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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE SI DISCUTE SE SIA “LA GIUSTA INTENZIONE” A STABILIRE LA MORALITÀ DI UN ATTO...

Lezione N.: 
22

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale     25-26-27  marzo  2015

Bernardo da Chiaravalle

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE  

SI DISCUTE SE SIA “LA GIUSTA INTENZIONE” A STABILIRE LA MORALITÀ DI UN ATTO...

 

   Il ventiduesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale” corrisponde all’ultima tappa prima della vacanza pasquale e, questa sera, ci troviamo ancora di fronte al paesaggio intellettuale dove abita il personaggio che abbiamo incontrato la scorsa settimana: Pietro Abelardo, il quale, insieme ad Eloisa, viene ricordato più per la tragica spirale in cui sprofonda piuttosto che per l’illuminante contributo che ha saputo dare allo sviluppo della “Dialettica” affermando che “è necessario capire per poter credere [intelligo ut credam]” e questa affermazione è diventata il manifesto delle correnti “razionaliste” anche se Abelardo rivendica di essere un mistico.

   La scorsa settimana abbiamo studiato come Abelardo ha affrontato brillantemente il tema degli universali utilizzando questo argomento come pretesto per innovare la “disciplina dialettica” e aprendo la strada al periodo più creativo della Scolastica. Quali sono i punti salienti che fanno di Abelardo l’innovatore della Dialettica? Non è facile rispondere a questa domanda - il pensiero di Abelardo è complesso - ma dobbiamo sforzarci di riflettere su questo interrogativo.

   Abelardo è convinto che il campo della Ragione e quello della Fede sono distinti, tuttavia la Ragione ha, nei confronti della sfera della Fede, due possibilità.

   La prima possibilità è quella di fare da raccordo tra verità razionali e verità di fede mediante l’esercizio della “analogia”. La parola greca “analogia” [che Abelardo fa entrare nel dizionario latino] significa “somiglianza, similitudine, affinità, relazione, attinenza, corrispondenza, conformità, equivalenza”. Che tipo di “analogia” c’è tra la Ragione e la Fede, si domanda Abelardo? La Ragione, afferma Abelardo, procedendo con i suoi mezzi cosciente dei propri limiti [come hanno fatto i filosofi antichi, ad esempio come fa Platone nel “Timeo” dove descrive l’evento della creazione del mondo], raggiunge verità che sono rassomiglianti, sono analoghe a quelle della Fede perché, sostiene Abelardo, sotto qualsiasi cielo la razionalità umana è una sola, come una sola è la Verità [e Abelardo pensa alla “Verità cristiana”]. Per esempio Abelardo ritiene, così come lo ritiene Aristotele, che il mondo delle Idee di Platone non sia separato dalla realtà materiale perché  l’Iperuranio [il mondo delle Idee, come lo chiama Platone] è formato, sostiene Abelardo, dall’accumulo delle singole idee prodotte dagli intelletti delle singole persone: il mondo delle Idee, quindi, è come se fosse una nuvola di sostanza soprasensibile dotata di Intelligenza che sovrasta la terra e che Platone chiama l’Anima del mondo [mentre Aristotele chiama questo fenomeno: Intelletto universale]; ebbene, sostiene Abelardo, l’Anima del mondo di Platone [e il fenomeno dell’Intelletto universale di Aristotele] è, sostiene Abelardo, per analogia la mirabile anticipazione della dottrina trinitaria dello Spirito Santo e, quindi, mediante l’elemento dialettico dell’analogia ci può essere un raccordo tra verità razionali e verità di fede: il ragionamento fatto da Platone e da Aristotele per definire “l’Anima del mondo” e “l’Intelletto universale” mi serve, afferma Abelardo, per capire che cosa sia “lo Spirito Santo” e, quindi, nel momento in cui capisco sono più ben disposto a credere. Abelardo, che è un mistico, è convinto che il dono della Fede lo si riceva per grazia di Dio, però la Ragione, con tutti i suoi limiti, aiuta ad accogliere la grazia, in forma analogica, per corrispondenza. Abelardo sostiene questa sua riflessione - sull’analogia tra verità razionali e verità di fede - in un’opera intitolata Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano nella quale mostra come nella Fede cristiana trovi esplicita rivelazione quel che è già contenuto nel sapere razionale di ogni persona e, di questo fatto, sostiene Abelardo, sono testimoni i filosofi antichi. E questa affermazione - “nel sapere razionale di ogni persona ci sono già i semi della rivelazione cristiana” - avrà un peso notevole nello sviluppo della Scolastica durante il secolo successivo.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - somiglianza, similitudine, affinità, relazione, attinenza, corrispondenza, conformità, equivalenza - mettereste per prima accanto al termine “analogia”?...

Scrivetela...  

C’è un’analogia, una relazione, un’attinenza tra la Pasqua e l’uovo...   Che cosa vi ricorda l’uovo pasquale?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Abelardo è convinto che la Ragione ha, nei confronti della sfera della Fede, due possibilità: la prima possibilità, come abbiamo appena studiato, è legata all’esercizio della “analogia” mentre la seconda è collegata al metodo della “disputatio”: che cosa significa, in che cosa consiste?

