ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 20-21-22 marzo 2019
SUL TERRITORIO DEL SECOLO DELLA SCIENZA LA RAGIONE RISPONDE
ALLE REGOLE: DE L’EVIDENZA, L’ANALISI, LA SINTESI E LA REVISIONE ...
Questo è il sedicesimo itinerario del nostro viaggio [e vi ricordo che la prossima settimana, come da calendario, faremo una pausa per assaporare l’arrivo della primavera], e come sapete siamo entrate ed entrati nel territorio del ‘600, il secolo della scienza, come dice il titolo del nostro Percorso. Per tutta la stagione autunnale ed invernale abbiamo viaggiato in compagnia di Michel de Montaigne, l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano.
Come sapete, Montaigne muore il 13 settembre 1592 ma la sua presenza ha continuato a farsi sentire sul piano intellettuale perché la sua opera ha avuto un’ampia divulgazione, e il merito, come sappiamo, va attribuito a una giovane donna [e questo è, per l’epoca, un fatto straordinario]: Marie de Gournay che, su richiesta di Françoise, la vedova di Montaigne, ha curato la pubblicazione nel 1595 dell’edizione postuma dei Saggi [che rimane l’edizione canonica per i successivi tre secoli]. L’opera di Montaigne ha inoltre influenzato i personaggi che abbiamo incontrato in queste ultime settimane, a cominciare da John Florio che ha tradotto i Saggi in inglese, e poi Francis Bacon, e poi ancora l’opera di Montaigne ha ispirato Renato Cartesio [René Descartes, che abbiamo incontrato la scorsa settimana].
Sappiamo che Cartesio [René Descartes] nel famoso collegio de La Flèche, a Parigi, gestito dai Gesuiti, stringe amicizia con Marin Mersenne, uno studente di otto anni più grande di lui, che ha preso i voti e sta frequentando la facoltà di Teologia; i due, che rimangono amici per tutta la vita, si assomigliano: sono disciplinati, studiosi, “di pronto intelletto” e [senza manifestarlo apertamente, per prudenza] sono assai dotati di spirito critico nei confronti dell’antiquato tipo di educazione imposto agli studenti in questo istituto; questa mentalità critica, i due studenti, la acquisiscono leggendo, di nascosto, i Saggi di Montaigne, e Cartesio sottolinea la loro soddisfazione quando scoprono nel capitolo XXVI del Libro I dei Saggi, l’affermazione [che noi ben conosciamo]: «È meglio avere una testa ben fatta che una testa ben piena», meglio educare la testa in modo che sappia applicarsi per organizzare le conoscenze piuttosto che addestrare la testa a diventare solo un caotico deposito di informazioni.
E ora riprendiamo il nostro cammino sul territorio del secolo della scienza [il Seicento] insieme a Renato Cartesio [René Descartes]. La biografia di Cartesio, come quella di Montaigne e di Bacon, è assai complessa e noi puntiamo l’attenzione su quei fatti documentati che risultano utili per conoscere i cardini del Pensiero cartesiano.
Renato Cartesio [René Descartes], terminato nel 1612 il ciclo di studi secondari nel collegio de La Flèche di Parigi, s’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Poitiers. Dopo la laurea conseguita nel 1616, viene introdotto, da quell’ambizioso di suo padre [così lo definisce René che avrebbe voluto vederlo più spesso da bambino], nel “gran mondo parigino” ma questo ambiente frivolo non fa per lui.
Il punto di riferimento a Parigi di Renato Cartesio rimane [e rimarrà] sempre Marin Mersenne [padre Mersenne: matematico, teorico della musica, filosofo, esegeta, il quale pensa sia utile avere un ruolo dentro al sistema ecclesiastico per cercare di cambiarlo in meglio]. René, sotto la pressione di suo padre, accetta di dedicarsi alla carriera militare ma solo perché questa strada gli offre la possibilità di viaggiare sul territorio europeo e, difatti, nel 1618 [ma di malavoglia] viene arruolato sotto il comando del principe d’Orange nell’esercito di Maurizio di Nassau, un principe calvinista che in Olanda combatte contro i cattolici di Spagna: non bisogna dimenticare che ha avuto inizio la cosiddetta “guerra dei Trent’anni” 1618-1648, un avvenimento [assai complicato da raccontare in breve e se volete informarvi in proposito potete utilizzare uno dei tanti libri di storia che ne parlano], in cui le faccende politiche e gli affari economici dei maggiori Stati europei s’intrecciano in una spirale di violenze, e la religione [cristiani controriformisti contro cristiani riformati, e viceversa] fornisce un alibi a questi affari e a queste violenze.
L’ambiente militare [l’ignoranza e la volgarità dei commilitoni] non piace a René [si sente molto avvilito] ma succede che, mentre la sua compagnia nel corso di un periodo di tregua sta soggiornando a Breda [una città che si trova nella provincia olandese del Brabante settentrionale: con una guida dei Paesi Bassi e navigando in rete andate a far visita a questa città], lui - che non gradisce andare nei ritrovi frequentati dai militari - visita la biblioteca cittadina [incuriosito dall’esistenza di un’istituzione pubblica di questo genere, un avvenimento all’avanguardia in questo momento storico in Europa] e qui il 10 novembre 1618 incontra casualmente il medico Isaac Beeckman [1588-1637] che si occupa di matematica, di fisica, di filosofia, e i due diventano amici, si frequentano quasi quotidianamente e il giovane Cartesio viene influenzato positivamente da questa persona che lo motiva sul piano dello studio [rimarranno in contatto epistolare fino alla morte di Beeckman].
Poi René lascia l’Olanda per entrare a servizio del principe cattolico Massimiliano di Baviera ma senza fare carriera militare perché i suoi interessi sono di carattere intellettuale e, difatti, si dedica con impegno a leggere, a scrivere, ad applicarsi nelle Matematiche e a ragionare [coltivando le intuizioni]. Il 10 novembre 1619 [scrive Cartesio], mentre si trova acquartierato, al caldo, in una locanda nel Fischervierte,, il quartiere dei pescatori, nella città di Ulma [Ulm, nel Baden-Württemberg], il suo pensiero coglie un’intuizione. Renato Cartesio scrive: «Quel giorno [10 novembre 1619], a Ulma, al caldo di una locanda [chissà di che marca era la birra?], ho fatto una mirabile scoperta, mi è venuta l’idea di estendere il metodo matematico a tutte le scienze, per dare alle scienze la possibilità di raggiungere quel grado di certezza che è un privilegio della matematica». Un’affermazione facile a dirsi ma che, per essere messa in pratica, comporta la risoluzione di qualche problema.
