ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica dal secolo della Scienza a quello dei Lumi 19-20-21 febbraio 2020
SULLA VIA CHE PORTA DAL SECOLO DELLA SCIENZA A QUELLO DEI LUMI
IL PENSIERO DI PORT-ROYAL INCIDE SUL GENERE LETTERARIO DELLA FAVOLA ...
Questo è il tredicesimo itinerario del nostro viaggio sulla via che porta dal secolo della Scienza [il ‘600] a quello dei Lumi [il ‘700, e vi ricordo che la prossima settimana faremo la pausa di fine febbraio, e c’è un motivo, oltre a quello di riprendere fiato.
Abbiamo studiato finora, strada facendo, il pensiero contenuto nelle opere filosofico-apologetiche, Le provinciali e i Pensieri di Blaise Pascal: un pensiero che corrisponde a quello elaborato dalle “monache benedettine e dai solitari di Port-Royal”. Sappiamo che il pensiero di Port-Royal” [presente nelle opere filosofico-apologetiche di Pascal] è alternativo all’ideologia delle classi dominanti europee dell’epoca.
Il pensiero di Port-Royal potrebbe essere allegoricamente dipinto con il colore bianco della purezza evangelica e con quello rosso dello Spirito Santo, invece le classi dominanti europee [la nobiltà e l’alta borghesia] preferirebbero che fosse il colore nero coronato d’oro a rappresentare risolutamente la loro ideologia dispotica. Tra queste due realtà [il pensiero divergente di Port-Royal e l’ideologia dispotica delle classi dominanti] esiste una zona grigia nella quale, come abbiamo ricordato la scorsa settimana, si muovono dei personaggi che, pur vivendo nell’ambito della corte e dei salotti dell’aristocrazia, non sono né nobili né alto-borghesi ma appartengono all’area intellettuale in quanto dediti alla letteratura, al teatro, alla musica e all’arte in generale; costoro captano l’eco proveniente da Port-Royal e, in particolare, sono sensibili alla riflessione sul tema del divertimento utilizzato come strumento di distrazione di massa secondo il pensiero di Pascal che abbiamo studiato, perché essi prendono coscienza, soprattutto attraverso la risonanza che hanno i testi de Le provinciali di Pascal, di essere coinvolti direttamente nella questione, in quanto, gli uomini di potere [il re, i funzionari di Stato, i membri della nobiltà feudale] pretendono che gli appartenenti all’area intellettuale siano funzionali al sistema di distrazione di massa producendo opere che divertano e che distraggano sia le classi superiori che quelle inferiori. Questi intellettuali, dediti alla letteratura, al teatro, alla musica e all’arte in generale, nella maggior parte dei casi [sia per non avere grane ma, principalmente, per avere dei vantaggi] si prestano a fornire la loro competenza ma, tuttavia, con le loro opere, contando sulla loro abilità artistica, cercano tanto di garantire il piacere del divertimento [che dovrebbe distrarre] quanto di non rendere il divertimento solo funzionale all’apparato che tende ad alienare le masse, ma vogliono utilizzare lo strumento del divertimento anche come mezzo per suscitare una riflessione.
Per questo motivo [per questa loro ambigua posizione tipica del movimento libertino al quale fanno riferimento], questi personaggi sono stati definiti “enigmatici [nei confronti di Port-Royal] e dissimulatori [in rapporto agli apparati di potere]” perché, pur subendo il richiamo del pensiero di Port-Royal e dei Pensieri di Pascal, non scelgono di aggregarsi al gruppo dei “solitari” per condurre una vita secondo la regola benedettina in aperta opposizione con i poteri forti, ma cercano di inserirsi e di vivere nell’ambito della corte e dei salotti dell’aristocrazia con l’intento, in primo luogo, di trovare una collocazione facendosi mantenere all’interno di un ambiente privilegiato, in cambio della produzione di opere letterarie [di vario genere: dal teatro alla favola al melodramma] dedicate ai loro protettori, ai quali si rivolgono con spirito di adulazione, però, senza condividerne propriamente la mentalità: sebbene, a parole, facciano finta di approvarla [ed ecco da dove deriva la qualifica di “dissimulatori”], per iscritto, attraverso varie forme di scrittura, trovano, con abilità, il modo per dissimulare e per colpire, mediante la dinamica della comicità - funzionale al divertimento ma anche finalizzata a far riflettere - tutta una serie di comportamenti, spesso grotteschi, tipici dei maggiorenti, che vengono camuffati [e da borghesucci che - sul palcoscenico del teatro - vorrebbero comportarsi come i nobili, e anche, come vedremo tra poco, travestiti da animali] in modo che non sembrino propriamente degli uomini di potere ma delle innocue caricature [si coltiva, in chiave moderna, l’arte antica della finzione letteraria].
La scorsa settimana abbiamo iniziato la nostra escursione in questa zona grigia dal mondo teatrale di Molière mentre, questa sera, dobbiamo incontrare il signor Jean de La Fontaine. Quando un giorno al celebre scrittore Stendhal viene chiesto: «Chi è il più grande poeta di Francia?» lui risponde: «Il più grande poeta di Francia è Jean de La Fontaine, l’autore delle Favole». Chi è Jean de La Fontaine [e, anche lui, intercetta l’eco di Port-Royal]?
Jean de La Fontaine è nato a Château-Thierry, nella regione della Champagne nel dipartimento dell’Aisne, l’8 luglio 1621 [è, quindi, contemporaneo di Pascal che è nato due anni dopo]. Château-Thierry è una cittadina di circa 15-mila abitanti posta sulle due rive della Marna, appoggiata al fianco di una collina sovrastata dall’antico castello. La casa dove è nato La Fontaine è diventata un museo che raccoglie ricordi e cimeli dello scrittore. Purtroppo il paese di Château-Thierry si è trovato, durante la prima guerra mondiale [1914-1918], nella zona di sanguinosi combattimenti, le cruente battaglie della Marna.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida della Francia - o meglio, con una guida di Parigi e dintorni - e navigando in rete [dove trovate molte immagini dei monumenti e degli scorci di questa cittadina], fate una visita a Château-Thierry, buon viaggio...