   La seconda possibilità dopo l’analogia che Abelardo riconosce alla Ragione nei confronti della Fede - cioè la funzione che ha la Ragione in ambito teologico - è quella di mettere in discussione l’autorità degli scritti dei Padri della Chiesa mediante il metodo [che avrà un destino glorioso] della “disputatio”. Il termine [latino] “disputatio” corrisponde alle parole “disputa, trattazione, discussione, dialogo, colloquio, dibattimento, scambio di vedute, confronto”. Il documento più eloquente di questa novità abelardiana - il metodo della “disputatio” - è un’opera alla quale Abelardo dà il titolo significativo di Sic et Non [Sì e no] che consiste in una raccolta di brani [è un catalogo di 158 questioni controverse e 1800 citazioni] tratti dalla Bibbia, dagli scritti dei Padri della Chiesa e dai Documenti conciliari che contrastano tra loro su singoli argomenti di teologia. L’intento di Abelardo non è il rifiuto scettico delle “auctoritates contradictorie [delle autorità contrastanti] ma è la messa in opera della “discussione razionale [della disputatio]” in vista di una conciliazione dei contrasti. L’insegnamento di Abelardo è chiaro: che senso ha riferirsi ad un’autorità in sé contraddittoria senza il filtro della Ragione? Senza un “dubbio metodico”, afferma Abelardo, che metta a confronto due affermazioni contraddittorie, e senza fare l’analisi del significato che hanno le parole in diversi contesti, non si può arrivare, sostiene Abelardo, a produrre il superamento dell’apparente conflitto, e l’obiettivo di Abelardo non è quello di contestare le verità di Fede ma quello di renderle più comprensibili perché: più ci si esercita con la Ragione e meglio si può camminare sulla via della Fede. E la “disputatio [videtur quod sic, videtur quod non: bisogna vedere se è così o se non è così]” diventa la forma tipica della ricerca scolastica: un metodo che darà i suoi frutti nei secoli a venire.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Su quale tema avete avuto ultimamente una discussione per sostenere una tesi    ?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   E ora richiamiamo i due termini abelardiani, “analogia” e “disputatio”, in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché dobbiamo leggere ancora alcune pagine tratte dal romanzo il cui titolo è in analogia con una significativa affermazione che abbiamo rinvenuto in una Lettera di Eloisa ad Abelardo, scrive Eloisa: «La gente in apparenza loda la mia castità perché sa che, in realtà, sono un’ipocrita. La mia abilità nel fingere non li trae in inganno perché io non sono guarita: ti penso, ti amo, ti voglio come prima e più di prima, e c’è chi continuerà per sempre a considerare te un servo [lacheus, un lacchè] e io una puttana [mĕrĕtrix]». E questa “incisiva espressione” di Eloisa, Il lacchè e la puttana, dà il titolo al romanzo, scritto nel 1937 da Nina Berberova che abbiamo incontrato la scorsa settimana.

   Sappiamo che la protagonista di questo racconto di Nina Berberova si chiama Tanja [è la figlia di un funzionario pietroburghese come la scrittrice, ma Tanja non è una figura autobiografica]. Il personaggio di Tanja merita di occupare un posto nella galleria delle grandi “abiette” della Letteratura russa, della quale la scrittrice racconta le avventure da Pietroburgo al Giappone, alla Cina fino a Parigi, ed è a Parigi che l’abbiamo lasciata la scorsa settimana mentre cerca di sopravvivere perché, dopo la drammatica morte del marito, è rimasta sola ed è senza risorse per campare, finché - dopo varie peripezie vissute per farsi mantenere e conclusesi in malo modo - a farle da spalla [ma, per ora, non è ancora entrato in scena], incontra il “lacchè”: un ex ufficiale della cavalleria zarista, finito come cameriere a servire caviale in un ristorante [che trova in Tanja non solo un corpo ma anche l’anima di una Russia che non esiste più]. Lo scenario del romanzo è quello della Parigi degli emigrati russi [un terreno sul quale, nel tempo, si sono cimentate e cimentati molte scrittrici e molti scrittori]: ebbene, questi emigrati sono incapaci di adattarsi alla dura realtà di vivere lontani dalla madre patria, e sono continuamente in preda al rimpianto del loro passato che trasfigurano in modo irreale [costruendo, con l’immaginazione, anche un mondo che non è mai esistito].

   Eloisa non assomiglia certamente a Tanja però, ai suoi tempi e in un diverso contesto, la maggior parte delle persone deve aver ragionato in modo analogico nei suoi confronti e deve averla giudicata come se fosse una persona ambigua, abietta, detestabile, spregevole [lei stessa ne è consapevole di questo fatto], allo stesso modo in cui appare la protagonista del romanzo del quale stiamo per leggere ancora qualche pagina.

 

LEGERE MULTUM….

