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SUL TERRITORIO DEL SECOLO DELLA SCIENZA SI OPERA PER DIVULGARE IL PENSIERO ETICO DI EPICURO E IL METODO SPERIMENTALE DI GALILEO ...

Lezione N.: 
19

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi 

La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza  8-9-10  maggio 2019

SUL TERRITORIO DEL SECOLO DELLA SCIENZA

SI OPERA PER DIVULGARE

IL PENSIERO ETICO  DI EPICURO E IL METODO SPERIMENTALE DI GALILEO ...

     Ben tornate e ben tornati a Scuola. Il diciannovesimo itinerario, che ci apprestiamo a percorrere questa sera, è il terzultimo di questo viaggio che dopo sette mesi si sta per concludere sul territorio de “la sapienza poetica e filosofica del ‘600, il secolo della scienza”, ma questa parola ha raggiunto l’autonomia, si è emancipata in questo secolo che porta il suo nome? Ne al termine di questo viaggio.

     Tre settimane fa, strada facendo, siamo entrate ed entrati in contatto con quel fenomeno d’opinione che è stato denominato: “il movimento intellettuale libertino”. Questo movimento, che vuole distinguersi dalla cosiddetta “moda libertina” che prende campo - come sappiamo - in certi ambienti dell’aristocrazia francese e poi europea, è suddiviso in molte correnti e nasce e si sviluppa per iniziativa di un certo numero di intellettuali che si sono formati intorno a Cartesio studiando, in particolare, le Opere di Cartesio, per cui cominciano a catalogare [a favore di Cartesio ma anche contro Cartesio] una serie di concetti che, gradualmente, vanno a costituire la base di un nuovo pensiero filosofico, un pensiero, per il momento, ancora confuso ma che si strutturerà e produrrà molti frutti nel secolo successivo, il 1700, come vedremo nei viaggi dei prossimi anni.

     Quali sono i punti salienti che caratterizzano il pensiero [ancora disorganico, disordinato e a volte confuso] del “movimento intellettuale libertino”? I membri delle varie correnti del “movimento intellettuale libertino” mettono in discussione una serie di elementi, soprattutto due idee che hanno rafforzato nel clima ideologico della Controriforma e anche della Riforma il loro carattere di dogmi.

     In primo luogo viene messa in discussione l’idea dell’esistenza di Dio, in particolare dell’esistenza del “Dio che si rivela attraverso le Sacre Scritture” di cui gli intellettuali del momento sono, tuttavia, appassionati studiosi, quindi, gli intellettuali libertini non fanno professione di ateismo ma si dichiarano “deisti” [e questo termine entra ora in circolazione e inizia un suo percorso che seguiremo nel corso del tempo] perché orientano la loro attenzione sull’idea di una divinità che non può non identificarsi con la Natura, secondo il pensiero panteista di Giordano Bruno, o che non può non immedesimarsi con la Ragione, secondo il pensiero teoretico della cultura greca.

     Poi gli intellettuali libertini mettono in discussione l’idea dell’immortalità dell’Anima e preferiscono supporre, secondo il pensiero aristotelico di Pietro Pomponazzi, che l’Anima sia un elemento attivo della mente umana e che, quindi, svolga un’attività di carattere intellettivo in funzione della conoscenza e dell’apprendimento e, di conseguenza, non possa esistere né agire senza il corpo, per cui, quando si spengono le funzioni del corpo, si spegne anche l’Anima.

     Seguendo anche la linea di pensiero che scaturisce dai Saggi di Montaigne, il “movimento intellettuale libertino” riscopre e nutre interesse per il pensiero di determinate correnti della filosofia greca di stampo ellenistico, in particolare per quella atomistica: stiamo per incontrare un personaggio che interpreta questa tendenza, sebbene rifiuti categoricamente - nel solco dello spirito contraddittorio che caratterizza quest’epoca - di appartenere al movimento libertino perché ambisce ad andare oltre. Inoltre, vi ricordo come già sapete che questa sera faremo anche un breve viaggio in Cina insieme a un altro importante personaggio che ci sta aspettando. Ma procediamo con ordine.

     Il “movimento intellettuale libertino” favorisce [anche sulla scia della linea di pensiero che scaturisce dai Saggi di Montaigne] la rinascita di un interesse per la filosofia greca, in particolare, per il pensiero ellenistico di Democrito e di Epicuro. Il personaggio che, per primo, coltiva questa tendenza è un ecclesiastico che si dichiara fedele all’ortodossia [però non si cura del fatto che il pensiero ellenistico di Democrito e di Epicuro sia stato condannato dall’Inquisizione]: stiamo parlando del filosofo, teologo, matematico e astronomo Pierre Gassendi, forse meno noto ma non meno importante dei personaggi di spicco che abbiamo incontrato finora.

     Pierre Gassendi è nato il 22 gennaio 1592 a Champtercier, un piccolo comune [oggi conta poco più di 800 abitanti] situato nel dipartimento delle Alpi dell’Alta Provenza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida della Francia e navigando in rete andate a visitare il paese di Champtercier e il dipartimento delle Alpi dell’Alta Provenza, buon viaggio…

     Pierre Gassendi ha frequentato le classi inferiori e le superiori a Aix-en-Provance, poi si è trasferito ad Avignone dove, nel 1614, si è laureato in Teologia, e nel 1616 ha ricevuto gli ordini religiosi, e l’anno successivo è stato nominato magister di Retorica presso l’Università di Aix-en-Provance. Nel 1626 Gassendi riceve il titolo di canonico della cattedrale di Digne.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete fate visita alla cittadina di Digne-les-Bains [che conta circa 18 mila abitanti] anch’essa ubicata nel dipartimento delle Alpi dell’Alta Provenza:  in particolare, potete osservare sulla rete le numerose immagini della monumentale cattedrale quattrocentesca di Digne dedicata a Saint-Jérôme [San Gerolamo], buon viaggio  

     Nel 1645 l’abate [con questo appellativo preferisce essere chiamato] Pierre Gassendi si trasferisce a Parigi dove viene assunto all’Università per insegnare Matematica e Filosofia, e anche per insegnare Astronomia al Collegium Trilingue, che oggi si chiama Collège de France ed è una storica istituzione parigina sulla quale e della quale con l’enciclopedia e in rete potete raccogliere notizie e immagini. Pierre Gassendi fino al 1648 è stato un membro attivo del “Circolo Mersenne” [e conoscete le caratteristiche di questa particolare associazione itinerante diretta fino alla sua morte da padre Marin Mersenne che mette in relazione gli intellettuali europei favorendo lo sviluppo del dibattito culturale sui temi della modernità] e, quindi, Pierre Gassendi appartiene a quella categoria di intellettuali, che spesso sono degli ecclesiastici, che sanno destreggiarsi molto bene negli ambienti culturali della loro epoca facendo sempre uso di “una prudente ambiguità”: per questo Gassendi rifiuta l’etichetta di “libertino” anche se alimenta lo spirito di questo movimento al quale afferma categoricamente di non appartenere sebbene si debba affermare che ne abbia fatto positivamente progredire il pensiero.