Jean de La Fontaine è figlio di un agiato borghese che di mestiere fa il sovrintendente alle Acque e alle Foreste del territorio bagnato dalla Marna, inoltre è anche un appassionato lettore che predilige i Classici greci e latini e li legge a Jean che, fin da piccolo, si nutre di Letteratura, ed è anche affascinato [come scriverà in seguito] dal seducente spettacolo della rigogliosa natura della regione nella quale cresce, uno spettacolo sul quale si concentra precocemente la sua attenzione, in particolare sul ciclo delle piante e sulla vita meravigliosa e segreta degli animali. Jean compie i suoi studi, primari e secondari, in un rinomato collegio della sua cittadina natale, e poi nel 1641 si trasferisce a Parigi ed entra, per volere del padre, come novizio, nella Congregazione dell’Oratorio [i genitori lo vogliono avviare alla carriera ecclesiastica].
Ma Jean - che coltiva uno spirito libertino - già nel 1642 [dopo appena un anno dal suo ingresso] lascia il seminario, dove aveva passato la maggior parte del suo tempo a comporre versi piuttosto che a studiare Teologia, e s’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza della Sorbona e nel 1649 consegue la laurea e, con il titolo di avvocato, s’impiega presso il parlamento di Parigi. Ma più che dai cavilli legali Jean de La Fontaine è attratto dalla poesia e frequenta assiduamente “il Circolo della Tavola Rotonda”, un cenacolo di giovani poeti attratti [come si evince dal nome del Circolo] dalla Letteratura medioevale che narra il mondo cavalleresco, quel mondo che è stato riproposto in chiave moderna da molti poemi, come Orlando furioso dell’Ariosto, e da romanzi, come, in particolare, il Don Chisciotte di Cervantes. I giovani poeti del “Circolo della Tavola Rotonda”, per creare la loro poetica, vogliono risalire alle fonti e traggono linfa soprattutto dalle opere di Chretién de Troyes, colui che, prima di Dante, viene considerato il più importante poeta del Medioevo occidentale, attivo alle corti di Champagne e di Fiandra tra il 1160 e il 1190.
Chretién de Troyes è l’autore di cinque celebri racconti [Lancillotto, Ivano, Erec e Enide, Cligès, Perceval] raccolti in un’opera unitaria che prende il nome di I Romanzi Cortesi, il più famoso dei quali è Lancillotto o il Cavaliere della Carretta, il celebre personaggio di cui tutte e tutti conoscete la storia che continua a essere narrata con i generi più diversi. Chretién de Troyes è lo scrittore che rinnova il genere del romanzo dandogli una sagoma nuova cortese, facendolo diventare una forma superiore di narrativa fondendo insieme lo stile dei poeti latini, l’eredità delle chansons de geste, la narrazione dei miti antichi, le radici celtiche della Bretagna insulare e continentale.
Ma i giovani poeti del “Circolo della Tavola Rotonda [di cui fa parte Jean de La Fontaine]”, oltre a rifarsi a questo genere letterario, sono uniti da una visione gioiosamente epicurea della vita, e [come fra poco vedremo] questo secondo aspetto contrasta con quello che abbiamo appena descritto.
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In biblioteca potete richiedere i volumi de I Romanzi Cortesi di Chretién de Troyes...
La lettura dei romanzi “cortesi” è piacevole ed è utile perché questi testi costituiscono la fonte di molte opere [letterarie, musicali, teatrali, cinematografiche] che sono state composte in Età moderna e contemporanea delle quali possiamo capire meglio il senso...
Ma i giovani poeti del “Circolo della Tavola Rotonda” di cui fa parte Jean de La Fontaine, oltre a rifarsi al genere letterario del “romanzo cortese”, sono uniti da una visione gioiosamente epicurea della vita perché sono discepoli del filosofo Pierre Gassendi, un personaggio che abbiamo incontrato nel viaggio dello scorso anno e che molte e molti di voi conoscono: tuttavia è necessario stimolare la memoria di chi c’era e mettere al corrente chi non c’era su alcuni concetti riguardanti il pensiero di Pierre Gassendi per capire quali sono le basi non propriamente ortodosse rispetto alla filosofia di Gassendi della formazione culturale di Jean de La Fontaine.
Padre Pierre Gassendi [1592-1655] nel 1626 riceve il titolo di canonico della cattedrale di Digne che, per un ecclesiastico, è un buon incarico.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Non si può non consigliare di andare ad osservare, navigando in rete, le numerose immagini della monumentale cattedrale quattrocentesca di Digne dedicata a Saint-Jérôme [San Gerolamo], buon viaggio…
Ma padre Pierre Gassendi ama la filosofia e l’insegnamento più che i privilegi del canonicato [a Digne fonda una Scuola per divulgare il metodo sperimentale di Galileo Galilei] e, quindi, nel 1645 si trasferisce a Parigi dove viene assunto all’Università per insegnare Matematica, Filosofia e Astronomia, e intorno a lui si raccoglie ben presto un gruppo di giovani discepoli tra i quali c’è anche Jean de La Fontaine. Pierre Gassendi è stato anche un membro molto attivo del “Circolo Mersenne” [voi conoscete le caratteristiche di questa particolare associazione itinerante diretta fino alla sua morte da padre Marin Mersenne che mette in relazione gli intellettuali europei favorendo lo sviluppo del dibattito culturale sui temi della modernità: sappiamo che tutta la famiglia Pascal ha partecipato alle attività di questo Circolo]. Quindi, Pierre Gassendi appartiene a quella categoria di intellettuali [che spesso sono degli ecclesiastici] che sanno destreggiarsi molto bene negli ambienti culturali della loro epoca facendo sempre uso di “una prudente ambiguità”.