Nina Berberova,  Il lacchè e la puttana

Ed ecco che poco alla volta, senza dire niente a nessuno, Tanja cominciò a trasformarsi, senza mai dimenticare che soldi e abilità le bastavano per costruirsi un’unica cornice, e in quella cornice dove poteva andare? Al ristorante russo dove cantavano Ne’ lieti calici, in quell’altro dove si mangiavano storione e pernici, e infine in un ristorante notturno dove la musica non era più russa ma argentina, e dove di notte, da sola, con il suo viso delicato, il grosso seno, le morbide mani, la grande, tenera bocca, sarebbe rimasta seduta a un tavolino giocherellando con le lunghe unghie, sorbendo da una cannuccia qualcosa di freddo e inebriante, senza quasi guardarsi intorno.

... continua la lettura ...

 

   Abelardo, oltre ad insegnare la Dialettica e la Teologia, diventa anche un maestro di Etica e su questo tema compone un’opera durante il suo secondo soggiorno nel convento di Eloisa [al Paracleto] e quindi il dialogo intellettuale tra queste due persone continua in modo fecondo. Di questo trattato di Abelardo sull’Etica si è conservato solo il primo libro e una parte del secondo: in quest’opera Abelardo sostiene che è la Logica a stabilire la verità di un discorso ma che è “la giusta intenzione” a stabilire la moralità di un atto.

   Un’altra rottura nei confronti della tradizione Abelardo la compie nell’ambito della dottrina morale scrivendo un’opera intitolata Ethica seu liber dictus “scito te ipsum” [Etica, ovvero il libro detto “conosci te stesso”]. Ciò che colpisce prima di tutto è il fatto che Abelardo abbia utilizzato nel titolo del suo scritto l’antico detto oracolare illustrato da Socrate: “scito te ipsum [conosci te stesso]” e, difatti, l’opera di Abelardo è introspettiva, e la compone analizzando la sua attività interiore, riflettendo sui moti della sua coscienza.

   Perché, si domanda Abelardo, un’azione è buona o cattiva? Facendo l’analisi della questione, afferma Abelardo, si può distinguere una sfera che sta al di qua della morale e una sfera che sta al di là: al di qua, afferma Abelardo, c’è l’inclinazione, c’è il desiderio che, in quanto tale, non è mai né buono né cattivo nemmeno quando tende al delitto, afferma Abelardo, mentre al di là c’è l’esecuzione dell’atto, e tra l’uno e l’altro momento c’è un punto impercettibile ma decisivo, che è “l’intenzione”. L’intenzione, afferma Abelardo, potrebbe anche essere in contrasto con un comportamento che viene [dalla legge, dai precetti, dalle convenzioni, dalle superstizioni, dall’arretratezza mentale] considerato cattivo, ma se questa intenzione, nella coscienza di chi agisce, è buona, allora l’azione, quale che essa sia, è da dirsi moralmente buona: Abelardo allude anche alla sua storia d’amore con Eloisa che tutti [quasi tutti] hanno condannato come immorale ma loro due non hanno fatto altro che amarsi sinceramente senza danneggiare alcuno seguendo la buona intenzione della loro coscienza [che cosa c’è di cattivo nell’amarsi!]. Abelardo fa una serie di affermazioni che suscitano scandalo, scrive per esempio che se i membri del Sinedrio, quando hanno condannato Gesù, erano convinti di doverlo fare secondo la Legge mosaica [che punisce con la morte l’uomo che dice di essere figlio di Dio] non hanno peccato, anzi avrebbero peccato se non l’avessero fatto.

   Questa grande esaltazione del “momento soggettivo dell’agire umano” urta contro la mentalità del tempo che condanna i peccatori senza attenuanti, senza che si rifletta sulle cause, sui moventi degli atti commessi e senza fare l’analisi delle intenzioni: Abelardo sostiene che se “l’elemento determinante del comportamento morale è l’intenzione” allora è necessario “educare l’intelletto della persona a coltivare le buone intenzioni” ed è basilare istruire le persone perché si formi in loro “una coscienza capace di distinguere il Bene dal Male”. E le pene comminate dai tribunali, a cominciare da quello ecclesiastico, sostiene Abelardo, devono, di conseguenza, essere indirizzate “a rieducare la persona”, e noi capiamo come i ragionamenti di Abelardo siano all’avanguardia e precorrano il pensiero illuminista e perfino il dettato di alcuni articoli [in particolare l’articolo 27] della nostra Costituzione. Abelardo, sostenendo che è “la giusta intenzione a stabilire la moralità di un atto”, mette in evidenza il tema del primato della coscienza.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La parola “intenzione” richiama i termini “proposito” e “proponimento”: avete fatto un “buon proposito” in questi giorni?...

Scrivete quattro righe in proposito: un esercizio che consiste proprio nel realizzare un buon proposito...

 

   La tesi etica di Abelardo - sulla “giusta intenzione” e sul “primato della coscienza” - gli ha procurato molti nemici anche perché, come avviene per tutti gli iniziatori, il linguaggio abelardiano risulta piuttosto complesso e di difficile comprensione per chi non è abituato o non vuole riflettere in termini dialettici e, quindi, l’autorità costituita preferisce condannare piuttosto che seguire il filo del ragionamento con il quale Abelardo tesse le preposizioni che vengono ritenute blasfeme.

