatrice, ma dopo la sua “rimozione” paradossalmente non ha più nulla da temere e, quindi, per il resto dei suoi anni - muore nel 1626 - si dedica a mettere in atto “un [grandioso] programma di rinnovamento filosofico”, e questo programma ha avuto un grande successo nel Seicento, e poi nel Settecento con gli Illuministi, e poi nell’Ottocento con i Positivisti [Illuministi e Positivisti li incontreremo a suo tempo].
Francis Bacon è stato considerato per tre secoli come il fondatore del moderno metodo scientifico ma nel ‘900 la posizione di Bacon [nella scala gerarchica che annovera i padri della scienza] è stata rivista e difatti oggi come creatore del moderno metodo scientifico viene considerato Galileo Galilei. Naturalmente Francis Bacon ha un merito, altrettanto grande, quello di aver intuito e codificato per primo il rapporto che esiste tra la scienza e il potere che ha l’essere umano sulla Natura. Scrive Francis Bacon: «Il metodo scientifico dà agli esseri umani il potere sulla Natura in modo da poterla governare per attuare un innalzamento della qualità della vita», e fa questa affermazione con grande euforia e pensando, da umanista, che il metodo scientifico si sarebbe dovuto applicare sempre nell’ambito dei valori etici dell’Umanesimo [uguaglianza, giustizia, pace, solidarietà, misericordia]. Oggi [e la Storia del Pensiero Umano fa rivivere le persone] la delusione di Francis Bacon è grande [in proposito, durante il viaggio dello scorso anno, abbiamo letto il testo di Vita di Galileo di Bertolt Brecht], ebbene, Francis Bacon è deluso per il modo in cui il metodo scientifico è stato applicato nel corso dei secoli: troppo spesso a servizio della disuguaglianza, dell’ingiustizia, della guerra, dell’egoismo e della crudeltà. E non possiamo certo attribuire a Galileo Galilei la responsabilità di aver creato il metodo della scienza così come non possiamo attribuire a Francis Bacon la responsabilità di aver creato l’ideologia della scienza, cioè un progetto globale in cui le Leggi della scienza possono e debbono estendersi - per controllarla - alla totalità dell’esperienza umana . Come abbiamo detto, il carattere di Francis Bacon - che emerge tanto nel suo ruolo di politico, di letterato e di scienziato - è caratterizzato da “l’ambizione” [una parola-chiave ammantata di ambiguità], e su questa parola dobbiamo riflettere [così come ci riflette Montaigne].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola "ambizione" rimanda a termini come “vanagloria, vanità, cupidigia” ma anche “desiderio, sogno, aspirazione, proposito”, e nella vita bisogna anche "ambire", desiderare, aspirare, proporsi... Oggi quale ambizione coltivate?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Come vedremo, Francis Bacon è il creatore di una nuova razionalità ma non rinuncia a coltivare l’utopia perché [come Montaigne] è ancora un umanista in piena regola. Francis Bacon - sebbene s’impegni per diventare il creatore di una nuova razionalità [di stampo moderno] - è, tuttavia, ancora un pensatore legato alle idee dell’Umanesimo utopico e dà forma all’utopia in un’opera molto affascinante, scritta in inglese nel 1623 ma pubblicata postuma nel 1627 in latino [tradotta dallo stesso Bacon] che si intitola Nuova Atlantide [New Atlantis]. La Nuova Atlantide ricalca l’Utopia di Thomas More [Tommaso Moro] e La città del sole di fra’ Tommaso Campanella [due opere che abbiamo studiato a suo tempo], e anche la Nuova Atlantide è un’isola che si trova al di là dello stretto di Gibilterra. Francis Bacon prende spunto, per quanto riguarda il titolo e l’argomento di quest’opera, da Platone che è stato il primo a raccontare [attraverso la memoria egizia] “il mito di Atlantide”, la potente isola continentale che in età preistorica [racconta Platone] si espande, si allontana dagli dèi, si rende autonoma e per questo viene sconfitta da Atene e poi fatta sommergere in mare [sottratta allo sguardo] da Zeus per la sua hybris [la sua presunzione], ebbene, Platone racconta il mito di Atlantide nel dialogo rimasto incompiuto intitolato Crizia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Potete richiedere in biblioteca il testo del dialogo Crizia di Platone tenendo conto del fatto che [alla luce della didattica della lettura e della scrittura, per chi non ha mai letto uno scritto di Platone, sebbene Platone sia uno straordinario narratore] non si tratta di un esercizio facile, tuttavia, siccome i vari brani dei testi dei Dialoghi di Platone sono, di solito, titolati [chi li ha curati ha indicato con un titolo l’argomento di cui quel brano tratta]. Il primo esercizio che potete fare è quello di leggere i titoli delle varie parti in cui il testo è stato suddiviso in modo da comprendere la trafila narrativa che Platone ha utilizzato per presentare il celebre “mito di Atlantide”...