A questo proposito, Gassendi rifiuta l’etichetta di “libertino” anche se alimenta lo spirito di questo movimento al quale afferma categoricamente di non appartenere sebbene si debba affermare che ne abbia fatto positivamente progredire il pensiero. Pierre Gassendi, scrivendo le sue Opere e insegnando all’Università, s’impegna [è morto a Parigi nel 1655] sul piano scientifico e filosofico ad affrontare quattro importanti questioni [due contro e due a favore]: si schiera contro la dottrina degli Accademici aristotelici e contro la metafisica di Cartesio, e si dichiara in favore del pensiero atomistico di Epicuro e della divulgazione del metodo sperimentale di Galileo Galilei: adesso noi ci occupiamo solo dell’aspetto che riguarda il pensiero epicureo di Gassendi in relazione alla formazione intellettuale di Jean de La Fontaine e dei giovani poeti del “Circolo della Tavola Rotonda” che, però, Gassendi sconfessa perché interpretano in modo non ortodosso il suo pensiero e alla sobrietà epicurea preferiscono uno stile di vita edonistico, piuttosto godereccio.
Come e perché padre Pierre Gassendi è a favore del [blasfemo, secondo il Sant’Uffizio] pensiero etico e atomistico di Epicuro? Pierre Gassendi, nella sua opera intitolata Osservazioni sul Decimo Libro di Diogene Laerzio, riflette sul rapporto tra la morale cristiana e l’etica in Epicuro. Quando Epicuro afferma che “il bene si identifica con il piacere” insiste sul fatto che il piacere deve avere “un fine secondo natura”, e con l’espressione “secondo natura” Epicuro si riferisce [afferma Gassendi] a quella che lui considera la più importante dote naturale che la persona possiede: la sua razionalità. È la razionalità umana [scrive Epicuro] che deve ispirare “sobriamente” alla persona le norme dell’azione. Epicuro [afferma Gassendi], in tutte le sue affermazioni, insiste sull’avverbio “sobriamente” e accompagna questo avverbio con una serie di termini che vanno tradotti in regole e trasformati in stile di vita: la misura, la frugalità, la temperanza, la semplicità, l’autocontrollo, la parsimonia, la modestia, l’essenzialità. Gassendi è ben lieto di affermare che queste parole-chiave - che Epicuro usa in concomitanza con l’affermazione: “il bene si identifica con il piacere” - sono diventate virtù cristiane e, di conseguenza, possiamo sostenere [afferma Gassendi] che “il piacere è un valore maggiore della sofferenza”. I giovani poeti del “Circolo della Tavola Rotonda” compreso Jean de La Fontaine prendono alla lettera questa affermazione coltivando però l’edonismo: uno stile di vita dove la sobrietà lascia a desiderare.
La dottrina etica epicurea [afferma Gassendi] è caratterizzata da tre parole-chiave fondamentali: “aponìa”, “ataraxìa” e “autàrcheia”. Epicuro [scrive Gassendi] spiega che “il piacere corrisponde all’assenza del dolore fisico” e questa situazione viene tradotta dal temine greco] “aponìa” [senza dolore] ma, soprattutto, il “piacere” [edoné] è da intendersi come “la liberazione dell’anima dai turbamenti psichici e dai timori” e questa situazione corrisponde in greco al termine “ataraxìa” [imperturbabilità]. L’azione è etica [sostiene Epicuro] quando è capace di eliminare le sofferenze del corpo e i turbamenti dell’anima in modo da ottenere “autàrcheia” [l’autogestione fisica e psichica, l’autosufficienza]. Scrive Epicuro, con ironia: «L’aponìa [senza dolore fisico], l’ataraxìa [senza turbamento psichico] e l’autàrcheia [l’autosufficienza materiale e intellettuale] sono valori che rendono la persona in tutto simile agli dèi». E sappiamo che la procedura epicurea ha anticipato le questioni poste da una disciplina che oggi viene chiamata “la bioetica” che si occupa di combattere il dolore, di evitare gli accanimenti terapeutici, di fare in modo che la vita arrivi al suo termine in modo dignitoso per la persona.
Pierre Gassendi, nella sua opera intitolata Osservazioni sul Decimo Libro di Diogene Laerzio, riporta “il cosiddetto catechismo di Epicuro” così come lo ha sintetizzato in quattro formule lo studioso latino Filodèmo di Gàdara. Filodèmo [110-30 circa a.C., è nato nella città ellenistica di Gàdara, che oggi si trova nel territorio della Giordania] è stato - a distanza di due secoli dalla morte di Epicuro - uno dei più importanti divulgatori dell’epicureismo a Roma dove è emigrato giovanissimo. Filodèmo ha vissuto per la maggior parte della sua vita a Ercolano ed è stato amico di Virgilio, di Orazio, di Cicerone e ha scritto anche un certo numero di Epigrammi erotici che sono stati inclusi nell’Antologia Palatina. Filodèmo ha condensato “il catechismo di Epicuro” in quattro formule, il cosiddetto “tetrafarmaco” [le quattro medicine]: [la prima dice] gli dèi non sono da temere; [la seconda dice] nella morte non si corre alcun rischio; [la terza dice] il bene ci si procura facilmente; [la quarta dice] il male è facile da sopportare con coraggio.
I giovani poeti del “Circolo della Tavola Rotonda”, di cui La Fontaine è membro, fanno proprie queste formule e le inseriscono [forse un po’ troppo superficialmente] nel manifesto della loro poetica rispettando poco però il richiamo epicureo alla sobrietà e, difatti, Gassendi, come abbiamo già detto, critica severamente l’atteggiamento troppo dedito all’edonismo di questi suoi discepoli sebbene non possa fare a meno di approvare la loro dedizione nei confronti della lettura, della scrittura e dello studio, e, quindi, ricorda loro come Epicuro abbia affermato con determinazione che “le voglie smodate e la sregolata trasgressione non conducono al piacere”, anzi, sono, per lo più, fonte di sofferenza perché il piacere consiste essenzialmente nell’attenuare il più possibile ogni forma di dolore: Pierre Gassendi spiega ai giovani poeti del “Circolo della Tavola Rotonda” che Epicuro ha una concezione etico-ascetica del piacere che il cristianesimo può e deve assumere come propria. Gassendi consiglia ai giovani poeti che seguono le sue Lezioni [compreso La Fontaine] di riflettere in particolare sul testo di Epicuro intitolato Lettera a Menecèo o Lettera sulla felicità in modo da trarne spunto per la composizione delle opere che hanno intenzione di scrivere.
