ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica dal secolo della Scienza a quello dei Lumi 23-24-25 ottobre 2019
SULLA VIA CHE PORTA DAL SECOLO DELLA SCIENZA A QUELLO DEI LUMI
SI RIFLETTE SUL FATTO CHE LA MORTE È SOLO LA FINE DELLA VITA,
NON IL SUO FINE ...
Il nostro viaggio è iniziato da due settimane e stiamo percorrendo la via [una via che possiamo cominciare a configurare nella vostra mente] che porta dal secolo della Scienza, il ‘600, a quello dei Lumi, il ‘700, e vi ricordo che come da calendario la prossima settimana faremo la prima sosta [venerdì è il 1° novembre] in occasione della festività in onore di tutti i Santi, seguita dalla giornata di commemorazione dei Defunti.
Abbiamo celebrato il tradizionale rituale della partenza in compagnia di due importanti personaggi della Storia del Pensiero Umano: Michel de Montaigne l’autore dei Saggi [che ci ha accompagnate e accompagnati nel viaggio dello scorso anno] e Blaise Pascal l’autore dei Pensieri [con Pascal e con la sua opera dobbiamo ancora fare conoscenza], ed è doveroso ricordare che i Saggi di Montaigne e i Pensieri di Pascal sono due opere fondamentali che hanno caratterizzato la Storia del Pensiero Umano dell’Età moderna: purtroppo sono due opere sconosciute, se non alle addette e agli addetti ai lavori, e senza un adeguato sistema di Educazione permanente che promuova la diffusione di Percorsi di Alfabetizzazione funzionale e culturale queste due opere sono destinate a rimanere sconosciute alla stragrande maggioranza delle cittadine e dei cittadini, così come rimangono sconosciute tutte quelle opere alle quali diamo il nome di “Classici”.
Come abbiamo studiato la scorsa settimana, sappiamo che queste due opere sono entrate in relazione perché Pascal - in particolare nel testo di quattro Pensieri [il 63 il 64 il 65 e il 66, che noi abbiamo cominciato a commentare nel corso dei primi due itinerari] - critica Montaigne con ironia e anche con asprezza, ma, contemporaneamente, mette pure in evidenza la positività di molte sue affermazioni che lui condivide e con le quali è in sintonia; poi, come sapete, in una riga - quella che contiene il testo del Pensiero 64 - Pascal, sotto forma di confessione, emette un giudizio emblematico e scrive: «Non in Montaigne, ma in me stesso, trovo tutto quello che vedo in lui.»: questa dichiarazione in cui il disappunto e l’attrazione s’incontrano, rivela che tra Montaigne [in quanto scrittore dei Saggi] e Pascal [in quanto lettore e commentatore dei Saggi] esiste “una ambigua sintonia”; tenendo conto di questa asserzione, la scorsa settimana, come ricorderete, abbiamo commentato parte del Pensiero 63 dove Pascal rinfaccia a Montaigne di avere un rapporto equivoco con la religione [con il sentimento religioso] perché da una parte Montaigne dichiara sempre fermamente di essere “un cristiano di fede cattolica, apostolica, romana” ma dall’altra non si arrischia mai a dire quel che pensa veramente sui temi della dottrina: analizza in lungo e in largo le questioni per il piacere di assaggiare la materia ma senza prendere posizione.
Pascal è infastidito dal fatto che Montaigne affronti i temi religiosi con grande cautela e con spirito di contraddizione [Pascal decide di comportarsi diversamente], ma contemporaneamente l’atteggiamento di Montaigne costringe Pascal a riflettere in quanto anche lui, come vedremo, sente di doversi misurare con il dubbio, e l’atto di fede si accompagna sempre al dubbio. Pascal è critico con Montaigne ma trae linfa dai Saggi per imbastire la sua riflessione visto che anche Pascal, esattamente come Montaigne, si domanda “come vivere?” e s’interroga incessantemente su quali caratteristiche abbia la condizione umana: nel celebre testo del Pensiero 72, Pascal definisce “ondivaga” [metaforicamente, in balia delle onde] la condizione umana [Montaigne parla di “paradosso della fermezza nell’incostanza”].
E ora prendiamo il passo sull’itinerario di questa sera con l’obiettivo di esaurire le osservazioni nei confronti dell’ambiguo, e tuttavia assai fertile, rapporto intellettuale tra Michel de Montaigne [in quanto scrittore dei Saggi] e Blaise Pascal [in quanto lettore e commentatore dei Saggi] e, a questo proposito, puntiamo ancora la nostra attenzione sul testo del Pensiero 63 in cui Pascal critica ironicamente Montaigne in relazione a due suoi atteggiamenti.