Bisogna [dice Montaigne] sempre procedere sui testi dei Classici con pazienza e dedizione...
L’isola “Atlantide” descritta da Francis Bacon raffigura la società ideale, una società in cui il potere è in mano a un vero e proprio “ordine sacro” formato da scienziati che Bacon chiama: la Casa di Salomone [nel senso del biblico re Salomone]. Il potere politico in Atlantide quasi non si vede e dipende da questa Associazione il cui fine è «la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose allo scopo di allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile, utile e buon obiettivo». E si capisce che] se il concetto di conoscenza e di sapienza è legato alla figura di re Salomone significa che le sue radici sono ancorate, per Bacon, nella cultura e nei valori che emergono nei testi dei Libri sapienziali e poetici [Ketubim] della Letteratura beritica dell’Antico Testamento.
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Potete utilizzare il volume della Bibbia [che avete nella vostra biblioteca domestica] per leggere o per rileggere il testo della parte centrale del Libro della Sapienza: dal capitolo 6 fino al versetto 3 del capitolo 11, la parte [sono appena sei pagine] che s’intitola “Elogio della Sapienza” [che è la Costituzione, il regolamento etico di riferimento, della Casa di Salomone che governa la Nuova Atlantide di Francis Bacon] - nella quale si insegna che “la Sapienza serve per governare bene” [non la furbizia, non l’astuzia della ragione ma la Sapienza serve per ben governare]...
Traete vantaggio da questa lettura [che non comporta particolari difficoltà] per predisporre la vostra mente a investire in intelligenza... A proposito de “la Casa di Salomone” c’è un altro Libro biblico sul quale punteremo l’attenzione tra due settimane con il contributo di un esegeta [la cui opera ha ispirato Francis Bacon] che incontreremo e conosceremo...
L’isola “Atlantide” si presenta come un immenso laboratorio dove si ottengono meravigliosi effetti tecnici, alcuni dei quali hanno una sorprendente somiglianza con i ritrovati della tecnologia moderna [dal microscopio al sommergibile, dal telefono alla centrale elettrica, fino alle tecniche contro le malattie e per il prolungamento della vita umana]. E Bacon formula un nuovo [un moderno] concetto di scienza perché considera il sapere scientifico non come l’opera di sapienti illuminati ed eccezionali che studiano ed esperimentano ognuno per conto proprio, ma come l’attività di una comunità ben organizzata di ricercatori [la comunità scientifica] tesa a migliorare il modo di pensare e le condizioni di vita dell’intero genere umano. E, per questo, i cittadini di Atlantide sono felici e onestissimi: per Francis Bacon lo sviluppo scientifico [questa sorta di utopia tecnocratica] genera l’onestà, anche se il tema della giustizia rimane un po’ in ombra in Atlantide perché non può essere certo risolto dalla pura efficienza tecnica. Ma i saggi-scienziati della “Casa di Salomone” sono ben consapevoli della loro responsabilità, e dice il Padre [il direttore] della Casa di Salomone: «Ci consultiamo tra di noi per decidere quali nostre esperienze e scoperte debbano essere rese note al pubblico e quali no. Ci impegniamo tutti, con giuramento, a non divulgare mai quelle che riteniamo prudente tener segrete. Alcune di queste, tuttavia, in certi casi, le comunichiamo al governo o al senato, ma in altri casi neppure a loro [perché certe scoperte non sono utili al bene dell’Umanità ma possono essere molto dannose]».
Questa citazione c’invita ad aprire una parentesi per farci riflettere sul dramma morale che ha investito quel gruppo di scienziati che ha scoperto la possibilità di usare l’energia atomica a scopi bellici: in quel momento la storia è precipitata nel rischio della morte totale. Sapete che a Roma, presso l’Istituto di Fisica, in via Panisperna, un gruppo di giovani ricercatori [I ragazzi di via Panisperna è anche il titolo di un film di Gianni Amelio del 1989] guidati dal prof. Enrico Fermi, ha cominciato a svelare la potenza dell’energia atomica, e tra loro c’è il più geniale dei matematici, Ettore Majorana, che ha tradotto matematicamente i risultati delle ricerche ma poi li ha sistematicamente distrutti. Nel marzo del 1938 Ettore Majorana s’imbarca sul traghetto Napoli-Palermo dopo aver scritto due lettere in cui dichiara che vuole uccidersi, e da quel momento scompare e a nulla servono le ricerche, soprattutto dei servizi segreti. Majorana si è davvero ucciso? È stato rapito? O forse, di fronte alle prospettive d’incubo aperte dalla scoperta dell’atomica, ha preferito scomparire. Che cosa si nasconde dietro “il mistero Majorana” di cui ogni tanto ancora si parla? Questo caso ce lo racconta, con la sua solita lucidità, Leonardo Sciascia in un libro intitolato La scomparsa di Majorana.