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Il testo della Lettera a Menecèo o “Lettera sulla felicità” di Epicuro è formato da poche pagine, è scorrevole, è piacevole e induce ad una profonda riflessione: leggetelo o rileggetelo, lo trovate in biblioteca…
Stiamo prendendo atto del fatto che gli studi di Giurisprudenza alla Sorbona, la lettura dei Romanzi cortesi nel “Circolo della Tavola Rotonda” e le riflessioni sulla filosofia di Epicuro attraverso le Lezioni di Pierre Gassendi forniscono le basi alla formazione di Jean de La Fontaine, ma quando suo padre viene a sapere che sta assiduamente frequentando il “Circolo della Tavola Rotonda” - e che vuol fare il poeta epicureo in chiave edonistica - lo richiama all’ordine [pretende che il figlio, come si suol dire, “metta la testa a posto”].
Nel 1647 il padre di Jean de La Fontaine - pensando di richiamarlo all’ordine [di “fargli mettere la testa a posto”] - gli combina un matrimonio, e lui, per far contento il genitore [che minaccia di diseredarlo] e la madre [che vuole vederlo accasato], si sposa con la quattordicenne Marie Héricart, un’appassionata lettrice di “romanzi cortesi” la quale [e, forse, La Fontaine padre non se n’era accorto] si disinteressa quasi completamente di ciò che riguarda la vita coniugale, ed entrambi gli sposi, dopo aver messo al mondo un bambino [quasi subito affidato ai nonni], non riescono ad adattarsi a quella che considerano la monotonia della vita famigliare.
Nel 1652 Jean, avendo assecondato le aspettative del genitore, eredita [aveva anche i titoli per poterlo fare] l’incarico del padre di sovrintendente alle Acque e alle Foreste, e questo lavoro lo mette in condizione di girare su tutto il territorio della sua terra dandogli anche l’occasione di conoscere direttamente le durissime condizioni di vita della povera gente: questa esperienza [sul tema della condizione umana] diventa la prima preziosa materia di riflessione per uno come lui che ha intenzione di dedicarsi alla scrittura.
Un altro elemento che fa parte della formazione intellettuale di Jean de La Fontaine è il Teatro [sappiamo - lo abbiamo già detto la scorsa settimana incontrando Molière - che il ‘600 è anche il secolo del Teatro] e Jean legge con interesse le opere del teatro latino [conosce bene il latino essendo laureato in Giurisprudenza]: studia e traduce i testi delle Commedie di Plauto, di Stazio e di Terenzio. Perché sceglie di concentrare la sua attenzione su Terenzio, chi è questo scrittore latino del II secolo a.C. che abbiamo incontrato anni fa? Rinfreschiamoci la memoria insieme a Jean de La Fontaine.
Di Publio Terenzio Afro [190 -160 ca. a.C.] abbiamo scarse notizie: attraverso lo storico Svetonio e il grammatico Elio Donato, sappiamo che Terenzio è originario di Cartagine [anche lui, come Plauto e Stazio, proviene dalle file dei “nemici” di Roma] ed è stato condotto a Roma, in giovane età, come schiavo, con il nome di Afer [Africano], dal senatore Terenzio Lucano che, prima ha provveduto a dargli una buona educazione, e poi, dopo aver constatato le doti di questa persona, lo affranca e così, come era consuetudine, Terenzio diventa cittadino romano e assume il nome del suo ex padrone. Per il suo ingegno Terenzio entra subito a far parte del ceto intellettuale di Roma diventando amico soprattutto di Gaio Lelio e di Scipione l’Emiliano, che sono i fondatori del primo “Circolo culturale romano” in seno al quale si coltiva la cultura greca che comincia ad influenzare la romanità.
Jean impara che nel Circolo culturale fondato da Gaio Lelio e da Scipione l’Emiliano [il Circolo degli Scipioni] Terenzio fa emergere, con il suo teatro, un concetto significativo legato a un valore che la cultura greca chiama “paideia”, un termine che possiamo tradurre con le parole “educazione, istruzione, formazione intellettuale” e che, in latino, viene reso con la parola “humanitas”, un termine che gradualmente nelle Opere degli autori latini acquista una sua autonomia fino a diventare una delle parole-chiave di tutta la cultura medioevale detta “umanistica”. Jean impara che proprio nel “Circolo degli Scipioni” Terenzio viene incoraggiato a scrivere commedie: la prima, intitolata Andria, viene rappresentata nel 166 a.C.
Gli Scipioni [i fondatori del Circolo che porta il loro nome] sono le personalità più significative del ceto riflessivo romano, e appartengono alla categoria dei cosiddetti “mercanti illuminati” perché si occupano anche di cultura [sebbene in quanto a spregiudicatezza mercantile non siano da meno degli altri] e vengono spesso attaccati, con pesanti calunnie, dai rappresentanti di altre famiglie mercantili che contendono loro il potere economico. Anche Terenzio [impara Jean de La Fontaine] rimane coinvolto in questo scontro [che si fa sempre più acuto alla metà del II secolo a.C. a Roma] e subisce molte calunnie e maldicenze tese a screditarne la figura morale e artistica: si dice in giro che siano Gaio Lelio e Scipione l’Emiliano a suggerirgli, a dettargli, le battute più satiriche che sarebbero indirizzate contro i loro avversari e, forse, è per questo motivo [viene a sapere Jean de La Fontaine studiando gli scarsi dati della sua biografia] che Terenzio, con il pretesto di conoscere meglio gli usi e i costumi della Grecia, dopo il 160 a.C. parte in viaggio verso Atene e non fa più ritorno a Roma.
I dettagli [scopre Jean de La Fontaine, divertito] sulle circostanze della sua morte per annegamento [raccontati dai suoi biografi] sono poco credibili: probabilmente Terenzio su quella nave che ha fatto naufragio non c’era, lui si era imbarcato su un’altra nave che non è naufragata e questo inghippo teatrale gli ha permesso di sparire dalla circolazione e di trasferirsi definitivamente, in modo anonimo, ad Atene città assai più viva intellettualmente rispetto a Roma.