Blaise Pascal nel Pensiero 63 critica ironicamente Montaigne, e scrive: «Si possono scusare i suoi sentimenti un po’ liberi e voluttuosi su qualche circostanza della vita; ma non si possono scusare i suoi sentimenti del tutto pagani sulla morte; ora, in tutto il suo Libro, egli non pensa che a morire fiaccamente.».
Pascal, quando afferma che è necessario scusare “i sentimenti un po’ liberi e voluttuosi di Montaigne”, si riferisce al fatto che parla spesso, facendo anche riferimento a se stesso senza inibizioni, di temi riguardanti la sessualità. E poi ci si chiede perché Pascal ironizzi così pesantemente sul fatto che Montaigne scrive molto e in modo risoluto sul tema della morte che è, come sapete, il tema conduttore dei Saggi, come se non avesse fatto anche lui la stessa cosa e, per giunta, come ci capiterà di constatare a suo tempo, con dovizia di particolari.
Ma cominciamo dal primo tema a cui Pascal allude, il tema della sessualità, trattando il quale Montaigne avrebbe espresso “sentimenti liberi e voluttuosi”: Pascal ha ragione ad affermare che Montaigne, in proposito, va giustificato in quanto ha avuto l’ardire di affrontare [come già sappiamo dal viaggio precedente] certi aspetti della tematica sessuale con l’intento di aprire un dibattito per rendere qualitativamente migliori i rapporti tra gli uomini e le donne in una società che li vede vivere in due mondi nettamente separati [come possono vivere uomini e donne in mondi nettamente separati e poi avere buoni rapporti intimi sul piano amoroso?].
Nel capitolo V del Libro III dei Saggi intitolato Su alcuni versi di Virgilio, Montaigne rimpiange “il vigore della giovinezza”, e parla della propria sessualità [della sua disfunzione erettile] con grande disinvoltura e senza giustificarsi anche se sa di rompere una consuetudine, la consuetudine che sui temi della sessualità vige la regola del silenzio, e scrive: «Che avrà mai fatto di male alla gente l’atto sessuale, tanto naturale, necessario e legittimo, perché nessuno si arrischi a parlarne senza provare vergogna, escludendolo così da ogni ragionamento serio e costumato? Pronunciamo senza timore parole come uccidere, rubare, tradire, e di questo, invece, non osiamo mai parlare se non a mezza bocca. Ciò significa che meno parole profferiamo su tale soggetto tanto più ci sentiamo autorizzati a ingigantirlo nei nostri pensieri? È vero, infatti, che le parole meno usate, meno scritte e più taciute, sono le meglio note e le più familiari a tutti. Ogni epoca, ogni popolo le conosce come il pane. Sono impresse in ciascuno di noi, senza essere tuttavia mai espresse né a voce né per iscritto. È un atto che abbiamo posto sotto la custodia del silenzio, e strapparvelo è un delitto, anche soltanto per metterlo sotto accusa e giudicarlo. E non osiamo neppure fustigarlo, se non attraverso perifrasi e immagini». Montaigne osserva che parliamo con disinvoltura di tante azioni decisamente esecrabili, come il furto, l’omicidio e il tradimento mentre di sessualità non si parla e, a questo proposito, coglie l’occasione per riflettere su un sentimento umano molto importante: la vergogna.
Da che cosa deriva si domanda Montaigne il pudore che circonda il tema della sessualità? Montaigne, in proposito, fornisce una sua spiegazione [e possiamo pensare che Pascal sia d’accordo con lui] e afferma che “più ci pensiamo meno ne parliamo”, vale a dire che: “se ne parliamo poco, è per pensarci di più”. Le parole legate al tema della sessualità non le pronunciamo mai, afferma Montaigne, ma le conosciamo perfettamente e rimangono segrete nella misura in cui ci piacciono perché il mistero che circonda il sesso ne accresce il fascino e l’attrattiva.
Tuttavia Montaigne coglie, nel mistero in cui è avvolto il tema della sessualità, un elemento positivo e propulsivo sotto il profilo culturale perché, siccome non se ne può parlare apertamente, si trova comunque il modo di farlo seguendo una via molto interessante che porta alla produzione di significativi oggetti artistici: scrive Montaigne: «attraverso la creazione di perifrasi e di immagini», cioè in poesia, in pittura, in scultura. Montaigne asserisce che l’Arte, per superare il senso della vergogna e del pudore, è sempre alla ricerca - una ricerca che si dimostra produttiva - di un modo velato, coperto, indiretto, per parlare di sesso, un tema che investe anche la sfera mistica.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
L’ipotesi di Montaigne trova riscontro in molte opere, per esempio, sarebbe stato molto affascinato alla vista della straordinaria opera scultorea di Gian Lorenzo Bernini intitolata L’estasi di Santa Teresa d’Avila, realizzata tra il 1647 e il 1653 per la Cappella Cornaro della Chiesa carmelitana di Santa Maria delle Vittorie a Roma... La Santa raggiungeva l’unione mistica con Gesù attraverso l’estasi, un’estasi spirituale dalla quale lo scultore fa emergere con evidenza la sensualità... Con un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete andate a osservare questo capolavoro in tutti i suoi particolari, e poi lasciatevi incuriosire dalla vita e dall’opera di Gian Lorenzo Bernini, cogliete l’attimo...