     Pierre Gassendi, scrivendo le sue Opere e insegnando all’Università, s’impegna [è morto a Parigi nel 1655] sul piano scientifico e filosofico ad affrontare quattro importanti questioni [due contro e due a favore]: contro la dottrina degli Accademici aristotelici, contro la metafisica di Cartesio, in favore del pensiero atomistico di Epicuro e per la divulgazione del metodo sperimentale di Galileo Galilei: ma procediamo con ordine.

     In primo luogo Gassendi combatte “contro l’autorità degli Accademici aristotelici”, ancora dominatori in tutti gli ambienti universitari europei, che come sappiamo leggono le Opere di Aristotele [la Fisica e la Metafisica] in modo acritico senza volerle interpretare alla luce delle nuove scoperte e, quindi, contraddicendo lo spirito aristotelico, rimangono indifferenti nei confronti della nascente scienza moderna. Dalle Lezioni tenute presso l’Università di Aix-en-Provance nasce nel 1624 la prima importante opera di Pierre Gassendi intitolata Esercitazioni in forma di paradossi contro la dottrina e contro la dialettica degli Aristotelici. In quest’opera Gassendi, per denunciare la ricaduta negativa che ha l’insegnamento degli Accademici aristotelici in ambito universitario, va a ritroso e critica l’operato degli Scolastici medioevali [Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Abelardo: i pilastri della Filosofia scolastica che abbiamo incontrato a suo tempo], li critica per il modo in cui hanno costruito la metafisica cristiana utilizzando il pensiero dialettico di Aristotele contenuto nel trattato intitolato Metafisica nel quale il filosofo per eccellenza [«il Maestro di color che sanno», come scrive Dante] elabora, con ingegno, in modo logico e categoriale, il sistema di funzionamento dell’intelletto che procede sulla via della conoscenza: è una formidabile costruzione teorica quella contenuta nella Metafisica di Aristotele, che però [puntualizza Gassendi] non permette di “conoscere la realtà così com’è” ma “come la mente pensa che sia”. Aristotele, afferma Gassendi, racchiude la conoscenza dentro “una rete di dieci categorie astratte” e, quindi, “sostituisce con parole ideali la conoscenza delle cose reali” e, di conseguenza, come è possibile, scrive Gassendi, che gli Scolastici possano proclamare razionalmente l’esistenza di Dio senza avere l’esperienza diretta di questo Ente e dei Fenomeni che lo riguardano? Gassendi ritiene che nessuna metafisica, nessuna conoscenza del mondo ultraterreno, sia possibile perché nessuna metafisica può basarsi su un ragionamento astratto e tanto meno trattandosi di mondo ultraterreno può rifarsi ad un’esperienza concreta.

     Quindi, in secondo luogo, Pierre Gassendi critica Cartesio perché, anche lui, costruisce [sebbene la chiami “nuova”] una metafisica fondata sullo stesso ragionamento astratto e antico della Filosofia scolastica, perché, come sappiamo, Cartesio ha bisogno di proclamare “l’esistenza di Dio a priori” come concetto che garantisca “il fondamento di verità” [la veracità] al suo sistema. Di conseguenza, afferma Gassendi, è solo con la fede che si può credere in Dio [e anche Cartesio - sostiene Gassendi - lo sa benissimo] mentre con la ragione si può intuire che non è possibile arrivare a dimostrarne l’esistenza di Dio, anche se, scrive Gassendi, l’ingegnosità della ragione è in grado di creare presupposti e congetture che possano prefigurare, rappresentare simbolicamente delle prove dell’esistenza o della non-esistenza di Dio. Gassendi, per mettere in discussione il pensiero metafisico di Cartesio [e ne nasce un’animata polemica in proposito nell’ambito del Circolo Mersenne], scrive un’opera pubblicata nel 1644 intitolata Disquisizione metafisica ovvero dubbi e repliche contro la metafisica di René Descartes.

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C’è un presupposto o una congettura creata dall’ingegnosità della vostra ragione che possa rappresentare simbolicamente una prova dell’esistenza o della non-esistenza di Dio?... Scrivete quattro righe in proposito [«Siamo tutte filosofe e filosofi involontari» dice Montaigne]...

     Come abbiamo detto, Pierre Gassendi, scrivendo le sue Opere, s’impegna ad affrontare quattro importanti questioni, due contro e due a favore. Le due questioni contro [contro la dottrina degli Accademici aristotelici e contro la metafisica di Cartesio] le abbiamo appena illustrate, e ora dobbiamo riflettere sulle due questioni a favore: con un’operazione audace, Gassendi ripropone il pensiero etico e atomistico di Epicuro e s’impegna nella divulgazione del metodo sperimentale di Galileo Galilei. Come e perché Pierre Gassendi è a favore del [blasfemo, secondo il Sant’Uffizio] pensiero etico e atomistico di Epicuro?

     Secondo Pierre Gassendi l’unica Filosofia possibile, l’unico pensiero che possa dare un quadro effettivo della realtà è quello di Epicuro [Epicuro di Samo, 341-270 a.C.] basato sulla teoria dell’atomismo, già proposto da Democrito di Abdera, 460-371 a.C. sulla scia di Leucippo di Mileto, V secolo a.C.. A questo proposito, Pierre Gassendi scrive un’opera pubblicata a l’Aia nel 1649 intitolata Osservazioni sul Decimo Libro di Diogene Laerzio: un trattato che contiene un’ampia esposizione della Fisica di Epicuro, un dettagliato commento sui punti salienti dell’Etica epicurea, un’esegesi [una spiegazione] del testo delle Opere di Epicuro, in particolare delle Lettere, e una difesa [un’apologia] per la coerenza che Epicuro ha dimostrato nel mettere in pratica il suo pensiero filosofico. Gassendi denigra il fatto che la cristianità abbia, per secoli condannato, messo al bando il pensiero di Epicuro e, in particolare, i testi delle sue Lettere. Pierre Gassendi vuole dimostrare come le idee etiche di Epicuro si concilino con i principi morali del cristianesimo e come questo fatto, sostiene Gassendi, possa rendere veritiero anche il pensiero fisico di Epicuro basato sull’atomismo, già proposto da Democrito di Abdera.