Jean de La Fontaine legge e studia i testi delle sei commedie composte da Terenzio [Andria, Il punitore di se stesso, L’eunuco, Formione, I fratelli, Hècyra (La suocera)] che sono pervenuti integri e nel 1654 decide di tradurre e di attualizzare il testo dell’Eunuchus [L’Eunuco] che viene rappresentato a Parigi con un buon successo.
Perché [ci siamo chieste e chiesti poco fa] Jean de La Fontaine sceglie di concentrare la sua attenzione sulle Commedie di Terenzio piuttosto che su quelle di Plauto e di Stazio? Gli intrecci delle commedie terenziane non si discostano da quelli di Plauto e di Stazio, anche le commedie di Terenzio mettono in scena gli intrighi amorosi, i conflitti tra i giovani e i vecchi [specialmente tra padri e figli], le astuzie degli schiavi, i capricci delle cortigiane e tutti quegli equivoci che si risolvono felicemente quando si capovolgono le situazioni iniziali. Terenzio è un autore meno brillante e meno vivace rispetto a Plauto e a Stazio perché vuole comporre i suoi testi con maggior buon gusto e con una certa raffinatezza, ed è in cerca di un equilibrio che non si concilia con la comicità esasperata. Con Terenzio [e questo piace a Jean de La Fontaine] la commedia cambia forma e diventa un genere più pensoso, più malinconico [anche Molière ha tenuto conto di questo elemento] dove l’ironia è di natura drammatica. Questo fa sì che il teatro da semplice spettacolo popolare [anche sulla scia della critica sul “divertimento come sistema di distrazione di massa” proveniente da Port-Royal] diventi una forma di intrattenimento più colta con meno doppi sensi, con pochissime espressioni scurrili, e il meccanismo dell’allusione, nei confronti dei temi politici e sociali più scottanti, viene a intrecciarsi con la stessa struttura narrativa.
Ma noi abbiamo percorso questa via per mettere in evidenza soprattutto un dato che, in relazione alla figura di Jean de La Fontaine, diventa importante: Jean, leggendo il Commento alle Commedie di Terenzio del grammatico Elio Donato [attivo a Roma alla metà del IV secolo e insegnante del futuro San Gerolamo], scopre che, come scrive Elio Donato nel suo Commento,: «L’ironia di natura drammatica che emerge nel teatro di Terenzio troverà il suo sbocco nelle Favole di Fedro », vissuto al tempo di Augusto nel I secolo d.C. Ci vuole poco a capire che Jean de La Fontaine si procura subito un volume delle Favole di Fedro e questa lettura diventa per lui illuminante, e comincia a pensare di potersi dedicare a questo genere letterario.
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La lettura di quale Libro - fate una scelta se è più di uno - è stata per voi illuminante?...
Scrivete quattro righe in proposito...
La rottura del rapporto coniugale tra Jean e la moglie Marie non è avvenuta drammaticamente, e i due si sono consensualmente separati nel 1658 e, nello stesso anno Jean si trasferisce definitivamente a Parigi.
Quando, nel 1658 dopo la separazione consensuale dalla moglie Marie, Jean de La Fontaine si trasferisce definitivamente a Parigi riesce, con una serie di buone raccomandazioni [soprattutto quella dello zio dell’ex moglie], a entrare sotto la protezione dell’uomo politico più potente del momento, Nicolas Fouquet [il sovrintendente alle finanze di Luigi XIV], una persona colta che ama circondarsi di letterati ed artisti [e potrebbe essere definito metaforicamente “una cicala”]. Per compiacerlo, La Fontaine scrive per lui [per allietare le feste che organizza nel suo castello] varie opere: poemi, madrigali, commedie, libretti d’opera. E quando Fouquet [nel 1661] cade in disgrazia, La Fontaine è forse l’unico che, coraggiosamente, prende le parti del suo protettore, e scrive in sua difesa l’Elégie aux Nymphes de Vaux [Elegia delle ninfe di Vaux] rischiando a sua volta di finire in carcere.
Ora noi non possiamo continuare il nostro itinerario in compagnia di Jean de La Fontaine senza aprire una parentesi che ci permetta di stimolare la nostra curiosità per poter fare delle piccole ricerche [utili a dare forma e colore al paesaggio intellettuale che stiamo osservando].