   E ora torniamo sul testo del romanzo che stiamo leggendo per constatare quali sono “le intenzioni” di Tanja: fondamentalmente non sembrano essere buone intenzioni, ma deve pur sopravvivere, e il ricamo non fa per lei: spera in un incontro.

 

LEGERE MULTUM….

Nina Berberova,  Il lacchè e la puttana

Le otto e un quarto. Tanja era un po’ in ritardo, non riusciva mai a essere puntuale. Aveva un vestito nero, un cappellino nero che le lasciava scoperti i capelli arricciati e tirati su - li aveva tinti di rosso da poco, ma sulle tempie si vedevano già le radici nere. Il colletto della pelliccia di astrakan nascondeva il suo grasso collo bianco; quando lo scostava, si sprigionava una folata d’aria calda e profumata che le si posava sul volto come una nuvola. Alle gambe aveva le ultime calze nere non smagliate, ai piedi scarpe leggere, aperte. Si avvicina di nuovo allo specchio, fa di nuovo quella faccia non sua - quella faccia soddisfatta e tranquilla che vorrebbe tanto avere. Si guarda a lungo.

... continua la lettura ...

 

   E così anche il lacchè è entrato in scena, e tra poco vedremo a che cosa porta questo incontro tra due “reduci” in preda alla nostalgia [perché per loro non c’è “nostos, non c’è “viaggio di ritorno”].

   Abelardo non è certo un “lacchè” [ed Eloisa, anche se usa questo termine, sa benissimo che Abelardo non si assoggetta] anche su lui vuole “essere a servizio” dell’ortodossia: Abelardo vuole essere un “servitore della dottrina” e, secondo lui, un buon servitore della dottrina è colui che insegna ad utilizzare, nella maniera migliore possibile, lo strumento della Ragione per capire nel modo più opportuno il significato dei dogmi, degli articoli di Fede: non si può credere, afferma Abelardo, senza capire il senso delle proposizioni che descrivono i principi fondamentali della Fede, e c’è una differenza sostanziale, sostiene Abelardo, tra la Fede, che va implementata con lo studio, e la credulità, che presuppone la cieca ubbidienza a formule che bisogna rinunciare a capire.

   A questo proposito la questione che mette nei guai Abelardo riguarda il tema centrale del cristianesimo: il dogma della Santissima Trinità, l’argomento relativo alla forma di Dio. Come affronta Abelardo questo tema?

   Nel trattato De unitate et trinitate divina [Sull’unità e la trinità divina] Abelardo sostiene la verità di fede trinitaria mediante il metodo dell’analogia: noi, sostiene Abelardo, riusciamo ad aver fede nella persona del Padre perché capiamo che questa figura è una rappresentazione razionale dell’Uno di Plotino [noi, infatti, cogliamo razionalmente il concetto della sintesi suprema in quanto noi sappiamo sintetizzare fino a teorizzare una suprema sintesi e questo fatto ci aiuta a concepire l’idea del Padre]; noi, sostiene Abelardo, riusciamo ad aver fede nella persona del Figlio [nella Parola di Dio-Padre che si è fatta carne] perché capiamo che questa figura è la rappresentazione razionale del Logos [noi, infatti, sappiamo pensare, analizzare, e questo fatto ci fa comprendere che il Pensiero, il Logos, esiste in quanto noi siamo capaci di pensare e di parlare e ciò ci aiuta a concepire l’idea del Figlio]; noi, sostiene Abelardo, riusciamo ad aver fede nella persona dello Spirito Santo perché questa figura è la rappresentazione razionale dell’Anima del mondo di Platone [noi sappiamo che le Idee prodotte dall’Intelletto si accumulano dando forma ad una nuvola di Intelligenza composta di sostanza soprasensibile e noi siamo coscienti di possedere un’intelligenza individuale che si riflette in un’Intelligenza universale in quanto noi siamo capaci di progettare e questo fatto ci aiuta a concepire l’idea dello Spirito Santo].

   Quindi, mediante l’elemento dialettico dell’analogia, afferma Abelardo, si forma un raccordo tra le verità razionali [sappiamo sintetizzare, sappiamo analizzare, sappiamo progettare] e le verità di fede [crediamo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo]: le articolate riflessioni degli antichi filosofi, sostiene Abelardo, ci sono utili per capire il mistero della Santissima Trinità e, quindi, nel momento in cui capiamo siamo disposti a credere [intelligo ut credam, capisco quindi credo, devo capire per poter credere, non devo credere in qualcosa se non l’ho capito].

   Ma il tribunale ecclesiastico [il concilio di Soissons nel 1121] condanna Abelardo con la motivazione che lui avrebbe sostituito le verità di fede con concetti eterodossi di derivazione profana [laica, mondana, secolare, irreligiosa, empia, sacrilega]: i giudici non hanno capito nulla del suo ragionamento e la condanna di Abelardo verrà ribadita dal concilio di Sens nel 1140 e questo è un segno di quanto sia ancora incerta, alla metà del XII secolo, la lotta tra la nuova cultura prodotta nelle Scuole cittadine e la vecchia mentalità tipica degli apparati repressivi mal disposti verso chi si dedica ad investire in intelligenza.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dovete prendere atto che voi sapete “sintetizzare [con quali verbi - non più di quattro - riassumereste l’attività della giornata odierna?]”, sapete “analizzare [quale pensiero ha prevalso nella vostra mente oggi?]”, sapete conservare un’idea nella memoria e quindi “progettare [quale progetto state elaborando?]”...  Fate un esercizio di dialettica: rispondete agli interrogativi scrivendo quattro righe in proposito...