Come abbiamo già potuto constatare nel viaggio dello scorso anno, per Montaigne la problematica legata alla sessualità investe allo stesso modo tanto i maschi quanto le femmine e ci tiene a sottolinearlo perché la mentalità comune dell’epoca è completamente diversa dalla sua.
Montaigne, per sottolineare che la problematica legata alla sessualità investe allo stesso modo tanto i maschi quanto le femmine, termina il capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio con una decisa e inconsueta per l’epoca affermazione sull’uguaglianza degli uomini e delle donne: «Dico che maschi e femmine escono dallo stesso stampo: se non fosse per l’educazione e i costumi, la differenza fra loro non sarebbe grande. Platone, nella sua Repubblica, chiama indistintamente gli uni e le altre alla condivisione di tutti gli studi, gli esercizi, le cariche, le attività guerresche e pacifiche».
Inoltre, quando Pascal nel testo del “Pensiero 63” invita “a scusare i sentimenti un po’ liberi e voluttuosi di Montaigne”, continua a far riferimento al capitolo V del Libro III dei Saggi intitolato Su alcuni versi di Virgilio dove Montaigne riflette sulla differenza tra la pornografia che, per accorciare i tempi, non nasconde nulla, e l’erotismo che, lentamente, stende un velo sulle cose per meglio suggerirle e far accendere il desiderio. Montaigne scrive: «Negli spagnoli e negli italiani il sentimento amoroso è più rispettoso e timido, più manierato e coperto, e questo mi piace. Non ricordo chi, nell’antichità, diceva che avrebbe voluto avere il collo più lungo, come quello di una gru, per meglio assaporare ciò che inghiottiva. Un tale desiderio si addice di più alla voluttà, piacere impulsivo e precipitoso, e in particolare a nature come la mia, che ha il difetto dell’irruenza. Per rallentarne la corsa e protrarla in lunghi preamboli, fra di loro tutto serve da gratificazione e ricompensa: uno sguardo, un inchino, una parola, un cenno. Non sarebbe forse un bel guadagno potersi accontentare, a tavola, del fumo dell’arrosto?». Montaigne, quindi, tesse le lodi della lentezza in amore, della seduzione e della galanteria, e pensa che queste siano qualità che appartengono agli abitanti del Paesi del sud dell’Europa, ai meridionali.
Come è solito fare, Montaigne parla di sé [sappiamo che Pascal ironizza sul fatto che Montaigne parla troppo di sé] e confessa di avere «il difetto dell’irruenza», cioè di essere incapace di tenere a freno il piacere dei sensi, e si rende conto che in questo campo i modi troppo diretti e aperti non pagano perché il fascino del linguaggio e del comportamento amoroso è legato, così come a tavola, al prolungarsi dei preparativi.
Oggi questi discorsi di Montaigne non fanno molta impressione anche se sui temi della sessualità non sembra ci sia un fruttuoso dibattito in corso nella società, ma bisogna tener conto del fatto [ed è Pascal che ce lo ricorda] che parlare con leggerezza dei “piaceri dell’amore” e dei “piaceri della tavola” significa alla fine del ‘500 esprimersi su due vizi, la lussuria e la gola, che sono, tuttora, due dei sette “peccati capitali”, e Pascal che, come vedremo, è molto attento al tema del peccato, su questa questione giustifica Montaigne ma non risparmia critiche feroci soprattutto nei confronti di quegli ecclesiastici che si dedicano sistematicamente alla lussuria e alla gola.