Perché Fouquet cade in disgrazia? Nel 1660 succede che il suo rivale politico, colui che vuole prendere il suo posto [che ambisce a sostituirlo al ministero delle finanze], Jean-Baptiste Colbert, comincia ad accusare Fouquet [producendo carte false] di essersi arricchito illecitamente, e mette in giro la voce che dal frutto del suo arricchimento fraudolento deriverebbe la costruzione del magnifico castello di Vaux-le-Vicomte, situato presso la cittadina di Melun nel dipartimento Senna e Marna, nel quale Fouquet organizza feste tanto sfarzose da mettere in ombra i ricevimenti di Luigi XIV [il leone] che è geloso.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida di “Parigi e dintorni” e navigando in rete andate a visitare il grandioso castello di Vaux-le-Vicomte…
Jean-Baptiste Colbert, l’accusatore di Fouquet, è un uomo del suo tempo [il rappresentante esemplare della borghesia in ascesa che potrebbe essere definito metaforicamente “una formica”] mentre Nicolas Fouquet si comporta [da cicala] come se vivesse ancora nel ‘500, è come se aspirasse ad essere un principe rinascimentale, con il suo splendido castello e la sua corte di intellettuali ed artisti tra i quali c’è anche Jean de La Fontaine a descrivere in poesia i giochi delle ninfe di Vaux. Ma nella Francia di Luigi XIV [e in tutta Europa in generale] non c’è più posto per i signori rinascimentali che come in questo caso osano, come Fouquet, far ombra al Re Sole: ma questo è il tempo degli uomini di apparato come Colbert, calcolatori e ligi al dovere, dimessi, al lavoro dalle cinque di mattina, che sappiano evitare, per ora, la bancarotta verso la quale si sta incamminando lo Stato di un re particolarmente spendaccione. E mentre la corte si trova a Nantes, il 5 settembre 1661, Luigi XIV fa arrestare Fouquet da un drappello di moschettieri, comandato dal conte di D’Artagnan, con l’accusa di malversazione [amministrazione disonesta].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando l’enciclopedia e navigando in rete andate a far conoscenza con il conte di D’Artagnan che ha prestato il suo nome ad un famoso personaggio da romanzo: un romanzo che dovreste aver letto…
Ufficialmente Nicolas Fouquet muore nella fortezza della città piemontese di Pinerolo il 3 aprile del 1680 ma l’atto del suo decesso non è stato mai trovato. Si ipotizza che Fouquet, liberato poco prima del suo decesso, sia stato avvelenato per ordine di Colbert. A causa della sua posizione ai vertici del potere, dei numerosi segreti di cui è a conoscenza, e dell’accanimento del Re Sole contro di lui, molte studiose e molti studiosi hanno pensato che il personaggio al quale è stata imposta la famosa “Maschera di Ferro” potrebbe essere Fouquet.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando l’enciclopedia e navigando in rete andate a documentarvi sulla storia della famosa “Maschera di Ferro”, un oggetto, che ha ispirato la composizione di un celebre romanzo che dovreste aver letto …
A proposito di romanzi dobbiamo dire, inoltre, che Imprimatur è il titolo del primo romanzo scritto nel 2002 da Rita Monaldi e Francesco Sorti [sono moglie e marito e abitano a Vienna]: questo Libro è stato tradotto in 20 lingue e pubblicato in 45 paesi. Curiosamente, dopo la terza edizione, in Italia e nei paesi a maggioranza cattolica, non è stato più ripubblicato fino al 2015 su presunta pressione del Vaticano che non avrebbe gradito la pubblicazione di fatti storici riguardanti le trame di papa Innocenzo XI [Benedetto Odescalchi, beatificato nel 1956]. Questo romanzo è ambientato nella Roma del 1683, durante un periodo denso di avvenimenti: la peste che incombe sull’Europa, i Turchi che assediano Vienna, Luigi XIV che domina la scena politica, papa Innocenzo XI che tenta di moralizzare la città di Roma e i romani mentre la sua famiglia, gli Odescalchi, presta con la sua benedizione denaro ad usura agli Olandesi e Guglielmo d’Orange, principe protestante dei Paesi Bassi, con questi soldi muove guerra al papa.
Nel romanzo sono presenti personaggi storici come Nicolas Fouquet [di cui abbiamo appena parlato] e l’abate Atto Melani, una figura da conoscere. Atto Melani - nato a Pistoia il 30 marzo 1626 - è il terzo di sette figli di un campanaro, ed è fratello dei compositori Jacopo e Alessandro Melani [Alessandro Melani è stato il primo compositore a mettere in scena, nel 1669, la figura di Don Giovanni con l’opera L’empio punito che, nel mese di ottobre dello scorso anno, per celebrarne i 350 anni, è stata rimessa in scena con due produzioni diverse e, navigando in rete, vale la pena informarsi in proposito]. Come succedeva allora, Atto Melani, da bambino, è stato castrato ed è diventato un cantante che presto ha raggiunto una fama internazionale, e Jean de La Fontaine [con il quale stiamo viaggiando] lo ha elogiato dedicandogli una poesia dopo avere assistito, con Atto Melani nel ruolo principale, a un’esecuzione dell’opera Orfeo di Luigi Rossi, un importante musicista e compositore secentesco. Ma Atto Melani è noto anche come diplomatico, come scrittore e, soprattutto, come spia al servizio del Regno di Francia [Atto Melani è morto a Parigi il 4 gennaio 1714]. Questo romanzo è il primo di una serie composta da sette Libri, ognuno il seguito dell’altro, e i due autori, Monaldi e Sorti, hanno fatto in modo che i loro titoli componessero una frase latina che racchiude in sé il senso dell’intera saga: IMPRIMATUR SECRETUM VERITAS MYSTERIUM DISSIMULATIO UNICUM OPUS [Si pubblichino tutti i segreti del mondo, ma la verità è sempre un mistero. Unica impresa, la dissimulazione]. Sappiamo che i personaggi della zona grigia che stiamo frequentando sono pratici nell’arte della dissimulazione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Jean de La Fontaine direbbe: «Se penso a tutti i Libri che devo ancora leggere sono felice»... Vedete che abbiamo tutte e tutti un buon motivo per essere felici!...
Leggete con la consapevolezza che al verbo leggere si addice l’aggettivo “multum”...
Dopo il suo coraggioso gesto in difesa di Nicolas Fouquet [imprigionato a Pinerolo e dimenticato da tutti] Jean de La Fontaine, diventato inviso al Re Sole, ha bisogno di nuove protezioni, anche se si rende conto che il mondo [il “bel mondo”] che lo circonda è piuttosto disgustoso, tuttavia, dissimula e si adatta: entra in confidenza con la giovanissima e irrequieta duchessa di Bouillon [per la quale scrive un’opera singolare della quale parleremo strada facendo] che lo introduce nei salotti [i salons] parigini in modo che nel 1664 riesce a fare il suo ingresso nel prestigioso Palazzo del Lussemburgo: questo fatto da una parte lo gratifica [sul piano materiale] ma dall’altra [sul piano psicologico] lo umilia perché il suo ruolo non si discosta da quello del “servitore”.
Jean de La Fontaine nel 1664, attraverso la mediazione dell’irrequieta duchessa di Bouillon, fa il suo ingresso nel prestigioso Palazzo del Lussemburgo, nella lussuosa dimora della duchessa d’Orléans, Margherita di Lorena [la vedova di Gastone d’Orléans, il fratello minore di Luigi XIII e figlio prediletto della regina Maria de’ Medici dalla quale Gastone ha ereditato il Palazzo del Lussemburgo].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La costruzione del Palais du Luxembourg è dovuta a Maria de’ Medici [moglie del re Enrico IV] che ha voluto [nel 1615] una dimora che le ricordasse l’ambiente fiorentino, e l’architetto Salomon de Brosse, incaricato di realizzare l’opera, ha preso come modello Palazzo Pitti... Con una guida di Parigi e navigando in rete andate a far visita al Palazzo del Lussemburgo [che oggi è la sede del Senato della Repubblica] e all’adiacente suo grandioso giardino...