La città di Ulma va visitata [non si sa mai]: passeggiando anche virtualmente nel suo centro storico potremmo anche noi cogliere un’intuizione significativa.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida della Germania e navigando in rete fate una visita a Ulma [Ulm]: sapete quale grande fiume attraversa questa città?... E sapete quali caratteristiche ha il suo antico duomo [Münster] e quali altri monumenti la caratterizzano?... E sapete alla fabbricazione e al consumo di quale prodotto [nei suoi cinquemila anni di storia] è dedicato un interessante Museo cittadino? ... E sapete [a proposito di intuizioni geniali] quale importante personaggio è nato a Ulma [nel 1879]?... Date soddisfazione alla vostra curiosità, buon viaggio…
Sta di fatto che Cartesio lascia l’esercito che non è posto per lui, e si stabilisce a Parigi dove resta fino al 1628, e poi si trasferisce in Olanda [nei Paesi Bassi paese più tollerante] dove vive fino al 1649.
Renato Cartesio nel 1628 da Parigi si trasferisce ad Amsterdam in Olanda, paese in cui vige la regola della tolleranza religiosa e della libertà di pensiero, per due motivi: per non farsi distrarre dalla vita mondana parigina e, poi, per sfuggire alle grinfie dell’Inquisizione [in Germania è stato a servizio di un principe calvinista e per questo motivo a Parigi rischia l’arresto, ma lo rischia anche per ciò che scrive]. Cartesio scrive in latino, nel 1626 un’opera che s’intitola Regulae [Regole per la direzione dell’intelletto o per la guida dell’ingegno] in cui mette in evidenza i vantaggi [la capacità di conoscenza, di comprensione, di applicazione, di analisi, di sintesi e di valutazione] che la persona trae dal buon uso della ragione chiamata a governare le azioni cognitive, e poi enumera i limiti [gli ostacoli, i condizionamenti, i vincoli] che la ragione ha e che deve anche avere per scongiurare il pericolo che nasce dal senso di onnipotenza e di infallibilità che l’individuo può attribuirsi. Ma questo trattato non lo fa pubblicare, però nel 1629 ne fa stampare un certo numero di copie per una divulgazione personalizzata e clandestina. Nel 1633 scrive il Trattato del Mondo o della Luce e anche di quest’opera - in cui sostiene e dimostra l’attendibilità della teoria copernicana, un argomento che abbiamo studiato durante il viaggio dello scorso anno - ne fa stampare solo poche copie e anonime, e poi si pente pure di averlo fatto perché siamo nel 1633 ed è appena arrivata in Olanda [il 24 giugno] la notizia della condanna di Galileo Galilei [Vi ricordate? Anche noi - e mi riferisco a chi era in viaggio lo scorso anno - abbiamo aspettato ansiose e ansiosi davanti al Tribunale della Santa Inquisizione a Roma l’esito del processo a Galileo insieme al giovane Andrea Sarti, all’ottico Federzoni, a frate Fulgenzio, a Virginia, la figlia dello scienziato che è stato costretto ad abiurare, a rinnegare le sue convinzioni sul sistema copernicano per salvarsi la vita] e Cartesio, sebbene si trovi a Deventer, città olandese dove l’Inquisizione non ha potere, non esce di casa per un mese dallo spavento. Nel 1634 Cartesio si trasferisce ad Amsterdam ed alloggia in casa di un libraio inglese dove lavora una domestica di nome Helena Jans con la quale René imbastisce una relazione: il frutto di questo legame è una bambina che nasce il 19 luglio 1635 a Deventer dove René è tornato ad abitare con Helena, e viene battezzata con il nome di Francine [Cartesio la riconosce, se ne occupa amorevolmente ma non si vuole sposare] però, purtroppo, Francine Descartes muore di scarlattina nel 1640 all’età di cinque anni.
Con la morte di Francine - e René ha sempre dichiarato di non aver mai cessato di provare dolore per la perdita della figlia - le strade di René [che continua i suoi studi] ed Helena [che riprende il suo lavoro di domestica] si dividono anche se lui non le fa mai mancare il suo aiuto, e da un documento redatto il 4 maggio 1644 a Leida si viene a sapere che Helena si è sposata con un certo Jan van Wel portando una dote di mille fiorini versata da Cartesio. Nel 1637, messe da parte le paure derivate dalla condanna di Galileo Galilei, Cartesio, continuando però a mantenere l’anonimato e utilizzando la lingua francese, fa stampare il Discorso sul metodo come introduzione [e fra poco ne parleremo in modo più dettagliato] a tre brevi trattati scientifici: Diottrica [la teoria della rifrazione della luce], Meteore e Geometria. Poi Cartesio fa stampare un’opera che sta componendo dal 1629, di carattere metafisico, intitolata Meditationes [Meditazioni sulla prima filosofia] dove - partendo dall’idea che bisogna sempre dubitare perché se la persona dubita è certa di pensare e, se è certa di pensare, non può più dubitare del fatto che ci sia un io-pensante la cui essenza risiede nella sua coscienza - partendo da questa idea [“il dubbio è l’origine della saggezza”], Cartesio produce sei ampie riflessioni [“meditazioni”, le chiama] nelle quali sviluppa una serie di ragionamenti che potrebbero portare a dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio e dell’anima immortale.
Il fatto è che tutto questo operare in clandestinità fa sì che il numero dei suoi lettori [e di lettrici non se ne parla] corrisponde a quello delle dita delle mani [o dei piedi]. E chi sono i suoi lettori? Il primo recettore e accorto lettore delle Opere di Cartesio è padre Marin Mersenne il quale con grande abilità intellettuale si presenta quando parla e quando scrive sempre come un teologo ortodosso [che critica lo scetticismo di Montaigne e di Charron, il panteismo di Giordano Bruno, il naturalismo di Bernardino Telesio, l’utopia apocalittica di fra’ Tommaso Campanella] e, di conseguenza, risulta insospettabile, ma padre Mersenne, in realtà, fa quella che si chiama la staffetta e, mentre viaggia [perché viaggia molto], porta in giro le Opere del suo amico René distribuendole a un certo numero di intellettuali europei in attività. Padre Mersenne tira le fila di un importante circuito culturale [gestisce una sorta di Accademia itinerante] e raccoglie osservazioni, considerazioni, critiche, analisi, obiezioni, ragionamenti, riflessioni : di questo circuito fanno parte anche Pierre Gassendi, Thomas Hobbes e altri importanti personaggi che incontreremo strada facendo. Il dibattito [la discussione] che si accende intorno ai temi riguardanti il concetto di “metodo” e su altri temi contenuti nelle Opere di Cartesio è molto vivace, è anche aspro e suscita delle polemiche [costruttive] e questo fa sì che il circuito intellettuale si allarghi contribuendo a tenere viva la cultura europea in un momento di profonde lacerazioni dovute a una diffusa conflittualità permanente.