Montaigne non si occupa dell’aspetto peccaminoso del “piacere dell’amore” ma, con spirito orfico-dionisiaco mutuato dalla lettura dei Classici greci e latini, continua la sua riflessione sulla necessità di ritardare il compimento del piacere amoroso, e tira in ballo le donne [come è solito fare, contro ogni consuetudine del tempo che vuole le donne soggette alla servitù volontaria] e, sempre nel capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio, scrive: «Dovremmo insegnare alle dame a farsi valere, ad avere stima di se stesse, a baloccarsi con noi e a menarci per il naso. E invece commettiamo sempre l’errore di arrivare subito all’assalto finale: il solito temperamento impetuoso dei francesi». Montaigne pensa che nelle cose d’amore la gestione dovrebbe essere affidata alle donne alle quali spetterebbe il compito di differire la concessione dei loro favori se non dopo adeguati preliminari, non per far languire gli uomini [scrive Montaigne] ma per indurli a un maggior rispetto dei tempi: del tempo necessario per coltivare la seduzione; citando le poetesse e i poeti Classici, Montaigne afferma: «La seduzione va coltivata nei labirinti della civetteria non intesa né come malizia né come leziosità ma come un atteggiamento accattivante supportato dalla Lezione dell’Arte e della Letteratura». Con questa affermazione Montaigne si dimostra capace come sempre di andare oltre l’argomento per cogliere un insegnamento di più ampio respiro sulla condotta da tenere nella vita [e Pascal, se fino ad ora era tentato di tapparsi le orecchie, adesso vuole vedere e vuole sentire il parere di Montaigne su una questione che anche lui affronta]. Sempre nel capitolo intitolato Su alcuni versi di Virgilio, Montaigne scrive: «Chi trova godimento soltanto nel godimento, chi non sente di aver vinto se non trionfa, chi nella caccia non ama che la cattura, non può essere ascritto alla nostra scuola. Quanti più gradini e livelli ci sono, tanto maggiori saranno l’altezza e l’onore cui si verrà innalzati alla fine. Dovremmo apprezzare di esservi condotti, come avviene nei palazzi fastosi, attraverso innumerevoli porticati e corridoi, e lunghe e belle gallerie, e dopo mille giri. Senza speranza, e senza desiderio, il nostro andare perde completamente d’interesse».
Nella caccia, attività in voga all’epoca, il piacere, scrive Montaigne, non deriva dalla cattura [non è necessario uccidere se non per bisogno], ma scaturisce dall’attività stessa e da tutto ciò che la accompagna: la passeggiata, il paesaggio, la compagnia, l’esercizio fisico: afferma Montaigne: «Un cacciatore che pensi solo alla preda non è altro che un insaziabile carnefice» e questo vale per molte altre attività, anche di carattere intellettuale, come la lettura, la scrittura e lo studio. «Da queste cacce spirituali siamo spesso prese e presi dal timore di tornare a mani vuote, quando invece le soddisfazioni si sono accumulate lungo il cammino, e la nostra scuola [dice Montaigne rifacendosi alle Scuole ellenistiche: stoiche, epicuree, scettiche, eclettiche] è quella de “l’otium studiosum” della persona libera» che, andando a caccia di Libri [leggendo quattro pagine al giorno] ed elaborando i propri ricordi e valutando le proprie esperienze [scrivendo quattro righe al giorno], può dedicare il proprio tempo a un’occupazione [l’otium studiosum] che sia priva di uno scopo immediato [e Pascal annuisce, soddisfatto di trovarsi in ambigua sintonia con i Saggi di Montaigne].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Scrivete la lista dei Sette peccati capitali [ve li ricordate? (Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira, Accidia)], potete farvi aiutare da Aristotele che in Etica Nicomachea fa l’elenco dei Sette vizi che definisce “gli abiti del male”, poi potete farvi aiutare da Dante che nell’Inferno e nel Purgatorio della Divina Commedia utilizza i Sette peccati capitali in funzione poetica per punire e per purgare...
Il monaco greco Evagrio Pontico, uno dei Padri del deserto [vissuto in Asia Minore e in Egitto nel IV secolo], è stato tra i primi a inserire nella dottrina cristiana l’elenco dei peccati capitali e ne ha indicato otto: sapete qual è l’ottavo vizio che Evagrio ha proposto [come sentimento che indica il non apprezzare le opere che Dio ha compiuto] e che poi è stato accorpato ad altri due vizi [per mantenere la cadenza mitica del numero sette in tutti i cataloghi riguardati i vari aspetti della dottrina]?...
Fate una ricerca navigando in rete così potete anche osservare il celebre dipinto, olio su tela, di Hieronymus Bosch intitolato I sette peccati capitali [data di produzione tra il 1500 e il 1525] conservato nel Museo del Prado di Madrid...
Dopo aver scritto e letto attentamente l’elenco dei Sette vizi capitali quale preferite attribuirvi?...
Scrivete quattro righe in proposito [attribuirsene nessuno potrebbe essere il vero peccato, dice Pascal]...
La scorsa settimana abbiamo iniziato a leggere il Libro di Italo Calvino intitolato Palomar pubblicato nel 1983. Sappiamo che questo titolo corrisponde al nome del protagonista, il signor Palomar, un nome simbolico che richiama un potente telescopio.