     Perché Pierre Gassendi intitola la sua opera Osservazioni sul Decimo Libro di Diogene Laerzio: a quale Libro si riferisce e chi è Diogene Laerzio? Diogene Laerzio, che molte e molti di voi conoscono perché in questi anni abbiamo utilizzato costantemente la sua opera, è uno scrittore di Storia del III secolo [vissuto tra il 200 e il 250 d.C.] - così chiamato Laerzio perché è nato nella città di Laerte in Cilicia, la regione dell’Asia Minore a sud della Cappadocia - il quale ha scritto un’opera famosissima e utile, in dieci Libri, intitolata Vite e dottrine dei filosofi. Pierre Gassendi si rifà [commentandolo in chiave moderna] al Decimo Libro di quest’opera dove Diogene Laerzio presenta la vita e la dottrina di Epicuro. Gassendi, nelle sue Osservazioni sul Decimo Libro di Diogene Laerzio, mette in evidenza che Epicuro è nato nel 341 a.C. sull’isola di Samo delle Sporadi meridionali, e questo fatto ha una valenza particolare perché su quest’isola si è sviluppata la più autorevole Scuola di ingegneria, di scultura e di cesellatura dell’età arcaica: questa Scuola, alla quale guarda con interesse il Gassendi scienziato, non ha solo un programma di carattere tecnico, non insegna esclusivamente a costruire oggetti di gran pregio, ma è anche un istituto che educa a riflettere sul fatto che, per diventare brave artigiane e bravi artigiani, è necessario lo studio e l’esercizio della “poesia” [la scienza, la tecnica e le discipline umanistiche devono procedere di pari passo]. Secondo il programma della Scuola di Samo, la disciplina poetica serve [e Gassendi fa sue queste idee in quanto scienziato] per favorire lo sviluppo di una serie di competenze fondamentali: l’acquisizione del senso della proporzione, dell’armonia, dell’euritmia [il senso della misura], e poi per capire meglio i concetti della compiutezza, della completezza e della perfezione [e ricorderete che la lingua greca, per definire questi concetti, usa un solo termine: “téleios”, una parola-chiave coniata dalla Scuola di Samo]. Quindi, se le artiste e gli artisti [così come prescrive il Manifesto della Scuola di Samo] non si fossero applicati nella disciplina poetica non avremmo le statue, i templi, gli edifici e tutti gli oggetti preziosi che la cultura dell’Ellade ci ha lasciato in eredità [per riflettere su quale debba essere la natura della scienza e della tecnica].

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Utilizzando la guida della Grecia e navigando in rete fate un’escursione sull’isola di Samo per visitare i suoi tre principali centri abitati: Sàmos, Kokàri e Karlovàssi…  È bene ricordare che a Samo non è nato solo Epicuro ma anche l’astronomo Aristarco e anche Pitagora...

Samo è terra feconda per la Storia del Pensiero Umano, visitatela...

     Di conseguenza, Epicuro, nascendo a Samo, ha potuto usufruire fin da bambino di un clima culturale, e anche economico, particolarmente favorevole. Pierre Gassendi senza alcun pregiudizio osserva [e invita ad osservare le lettrici e i lettori della sua opera] che il pensiero di Epicuro si fonda sul concetto di “materialismo”: secondo Epicuro il mondo è un “apparato meccanico” fatto di atomi e, quindi, il mondo [visto che esiste solo questo mondo materiale] ha valore di per sé. Il pensiero etico di Epicuro si fonda sull’idea che la felicità si può trovare - sebbene a frammenti - in questo mondo, per cui la vita umana ha senso di per sé e, in questa prospettiva, la scienza, per Epicuro [e Gassendi vuole portare i temi del pensiero di Epicuro - che considera virtuosi - nel secolo della scienza], assume un grande valore come progressivo strumento di liberazione dai timori e dalle superstizioni. Per quanto riguarda il tema del “piacere”, il pensiero di Epicuro, afferma perentoriamente Gassendi, è completamente diverso da quello che, dai suoi detrattori, gli viene attribuito: si etichetta come “epicurea” una persona che è amante dei piaceri smodati, ma questa affermazione non ha nessun senso [è come la definizione che si dà dell’amor platonico]. Epicuro, precisa Gassendi, intende il piacere in una maniera che è addirittura ascetica perché, secondo Epicuro, sono da seguire solo i piaceri naturali e necessari, cioè quelli legati alla conservazione della vita: mangiare sobriamente quando si ha fame, bere quando si ha sete, riposare quando si è stanchi. Del piacere sessuale, puntualizza Gassendi, Epicuro dice che non giova, anzi, che è nocivo se non è accompagnato da “pathè” che, in greco, significa “sentimento”. Insomma, Epicuro afferma con determinazione che le voglie smodate e la sregolata trasgressione non conducono al piacere, anzi, sono, per lo più, fonte di sofferenza, e il piacere consiste essenzialmente nell’attenuare il più possibile ogni forma di dolore. Epicuro ha una concezione etico-ascetica del piacere che il cristianesimo, afferma Gassendi, può assumere come propria. Gassendi ritiene che le opere di Epicuro, in particolare la Lettera a Meneceo o Lettera sulla felicità, vadano inserite tra i testi edificanti per una corretta educazione cristiana, invece di essere messe all’Indice.

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Il testo della Lettera a Meneceo o Lettera sulla felicità di Epicuro è formato da poche pagine, è scorrevole, è piacevole e induce ad una profonda riflessione: leggetelo o rileggetelo, lo trovate in biblioteca

     L’etica è la disciplina che risponde alla domanda: “che cos’è bene per l’essere umano?” E, secondo Gassendi, costituisce la parte del pensiero di Epicuro che, insieme alla teologia, è stata la più fraintesa.

     Nella sua opera intitolata Osservazioni sul Decimo Libro di Diogene Laerzio, Pierre Gassendi riflette sul rapporto tra la morale cristiana e l’etica in Epicuro. Quando Epicuro afferma che “il bene si identifica con il piacere” insiste sul fatto che il piacere deve avere “un fine secondo natura”, e con l’espressione “secondo natura” Epicuro si riferisce, afferma Gassendi, a quella che lui considera la più importante dote naturale che la persona possiede: la sua razionalità. È la razionalità umana, scrive Epicuro, che deve ispirare “sobriamente” alla persona le norme dell’azione. Epicuro, afferma Gassendi,, in tutte le sue affermazioni, insiste sull’avverbio “sobriamente” e accompagna questo avverbio con una serie di termini che vanno tradotti in regole e trasformati in stile di vita: la misura, la frugalità, la temperanza, la severità, la semplicità, l’autocontrollo, la parsimonia, la regolarità, la modestia, la lucidità, l’essenzialità, la linearità. E Gassendi è ben lieto di affermare che queste parole-chiave - che Epicuro usa in concomitanza con l’affermazione: “il bene si identifica con il piacere” - sono diventate virtù cristiane e, di conseguenza, possiamo sostenere, afferma Gassendi, che “il piacere” è un valore [maggiore della sofferenza].