 

   Abelardo, perseguitato dalle condanne, viene ospitato da Pietro il Venerabile, il potente abate di Cluny, che lo accoglie rivolgendosi autorevolmente verso Roma dicendo: «Nessuno tocchi Abelardo». Nella Scuola dell’abbazia di Cluny - che si potrebbe dire è la casa madre del monachesimo medioevale - ad Abelardo, che ci tiene a guadagnarsi il vitto e l’alloggio, viene affidata la cattedra di “dialettica” [e questi sono i miracoli - o i paradossi - della eterogeneità della Chiesa: un maestro, se è valido, c’è sempre chi, nella base, lo utilizza anche se è stato considerato eretico dai vertici e costretto al silenzio]. Intanto la parola “riforma” continua a diffondersi nel contesto ecclesiale ma la riforma prende forma [e giochiamo con le parole in modo semi-tautologico] prende forma soprattutto nell’area del monachesimo benedettino dove si sente, in modo più impellente, l’esigenza di “tornare alle origini [di risalire ai principi fondamentali del Vangelo]”.

   Il movimento riformatore benedettino più incisivo è quello dei “cistercensi”, e questo nome deriva dalla zona paludosa e selvaggia di Citeaux, vicino a Bearne, antica cittadina, sede abituale dei duchi di Borgogna, dove nel 1098 si è ritirato in eremitaggio Roberto di Moleste. Roberto di Molesme è un nobile rampollo della famiglia dei conti di Tonnerre che, a quindici anni, disdegna il cavalierato e si fa monaco fino a diventare abate del monastero cluniacense di Saint-Michel a Tonnerre ma poi decide, a imitazione dei Padri del deserto, di lasciare questa ospitale e anche comoda dimora per andare a vivere in povertà assoluta sistemandosi in una casa semi-diroccata nella disabitata piana di Citeaux. Roberto muore il 17 aprile 1111 e verrà canonizzato nel 1220 da papa Onorio III. Intorno all’esperienza, inizialmente solitaria, di Roberto di Citeaux nasce una piccola comunità che cresce quando, nel 1112, il nobile Bernardo di Fontaine [1091-1154], anche lui attratto dalla vita mistica, si trasferisce, insieme ad una trentina di amici, a Citeaux e, tre anni dopo, va a fondare l’abbazia di Clairveaux [Chiaravalle] di cui è rimasto abate fino alla morte, avvenuta nel 1154, anno in cui le abbazie cistercensi sono già ben trecentocinquanta. Per che cosa si distinguono le abbazie cistercensi?

   Nei monasteri cistercensi trova rigorosa attuazione l’ideale pauperistico [e questo termine comincia a qualificare un movimento sulla scia della citazione evangelica: «È più facile che un cammello - o una fune - passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli»]: lo stile di vita dell’abbazia cistercense si basa sulla “povertà” intesa come “sobrietà assoluta”. “Povertà” non significa “miseria”, ma anzi, la “povertà [la “paupertas” evangelica]” è un valore che serve per combattere la “miseria”: è un metodo che - fondato sulla condivisione di tutte le risorse disponibili - permette a ciascuna persona di avere il “necessario”. L’opposto della ricchezza, sostengono i cistercensi, è la miseria non è la povertà, perché la “povertà evangelica” è uno stile di vita che consiste nella ricerca dell’essenziale e nel rifiuto del superfluo, mentre la ricchezza è un accumulo di risorse bloccate dall’egoismo individualistico secondo un atteggiamento contrario al messaggio cristiano ed è evidente che per esistere la ricchezza ha bisogno di creare miseria e, quindi, “ricchezza” e “miseria” sono due condizioni da respingere in nome della povertà che - secondo il Vangelo, sostengono i cistercensi - è sinonimo di sobrietà, di frugalità, di temperanza, di essenzialità.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete fate visita all’abbazia di Citeaux e a quella di Clairveaux [Chiaravalle]: due grandi monumenti completamente ristrutturati...