L’attenzione del signor Palomar si posa sistematicamente sulle cose che gli capitano sotto gli occhi nella vita quotidiana perché, come Montaigne, decide di osservare “le cose della vita” scrutandole nei minimi particolari per cercare di interpretarle nel tentativo [come pretende di fare Pascal] di mettersi in equilibrio con l’Universo, e questo tentativo presenta grandi difficoltà. Il signor Palomar [di racconto in racconto] si concentra ogni volta su un fenomeno isolato come se non esistesse altra cosa al mondo, ma succede che più circoscrive il campo dell’esperienza più questo campo si amplia al proprio interno aprendo, come direbbe Pascal, “prospettive vertiginose” che, tuttavia, non danno la possibilità di trovare la verità, ma permettono però a chi osserva e a chi riflette di conoscere un po’ meglio se stessa e se stesso perché, come scrive Pascal nel testo del Pensiero 66 riferendosi a Montaigne: «Bisogna conoscere se stessi: anche se questo non servisse a trovare la verità, almeno servirà a regolare la propria vita, e non vi è niente di più giusto.».
Adesso andiamo a cogliere i pensieri del signor Palomar: la scorsa settimana lo abbiamo seguito mentre rifletteva osservando un’onda, e questa sera, tanto per rimanere in tema [palesemente nell’ambito del capitolo V del Libro III dei Saggi di Montaigne intitolato Su alcuni versi di Virgilio], incontriamo il signor Palomar alle prese con il seno nudo di una signora che, tranquillamente, prende il sole sulla spiaggia.
LEGERE MULTUM….
Italo Calvino, Palomar
Il seno nudo.
Il signor Palomar commina lungo una spiaggia solitaria. Incontra rari bagnanti. Una giovane donna è distesa sull’arena prendendo il sole a seno nudo. Palomar, uomo discreto, volge lo sguardo all’orizzonte marino. Sa che in simili circostanze, all’avvicinarsi di uno sconosciuto, spesso le donne s’affrettano a coprirsi, e questo gli pare non bello: perché è molesto per la bagnante che prendeva il sole tranquilla; perché l’uomo che passa si sente un disturbatore; perché il tabù della nudità viene implicitamente confermato; perché le convinzioni rispettate a metà propagano insicurezza e incoerenza nel comportamento anziché libertà e franchezza.
continua la lettura ...
In questa situazione viene da pensare che Montaigne sarebbe stato un attento e disinibito osservatore dell’oggetto in questione e poi avrebbe scritto qualcosa di voluttuoso, mentre si potrebbe pensare che Pascal avrebbe scelto di non osservare e avrebbe scritto qualcosa di temperante per non cadere in tentazione: ma chissà se poi le cose sarebbero andate così visto che Pascal nel testo del Pensiero 63 giustifica il fatto che Montaigne abbia “pensieri liberi e voluttuosi” mentre lo critica per come tratta il tema della morte: Pascal scrive: « … ma non si possono scusare i sentimenti del tutto pagani di Montaigne sulla morte; ora, in tutto il suo Libro, egli non pensa che a morire fiaccamente.». Perché Pascal accusa Montaigne di avere “sentimenti pagani” nei confronti della morte [che è, come sapete, il tema conduttore dei Saggi] se, come tutti sanno, Montaigne muore, e vuole morire, da cristiano cattolico, apostolico e romano? E che significato ha l’affermazione: « …ora, in tutto il suo Libro, egli non pensa che a morire fiaccamente.»? In questa frase tagliente, con l’uso di un sarcastico avverbio c’è un tono irrisorio, tipico del linguaggio graffiante di Pascal, dal quale, però, traspare un’ironia di carattere socratico che rivela un intelligente atteggiamento interlocutorio che induce Pascal [e noi con lui] a riflettere ulteriormente su questa tematica [«Nonostante tutto - pensa Pascal - Montaigne dimostra di essere un maestro sul piano dell’osservazione della condizione umana»] per cui mentre da un lato esprime il suo sarcasmo nei confronti di Montaigne [«Perché un maestro così dispersivo e così disordinato io non lo vorrei avere», aggiunge Pascal] dall’altro attinge dai Saggi e scopre che le idee coltivate da Montaigne anche lui le ha in mente, e ha certamente capito, da attento lettore qual è, che le opinioni di Montaigne sul tema della morte spaziano a tutto campo e cambiano nel corso del tempo, e non si può pensare che non le abbia trovate interessanti.
Blaise Pascal quando critica Montaigne sul modo in cui affronta il tema della morte ha capito che le opinioni dello scrittore dei Saggi su questo delicato argomento spaziano a tutto campo e cambiano nel corso del tempo e, quindi, la graffiante ironia interlocutoria di Pascal c’insegna che dall’opera di Montaigne c’è sempre qualcosa da prendere e da utilizzare [Pascal direbbe: «Non comportatevi come Montaigne, ma seguite i suoi ragionamenti»].