Jean de La Fontaine viene accolto [ma sarebbe meglio dire “viene assunto”] come “gentiluomo servente”, e questo ruolo - riservato, di solito, a un intellettuale letterato - consiste nel mettere a disposizione le proprie competenze poetiche per “abbellire” il salotto della dimora che lo ospita. Dopo la morte della duchessa d’Orléans [nel 1672], Jean passa sotto la protezione e a servizio di Madame de la Sablière, una delle cosiddette “femmes savantes” del tempo, intenditrice di filosofia e di scienza, il cui salotto viene frequentato dai personaggi più ingegnosi dell’epoca. Sui rapporti tra La Fontaine e altri importanti personaggi di questo periodo è nata una leggenda: si è favoleggiato dell’esistenza di “un quartetto” formato - oltre che da La Fontaine - da Molière, da Racine e da Boileau, i quali si sarebbero assiduamente incontrati a cena al Mouton Blanc, uno dei ristoranti tradizionali più antichi di Parigi, per discutere dei loro lavori, mentre in realtà, questi incontri non sono mai avvenuti.
La protezione accordatagli da Madame de La Sablière è provvidenziale per La Fontaine perché, nel frattempo, ha perso il reddito proveniente dalla carica che aveva ereditato dal padre di sovrintendente alle Acque e alle Foreste [l’incarico è stato affidato a un feudatario della regione della Marna]. L’atmosfera intellettuale che si respira nel salotto di Madame de La Sablière [e si capisce che siamo sulla strada che porta verso il secolo dei Lumi] è molto diversa da quella festaiola e contemporaneamente cupa del Palazzo del Lussemburgo, e La Fontaine trova un clima favorevole per votarsi alla sua arte: dedica alla sua protettrice [che lo solleva per circa un ventennio da ogni preoccupazione economica fornendogli vitto, alloggio e anche affetto] molte opere in versi esaltando la munifica generosità della Sablière, la quale, argutamente, era solita definire il cordiale rapporto con il suo ospite con queste parole: «Tengo con me un cane, un gatto e La Fontaine».
La Fontaine [ripercorriamo la sua carriera letteraria] esordisce [come sappiamo] con il rifacimento in chiave moderna nel 1654 della commedia l’Eunuco di Terenzio, ma le sue qualità poetiche si rivelano nel 1657, con il poemetto idillico Adonis, rimaneggiato nel 1669: quest’opera, recensita positivamente da Paul Valéry, descrive, con grazia particolare, gli amori di Adone e Venere. La caduta in disgrazia di Fouquet nel 1661 spinge il poeta a scrivere l’Elegia delle ninfe di Vaux e, tre anni dopo, compone un’azzardata Ode al Re di M. Fouquet che, non solo non è d’aiuto all’ex sovrintendente, ma procura a La Fontaine la duratura antipatia del re.
Il successo letterario La Fontaine lo raggiunge con la raccolta Novelle in versi tratte da Boccaccio e da Ariosto, un’opera che ha suscitato scandalo soprattutto a causa del testo troppo licenzioso della novella intitolata Joconde, ma il consenso che quest’opera ottiene induce La Fontaine a farla ristampare nel 1666, ampliandola, con il titolo di Racconti e novelle in versi.
Nel 1668 fa pubblicare la prima raccolta delle Favole [dal primo al sesto volume], mentre la seconda raccolta viene pubblicata nel 1679 [dal settimo all’undicesimo volume, mentre un dodicesimo viene stampato successivamente] e bisogna dire che La Fontaine è passato alla Storia della Letteratura proprio in quanto autore di Favole scritte in versi [il verso rimane più facilmente nella mente della persona che legge]. La Fontaine si presenta come il continuatore di Esopo e di Fedro [di un genere letterario ben collaudato nella letteratura greca e latina] e, quindi, scrivere “favole” potrebbe significare per lui esercitarsi semplicemente sul tema della morale, della satira e del contrasto sociale ma La Fontaine tende, in chiave moderna, ad andare oltre questo esercizio. Come nei Saggi di Montaigne e nei Pensieri di Pascal il tema della morte è predominante nelle Favole di La Fontaine e questo argomento viene utilizzato per evidenziare criticamente “il diritto del più forte” [che decreta la morte del prossimo a suo piacimento] ed è un fenomeno che si manifesta inequivocabilmente nella società del ‘600 [solo nella società del ‘600, ci domandiamo?]. La Fontaine nelle Favole mette in rilievo il contrasto tra il presunto diritto del più forte di dettar legge e il necessario senso di solidarietà e di pietà che dovrebbe esistere [e il condizionale è d’obbligo] verso gli ultimi, e in questa riflessione [che fa da filo conduttore nelle Favole] emerge, in tutta evidenza, l’eco del pensiero di Port-Royal.
La Fontaine non vuole certo dare ragione al lupo nella favola celeberrima, però, deve ammettere il dramma dell’impossibilità di salvare l’agnello, e deve ammettere la goffaggine degli ipocriti quando vogliono andare contro l’ordine della natura come per esempio la rana che vuole gonfiarsi per raggiungere la grandezza del bue fino a scoppiare.