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Il libro intitolato La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia [1975] lo potete richiedere in biblioteca: questo testo è composto da undici brevi capitoli e il capitolo XI, l’ultimo, inizia con una citazione tratta da La tempesta di Shakespeare… A volte leggendo ci si meraviglia: in questo caso perché?... Scopritelo voi...
In Bacon “l’utopia della scienza al servizio della società” è ancora pervasa di fervore morale e religioso [nonostante nei Saggi scriva che Dio non è un ideale ma “una blanda quotidianità”]”: lo scopo della comunità scientifica, afferma Bacon, è «di accogliere la luce di Dio perché questa luce permette di conoscere la Natura e il giusto rapporto tra la Natura e l’Essere umano». Francis Bacon non può immaginare neppure lontanamente che la scienza possa anche servire a distruggere la Natura e l’Umanità, per lui la scienza non può che avere uno scopo utile, buono e positivo e, quindi, la comunità scientifica deve essere riconosciuta e finanziata con risorse pubbliche. Trentasei anni dopo la sua morte, nel 1662, nasce a Londra, per volere del re Carlo II Stuart, la “Società reale delle Scienze” ma non è la prima comunità scientifica che sorge perché, fin dal 1603, è in funzione a Roma “l’Accademia dei Lincei” e, dal 1657, è attiva a Firenze “l’Accademia del Cimento”. Ed ecco che al solitario ricercatore rinascimentale succede, secondo il messaggio baconiano, il “ricercatore collettivo”: la comunità scientifica.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Su quale tema, o su quali temi, dovrebbe lavorare soprattutto oggi, secondo voi, la comunità scientifica?...
Scrivete una riga in proposito...
Ma quali sono le parole-chiave e le idee-guida del Pensiero scientifico di Francis Bacon [del suo grandioso programma di rinnovamento filosofico]? Questo è un tema che svilupperemo la prossima settimana.
E ora, per concludere, torniamo brevissimamente ai Saggi di Bacon. Come sappiamo, Francis Bacon utilizza lo stesso titolo dell’opera di Montaigne [che ormai fa tendenza] ma il titolo è l’unica cosa che le due opere hanno in comune perché “i consigli civili e morali” di Francis Bacon, che insegnano come comportarsi bene nella vita, spesso si ispirano ad un utilitarismo deteriore privo di generosità, senza coltivare il dubbio o nutrire conflitti interiori, tutto il contrario di come pensa e agisce Montaigne. I Saggi di Francis Bacon sono cinquantotto e uno dei più famosi pubblicato anche singolarmente - ricco di osservazioni ragionevoli - è il Saggio sui giardini [i giardini all’inglese] che inizia con una affermazione solenne: «Dio onnipotente prima di tutto fece un giardino. Ed è davvero il più puro tra i piaceri umani» e, quindi, passa a indicare le piante che profumano meglio l’aria e tengono lontane le zanzare, poi come si deve squadrare e dividere il terreno, poi come devono essere tagliate le siepi e potati gli alberi per renderlo più bello possibile. Mentre tra i Saggi più ironici vi è quello Sul matrimonio e il celibato e, per concludere, leggiamone un frammento dove l’ironia non manca, ma fino a che punto è ironico l’autore [si domanda Montaigne]?
LEGERE MULTUM….
Francis Bacon, Saggi [Sul matrimonio e il celibato]
Moglie e figli sono ostacolo a grandi imprese, tanto nel bene come nel male. Le grandi cose sono sempre state fatte da celibi: ma d’altronde solo chi ha figli pensa al futuro, guarda lontano. Nella vita individuale, i celibi sono ottimi, ma non sono buoni sudditi, che non hanno legami a trattenerli dalle avventure. Anche la castità è una bella cosa: ma le donne oneste sono troppo inclini alla superbia. Del resto, è sempre bene aver moglie: in gioventù la moglie serve da amante, più tardi da compagna e in vecchiaia da infermiera. …
Montaigne si augura che Francis Bacon abbia scritto queste righe per fare davvero dell’ironia, in questo caso, con i Saggi di Bacon prenderebbe forma anche il cosiddetto “umorismo inglese”.
Ma quali sono le parole-chiave e le idee-guida del Pensiero “scientifico” di Francis Bacon? Per rispondere a questa, e a molte altre domande, dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, quindi, la Scuola è qui [l’inverno non c’è più, o almeno sembra] e il viaggio continua…