Uno dei capitoli più importanti [il XX] del Libro I dei Saggi di Montaigne s’intitola Filosofare è imparare a morire ed è un titolo come ben sapete preso in prestito da Cicerone e, di conseguenza, non può che ispirare un pensiero legato alla Filosofia stoica: è questo il paganesimo che Pascal rinfaccia a Montaigne, il fatto che affronti il tema della morte in termini che non sono propriamente cristiani, pur volendo lui morire cristianamente? Scrive Montaigne: «Il fine della nostra corsa è la morte, ed è la morte l’oggetto a cui ineluttabilmente miriamo: se ci atterrisce tanto, come possiamo pensare di avanzare anche solo di un passo senza angoscia? Il rimedio della persona semplice è non pensarci affatto. Ma da quale bestiale idiozia può mai derivargli una così grossolana cecità? Spogliamo questo nemico [la morte] della sua stranezza, frequentiamolo, avvezziamoci a lui, cercando di non pensare a nient’altro più spesso che alla morte»; di conseguenza, scrive Montaigne parafrasando Cicerone, il compito della persona saggia è quello di dominare le proprie passioni, e dunque anche la paura della morte e, dal momento che la morte è inevitabile, occorre ammansirla, bisogna farci l’abitudine, è utile pensarci costantemente al fine di contenere lo spavento che questo avversario inesorabile ci ispira. Quindi, nel Libro I dei Saggi, sulla scia del pensiero delle Scuole ellenistiche [stoiche, epicuree, scettiche, eclettiche], Montaigne afferma che occorre, con l’esercizio della volontà [mediante un piano di studi], far l’abitudine al pensiero della morte perché ciò che rientra nella normalità non genera preoccupazione [torneremo al nulla eterno da dove veniamo e dove non soffrivamo affatto]. Però nel Libro III dei Saggi Montaigne sembra aver cambiato opinione e affronta il tema da un’altra angolazione perché, osservando l’atteggiamento di rassegnazione dei contadini di fronte alla peste e alla guerra, giunge alla conclusione che non ci si prepara alla morte mediante un esercizio della volontà come propongono i programmi delle Scuole ellenistiche, e che «la vera saggezza è l’indifferenza delle persone semplici »[la morte è una calamità come le altre e bisogna rassegnarsi], e l’assennatezza delle persone umili, afferma Montaigne, non è meno nobile di quella di Socrate condannato a darsi la morte. Montaigne nel capitolo XII del Libro III dei Saggi intitolato Della fisionomia, scrive: «Turbiamo la vita con il pensiero della morte e la morte con il pensiero della vita. La prima ci angustia, la seconda ci atterrisce. Non è contro la morte, cosa di brevissima durata, che ci prepariamo. Un quarto d’ora di patimenti senza conseguenze né danno non merita istruzioni particolari. A ben guardare, ci prepariamo contro le preparazioni alla morte. Ma a mio giudizio la morte è solo la fine della vita, non il suo fine. È il suo termine, il suo estremo, ma non il suo oggetto. La vita deve avere se stessa come solo obiettivo e come solo disegno».
In definitiva Montaigne, come è solito fare, riflette, nel corso del tempo, su questo delicato tema esistenziale nel modo più ampio possibile con un intento interlocutorio [e questo atteggiamento Pascal non può che condividerlo] e, in questo caso sono due i punti di domanda che coinvolgono le lettrici e i lettori dei Saggi: occorre, con l’esercizio della volontà [mediante un piano di studi], far l’abitudine al pensiero della morte perché ciò che rientra nella normalità non genera preoccupazione, oppure è meglio distogliere il pensiero e rivolgerlo ad altro perché la morte non è che una calamità come tutte le altre e bisogna rassegnarsi?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste due posizioni scegliereste: far l’abitudine al pensiero della morte per normalizzarlo oppure rivolgere sempre il pensiero ad altro per evitare quello della morte?…
Forse per rispondere è necessario scrivere quattro righe in proposito…
Che cosa pensa il signor Palomar in proposito? Anche questo è un tema sul quale Italo Calvino non può fare a meno di far riflettere il protagonista del suo Libro con lo sguardo descrittivo di Montaigne e con quello intuitivo di Pascal. Leggiamo dunque.
LEGERE MULTUM….
Italo Calvino, Palomar
Come imparare a essere morto.
Il signor Palomar decide che d’ora in poi farà come se fosse morto, per vedere come va il mondo senza di lui. Da un po’ di tempo s’è accorto che tra lui e il mondo le cose non vanno più come prima; se prima gli pareva che s’aspettassero qualcosa l’uno dall’altro, lui e il mondo, adesso non ricorda più cosa ci fosse da aspettarsi, in male o in bene, né perché questa attesa lo tenesse in una perpetua agitazione ansiosa.