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Quali di queste parole [non più di tre] – la misura, la frugalità, la temperanza, la severità, la semplicità, l’autocontrollo, la parsimonia, la regolarità, la modestia, la lucidità, l’essenzialità – scegliereste per prime per dare un senso all’avverbio “sobriamente”?... 

Scrivetele…

     La dottrina etica epicurea, afferma Gassendi, è caratterizzata poi da tre parole-chiave fondamentali: “aponìa”, “ataraxìa” e “autàrcheia”. Epicuro, scrive Gassendi, spiega che “il piacere corrisponde all’assenza del dolore fisico” e questa situazione viene tradotta dal temine greco “aponìa” [senza dolore] ma, soprattutto, il “piacere” [edoné] è da intendersi come “la liberazione dell’anima dai turbamenti psichici e dai timori” e questa situazione corrisponde, in greco, al termine “ataraxìa” [l’imperturbabilità]. L’azione è etica [sostiene Epicuro] quando è capace di eliminare le sofferenze del corpo e i turbamenti dell’anima in modo da ottenere “autàrcheia” [l’autogestione fisica e psichica, l’autosufficienza]. «L’aponìa [senza dolore fisico], l’ataraxìa [senza turbamento psichico] e l’autàrcheia [l’autosufficienza materiale e intellettuale] sono valori che rendono la persona [scrive Epicuro, con ironia] in tutto simile agli dèi». Gassendi, ragionando da scienziato, condivide la procedura epicurea, e ha visto giusto quando ha intuito che i temi proposti da Epicuro sarebbero diventati le questioni fondamentali di una disciplina che oggi viene chiamata “la bioetica” che [ma spesso è ancora sotto l’egida - direbbe Gassendi parafrasando Epicuro - del mito e della superstizione] deve occuparsi di combattere il dolore, di evitare gli accanimenti terapeutici, di fare in modo che la vita arrivi al suo termine in modo dignitoso per la persona, tanto per fare alcuni esempi. Purtroppo, ancora oggi, nonostante le riflessioni di Epicuro e di Gassendi, spesso, questi argomenti vengono affrontati con piglio ideologico piuttosto che come temi esistenziali di carattere umanitario.

     Nella sua opera intitolata Osservazioni sul Decimo Libro di Diogene Laerzio, Pierre Gassendi riporta il cosiddetto “ catechismo di Epicuro” così come lo ha sintetizzato in formule lo studioso latino Filodèmo di Gàdara. Filodèmo, 110-30 circa a.C., nato nella città ellenistica di Gàdara, che oggi si trova nel territorio della Giordania, è stato - a distanza di due secoli dalla morte di Epicuro - uno dei più importanti divulgatori dell’epicureismo a Roma, dove è emigrato giovanissimo e in Italia. Filodèmo  ha vissuto per la maggior parte della sua vita a Ercolano ed è stato amico di Virgilio, di Orazio, di Cicerone e ha scritto anche un certo numero di Epigrammi erotici che sono stati inclusi nell’Antologia Palatina. Filodèmo ha condensato “il catechismo di Epicuro” in quattro formule, il cosiddetto “tetrafarmaco” [le quattro medicine]: [prima] gli dèi non sono da temere; [seconda] nella morte non si corre alcun rischio; [terza] il bene ci si procura facilmente; [quarta] il male è facile da sopportare con coraggio.

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Provate a mettere in ordine d’importanza – secondo il vostro modo di concepire le cose –queste quattro formule… Personalizzate, mettendolo per iscritto, il tetrafarmaco epicureo...

     La seconda formula del tetrafarmaco epicureo - “nella morte non si corre alcun rischio” - è quella che ha sempre maggiormente attirato l’attenzione delle persone impegnate nella riflessione [in età antica pensiamo all’epicureo Lucrezio, e in età moderna non possiamo non pensare a Montaigne, il cui spirito continua ad aleggiare intorno a noi] e, quindi, sotto la direzione di Gassendi, vale la pena leggere un celebre brano della Lettera a Meneceo o Lettera sulla felicità di Epicuro.

LEGERE MULTUM….

Epicuro,  Lettera a Meneceo o sulla felicità

Il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi; poiché quando noi siamo, la morte non c’è, e quando la morte c’è, allora noi non siamo più. E così essa non ha alcuna importanza né per i vivi né per i morti, perché nei vivi non c’è e i morti non sono più. Invece, la maggior parte delle persone ora non vuole riflettere sulla morte e la considera come il maggiore dei mali, oppure la desidera come requie dei mali della vita; ma la persona saggia non ricusa la vita e non accusa la morte, perché la vita non può essere considerata un male, così come non si può credere sia un male il non più vivere. Ma come dei cibi la persona saggia non preferisce senz’altro i più abbondanti ma i più gradevoli, così non il tempo che dura di più, ma il tempo più piacevole, è dolce frutto per la persona saggia.

     Anche nella terza e nella quarta formula del “tetrafarmaco epicureo” - “Il bene ci si procura facilmente” e “Il male è facile da sopportare con coraggio” – troviamo, afferma Gassendi, non solo il realismo e la praticità quasi disarmante del pensiero di Epicuro ma anche già un afflato di natura cristiana. Per soddisfare le nostre aspirazioni [afferma Epicuro, e Gassendi segue il suo ragionamento] non bisogna seguire “le vane bramosie” come la gloria, l’ambizione, il lusso e la ricchezza, e neppure “i desideri solo naturali” ma bensì quelli “naturali e necessari”, e, sempre sotto la direzione di Gassendi che si comporta da divulgatore, vale la pena leggere un altro celebre brano della Lettera a Meneceo o Lettera sulla felicità di Epicuro.

LEGERE MULTUM….

Epicuro,  Lettera a Meneceo o sulla felicità

Il piacere [edoné] è un bene, ma non si deve ricercare qualsiasi piacere, anche a prezzo di dolore, anzi, spesso, occorre rifiutare molti piaceri, quando ne seguirebbe per noi un dolore maggiore e preferire al piacere immediato molti dolori per il piacere maggiore che, in seguito, deriva dall’averli lungamente sopportati.