L’abbazia di Citeaux si trova vicino a Beaune che è un’antica cittadina della Borgogna [che oggi ha circa 17 mila abitanti] la quale - con la guida della Francia e navigando in rete - merita di essere visitata perché è ricca di monumenti a cominciare dalla cinta muraria trecentesca...  Inoltre la città di Beaune e l’abbazia di Citeaux si trovano sulla famosa “Route des Grands Crus [la Strada dei grandi vini di Borgogna]”: un itinerario di 54 chilometri che potete percorrere virtualmente con la guida e sulla rete, buon viaggio…    

 

   Il movimento del monachesimo cistercense reagisce nei confronti di quello cluniacense perché nell’abbazia di Cluny, e in tutti i monasteri cluniacensi, i monaci conducevano una vita secondo un modello gerarchico che rispecchiava l’andamento della società feudale e borghese [divisa in servi e padroni]. A Cluny [si era formata un’aristocrazia abbaziale] c’erano monaci che vivevano in una condizione privilegiata  circondati da altri monaci, solitamente di più bassa estrazione sociale, che erano ridotti al rango di servitori. Nelle abbazie cirstercensi, invece, si “risale” alla regola benedettina originaria [secondo cui, come ben sapete, tutti - dall’abate all’ultimo monacello - nell’arco della giornata devono pregare quattro ore, lavorare quattro ore, studiare quattro ore, prendersi cura di sé e dare cura per quattro ore, riflettere-contemplare-meditare per quattro ore e riposare otto ore] e, mentre le abbazie cluniacensi sono dei veri e propri castelli inaccessibili, dotati di tutti i conforti, la struttura del monastero cistercense è frugale ed è votata all’accoglienza. Bernardo per entrare nella sua cella doveva piegare la testa, e suscita scandalo il fatto che tutti i monaci cistercensi, a cominciare dall’abate: vanghino la terra, mungano le pecore e puliscano le stalle.[Non sono riuscito a convincere Bernardo a riconoscersi in un paesaggio intellettuale: lo considera - anche se virtuale - come se fosse una proprietà e lui non vuole possedere nulla!].

   Qual è l’ideologia circestense? L’ideologia cistercense è stata definita con il termine di “misticismo integralista”. Il monachesimo cirstercense, in prima istanza, si fa difensore della campagna, considerata il luogo privilegiato dell’eremitaggio, nei confronti della città [è un comportamento alternativo, contro corrente rispetto all’andamento della Storia che vede la struttura cittadina affermarsi ovunque], e per Bernardo di Clairveaux Parigi è la nuova Babilonia, è la grande prostituta [secondo il testo dell’Apocalisse interpretato in chiave antiurbana]: la città di Parigi, sostiene Bernardo, è cresciuta a scapito dei principi evangelici in base ai traffici mondani e al consumismo materialistico, e poi Parigi è diabolica, afferma Bernardo, soprattutto perché la cultura delle sue Scuole - a cominciare da quella di Abelardo [Bernardo non sopporta Abelardo] - persegue il progetto di emancipazione della Ragione rispetto al primato conoscitivo della Fede, e mentre Abelardo afferma che “bisogna capire per poter credere [intelligo ut credam]”, Bernardo afferma che “bisogna credere per poter capire [credo ut intelligam]”. Bernardo è convinto - e con lui tutto il movimento cirstercense di cui è l’ispiratore - che gli Apostoli di Cristo avessero vissuto una vita monacale e che il loro insegnamento non riguardasse altro che la maniera di vivere, e nella sua opera intitolata De diligendo Deo [Il dovere di amare Dio] scrive: «Che cosa ci insegnano i santi Apostoli? Non certo a leggere Platone né a rimuginare le sottigliezze di Aristotele, non certo a imparare sempre per non giungere mai alla conoscenza della verità; essi ci hanno insegnato a vivere. Per gli antichi pagani la ricerca filosofica poteva avere un senso dato che essi non avevano altra via per la conoscenza di Dio. Ma i cristiani questa via ce l’hanno. La Sacra Scrittura, letta con semplicità di cuore, è la vera e definitiva filosofia». Il carattere del cristianesimo, secondo Bernardo, è quello di essere “un evento storico che ha un preciso riscontro nella Sacra Scrittura” e che non ha bisogno di un supporto intellettuale per essere compreso [secondo Bernardo bisogna studiare per risolvere meglio i problemi della vita pratica, per affrontare i temi della fisica e non della metafisica], e lui pensa che i testi dei Vangeli e quello degli Atti degli Apostoli narrino [sulla vita di Gesù, di Maria, dei Discepoli e sulla Chiesa delle origini] delle vicende realmente avvenute, e questa presa di posizione va di pari passo con la volontà che Bernardo ha di negare alla Ragione la capacità di interpretare la Sacra Scrittura, nonostante la Ragione dimostri di avere questa competenza pur con tutti i suoi limiti.

   E, su questo piano, Bernardo crea una forzatura perché è ormai acquisito il fatto che la Sacra Scrittura è palesemente allegorica: i testi dei Vangeli e quello degli Atti degli Apostoli non sono composizioni di carattere storico [e tutti i Padri della Chiesa ne sono consapevoli e Abelardo lo dimostra nella su opera “Sic et non”] bensì il canone della Sacra Scrittura è composto da opere di natura catechetica e pastorale di cui è necessario fare l’esegesi per elaborare la dottrina, ma Bernardo nega questo fatto e la sua tesi fa proseliti anche perché, per quanto lui non lo voglia, finisce per fare il gioco del potere, quel potere che lui, in definitiva, vorrebbe contestare.