Dunque ora il signor Palomar dovrebbe provare una sensazione di sollievo, non avendo più da chiedersi cosa il mondo gli prepara, e dovrebbe anche avvertire il sollievo del mondo, che non ha più da preoccuparsi di lui. Ma proprio l’attesa di assaporare questa calma basta a rendere ansioso il signor Palomar.
continua la lettura ...
Indubbiamente l’esercizio della scrittura è utile tanto “per abituarsi al pensiero della morte con l’intento di normalizzarlo” quanto “per rivolgere il pensiero ad altro in modo da evitare quello fastidioso della perdita della vita”: non a caso si è sempre parlato della scrittura come “metodo terapeutico al fine di esorcizzare il pensiero della fine”, e non è casuale il fatto che questo tema sia il filo conduttore dei Saggi di Montaigne ed è davvero un peccato che i Pensieri di Pascal siano degli appunti [dei “frantumi” taglienti], delle tracce, anche piuttosto lunghe a volte, che lui non ha fatto a tempo a sviluppare [come avrebbe avuto intenzione di fare perché, per ironia della sorte, la morte lo ha colto prematuramente]. Quindi, possiamo solo fare delle ipotesi su che cosa criticamente e ironicamente Pascal avrebbe scritto sul modo in cui Montaigne ha trattato il tema della morte, e ancora ci si domanda che cosa indichi esattamente l’affermazione contenuta nel Pensiero 63, dove Pascal scrive: « …ora, in tutto il suo Libro, Montaigne non pensa che a morire fiaccamente.»: forse Pascal, nel testo del “Pensiero 63”, utilizza l’avverbio “fiaccamente” in chiave simbolica per alludere al fatto che Montaigne, secondo lui, non si è sforzato abbastanza per mostrare con sincerità i suoi veri sentimenti ma ha voluto trattare il tema della morte giocando soprattutto con le parole [con parole ad effetto]: cosa che a lui [a Montaigne] piace fare moltissimo anche per cercare di affrontare un argomento così serioso con leggerezza [nel senso della sottigliezza, dell’acume, non certo della superficialità].
E allora quali ipotesi è necessario, e anche doveroso sotto il profilo didattico fare su che cosa Pascal avrebbe potuto scrivere, se avesse avuto il tempo di sviluppare i suoi Pensieri, per commentare criticamente ciò che Montaigne ha scritto sul tema della morte?
Pascal probabilmente - se avesse avuto il tempo di sviluppare i suoi Pensieri - avrebbe scritto che Montaigne non si è sforzato abbastanza per mostrare con sincerità i suoi veri sentimenti ma ha voluto trattare il tema della morte non con il cuore [tema caro a Pascal, come vedremo] ma facendo esclusivamente leva sull’intelletto, giocando con le parole, utilizzando “parole ad effetto”, cosa che piace molto fare a Montaigne: difatti, l’affermazione contenuta nel capitolo intitolato Della fisionomia, dove Montaigne scrive: «…la morte è solo la fine della vita, non il suo fine. È il suo termine, il suo estremo, ma non il suo oggetto.», ha avuto molto successo ed è entrata nei glossari contenenti le numerose “perle di saggezza” tratte da quella miniera che è il testo dell’opera di Montaigne. Pascal, in proposito, avrebbe scritto che a Montaigne piace affrontare un argomento, oltre che per infarcirlo di citazioni classiche, proprio per creare dei “giochi di parole” [che, in effetti, sono molto esplicativi, e Montaigne ne crea un certo numero perché ama fare il filologo per ribadire di essere un filosofo involontario e fortuito]. Per capire di che cosa stiamo parlando dobbiamo fare appello al testo scritto in lingua originale per scoprire che, scrive Montaigne: «… la morte è “la fine” [parola che in francese risulta “bout”] e non “il fine” [parola che in francese risulta “but”], della vita», come dire che - siccome il termine “bout [la fine]” va a sfociare in “but [il fine]” - la vita deve guardare alla vita, e la morte verrà da sé.
Pascal poi, probabilmente, avrebbe scritto che nel capitolo XX del Libro I Filosofare è imparare a morire Montaigne gioca con le parole a fare il sofista, e prova gusto a dare a chi legge degli ammonimenti espressi sotto forma di antitesi così cavillose da far dubitare che lui ci creda davvero nella tesi che sta esprimendo: scrive Montaigne: «Non ci è dato sapere dove la morte ci aspetti, aspettiamola ovunque. La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire. Non c’è male alcuno nella vita per colui che ha capito che essere privati della vita non è un male. Il saper morire ci affranca da ogni sudditanza e da ogni vincolo», ebbene, anche queste asserzioni [questi sofisticati sofismi] hanno avuto molto successo [e si trovano nei glossari contenenti le numerose “perle di saggezza” tratte dal testo dei Saggi di Montaigne]; Pascal avrebbe scritto che sono proposizioni costruite ad effetto come se l’intelletto volesse convincere l’immaginazione, ma chissà [si sarebbe domandato Pascal] se Montaigne crede davvero in quel che dice, o se sta solo trastullandosi con parole che ha mutuato dalla lettura, per lui preziosa e istruttiva, dei testi delle Opere dei Classici?