Nel 1644 Cartesio fa pubblicare il trattato Principi di Filosofia [in quattro Libri scritti in latino] in cui espone le linee fondamentali del suo pensiero, e nel 1647, siccome gli viene rimproverato di occuparsi poco di questioni morali, compone, dedicandolo alla principessa Elisabetta di Boemia, il saggio intitolato Le passioni dell’animo in cui classifica e analizza le caratteristiche di “sei affetti fondamentali” [quelli che, secondo lui, condizionano essenzialmente l’animo della persona]: lo stupore, l’amore, l’odio, il desiderio, la gioia e la tristezza.
Nel 1648 la morte di Marin Mersenne avvenuta il 1° settembre rattrista profondamente Cartesio che, nell’inverno del 1649, cede ai pressanti inviti della regina Cristina di Svezia [una persona dagli insaziabili appetiti culturali] che lo vuole a Stoccolma perché le faccia conoscere la sua Filosofia, ma a Stoccolma [e lui anche per questo motivo non ci voleva andare] fa molto freddo e, difatti, Cartesio, che ha un fisico gracile, si ammala di polmonite [che all’epoca è una malattia letale], e l’11 febbraio 1650 muore a 54 anni. Nel 1667 le spoglie di Cartesio tornano in Francia [meno la testa che viene conservata in Svezia, e il cranio viene veduto all’asta alla fine del ‘600, oggi si trova al Museo de l’Homme di Parigi ma se sia quello originale non si sa] perché a Stoccolma - il filosofo che ha messo al centro della sua speculazione “la ragione” - era stato sepolto provvisoriamente, ironia della sorte, nel “Cimitero dei bambini morti senza battesimo o prima dell’età della ragione”: le trame della Storia del Pensiero Umano, pur nella tragedia, si presentano a volte velate di comicità. Inizialmente i resti di Cartesio vennero inumati nella chiesa di Sainte-Geneviève-du-Mont, e oggi dal 1819 è sepolto nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés: andate a fargli visita, [con una guida di Parigi e utilizzando la rete.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Cartesio [nella sua opera intitolata Le passioni dell’animo] classifica e analizza le caratteristiche di “sei affetti fondamentali”: lo stupore, l’amore, l’odio, il desiderio, la gioia e la tristezza… Accostate a ognuna di queste sei significative parole-chiave un termine o un enunciato [di carattere autobiografico] in modo da comporre un breve catalogo: catalogare è ordinare, quindi, costruite il vostro catalogo personale delle passini dell’anima...
L’opera che viene considerata la più importante di Renato Cartesio è il Discorso sul metodo che, come abbiamo detto, lui presenta come introduzione a tre brevi trattati [Diottrica, Meteore e Geometria] nei quali applica il metodo che lui ha messo a punto. Il titolo completo di questa opera è Discorso del metodo per ben condurre la propria ragione nella ricerca e questo testo è diventato uno dei “manifesti” della Filosofia moderna, uno dei programmi di Filosofia razionale a cui si ispira quasi tutto il movimento di pensiero dei secoli XVII e XVIII, come vedremo a suo tempo.
Che cosa rende affascinante questo testo facilitandone anche un po’ la lettura? Il fascino dell’opera [considerata la più importante] di Cartesio intitolata Discorso sul metodo [Discorso del metodo per ben condurre la propria ragione nella ricerca] consiste nel fatto di essere stata scritta in chiave autobiografica, e Cartesio la compone “descrivendo sé stesso e raccontando la sua storia interiore”, e non c’è dubbio che, nell’usare questo criterio, sia stato influenzato dalla lettura dei Saggi di Montaigne che hanno fatto scuola, che hanno creato uno stile. Come ricorderete, Montaigne scrive: «Questo, cara lettrice e caro lettore, è un libro sincero, scritto in buona fede. E sono io stesso la materia del mio libro». Cartesio, nell’incipit del Discorso sul metodo, scrive: «Il mio scopo non è quello di insegnare il metodo che ciascuna persona deve seguire per ben condurre la sua ragione, ma vorrei far vedere in che modo ho cercato di condurre la mia ragione». Però poi aggiunge: «La ragione è analoga in tutte le persone, ed essa è la sola cosa che ci rende esseri umani e ci distingue dalle bestie, ed è tutta intera in ciascuna persona. Dunque, se un buon metodo è valido per guidare la mia ragione, può essere valido anche per l’intelletto delle altre persone in quanto tutte fornite di ragione. Ma ciò non toglie che ogni persona deve, per conto proprio, cercare in se stessa la sua verità, cercare la sua identità perché ogni persona deve essere il più possibile certa della propria originalità, in quanto, più ci si avvicina alla propria specificità più ci si avvicina alla verità. Ogni persona, quindi, deve costruire sul proprio terreno». Cartesio, nel Discorso sul metodo, racconta come si sia impegnato [e s’impegni] a indagare nella propria interiorità con la ragione, sforzandosi di penetrare il più possibile nell’area della propria coscienza. Cartesio, per trovare la propria identità [per rispondere alla domanda: chi sono io?], cerca una bussola: si adopera per scoprire uno strumento con il quale si possa orientare in quell’enorme “labirinto dei fatti e delle opinioni” che si identifica con la sua coscienza. Per compiere questa attività di ricerca Cartesio racconta con molta franchezza di essersi sempre chiuso in “uno sdegnoso isolamento” [e non è una novità, anche Montaigne si rifugia nella sua torre per riflettere e scrivere, e anche in questo ha fatto scuola]. Chiuso nel suo isolamento Cartesio rifiuta ogni collaborazione e scrive: «Questo mio atteggiamento è un vero e proprio atto di egoismo, per cui nessun aiuto aspetto dalle altre persone e nessun aiuto credo di poter e di dover dare ad altre persone perché la ricerca della propria identità è esclusiva». E questo atteggiamento è stato chiamato “egoismo scientifico cartesiano”, ed è stato paragonato a “[habĭtus] un abito mentale” come se fosse un vestito da indossare per una particolare occasione perché il comportamento di Cartesio corrisponde a un pensiero profondo: scrive Cartesio nel Discorso sul metodo: «La persona non può credere di poter trovare la propria “vera identità [chi siamo?]” bella e fatta, e neppure può accoglierla passivamente. La ricerca e la scoperta dell’identità è un’opera di carattere personale, è un’impresa della soggettività di ciascuna persona cioè della ragione che vive e che agisce in ciascun essere umano». Con questa riflessione cartesiana la parola-chiave “ragione” - chiamata da Cartesio nel Discorso sul metodo a indicare “lo strumento che si identifica con la soggettività” e, quindi, con la responsabilità individuale, di ciascuna persona - entra a pieno titolo nel territorio dell’età moderna nel momento in cui il Seicento assume i caratteri di secolo della scienza. Quindi, la riflessione cartesiana porta a rifiutare il fatto che ci possa essere un’autorità costituita che imponga “la ragione delle” cose [che stabilisca come vera una determinata visione del mondo] costringendo ogni coscienza individuale, ogni persona a rinunciare alla ricerca della propria identità e a uniformarsi a un pensiero unico confezionato con affermazioni corrispondenti ai più vieti luoghi comuni. Ed è con questo spirito che Cartesio conduce la sua critica risoluta nei confronti della cultura del suo tempo e dei procedimenti educativi usati nel collegio [che si atteggia ad essere il migliore in senso assoluto] de La Flèche dove l’andamento dell’attività di istruzione non punta a insegnare a investire in intelligenza ma contribuisce a far sì che continui [anche nella classe dirigente] a propagarsi il virus dell’imbecillità, una malattia, afferma Cartesio sulla scia di Montaigne, tra le più insidiose.