L’autosufficienza [autàrcheia], il cui maggiore frutto è l’autonomia, è un bene grande, ma non perché in ogni caso dobbiamo attenerci al poco, ma perché, se non abbiamo molto, dobbiamo saperci contentare del poco. L’abitudine ai cibi frugali, una focaccia e un sorso d’acqua è da perseguire non come una mortificazione, ma come esercizio che ci rende intrepidi dinanzi alla sorte Non dunque le libagioni e le feste ininterrotte, non il mangiare tutto ciò che una ricca mensa può offrire è fonte di vita felice ma quel sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, e che scaccia le false opinioni, per via delle quali un grande turbamento s’impadronisce dell’anima. La virtù non ha validità in se stessa, ma solo in quanto serve a eliminare i turbamenti, per questo il massimo bene è la prudenza [frònesis] la quale ci insegna che non è possibile vivere piacevolmente se non vivendo saggiamente e bene e giustamente, e di contro che non è possibile vivere saggiamente e bene e giustamente se non anche piacevolmente. I valori autentici sono quelli etici e la persona saggia può e deve appropriarsene. Se la persona saggia vuole conservare l’imperturbabilità [atarassìa] deve liberarsi dal carcere delle occupazioni imposte dalle chimere del sistema e dalla falsa politica dei dèspoti.

     È evidente che “il catechismo di Epicuro” rimanda a una serie di parole-chiave che Gassendi, in veste di esegeta, ritiene abbiano avuto un ruolo nella costruzione della Letteratura dei Vangeli che si avvale della lingua greca e di molti concetti che fioriscono nell’ambito del pensiero delle Scuole dell’Ellenismo [epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche]: l’apparato scritturistico del Cristianesimo delle origini - a cominciare come sappiamo dall’Epistolario di Paolo di Tarso [dagli anni 50] - comincia a espandersi sull’onda della sapienza poetica ellenistica, e un contributo significativo, afferma Gassendi, viene dal glossario di Epicuro.

     Pierre Gassendi del catechismo di Epicuro apprezza soprattutto due termini: la sobrietà e la prudenza, e sostiene, nell’opera intitolata Osservazioni sul Decimo Libro di Diogene Laerzio, che non si tratta solo di due belle parole da pronunciare in un momento in cui bisogna prendere atto che la crisi di carattere morale [la crisi del tardo Rinascimento] dipende proprio, afferma Gassendi, dalla mancanza di sobrietà e di prudenza da parte di chi gestisce il potere in modo dispotico. E Gassendi si domanda perché, nel corso dei secoli, si sia creato un atteggiamento di repulsione da parte dei poteri costituiti nei confronti dell’epicureismo: che cos’è, si domanda Gassendi, che disturba del pensiero di Epicuro tanto da scatenare delle vere e proprie forme di persecuzione? Gassendi afferma che Epicuro va accostato a Socrate perché come Socrate disprezza “i politicanti” che praticano la demagogia [che usano le forme della democrazia per coprire regimi dittatoriali] e che fomentano il populismo, un termine antico che descrive un fenomeno in cui i politicanti si appellano agli umori delle masse solo per ricavarne consenso e per delegittimare le Istituzioni democratiche privandole della loro autonomia. Epicuro, sottolinea Gassendi, coltiva una forte avversione e prova una profonda pena nei confronti del popolo inteso come “massa” [la moltitudine in preda all’ignoranza e alla superstizione]: un branco facilmente strumentalizzabile da chi, senza scrupoli [e Gassendi analizza la situazione del suo tempo], detiene il potere usando la menzogna e facendo false promesse sapendo di poter facilmente imbrogliare persone prive di spirito critico. Epicuro, afferma Gassendi, guarda alle singole persone - per lui la massa non ha nulla di umano ma ha molto di animalesco - e predilige gli esseri umani più bisognosi: Epicuro assume e invita ad assumere un atteggiamento accogliente verso le persone appartenenti agli strati più bassi della società. Epicuro,  afferma Gassendi, pratica e insegna a praticare [prima della predicazione cristiana, nella sua Scuola di Atene, la Scuola del Giardino o dell’Orto] l’amicizia [la philìa] senza fare distinzioni di classe, di ceto, di censo, di sesso, e predica questo in un mondo dove il sentimento dell’amicizia è concepibile solo tra persone dello stesso ceto sociale. L’atteggiamento di Epicuro è da considerarsi rivoluzionario, afferma Gassendi, guardando alla società del suo tempo, perché investe, prima della predicazione cristiana, anche la categoria degli schiavi. Epicuro, con grande scandalo dei benpensanti, accoglie nel suo Giardino gli schiavi come “esseri umani a pieno titolo” e questo fatto, afferma Gassendi, si verifica circa tre secoli prima dell’insegnamento di Gesù di Nazareth: un insegnamento che sarà, a sua volta, condannato dalle Istituzioni.

     Se si sostituisce [afferma Gassendi in veste di esegeta] la parola “philìa” [amicizia] con la parola “agape” [amore fraterno e solidale] si può considerare Epicuro un anticipatore di Paolo di Tarso [e sappiamo che Paolo di Tarso - nostro compagno di viaggio in molti itinerari - ha frequentato con grande interesse le Scuole ellenistiche più importanti].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Pierre Gassendi c’invita a riflettere su una delle numerose “Massime” di Epicuro: «La troppa quiete è indolenza e l’esagerata attività è follia» per cui [consiglia Epicuro] è necessario “l’equilibrio”...  E il termine equilibrio a quale oggetto vi fa pensare: una bilancia, un orologio, un termometro, uno scaleo, o a quale altro?...   

Scrivete quattro righe in proposito...

     Per Epicuro, afferma Gassendi, il motivo per cui dobbiamo dare valore all’amicizia [la philìa] dipende da come è fatto l’Universo: che cosa significa? Significa che l’Universo ubbidisce a una logica casuale ed è puramente materiale e, quindi, il processo di umanizzazione dell’Universo dipende da come le persone sanno curare le loro relazioni: se le relazioni umane sono buone [sono amichevoli] l’Universo viene ad assume un aspetto benigno. E Gassendi su questa affermazione ci riflette.