Pascal, inoltre, farebbe sicuramente dell’ironia sulla lotta [a parole] che Montaigne sembra voler condurre contro la morte perché non c’è persona che non sappia che questa è una battaglia persa in partenza, e anche Montaigne ne è perfettamente consapevole visto che scrive, sempre nel capitolo intitolato Filosofare è imparare a morire: «Se si trattasse di un avversario che si può evitare, consiglierei di munirsi delle armi della codardia» cioè di darsi alla fuga, ma il consiglio è inutile.
Pascal, infine, dovrebbe ammettere che bisogna tuttavia riconoscere a Montaigne il merito di aver stimolato le sue lettrici e i suoi lettori a porsi, anche riflettendo sul tema della morte, la domanda fondamentale: come si vive meglio? Si vive meglio pensando sempre alla morte, come vorrebbero Cicerone e gli stoici, oppure pensandoci il meno possibile, come fa Socrate e come fanno i contadini?
Pascal dovrebbe riconoscere che Montaigne è sinceramente combattuto fra la malinconia e la gioia di vivere e, dopo aver a lungo spaziato nei territori della riflessione accompagnato dai suoi autori preferiti, Montaigne, come tutte e tutti noi, del resto, alla fine, arriva a una conclusione che più umana non si può, e scrive: «Voglio che la morte mi sorprenda mentre sono nell’orto a piantare i cavoli »[e qui anche Pascal è sicuramente scoppiato a ridere!].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Forse non è una domanda da fare ma tanto Montaigne quanto Pascal, fedeli al motto che “parlare della morte allunga la vita”, se la pongono: voi dove vorreste che la morte vi sorprendesse?…
La scrittura permette alle persone vive di ironizzare sulla morte: scrivete quattro righe in proposito…
Come si fa poi a non consigliare la lettura o la rilettura del romanzo Il povero Piero di Achille Campanile, nel testo del quale la comicità ben si concilia con il tema della morte?… Lo trovate in biblioteca: buon divertimento…
E, per concludere, leggiamo un frammento da Il povero Piero di Achille Campanile: dopo una lunga e appassionata discussione finalmente i parenti, gli amici e i vicini di casa riescono a compilare l’epigrafe da porre sulla lapide del “povero” Piero, e se tutti vogliono dire la loro l’epitaffio diventa un romanzo…
Achille Campanile, Il povero Piero
Tutti gli si affollarono attorno in silenzio, e Luigi, coi lucciconi agli occhi, lesse l’epigrafe:
QUI GIACE PIERO D’AVENZA
CITTADINO INTEGERRIMO
LAVORATORE INDEFESSO
SPOSO E PADRE ESEMPLARE
FIGLIO AMOROSISSIMO
FRATELLO DISCRETO
CUGINO SODDISFACENTE
COGNATO PASSABILE
GENERO DETESTABILE
PROZIO TENERISSIMO
BISCUGINO SENZA PARTICOLARE RILIEVO
NIPOTE INSIGNIFICANTE
PRONIPOTE MODELLO
SUOCERO INSUPERABILE
AMICO PIGNOLO
DEBITORE INSOLVIBILE
VICINO DI CASA POCO RUMOROSO
NONNO FUTURO
ANTENATO IMPAREGGIABILE
MORTO ESIGENTE, UNA PRECE!
A LUI I POSTERI DIRANNO UN GIORNO: GRAZIE, ARCAVOLO!
Anche la parola “arcavolo” indica un grado di parentela, non fraintendete: controllate sul dizionario [ma a quel birichino di Achille Campanile piace giocare con le parole]!
In questi primi itinerari Montaigne e Pascal sono stati protagonisti, e a Pascal abbiamo fatto esprimere i suoi Pensieri su Montaigne [e ci ha fatto riflettere] ma di lui non sappiamo ancora nulla: chi è Blaise Pascal e che cos’è Port-Royal e perché Port-Royal corrisponde a due luoghi, e ad una metafora che non possiamo ignorare?
Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli che non dobbiamo mai perdere la volontà d’imparare, e tra quindici giorni, dopo aver onorato i Santi e commemorato i Defunti, come da calendario, la Scuola è qui e, con il ritorno all’ora solare, il viaggio continua…