Cartesio, dalla formulazione della sua critica che abbiamo studiato nei particolari poco fa trae due conclusioni [anche queste in linea con la Lezione presente nel testo dei Saggi” di Montaigne], conclusioni apparentemente irrilevanti nella loro semplicità, che determinano il cambiamento di un’epoca. Per una corretta e proficua educazione intellettuale, scrive Cartesio nel Discorso sul metodo, è necessario “imparare a vivere nel presente” [ad essere consapevoli che la sostanza del futuro è il presente] ed è necessario “imparare a pensare con la propria testa” [ad avere la consapevolezza che lo strumento della soggettività, che rende responsabile individualmente ogni persona, è la ragione]. Che cosa si può leggere in proposito?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
L’autore Gustave Flaubert [che tutte e tutti voi conoscete per via di Madame Bovary] ha voluto riprendere la riflessione di Montaigne e di Cartesio sul tema dell’imbecillità quando nel 1881 ha terminato di scrivere [lasciandolo però incompiuto] il celebre romanzo intitolato Bouvard e Pécuchet... I due personaggi [Bouvard e Pécuchet] protagonisti di questo romanzo si caratterizzano per essere due uomini mediocri, ingenui, patetici, comici e imbecilli perché - pur essendo brave persone – non hanno imparato a ragionare con la propria testa ma si sono abituati a pensare solo per luoghi comuni e ignorano [come scrive Montaigne] che «la persona non è una bottiglia che bisogna riempire ma un fuoco che è necessario accendere» e che «le persone sono nate le une per le altre: o le educhi o le subisci»... Il romanzo Bouvard e Pécuchet di Gustave Flaubert, per leggerlo o rileggerlo, lo trovate in biblioteca...
Adesso ci dobbiamo domandare in che cosa consiste “il metodo di Cartesio” ma prima dobbiamo riflettere sul fatto che le due citazione tratte dai Saggi di Montaigne che abbiamo appena letto non sono state scelte a caso ma perché compaiono - a riprova dell’operazione fatta dallo scrittore - nel romanzo-breve che stiamo leggendo intitolato Novella dell’avventuriero, pubblicato a Vienna nel 1937 e composto da Arthur Schnitzler. Come sapete, lo scrittore viennese prende spunto da un’annotazione scritta in margine da Montaigne all’altezza del capitolo XX del Libro I dei Saggi intitolato Filosofare è imparare a morire, per rappresentare un personaggio che Montaigne ha evocato con apprensione perché capace di predire alle persone il giorno e l’ora della loro morte, e «la persona diventa mortale [afferma Montaigne] quando conosce la sua ora, perché contrariamente rimanda, dilaziona, rinvia, proroga, differisce il pensiero della fine». La scorsa settimana questo personaggio è finalmente comparso sulla scena della Novella dell’avventuriero dopo che avevamo già letto più della metà del testo perché come sapete in questo romanzo la narrazione inizia e si sviluppa con la storia del giovane Anselmo Rigardi, un ragazzo nobile che, in seguito alla morte dei suoi genitori avvenuta durante l’epidemia di peste che colpisce Bergamo nell’anno 1520, si ritrova solo e, dopo aver superato lo sconforto iniziale, attratto dalla libertà che ha acquisito, decide di abbandonare il palazzo dove abita e di partire all’avventura e, nel giro di pochi giorni, vive una serie di esperienze inaspettate: vince ai dadi una ragazza, Anita, con la quale passa la sua prima notte d’amore in casa di un misterioso e buffo personaggio che li ospita, e il mattino seguente uccide in duello - essendo un abile spadaccino - il marito di lei, l’ambiguo conte Francesco Raspighi che li ha rintracciati, ma che, il giorno prima, nelle vesti di un losco individuo, si era giocato Anita ai dadi. Dopo questo tragico episodio, Anselmo riprende il suo viaggio con maggior prudenza tenendosi alla larga da situazioni rischiose finché, dopo giorni di cammino verso sud, rinfrancato dal bel paesaggio e dai buoni servizi che riceve per magiare e per dormire lungo la strada, si ritrova in un vasto spiazzo erboso traboccante di fiori di campo dove incontra un vecchio vestito con un saio marrone da monaco il quale si presenta, gli offre da bere e lo mette al corrente su come stanno le cose nel Paese in cui è capitato e - dopo averlo informato che il sovrano è in punto di morte, che il principe ereditario è fuggito in terra straniera, che un nobile potente e pericoloso vorrebbe spodestare il re, che lo Stato confinante si preparava ad un attacco - compare un cavaliere che si stacca dal gruppo armato di cui è alla testa e, al galoppo, seguito da uno scudiero che tiene per le briglie un cavallo sellato, si avvicina ad Anselmo e al vecchio e, perentoriamente, domanda loro dove sia la casa di Geronte, e il vecchio gli fa notare che il portone d’ingresso della casa che sta cercando è nascosto dal fitto rampicate che ricopre le mura che hanno di fronte. Il cavaliere bussa con forza al portone finché sulle mura appare il maggiordomo al quale tassativo dichiara di essere venuto a prelevare Geronte: deve portarlo a corte perché sveli ai consiglieri del re se e quando il sovrano morirà, in quanto è in gioco il destino dello Stato. Il maggiordomo, però, afferma che Geronte non intende allontanarsi da casa, ma il cavaliere urla che, se non ubbidirà, la casa verrà assaltata e la sua giovane figlia Lucrezia subirebbe violenza. Geronte, di fronte