La Fontaine, per sostenere il ruolo di “gentiluomo servente”, assume degli atteggiamenti che non corrispondono al suo vero carattere perché lui si mostra [e così viene descritto nelle cronache del tempo] come un tipo distratto e svagato, assonnato e assorto, ingenuo e innocente come un bambino mentre ha una personalità complessa e si autodefinisce «un’anima inquieta, ovunque un ospite di passaggio», e la sua poesia [la poetica delle Favole] non nasce - come lui vorrebbe far credere - da un semplice gioco ironico, spensierato e libertino ma si sviluppa attraverso una riflessione [la stessa di Montaigne e di Pascal] sul dramma della “condizione umana”. Il carattere “da esistenzialista” di La Fontaine emerge dalle sue dichiarazioni trasfuse nelle sue composizioni, come quando dice di sentirsi “un po’ topo di campagna e un po’ topo di città” [come i personaggi di una celebre favola nota a tutte e a tutti noi], quindi, vive contraddittoriamente scisso tra la pace della solitudine campestre [alla quale aspira nonostante vi abbia rinunciato] e la seduzione della vita parigina [della quale non può fare a meno sebbene sia tentato di scappare], tra l’aspirazione ad avere successo e il disgusto per il gran rito insulso della conversazione salottiera, e trova, quindi, nel genere letterario della favola lo strumento che si presta maggiormente alla “dissimulazione” in modo da colpire, mediante la dinamica della comicità, tutta una serie di comportamenti grotteschi, tipici dei maggiorenti [in quanto carnefici] e dei subalterni [in quanto vittime], i quali, travestiti da animali, non vengono subito identificati come tipi umani se non dopo una necessaria riflessione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
È probabile che un volume delle Favole di La Fontaine sia anche nella vostra biblioteca domestica, e allora approfittatene e leggetene una al giorno tenendo conto del fatto che su quest’opera, piuttosto complessa, è necessario fare tutta una serie di considerazioni perché: «Leggere una favola al giorno fornisce l’occasione per riflettere sull’umana condizione»...
Il signor Palomar, leggendo le Favole di Jean de La Fontaine. mentre tiene un piede nei Saggi di Montaigne e l’altro nei Pensieri di Pascal, ha imparato ad osservare con occhio diverso gli animali, in specie quelli che vengono ridotti in cattività nella condizione di “esseri serventi”, asserviti alla nostra curiosità un po’ morbosa.
LEGERE MULTUM….
Italo Calvino,
Palomar
Il gorilla albino.
Nello zoo di Barcellona esiste l’unico esemplare che si conosca al mondo di scimmione albino, un gorilla dell’Africa equatoriale. Il signor Palomar si fa largo tra la folla che s’assiepa nel suo padiglione. Al di là d’una vetrata, «Copìto de Nieve» («Fiocco di neve», così lo chiamano), è una montagna di carne e pelo bianco. Seduto contro una parete sta prendendo il sole. La maschera facciale è d’un roseo umano, lavorata dalle rughe; anche il petto mostra una pelle glabra e rosea, come quella degli uomini di razza bianca. Quel viso dalle fattezze enormi, da gigante triste, ogni tanto si volta verso la folla dei visitatori oltre il vetro, a meno d’un metro da lui; un lento sguardo carico di desolazione e pazienza e noia, uno sguardo che esprime tutta la rassegnazione a essere come si è, unico esemplare al mondo d’una forma non scelta, non amata, tutta la fatica di portarsi addosso la propria singolarità, tutta la pena d’occupare lo spazio e il tempo con la propria presenza così ingombrante e vistosa.
... continua la lettura ...
Le parole - pensa il signor Palomar - non riescono a raggiungere il senso ultimo delle cose, però, come scrive Jean de La Fontaine nella Favola intitolata Il cigno e il cuoco [che leggiamo nella traduzione di Maria Vidale], un adeguato uso delle parole può sortire un effetto speciale: può addirittura “salvar la pelle”, ma gli animali non possono salvarsi la pelle con la parola.
LEGERE MULTUM….
Jean de La Fontaine,
Favole
Il cigno e il cuoco
Due amabili pennuti venivano allevati in un cortile attiguo ad un castello.
Il primo era un papero polposo, destinato a finire su un fornello,
il secondo era un cigno bianco e bello che della sua eleganza era orgoglioso.
I due pennuti passavano le ore nuotando insieme su e giù per il fossato.
Un giorno il cuoco, che aveva tracannato un bel fiasco di vino ed era brillo,
scambiò il cigno per l’oca, e col coltello si preparava ad affettargli il collo.
Il cigno, allora, vedendosi perduto, emise un lungo, dolcissimo lamento.
Il cuoco, udendolo, ne restò basito e rendendosi conto dell’errore
gridò: «O cielo, come avrei potuto mettere in pentola un simile cantore?».
Questo per dire che il saper parlare con voce dolce e con parole belle
consente a volte di salvar la pelle. …
Quando muore Mme de La Sablière [nel 1693] Jean de La Fontaine, veccho e malandato, viene ospitato dal signor D’Hervart [un ricco benefattore protestante] che gli mette a disposizione anche una cameriera [oggi diremmo una badante].
Jean de La Fontaine termina la propria vita dedicandosi a edificanti pratiche religiose e, per questo, una volta alla settimana, va a bussare anche alla porta del monastero di Port-Royal [e questo suo modo di fare suscita molta ironia nell’ambiente del “bel mondo”]. Gli altri giorni coloro che lo cercano si sentono rispondere dalla cameriera: «Non c’è, l’ho accompagnato nella chiesa di Saint-Étienne-du-Mont e prima del tramonto vado a riprenderlo, e volete sapere che cosa ci va a fare? Va a pregare e a meditare sulla tomba di Pascal!».
Il 13 aprile 1695 Jean de La Fontaine muore e il miglior commento alla sua esistenza appena conclusa è sicuramente quello della sua cameriera: «Dio non può essere così crudele da condannare quest’uomo perché ci ha fatto ridere e, facendoci ridere, ci ha fatto pensare».
Le Favole di La Fontaine non hanno lo stesso carattere delle Favole antiche di Esopo e di Fedro perché sono Favole “moderne”, e che cosa significa dire che “Jean de La Fontaine è il padre della Favola moderna”?
Per rispondere a questa, e ad altre domande, bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé [vi ricordo che la prossima settimana, come da calendario, facciamo una pausa utile tanto a riprendere fiato quanto ad attutire l’impatto con il giorno in più dovuto all’anno bisestile] e, quindi, consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare: la Scuola è qui, e [fra quindici giorni con aria marzolina] il viaggio continua…