   L’impostazione integralista di Bernardo favorisce e rafforza la pretesa del Papato di essere superiore a qualunque altra autorità politica [secondo il “Dictatus papae” di Gregorio VII che non ha prodotto buoni risultati ed è una contraddizione nei riguardi dell’umiltà cristiana predicata dai cistercensi], e poi l’’impostazione integralista di Bernardo comporta un inasprimento nella repressione delle eresie [si condannano persone e movimenti che, paradossalmente, s’ispirano al pauperismo dei cistercensi] e inoltre, siccome anche l’Islam, come ben sapete, è considerato [per tutto il corso del Medioevo, e Dante Alighieri ne è testimone] un’eresia del cristianesimo, l’impostazione integralista di Bernardo favorisce la legittimazione della crociata. Ed infine l’impostazione integralista di Bernardo fa crescere la convinzione che la Chiesa con la sua autorità debba condannare chi, come Abelardo, applicando la Ragione ai Misteri della Fede, non può che produrre eresie [nonostante Abelardo agisca perché la Ragione rafforzi l’ortodossia e sostenga l’esercizio mistico].

   Bernardo ha pensato di aver vinto la sua battaglia nel 1140, quando nel concilio di Sens riesce a far condannare alcune proposizioni di Abelardo, senza nemmeno aver accettato un dibattito con lui [certamente non era facile contrastare Abelardo sul piano della dialettica e Bernardo lo teme perché sa che la dialettica non è uno strumento superfluo]. Bernardo vuole realizzare un cristianesimo “integrale” [profondamente vissuto nella sua completezza, interezza e totalità].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale prodotto integrale fa parte della vostra esperienza quotidiana?... Che cosa vi fa venire in mente il termine “integrale”?... 

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Il fatto è che l’integralità di Bernardo, come abbiamo visto, finisce per portare  all’integralismo [all’assolutismo, al dogmatismo, all’estremismo] e lui, suo malgrado, diventa il campione della “cristianità integralista” che ha sfruttato le sue virtù per svolgere spesso azioni scorrette. Bernardo [San Bernardo] ha saputo - con la sua disciplina di contemplativo, con l’opulenza del suo linguaggio devoto, col fascino della sua testimonianza di vita vissuta in assoluta povertà - lasciare un traccia profonda, tanto da andare oltre lo spazio del Medioevo, tanto da essere protagonista nel Paradiso di Dante e, in età moderna, da essere utilizzato dalla Riforma luterana e dal cristianesimo “devoto” dei nostri tempi.

   Però Bernardo, in età scolastica, mettendosi contro la logica delle cose, ha finito per perdere le sue battaglie: la crociata che ha predicato, per esempio, non ha avuto esiti nemmeno di organizzazione e l’influenza di Abelardo, il suo grande avversario, non è stata offuscata dalla sua polemica e dalle sue censure.

   Bernardo di Clairveaux non è riuscito ad emarginare il ruolo della Ragione [e lui lo sa che dell’intelletto non se ne può fare a meno] anche perché senza l’ausilio della Ragione non avrebbe potuto scrivere le sue opere e soprattutto un testo come quello intitolato De gradibus humilitatis et superbiae [I gradi dell’umiltà e della superbia]. Quest’opera è un commento al capitolo 7 della Regola benedettina [scritta nel 593-594 da papa Gregorio Magno nel secondo Libro dei suoi Dialoghi] dove si parla della “umiltà” come disciplina che favorisce la “conoscenza [più si è umili e più si è in grado di conoscere]” e, quindi, Bernardo riflette sui tre gradi che, secondo lui, portano alla conoscenza della Verità: il primo grado è “la conoscenza di sé guidata dalla ragione”, il secondo grado è “la comprensione del prossimo guidata dall’affetto e dalla compassione” e il terzo grado è “la conoscenza della verità in sé nell’estasi [e questo concetto ci ricorda le Enneadi di Plotino, un’opera che Bernardo ha studiato, tacitamente, con molta puntigliosità e grande interesse]”. In quest’opera Bernardo mette in evidenza che l’unica “storia reale” è quella “sacra”, rievocata ogni giorno nelle celebrazioni liturgiche durante le quali si può portare avanti un tirocinio di perfezione che va dalla conoscenza di sé alla perfetta unione con Dio fino a “perdersi nella Santità divina [nell’estasi] come una goccia d’acqua nel vino”. La passione mistica di Bernardo invita ad andare “dove porta il cuore” e questo fatto sposta l’asse dell’itinerario contemplativo dalla ragione al sentimento e, non a caso, Bernardo è il massimo creatore di “devozioni” nei confronti delle figure che sono protagoniste nei Vangeli a cominciare dalla devozione per la “vergine Maria”.