a questa minaccia, è costretto a seguire il cavaliere, e Anselmo vede uscire questo centenario, si meraviglia quando lui balza in sella con l’agilità di un ragazzo, percepisce la sua voce decisa mentre rassicura la figlia che lo saluta preoccupata e, nel momento in cui i due battenti del portone si richiudono, succede che gli sguardi di Anselmo e di Lucrezia s’incontrano e si attraggono. Anselmo, assai confuso, chiede al vecchio come sia possibile che esista un individuo capace di predire alla gente l’ora della morte, e, all’incredulo Anselmo, il vecchio risponde raccontando la sua storia: faceva parte, cinquant’anni prima, di un’allegra compagnia di sette giovani spensierati i quali - dopo aver passato una notte proprio nel vasto spiazzo erboso dove si trovano ora - vedono apparire, all’alba, il già vecchio Geronte che li invita a entrare in casa sua dove li accoglie benevolmente offrendo loro una lauta colazione, e poi - pensando che, conoscendo la sua arte, fossero venuti a posta - li congeda rivelando a ciascuno di loro, dopo averli guardati negli occhi, il giorno e l’ora della morte, e la previsione [dice il vecchio monaco ad Anselmo] si è puntualmente avverata per tutti, e lui è rimasto l’ultimo, e ormai sa - come gli è stato pronosticato da Geronte cinquant’anni prima - di dover morire alla mezzanotte di quel giorno. A questo punto succede qualcosa di inaspettato: il portone della casa di Geronte si apre un poco e, dallo spiraglio, Anselmo - ancora spaventato dal racconto del vecchio monaco - vede apparire la figura di Lucrezia, lui la raggiunge di corsa ed entra nella casa e tra i due giovani, inesorabilmente attratti l’una dall’altro, ha inizio una relazione idilliaca che per Anselmo potrebbe anche non finire mai ma la ragazza - dopo aver descritto il tipo di educazione che ha ricevuto dal padre al quale è profondamente legata e dal quale non si vuole staccare finché la morte non li separi - dichiara che, sebbene lui le piaccia e si senta attratta, è necessario si dicano addio: Anselmo rimane interdetto ma non può che adeguarsi al distacco. E ora leggiamo le ultime pagine della Novella dell’avventuriero.
LEGERE MULTUM….
Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero
Lucrezia diventava sempre di più un enigma per Anselmo il quale non riusciva assolutamente a concepire che gli occhi di una ragazza potessero esprimere tanta tenerezza e insieme una così ferma volontà di distacco, e mai avrebbe pensato di soffrire a tal punto per una creatura che ora doveva abbandonare. Intuì però che il di lei carattere dipendeva da come era stata educata da suo padre secondo la regola per cui la persona non è una bottiglia che bisogna riempire ma un fuoco che è necessario accendere. Tuttavia era troppo orgoglioso per lasciar affiorare alle labbra ciò che sentiva nel cuore. Si vestì, cinse la spada e fu pronto a partire. Ma lei si gettò un mantello sulle spalle, aprì la porta e, tenendolo per mano, accompagnò Anselmo fino al giardino immerso nel crepuscolo dell’alba. … Sul muro sopra il portone sedeva il maggiordomo. «Che ci fai, lassù?» gridò Lucrezia. E, con stupore di Anselmo, senza ombra d’irritazione o di spavento. «Controllo» rispose lui «se ritorna Geronte. Non gli farebbe piacere trovarsi in casa un giovanotto. Eh, lasciate stare la spada, vi sarebbe di poco aiuto contro Geronte». Ciò detto, si calò giù dal muro, e ora se ne stava lì, impalato come una sentinella, davanti al portone. «Apri» disse Lucrezia. «Lascia uscire questo giovane». «Troppo tardi,» osservò il maggiordomo «di lassù ho appena visto Geronte arrivare al galoppo». E rivolto ad Anselmo: «Vi consiglio, egregio signore, di nascondervi alla svelta nel parco. Si troverà poi il modo di farvi uscire». Anselmo scosse il capo: «Io aspetto il signor Geronte qui, davanti al portone, e nel momento stesso in cui entrerà, gli chiederò la mano di Lucrezia». Prima ancora che ella potesse rispondere qualcosa, si udì, perfino sul fondo morbido del prato, lo scalpitio sordo di un cavallo che si avvicinava al galoppo, e il maggiordomo non attese nemmeno un colpo per aprire il portone. Anselmo vide Geronte smontare senza aiuto di sorta, poi questi affidò le briglie al servitore e, ignorando per il momento Lucrezia e il giovane straniero, disse: «Occupati dell’animale. È in cammino da sei ore e ha riposato solo mezz’oretta: tutto il tempo che sono stato al castello del sovrano l’ho trascorso accanto al suo letto di morte. Ha esalato l’ultimo respiro proprio mentre entravo nella stanza, il Paese è senza guida, nelle vie della città i nobili incrociano le spade e i borghesi si affrontano a colpi di bastone. Si annunciano brutti tempi». Solo a quel punto parve accorgersi di Anselmo e di Lucrezia, tuttavia non cambiò minimamente espressione. Aprì le braccia e Lucrezia gli si strinse al petto. Ma Geronte si volse nel contempo ad Anselmo: «Vi ho veduto ieri sera, quando sono partito. Vi ringrazio d’aver preso in custodia la mia casa e mia figlia, dal momento che costui» indicò sprezzante il maggiordomo «così poco era all’altezza del suo compito. Sparisci!». Respinto da quel cipiglio, il servitore s’allontanò col cavallo. «Ma imparerà» aggiunse Geronte abbassando la voce «le persone sono nate le une per le altre: o ci premuriamo di educarle altrimenti siamo costretti a subirle».