     Pierre Gassendi, in quanto scienziato, afferma che tutta la realtà si presenta come “un’aggregazione di atomi” e ritiene che non ci sia alcun contrasto tra la Fisica materialista enunciata da Epicuro, sulla scia di Leucippo e di Democrito, e la sua professione di Fede nel Cristianesimo. La Fisica e la Fede, afferma Gassendi, appartengono a due ambiti diversi e la ragione umana deve muoversi in ciascuno di questi due ambiti con metodi e criteri diversi. Gli Scolastici medioevali, afferma Gassendi, hanno utilizzato lo stesso metodo razionale [quello aristotelico] per analizzare questi due ambiti [quello della Fisica e quello della Fede] che sono assolutamente diversi tra loro, e hanno creato confusione. Il Dio dei Filosofi scolastici, così come il Dio di Cartesio, è una proiezione dei loro ragionamenti molto affascinanti ma insufficienti “per spiegare Dio” che è un Ente non decifrabile dalla ragione umana e, di conseguenza, gli Scolastici, pur agendo in buona fede, finiscono, afferma Gassendi, per confondere l’Essere divino con un semplice oggetto corrispondente al risultato di un bel sillogismo aristotelico. Gassendi afferma che “Dio c’è al di là della ragione umana”, e dell’Essere divino possiamo solo annunciare [seguendo la Letteratura dei Vangeli e dei Padri della Chiesa] che le sue qualità essenziali sono “la bontà e la misericordia”: fin qui arriva l’intelletto umano perché sull’entità di Dio, afferma Gassendi, la ragione umana non ha niente da dire, “nihil sciri” [sappiamo nulla]. La ragione umana può, tuttavia, costruire una metafisica, ma questa metafisica non è altro che una proiezione della ragione stessa e, come abbiamo già detto, Gassendi nega del tutto la metafisica, che lui definisce come «una specie di cerniera che vuole attaccare insieme due ordini di conoscenza che non sono avvicinabili».

     La ragione umana, afferma Gassendi, si trova nell’impossibilità di superare i limiti dell’esperienza empirica [dell’esperienza materiale, ed è bene, ed è saggio che faccia i conti con i propri limiti]. La ragione umana, afferma Gassendi, non può andare al di là della conoscenza della sostanza materiale delle cose, e la ragione umana ci dice che la teoria dell’atomismo è quella più probabile delle altre, quella più capace di dar ragione all’esperienza. Gli atomi [“atomos” in greco significa “indivisibile” secondo la teoria di Leucippo, Democrito ed Epicuro] sono particelle piccolissime e indivisibili, che precipitano casualmente e, per “una inclinazione casuale” [clinamen], si aggregano formando le cose. L’esperienza, afferma Gassendi, deve attenersi entro i propri confini facendo uso di tre utili strumenti: l’osservazione, la descrizione e la possibilità di formulare un’ipotesi. La persona non deve cedere alla tentazione, afferma Gassendi, di far dire all’esperienza e di far conoscere alla ragione più di quanto può, e Gassendi espone tutti questi concetti in un’opera intitolata Syntagma philosophicum [Trattato di Filosofia, pubblicato postumo nel 1658]. Il ragionamento di Gassendi ha due limiti: il primo è quello di aver modificato il pensiero dell’atomismo originario [Gassendi aggiusta l’atomismo alla luce della Fede perché il suo materialismo perde le caratteristiche originarie in quanto deve ammettere anche l’esistenza di entità immateriali e spirituali], il secondo limite è quello di aver sottovalutato la funzione della Matematica e su questo argomento sostiene una vivace e molto fruttuosa discussione con Galileo Galilei, con il quale dal 1620 al 1642 tiene un importante Epistolario. Nelle numerose Lettere che i due si scrivono dialogano soprattutto di Astronomia [Gassendi durante il freddissimo inverno del 1621 da Aix-en-Provence è stato il primo a fornire una descrizione scientifica del fenomeno luminoso dell’atmosfera che lui chiama  “aurora boreale” e Galileo lo loda entusiasticamente] e Galileo in molte missive gli spiega come la Matematica sia capace di andare oltre la sostanza delle cose e di rappresentare in modo astratto l’esperienza quantitativa e qualitativa della ragione.

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Navigando in rete potete cercare e osservare delle significative immagini di aurore boreali e le potete commentare scrivendo quattro righe in proposito...

     L’influenza di Gassendi sul pensiero del XVII secolo non è inferiore a quella di Cartesio, e si avvicinano a lui tutti quegli intellettuali che cercano la via per far progredire il pensiero scientifico, e l’abate Gassendi, con prudenza, ma senza timore dell’Inquisizione, trasforma sempre le sue canoniche in aule di studio per i suoi discepoli, che sono tutti libertini, ed è buffo pensare che il movimento culturale del libértinage, che assumerà sempre di più caratteristiche anticlericali, abbia avuto come maestri dei preti [padre Mersenne, l’abate Gassendi]. «Ci deve essere lo zampino della Provvidenza nell’esistenza dei libertini!» così dirà, anni dopo, un po’ per scherzo e un po’ no, un certo Voltaire [ma questa è un’altra storia da raccontare in altri viaggi]. Ora, come abbiamo preannunciato, dobbiamo fare un breve viaggio in Cina perché succede che, a Parigi, viene pubblicata un’opera che suscita ammirazione.

     Nell’anno 1620 viene pubblicata a Parigi un’opera intitolata Commentari della Cina che documenta “la sapienza del pensiero confuciano” redatta da un padre gesuita [tanto straordinario quanto sconosciuto] che si chiama Matteo Ricci. Nel ‘600 si sapeva [e oggi noi sappiamo] quasi tutto di Marco Polo che giunge in Cina insieme al padre e agli zii come mercante nel 1275. Il veneziano Marco Polo rimane in Cina diciassette anni, impara la lingua, svolge attività diplomatiche per conto dell’Imperatore, ma non penetra nella cultura cinese e, tornato in Europa, trasmette la memoria di quel suo viaggio straordinario in un Libro affascinante che tutte e tutti conosciamo intitolato Il Milione. Ebbene, se di Marco Polo si sa quasi tutto di Matteo Ricci non si sa quasi nulla, eppure, nel 2001, l’Università di Pechino ha celebrato con una certa enfasi il quarto centenario dell’ingresso di Matteo Ricci nella cultura ufficiale della Cina, quella dei mandarini.

     Matteo Ricci è un gesuita [che ha la stessa mentalità di padre Mersenne] ed è nato a Macerata nel 1552, ed è un astronomo, un letterato, un cartografo, un matematico, un tecnico della memoria, un esegeta che ha gettato un ponte tra la cultura occidentale e quella orientale. Giunge in Cina nel 1583 con un viaggio avventuroso per mare: parte da Lisbona [su una linea gestita dalla marineria portoghese] con una nave che circumnaviga l’Africa, arriva a Goa in India, approda in Malacca, poi a Macao, per arrivare infine a Pechino.

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Con l’ausilio di una carta geografica che trovate sull’Atlante ripercorrete virtualmente il viaggio Lisbona-Pechino compiuto da Matteo Ricci

     Matteo Ricci rimane in Cina per vent’anni facendo conoscere le idee e la Letteratura del Cristianesimo alla classe intellettuale cinese. Ufficialmente per i suoi superiori europei è un missionario ma, in realtà, diventa “un mediatore culturale” e con questo importante ruolo si presenta agli intellettuali cinesi che frequenta in amicizia.