   E di questo fatto ne tiene conto Dante Alighieri che ci fa incontrare San Bernardo [di cui conosce l’opera] negli ultimi tre canti della Divina Commedia: nel XXXI, nel XXXII e nel XXXIII del Paradiso. Dante incontra San Bernardo nell’Empireo [voi sapete che lo schema del Paradiso di Dante è quello del Dionigi Areopagita, di Avicenna, di Tommaso d’Aquino] dove la schiera dei beati si presenta al poeta sotto forma di una candida rosa - qui Dante dice addio a Beatrice che sorridente va a riprendere il suo posto nel terzo giro - e lui rimane muto per lo stupore: è in estasi, come prescrive il terzo grado della conoscenza secondo il pensiero di Bernardo. San Bernardo spiega a Dante l’importanza della Grazia e poi lo invita a fissare gli occhi di Maria mentre lui, con la tacita partecipazione di Beatrice e di tutti i beati che congiungono le mani, recita la famosa “Orazione alla Vergine” perché interceda in favore del poeta in modo che Dante “possa levarsi all’ultima salute”.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate a leggere i primi 39 versi della “Orazione di San Bernardo alla Vergine” nel XXXIII canto del “Paradiso”: nella vostra biblioteca domestica c’è di sicuro la “Divina Commedia” e, quindi, potete fare questo esercizio che è propedeutico per comprendere che cosa voglia dire “evocare l’estasi con le parole [con il linguaggio poetico”]...

 

   I primi dodici versi della Orazione di San Bernardo alla Vergine li possiamo leggere insieme adesso, e poi voi potete rileggerli confrontandoli con le note esplicative.

 

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Paradiso  XXXIII, 1-12

«Vergine madre, figlia del tuo Figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’eterno consiglio,

 

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che il tuo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

 

Nel ventre tuo si raccese l’amore

per lo cui caldo nell’eterna pace

così è germinato questo fiore.

 

Qui [in Paradiso] sei a noi meridïana face

di caritate; e giuso [sulla Terra], intra i mortali,

se’ di speranza fontana vivace …» …

 

   Bernardo di Clairveaux [e tanto meno Dante Alighieri] non si scandalizza del fatto che la nostra celebrazione letteraria della Pasqua di quest’anno avviene con la lettura di un frammento tratto da un romanzo dal titolo e dal contenuto provocatorio perché, se mai, è proprio la Letteratura dei Vangeli ad essere provocatoria: il testo del Vangelo secondo Giovanni, nel capitolo 19, ci presenta “accanto alla croce”, mentre Gesù sta morendo, alcune donne tra cui sua madre Maria [vergine e madre] e Maria Maddalena [non certo vergine in quanto ex prostituta, additata per questo suo marchio] e, anche in questo contesto evangelico, quindi, c’è un “servo [il servo del Signore, Gesù crocifisso e morente]” e una “donna perduta [affranta dal dolore]” che però, nel capitolo 20, è [per la sua capacità di amare] la prima testimone della risurrezione: “misteri della Fede” direbbe Bernardo che privilegia il sentimento rispetto alla ragione.

   Ma mentre a Gesù e alla Maddalena spetta prima la passione poi la morte e infine la risurrezione, ai personaggi di Nina Berberova prima spetta una sorta di appassionata e interessata risurrezione e dopo una tribolata passione, e questo lo potrete constatare se leggerete questo breve romanzo nella sua interezza; noi, ora, per concludere, ne leggiamo ancora solo due pagine.

 

LEGERE MULTUM….

Nina Berberova,  Il lacchè e la puttana

Le raccontò la sua vita in un’ora, prima sul taxi, poi bevendo liquore d’anice in un caffè russo del quindicesimo arrondissement dove lui era di casa.

Ma come si fa a ricordare tutto quello che è successo in un’intera vita!

«Ma una serata così, mi permetta di confessarglielo, non l’ho mai avuta. No, una serata così mai. Non lo prenda per un complimento».

«E se anche fosse?» dice Tan’ka. «Alle donne piacciono i complimenti. Lei è un uomo, dovrebbe capirlo».

Beve anche lei. E siccome verso mezzanotte lui dice che ha fame, anche lei ordina della vodka e qualcosa da mangiare, solo così, per accompagnare i suoi tre bicchierini.  «A che gioco sta giocando?» si chiede nel torpore dell’ebbrezza.

... continua la lettura ...

 

   Continuate voi a leggere questo romanzo [non siamo neppure a metà] e naturalmente la storia si complica perché, come sempre, nella Berberova c’è una punta di cinismo.

   Stiamo vivendo in questo viaggio l’apoteosi delle abbazie benedettine e, come sapete, la Regola benedettina è stata scritta [nel 593-594] da papa Gregorio Magno nel secondo Libro dei suoi Dialoghi, e la Regola di San Benedetto si sintetizza nella frase: “Ora, labora et cura [prega, lavora e studia]”. Leggiamo per concludere e per celebrare la Pasqua che cosa scrive Gregorio.

 

LEGERE MULTUM….

Gregorio Magno, Dialoghi

L’unica luce che può rischiarare le tenebre dell’ignoranza è data dallo studio e chi studia comincia a risorgere.

 

   Ebbene, in armonia con una voce così autorevole, la Scuola non può far altro che augurare a tutte e a tutti voi una buona Pasqua di “studio [studium et cura]” perché “studiare [prendersi cura della propria anima, del proprio intelletto e del proprio corpo]” è un gesto pasquale per eccellenza, e allora il viaggio continua…

   Arrivederci tra quindi giorni a Chartres: perché proprio a Chartres? Prima, secondo la tradizione, facciamo “ruzzolare l’uovo”: auguri a tutte e a tutti voi!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 27, 2015