Il centenario, che continuava a tenere la figlia tra le braccia, e questa figlia che sembrava considerare Anselmo quasi come un fantasma, erano entrambi così incomprensibili per il giovane da fargli apparire vane, se non addirittura ridicole, le parole che ancora un momento prima era deciso a rivolgere a Geronte. Forse adesso avrebbe potuto semplicemente allontanarsi senza salutare, forse era proprio questo che ci si aspettava da lui. Ma anche andarsene via a quel modo gli sembrava impossibile. … Geronte e Lucrezia gli volgevano le spalle e già sembrava che i due volessero allontanarsi senza badare a lui, quando il vecchio, girandosi a metà, gli rivolse tutt’a un tratto la parola: «Oggi, probabilmente, avrete ancora una lunga strada davanti a voi e non è per nulla certo che torniate di nuovo da queste parti. Non volete dunque rifocillarvi prima di riprendere il cammino?». Anselmo lanciò uno sguardo a Lucrezia, non potendo fare a meno di pensare che dietro l’invito si nascondesse l’intenzione di schernirlo, o addirittura l’inganno. Ma Lucrezia assentì molto benevolmente alle parole del padre e disse con semplicità, come se Anselmo fosse entrato giusto allora nel giardino: «Siate il benvenuto». Nel vedere che la ragazza era capace di rivolgersi a lui come a un ospite qualunque, Anselmo montò su tutte le furie, e ancor più l’indignava il fatto che Geronte non si comportasse con lui come riteneva dovesse fare un padre nei confronti dell’uomo che aveva trascorso la notte con sua figlia: come se lui non fosse un gentiluomo, anzi non fosse neppure un uomo.
E così disse: «Signor Geronte, non posso entrare in questa casa, e voi come gentiluomo non potreste ricevermi, se non varco questa soglia come promesso sposo di vostra figlia Lucrezia». «In tal caso,» s’affrettò a dire Lucrezia come per levare la parola di bocca al padre «in tal caso temo proprio, per quanto la cosa mi dispiaccia, che dovrete restare fuori». Nella sua puerile irruenza, Anselmo portò la mano alla spada, benché il gesto sembrasse folle anche a lui, e tuttavia era l’unico modo per affermare in quel momento la sua virilità. Poi disse: «Come volete. Non immaginavo di essere stato ospite di una sgualdrina questa notte». Sapeva di aver pronunciato in quel momento la parola meno cavalleresca che esistesse per il suo concetto di cavalleria, quella che mai un amante avrebbe proferito, lo sapeva al punto da sentirsi in pari tempo perfettamente pronto a offrire il suo cuore straziato alla spada del vecchio. E teneva l’arma ancora nel fodero quando Geronte già aveva sguainato la sua per l’affondo. Ma nel medesimo istante il vecchio lasciò ricadere la spada, e i suoi occhi stranamente si velarono. «Colpisci» gridò Anselmo mettendosi in parata per far capire che era pronto a difendersi. Ma Geronte scosse il capo e disse: «Vai in pace, giovane vetusto». Anselmo vide l’occhiata, per la prima volta inquieta, di Lucrezia al padre. Ma anche lui aveva compreso che cosa significava l’apostrofe di Geronte. «Completate la vostra vittoria,» disse «poiché avete già letto nei miei occhi che sono condannato». … «Lo sei di certo,» rispose Geronte «ma non è questa la tua ora». … «Dipende soltanto da voi!» gridò Anselmo offrendo il petto. «Fatela finita». «E quand’anche ti trafiggessi il cuore con la spada,» continuò Geronte «tu esaleresti il tuo ultimo respiro solo fra un anno, a questa stessa ora». Lucrezia si gettò al collo di Anselmo. «Resta,» disse «e perdonami». Anselmo la respinse, e poiché lei gli si stringeva con maggior veemenza, l’allontanò con gesto rude. Non disse una parola, si rizzò in tutto il suo vigore e si voltò per andarsene senza uno sguardo di commiato né a Geronte né a Lucrezia. Per un secondo sperò, pur sapendo la cosa impossibile, che lo raggiungesse una parola d’amore, di pietà, invece sentì soltanto che il portone si chiudeva alle sue spalle: e si ritrovò all’aperto, nell’ampia distesa erbosa, nella luce del sole mattutino, solo come non era stato mai, dietro di sé un mistero e uno anche più grande davanti a sé. Gocce di rugiada scintillavano su ogni stelo, i fiori rilucevano nei loro colori. Laggiù, presso la fontana, giaceva un monaco apparentemente immerso nel sonno, Anselmo tuttavia sapeva che l’uomo era morto. Gettò indifferente un fuggevole sguardo al cadavere e proseguì il suo cammino, nell’odorosa giornata primaverile, incontro alla morte - come ogni viandante in ogni giornata primaverile e autunnale, l’allegro come l’afflitto, il giovane come il vecchio, il pavido come l’ardito, il disperato come lo speranzoso, il sano come il convalescente, come ogni persona, insomma, cammina incontro alla morte - e tuttavia credeva di essere l’unico destinato a tale meta. In quel momento, fra tutti gli esseri umani, era lui l’unico mortale, perché conosceva la sua ora. …
Arthur Schnitzler termina questa novella in linea con la riflessione di Montaigne: «La persona diventa consapevole di essere mortale quando conosce la sua ora, contrariamente tende a rimuovere il pensiero della fine »[Schnitzler ha anche voluto lasciare uno schizzo per lo sviluppo del racconto]. E ora dobbiamo rispondere alla domanda: in che cosa consiste il metodo di Cartesio?
Come abbiamo detto dall’inizio, il metodo di Cartesio è basato sulle caratteristiche che sono proprie della Matematica e, quindi, non si tratta di un sistema originale ma l’autore vuole che sia conforme alla tradizione. Le regole della Matematica, afferma Cartesio, sono il modello da seguire per tutte le forme di conoscenza sia filosofica che scientifica perché si basano su principi evidenti: e come può la persona [si domanda Cartesio] cogliere questi principi? Li può cogliere, afferma Cartesio, con le due caratteristiche tipiche del pensiero matematico che sono anche due qualità della ragione umana: l’intuizione e la deduzione. L’intuizione è un tipo di ragionamento che prende possesso immediato e diretto di certe verità che quindi sono già presenti [a priori, sotto forma di idee universali?] nella mente di ciascuna persona. La deduzione invece è un tipo di ragionamento che serve a dimostrare una verità come conseguenza di un’altra verità, ed è capace di legare insieme una serie di intuizioni evidenti in modo da costruire una rete razionale, un sistema logico. Intuizione e deduzione [scrive Cartesio] sono “le operazioni del pensiero scientifico universale”, e “la coppia intuizione-deduzione” [“la diade”, come la definisce Cartesio] è la regola delle regole: una regola che non si acquisisce dall’esterno perché è tutt’uno con la ragione ma si ottiene attraverso una conoscenza “di carattere introspettivo”. E, per facilitare “la conoscenza introspettiva che conduce al sapere scientifico”, Cartesio propone una serie di regole: inizialmente, ne enumera ben trentasei, ma, siccome una delle caratteristiche della disciplina matematica è “la semplificazione”, le riduce a quattro fondamentali, e il metodo di Cartesio, come disciplina, si fonda su quattro regole fondamentali.