     Per dodici anni Matteo Ricci studia la Lingua cinese e la apprende parlata e scritta perfettamente. Non avendo potuto portare un bagaglio pesante, non ha con sé neppure un Libro ma, essendo un tecnico della memoria, la sua biblioteca la tiene in mente. Come fa? Sappiamo che essere un tecnico mnemonico significa costruire nella propria mente “un palazzo della memoria”, e sappiamo che l’apprendimento delle tecniche di memorizzazione ha una tradizione [che abbiamo studiato] fondata dal 1315 sulle Opere di Raimondo Lullo e poi sugli studi di Giordano Bruno e di fra’ Tommaso Campanella. Nel suo “palazzo mentale” Matteo Ricci conserva memoria di decine di Opere letterarie e scientifiche, e quando ha bisogno di informazioni le pesca nella sua mente. Ciò che è in memoria non pesa, non ingombra ed è sempre a disposizione, e Matteo Ricci, nei sei mesi di navigazione da Lisbona a Goa, non si è annoiato perché ha ripassato, poco per volta, tutto il materiale che aveva in mente, e poi, a Pechino, s’iscrive alla bi-millenaria Scuola di Stato confuciana fondata dal saggio Confucio, nato nel 551 a.C. che, dopo essere stato cancelliere del regno di Lu, viaggia come pellegrino negli altri regni dell’impero cinese esponendo la sua riforma morale e politica fino alla morte avvenuta nel 479 a.C.. Matteo Ricci impara a leggere [a conoscere e a capire] i testi dei classici Quattro Libri di Confucio [I Discorsi o Dialoghi di Confucio, La Pietà Filiale, Il Grande Studio e L’Invariabile Mezzo], ne studia le interpretazioni, li traduce in Latino e li impara a memoria e, dopo aver ben assimilato la cultura cinese, inizia a esibire la sua competenza facendo carriera.

     Il grado più alto di intellettuale cinese è quello di “mandarino” al quale si accede per concorso pubblico, e quello dei pubblici esami di concorso, in Cina, è un sistema esistente dal III secolo a.C.. L’accesso al titolo comprende tre esami principali, e sono prove molto importanti nella vita pubblica e privata della Cina, accompagnate da cerimonie festose in onore dei promossi. Tutte le città più grandi, capoluogo di provincia, hanno una casa degli esami: un grande edificio, simile al convento, con tante celle dove vengono isolati i candidati. Le prove sono molto selettive, prima si diventa “talento ornato”, al secondo esame “talento promettente e al terzo “mandarino” [funzionario nella burocrazia imperiale]. L’èlite dei funzionari [o letterati] costituisce la nobiltà, un’aristocrazia del cuore e dello spirito [non del sangue] secondo il pensiero confuciano, e non ci sono distinzioni sociali o etniche, tutti possono anzi devono partecipare.

     La memoria è di grande aiuto per superare gli esami, e Matteo Ricci percorre senza difficoltà tutto il corso di studi laureandosi “mandarino” nel 1601. Il giorno della festa dei promossi Matteo Ricci [che viene particolarmente festeggiato] prega i presenti di scrivere tutte le parole [gli ideogrammi] che vogliono su un foglio, e lui, dopo averli letti una sola volta, li avrebbe ripetuti a memoria: viene compilata una bella lista e Ricci, dopo aver fatto scorrere lo sguardo sul foglio, recita tutto ciò che è stato scritto a memoria. Tutti rimangono stupiti, al che Ricci dice: «Adesso ripeto tutto al contrario» e così fa, e tutti applaudono e vorrebbero imparare “l’arte della memoria”, e così le autorità lo invitano a fondare “un magistero” in proposito, e lui scrive anche il più famoso trattato cinese di tecnica mnemonica e lo firma con il suo nome cinese: Li Madu. Quando gli domandano che cosa sia venuto a fare in Cina risponde che avrebbe voluto far conoscere al popolo cinese le idee e la Letteratura del Cristianesimo e, quindi, gli viene chiesto di tradurre in cinese i testi dei Vangeli e delle Lettere di Paolo di Tarso, e gli intellettuali cinesi trovano grandi affinità tra il pensiero di Confucio e quello cristiano. Quando scrive ai suoi superiori che non si ricordavano neppure più di lui, Matteo Ricci afferma: «Non c’è alcun bisogno di convertire i Cinesi, che sono già cristiani attraverso il pensiero di Confucio! Io sono qui a maggior gloria di Dio, che vuole fiorisca l’amicizia tra i popoli». E, in proposito, Matteo Ricci scrive in cinese un Trattato sull’amicizia.

     Matteo Ricci muore a Pechino l’11 maggio 1610 e viene sepolto con tutti gli onori che spettano a un mandarino. Il tribunale dell’Inquisizione, dopo aver raccolto [attraverso l’Ordine dei Gesuiti] notizie su di lui, istruisce una causa ed emette una sentenza di condanna proclamandolo eretico. Quando nel 1620 l’opera di Matteo Ricci, con il titolo di Commentari della Cina, arriva in Europa [opera che viene messa all’Indice], suscita un grande interesse e viene accolta con entusiasmo soprattutto dai membri del movimento intellettuale libertino.

     Quale immagine della Cina viene fuori dal resoconto di Matteo Ricci? La Cina dei Commentari si presenta come un paese totalmente autosufficiente e ricco di risorse naturali e di manufatti, con una classe intellettuale dedita alle Lettere e alle Scienze, e con un popolo laborioso e poco amante della guerra. I Cinesi,  afferma Ricci nei Commentari, sono convinti di essere la più antica e grande civiltà del mondo e, per questo, preferiscono rimanere chiusi all’interno del loro vastissimo territorio, tuttavia, Ricci entra facilmente in Cina perché gli intellettuali cinesi sono molto curiosi di conoscere la cultura europea e il contributo che Ricci dà alla conoscenza cinese dell’Europa è fondamentale, e si pensi che fino a oggi gli studenti cinesi hanno imparato la Geometria di Euclide sulla traduzione di Matteo Ricci [Il Libro degli Elementi di Euclide, in Cina, si chiama “il Li Madu”, col nome cinese di Matteo Ricci].

     Perché l’Inquisizione lo condanna? Il tribunale dell’Inquisizione è sempre molto preciso quando emette le sue sentenze: si contesta a padre Ricci di aver concesso ai cinesi che hanno deciso di aderire al cristianesimo di continuare a praticare i loro riti, in particolare quelli per celebrare il culto degli antenati. Inoltre Ricci viene accusato di aver tradotto il termine “Dio” con il vocabolo cinese “Cielo” benché, in questa cultura, definisca perfettamente il concetto di divinità. Infine Ricci viene accusato di aver giudicato “come già cristiane” tutte le norme etiche del pensiero confuciano che mette al centro la parola-chiave “rettitudine”, in evidente affinità con la morale cristiana.

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Dalla parola-chiave “rettitudine” [particolarmente significativa per la morale cristiana e per l’etica confuciana] derivano molti termini significativi: l’onestà, la probità, la giustizia, la lealtà, l’integrità, la correttezza, la serietà, l’incorruttibilità, l’irreprensibilità, la chiarezza, la semplicità, la trasparenza, la schiettezza, la sincerità  

Quali di queste parole [due o tre] mettereste per prima accanto alla parola “rettitudine”?    Scrivetela

     L’imperatore cinese dell’epoca - che si chiama Wanli - secondo le ancora superstiziose regole di corte non può ricevere di persona i visitatori stranieri. Matteo Ricci, tuttavia, viene invitato a corte ma si può inchinare solo davanti al trono vuoto, ma Wanli è curioso [avrebbe voluto parlare con lui] e vuole sapere com’è questo gesuita che sente nominare come “il Saggio venuto a portare un Messaggio di pace e di amicizia dal Grande Oceano occidentale”, che non è raffigurato sulle carte imperiali. Wanli ordina ai pittori di corte di andare a ritrarre in piedi il mandarino europeo e, difatti, ci sono molti ritratti di Matteo Ricci [e non è difficile vederne qualcuno navigando in rete]. Quando Wanli vede i ritratti di Li Madu dice: «Ma è un Huihui!», gli Huihui [in cinese] sono gli ebrei e i mussulmani e, per l’imperatore cinese, ebrei, mussulmani, cristiani sono la stessa cosa perché Ricci porta la barba come gli ebrei e i mussulmani. In risposta Li Madu disegna per Wanli una carta geografica che raffigura la Terra con il Grande Oceano occidentale e, a questo punto, la Cina diventa vicina.

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Nel 2001 è stata curata una nuova edizione dei Commentari della Cina di Matteo Ricci [edita da Quodlibet] e si tratta di un evento perché le precedenti due edizioni erano del 1911 e del 1949…   Date un’occhiata in biblioteca in proposito...  

     I Discorsi di Confucio, le Lettere di Epicuro, la Letteratura dei Vangeli hanno in comune concetti etici simili e l’avvicinamento di culture diverse produce ricchezza intellettuale e oggi bisogna seguire l’esempio di Pierre Gassendi e di Matteo Ricci: due ottimi “mediatori culturali”.

     Per concludere leggiamo due frammenti che si spiegano da soli.

LEGERE MULTUM….

Pierre Gassendi, Osservazioni sul decimo Libro di Diogene Laerzio

L’Epistola a Meneceo di Epicuro - leggetela con attenzione fratelli e sorelle - si apre con un’esortazione a dedicarsi subito, e in maniera duratura, alla filosofia: «Nessuno, mentre è giovane [scrive Epicuro], indugi a filosofare, né si stanchi di filosofare mentre è vecchio perché mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere del proprio animo». Per Epicuro ha particolare rilievo il problema di un ideale stabile di condotta per la persona, basato sulla saggezza e sulla prudenza, virtù cristiane che donano uno stato di serena tranquillità, di attenuazione dei dolori, delle passioni, delle paure. Ma essere persone sagge non si può se non si è alla ricerca del Bene. Filosofare è amare il sapere, amare le persone, cercare il Bene e quindi amare Dio. Così ragiona Epicuro, che differenza c’è tra i suoi pensieri e quelli dei santi Padri della Chiesa?

LEGERE MULTUM….

Confucio, I Dialoghi

Confucio disse: - Se il saggio manca di memoria non è rispettato, la sua cultura non è solida. Egli considera essenziali la lealtà e la sincerità, e se sbaglia non teme di correggersi.    Confucio disse: - Il saggio non cerca la sazietà nel mangiare né la comodità nella dimora. Egli è accorto nel fare e prudente nel dire, segue chi è sulla Via per correggersi, segue chi è sulla Via della memoria. Così può dirsi amante del sapere.    Confucio disse: - Ricordo che a quindici anni la mia volontà fu rivolta allo studio, ricordo che a trenta fui fermo nei propositi, ricordo che a quaranta non ebbi più incertezze, ricordo che a cinquanta compresi i decreti del Cielo, ricordo che a sessanta il mio orecchio divenne un organo obbediente perché fu capace di ascoltare, ricordo che a settanta seguii i desideri del mio cuore senza uscire di squadra, senza perdere la memoria.    Confucio disse: - Il saggio è universale e non smemorato, dedicarsi a coltivare la memoria è incamminarsi sulla Via della rettitudine.

     Nel corso del secolo della scienza [alla metà del Seicento] - mentre dall’eterogeneo apparato ideologico della cristianità scaturisce persino “il movimento del libértinage” - si verifica una straordinaria mescolanza di idee dovuta alla diffusione per opera di Marie de Gournay dei Saggi di Montaigne, alla nascita del concetto di “comunità scientifica” esplicitato dalla Nuova Atlantide di Francis Bacon, un concetto che avanza sulla scia del Manifesto esegetico di padre Mersenne che giustifica “la bontà del metodo sperimentale galileiano” che, a sua volta, viene spiegato e divulgato attraverso il solido impianto matematico introdotto dal Discorso sul metodo di Cartesio e, inoltre, una ancor più ampia combinazione di cognizioni è dovuta anche, come abbiamo studiato questa sera, al rinnovato interesse per “il pensiero epicureo” [sobrietà e rettitudine] introdotto da Pierre Gassendi e alla curiosità per “il pensiero confuciano” [rettitudine e sobrietà] importato dalla Cina mediante l’opera del gesuita Matteo Ricci: ebbene, qual è il risultato di questa straordinaria mescolanza di idee? Questa straordinaria mescolanza di idee contribuisce a far crescere il ruolo della ragione umana, chiamata a gestire, con sempre maggior consapevolezza, le azioni [conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare] con cui la persona apprende, e, da qui, inizia un lungo percorso verso la cosiddetta età dei Lumi, ed è in direzione di questa destinazione che, in autunno, ripartiremo, ma questo viaggio non è ancora terminato e, intanto sul territorio che stiamo attraversando, si sta formando un movimento che prende il nome di “occasionalismo”. Di che cosa si tratta, e chi lo anima?

     Per rispondere a queste domande [e per non perdere l’occasione di farlo] dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo, non possiamo e non vogliamo mai perdere la volontà di imparare, per questo la Scuola è qui: siamo in dirittura d’arrivo ma il viaggio non è ancora finito, bensì continua…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 10, 2019