La prima è “la regola dell’evidenza”, secondo la quale è necessario accettare per vere solo le conoscenze che si presentano alla mente della persona come evidenti, chiare e distinte.
La seconda è “la regola dell’analisi”, secondo la quale è necessario sezionare e frazionare qualsiasi problema, cioè è necessario scomporre un’idea complessa nei suoi elementi semplici, in modo che, considerati separatamente, possano essere intuiti dalla mente della persona.
La terza è “la regola della sintesi”, secondo la quale, dopo aver conosciuto per intuizione uno per uno gli elementi semplici, è necessario ricomporre l’idea complessa in modo che la mente della persona dia forma a un sistema logico che rappresenti un quadro delle conoscenze da acquisire.
La quarta è “la regola della enumerazione”, secondo la quale è necessario passare in rassegna i vari dati del problema, revisionando ed enumerando tutti i risultati ottenuti nelle tappe precedenti in modo che la mente della persona sia sicura di non omettere nulla.
Le regole su cui si fonda il metodo di Cartesio corrispondono a quattro parole-chiave ben note: l’evidenza, l’analisi, la sintesi e la revisione, e a noi viene da dire che ci troviamo di fronte a qualcosa che conoscevamo già [ci par di sentire Montaigne affermare che: «Tutte e tutti noi siamo filosofe e filosofi involontari e fortuiti»]. Queste cose le sapevamo già perché il Discorso sul metodo di Cartesio ha plasmato la nostra mentalità moderna, e Cartesio è il primo ad affermare che il suo metodo è valido proprio perché non ha nulla di originale in quanto attinge [vuole attingere] alla Storia del Pensiero Umano. Difatti Cartesio ha studiato bene tanto la Metafisica di Aristotele quanto i tre fondamentali dialoghi di Platone intitolati Fedone, Menone e Timeo. In queste opere si ragiona [si è ragionato per secoli, soprattutto durante il periodo della Scolastica medioevale, come abbiamo studiato a suo tempo] sul concetto di “a priori”, sul tema degli universali “ante rem” [le Idee vengono, esistono, prima delle cose], per cui Cartesio si domanda [e noi con lui] se le Idee siano già presenti in origine nella nostra mente e in che modo lo siano [con Cartesio il dibattito su questi temi ricomincia nell’ambito della modernità]. Poi Cartesio studia le Opere di Galileo per dare un valore teoretico al metodo del grande scienziato [ingiustamente condannato e umiliato dall’Inquisizione], il quale, ci ricorda Cartesio, aveva già sperimentato con le stesse regole, e il merito di Cartesio è quello di “aver ben digerito” [come scrive lo stesso Cartesio] il metodo di Galileo e di averlo divulgato [con un “Discorso” chiaro] in modo da renderlo praticabile al maggior numero possibile di persone perché ogni volta che la persona [ciascuna e ciascuno di noi] si applica per compiere un ragionamento deve essere consapevole del fatto che è necessario attivare le regole dell’evidenza, dell’analisi, della sintesi e della revisione in modo che la mente ne tragga vantaggio, beneficio, piacere, soddisfazione. Fare l’inventario delle Idee che abbiamo in mente [qui c’è Aristotele] per poterne giudicare la bontà [qui c’è Platone] è uno degli obiettivi “scientifici” riguardanti l’umana convivenza [qui c’è Galileo] che il metodo di Cartesio [in chiave divulgativa] si propone di raggiungere.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Cartesio ha studiato bene il testo della Metafisica di Aristotele e i testi dei dialoghi di Platone intitolati Fedone, Menone e Timeo... Ricordate l’incipit [la prima riga] della Metafisica di Aristotele ?...
Scrivetela...
E sapete [ricordate] quale, dei tre dialoghi di Platone citati [Fedone, Menone e Timeo], ha per tema “la virtù”, quale “l’anima” e quale “la natura”?... Fate una ricerca in biblioteca consultando con metodo i volumi contenenti i testi di queste Opere …
Anche padre Marin Mersenne, amico e divulgatore [come sappiamo] delle Opere di Cartesio, da matematico e filosofo sostiene il metodo “scientifico” perché è convinto soprattutto che serva per imparare a fare l’inventario delle Idee che abbiamo in mente per poterne giudicare la bontà [per far operare sempre la ragione a fin di Bene], e padre Mersenne, all’interno dell’istituzione ecclesiastica, facendo molta attenzione a non uscire dal perimetro dell’ortodossia, getta le basi di un’esegesi che possa giustificare il metodo scientifico ancora inviso all’Inquisizione. In che cosa consiste il suo impegno? Padre Marin Mersenne, oltre a essere un matematico, un musicologo e un filosofo, è anche un valido esponente del “movimento esegetico moderno” i cui membri si dedicano al commento dei testi biblici [dell’Antico o Primo e del Nuovo Testamento] avendo come guida le Opere di Lorenzo Valla [il maggior filologo dell’Umanesimo] e poi di Erasmo da Rotterdam [uno dei maggiori filologi del Rinascimento]: padre Mersenne, seguendo questa linea di pensiero, utilizza la Filologia per interpretare i testi nella consapevolezza che i Libri biblici possano anche giustificare la bontà della ricerca scientifica [che implica la Sapienza] e del metodo sperimentale [che implica la Saggezza]. Del “movimento esegetico moderno” fanno parte [come abbiamo studiato durante il viaggio dello scorso anno] scienziati come Copernico, Keplero e Galileo: costoro, matematici e astronomi, si dedicano all’esegesi biblica per trovare nei testi della Sacra Scrittura le parole-chiave e le idee-cardine che possano giustificare la predilezione di Dio verso il sapere, la sapienza e la conoscenza, mettendo in evidenza che Dio, attraverso il lessico, lo stile e la visione del mondo degli scrivani ebraici, non solo non condanna questi concetti ma li esalta. A contrasto dei verdetti con cui i giudici dell’Inquisizione condannano gli scienziati è necessario dimostrare che «Dio ama la persona che si avvicina con buona volontà alla conoscenza, alla sapienza, alla ricerca [condotta a fin di Bene], avvalorando che Dio stesso è Sapienza».
Padre Mersenne è un esegeta che indirizza il mondo della cultura verso quei Libri della Letteratura biblica che contengono parole e idee che esaltano la Sapienza e la Saggezza in modo da giustificare la bontà della ricerca scientifica, e, in proposito, commenta i Libri del Pentateuco [i primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio] e i sei Libri successivi detti dei Profeti anteriori [Giosuè, Giudici, i due di Samuele e i due dei Re] andando oltre quella che è l’interpretazione convenzionale che legge in questi testi “il racconto della conquista della Terra promessa” per far risaltare il fatto che la narrazione presente in queste opere propone anche e soprattutto “la Storia della conquista del sapere” [la Storia dell’emancipazione dell’Umanità dall’ignoranza].
Padre Mersenne propone, in particolare, una lettura in questa chiave del Primo Libro dei Re, che contiene elementi noti anche a chi non lo ha mai letto. Padre Mersenne assembla pure nel 1618 una serie di passi tratti dal Primo Libro dei Re per costruire “un manifesto” che legittimi in chiave teologica la bontà della ricerca scientifica: questo testo genera un dibattito all’interno dell’istituzione ecclesiastica e avvalora il pensiero degli scienziati [considerati fautori della Sapienza e della Saggezza] come per esempio quello di Francis Bacon. Bacon [e quando lo abbiamo incontrato due settimane fa abbiamo detto che avremmo ripreso un tema di carattere esegetico] si avvale del “manifesto” di padre Mersenne quando compone nel 162 il trattato utopico intitolato La nuova Atlantide che, come sappiamo, è un’isola che ospita una società ideale guidata dagli scienziati mediante una struttura di governo che Bacon chiama “la Casa di Salomone” perché [come abbiamo già studiato quindici giorni fa] il concetto di Conoscenza, di Sapienza e di Saggezza sul piano letterario è legato alla figura di re Salomone, che è il protagonista nel testo del Primo Libro dei Re commentato da padre Mersenne. Il Primo Libro dei Re racconta gli ultimi anni e la morte del re Davide, poi la storia del regno di Salomone [con la famosa “visita della regina di Saba”], poi narra la divisione dello Stato ebraico e la nascita di due regni separati [quello di Giuda a sud e quello di Israele a nord con la loro relativa decadenza a causa del venir meno della Sapienza e della Saggezza dei governanti], e negli ultimi capitoli del Libro il protagonista diventa il profeta Elia. Padre Mersenne, nel suo commento, mette in evidenza il motivo dominante per cui questo Libro nel IV secolo a.C. è stato scritto: «Salomone è ben visto da Dio perché non chiede in dono la ricchezza, la gloria, l’immortalità ma la Sapienza e la Saggezza perché il buon governo e una competente amministrazione - così come la Giustizia e la Scienza - dipendono dalla Sapienza e dalla Saggezza che sono doni di Dio utili alla persona perché possa fare l’inventario delle Idee che ha in mente per poterne giudicare la Bontà in modo che la ragione possa operare “scientificamente” sempre a fin di Bene».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando il volume della Bibbia [che avete nella vostra biblioteca domestica] leggete i capitoli 3, 5 e 10 del Primo Libro dei Re... Su un fascicolo [che potete richiedere in biblioteca] e navigando in rete andate a osservare gli affreschi che Piero della Francesca ha dipinto nell’abside della chiesa di San Francesco ad Arezzo [tra il 1452 e il 1460] e, mentre li guardate, leggete i primi 13 versetti del capitolo 10 del Primo Libro dei Re, chi cerca trova...
E, per concludere, leggiamo il testo del cosiddetto “manifesto di padre Mersenne o del Circolo Mersenne” che vuole avvalorare la Bontà della ricerca scientifica e del metodo sperimentale. La figura di Salomone emerge come se questo personaggio fosse uno scienziato ante litteram: con le caratteristiche che la persona dedita alla scienza deve avere.
LEGERE MULTUM….
Dal Primo Libro dei Re [Manifesto di Marin Mersenne per avvalorare la bontà della ricerca scientifica]
«Ora [disse Salomone], Signore, Tu hai fatto regnare me al posto di Davide mio padre. Ebbene, io sono un ragazzo, non so come regolarmi: concedimi un cuore che sappia rendere giustizia al popolo e sappia distinguere il bene dal male, perché chi potrebbe governare senza queste doti?». Al Signore piacque che Salomone avesse domandato Sapienza e Saggezza nel governare. Dio gli disse: «Siccome non hai chiesto né una lunga vita, né la ricchezza, né la morte dei tuoi nemici, ma bensì il discernimento nel giudizio, ecco, faccio come tu hai detto: ti concedo un cuore saggio e intelligente come a nessuno prima di te» … Dio concesse a Salomone Saggezza, Intelligenza e una mente capace di giudicare la Bontà dei suoi pensieri. La Saggezza di Salomone divenne nota fra tutti i popoli limitrofi. Salomone pronunciò molti proverbi e compose numerosi canti. Parlò di piante, dal cedro del Libano all’issopo che sbuca dai muri; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci. Da tutte le nazioni venivano per ascoltare la Sapienza di Salomone, e la regina di Saba, sentita la sua fama, venne per metterlo alla prova con enigmi. Venne in Gerusalemme con grandi ricchezze, con cammelli carichi di aromi, d’oro e di pietre preziose. Disse a Salomone quanto aveva pensato, e lui rispose a tutte le sue domande. La regina di Saba, quando ebbe ammirato tutta la Saggezza di Salomone e la Sapiente attività dei suoi ministri, rimase senza fiato. Allora disse: «Era vero, dunque, quanto avevo sentito sul conto della tua Saggezza! E non avevo voluto credere a quanto si diceva, finché non sono giunta qui; ebbene, beate le persone che stanno con te e possono ascoltare i tuoi discorsi pieni di Saggezza e ricchi di Sapienza!» …
Dobbiamo pretendere sempre di ascoltare discorsi pieni di Saggezza e ricchi di Sapienza [a cui seguano i fatti]! Montaigne, Bacon, Cartesio e Mersenne ritengono che sia necessario riflettere su quattro grandi temi: l’Io, Dio, il Mondo e il dubbio.
Perché i nostri compagni di viaggio [in particolare Cartesio] indicano questi temi? Per rispondere a questa domanda dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, quindi, la Scuola è qui e [fra quindici giorni, dopo aver assaporato l’arrivo della primavera sul territorio del secolo della scienza] il viaggio continua…