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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE S’INCONTRA IL NATURALISMO DELLA SCUOLA DI CHARTRES ...

Lezione N.: 
23

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale            8-9-10  aprile  2015

San Francesco d'Assisi

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE

S’INCONTRA IL NATURALISMO DELLA SCUOLA DI CHARTRES ...

 

   Ben tornate e ben tornati a Scuola! Inizia, con il ventitreesimo itinerario, la terza [e ultima] parte di questo Percorso di Alfabetizzazione culturale in funzione della didattica della lettura e della scrittura [viaggeremo da adesso - con la sola interruzione per il 1° maggio che cade di venerdì tra tre settimane - fino alla prima settimana di giugno per poi, dopo la vacanza estiva, ripartire per un nuovo viaggio nella seconda settimana di ottobre, ma c’è ancora tempo per parlare del prossimo calendario!]

   E ora riprendiamo il nostro cammino sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale”: il viaggio di quest’anno, come ben sapete, ha come obiettivo quello di visitare i paesaggi intellettuali di quel grande movimento culturale che prende il nome di Scolastica e che fiorisce dal IX secolo su tutto il vasto spazio dell’Ecumene europea. Nel corso degli itinerari precedenti alla vacanza pasquale abbiamo incontrato due personaggi - Pietro Abelardo e Bernardo di Clairveaux [di Chiaravalle] - che hanno caratterizzato la Storia del Pensiero del XII secolo, due figure contrapposte anche se unite dalla stessa passione per il misticismo: il misticismo cosiddetto “dialettico” di Abelardo corrisponde ad una tensione intellettuale che punta a misurare le potenzialità e a definire i limiti della Ragione per farne un sempre più valido strumento di comprensione [Abelardo sostiene che bisogna capire per credere], mentre il misticismo cosiddetto “devozionale” di Bernardo corrisponde ad una tensione verso il divino che mira a far sviluppare attitudini contemplative e a creare una profonda religiosità per far crescere la Fede e la devozione [Bernardo sostiene che bisogna credere per capire].

   Abelardo ha il merito di aver fatto fare alla “disciplina dialettica [al modo di ragionare, allo strumento della Ragione]” un salto di qualità, mentre Bernardo di Clairveaux ha saputo, in nome della purezza evangelica, dare impulso al movimento “pauperista”, e vedremo quali saranno gli sviluppi di questi due fenomeni [il razionalismo e il pauperismo] che caratterizzano la Scolastica del XII e del XIII secolo e oltre.

   Quindici giorni fa abbiamo detto che [dopo aver fatto, secondo la tradizione, ruzzolare l’uovo] ci saremmo ritrovate e ritrovati nella città di Chartres e prima di dire perché siamo a Chartres facciamo visita a questa bella città. Chartres è il capoluogo del dipartimento Eure-et-Loire, ed è una suggestiva città di circa 40 mila abitanti di origine gallo-romana [si chiamava Autricum] ed è un notevole centro d’arte soprattutto grazie alla famosa cattedrale di Notre-Dame detta, per la sua importanza, “l’Acropoli della Mitteleuropa” ed è considerata come se fosse “il pensiero stesso del Medioevo diventato un oggetto visibile”. Il primo nucleo sotto forma di basilica che diventerà poi la cattedrale è stato eretto, nel IV secolo, su impulso del primo vescovo di Chartres, Adventus, e poi, nel corso dei secoli, la costruzione è stata ampliata per ben sei volte: la cattedrale attuale è frutto della sesta edificazione, che è avvenuta dal 1194 al 1225, attraverso la quale i costruttori hanno fuso insieme, in una mirabile unità stilistica, tutti gli elementi a cominciare dai due diversi campanili, e poi dai tre triplici portali [in particolare da quello detto “Portale dei Re”, uno dei capolavori della tarda arte romanica] e dalle straordinarie vetrate delle 176 finestre - che formano il più completo e prezioso complesso del genere, dove vengono illustrate le più importanti scene bibliche a cominciare dalla Genesi - dalle quali filtra una suggestiva luce colorata, secondo i canoni dell’estetica gotica dettata da Sugerio di Saint-Denis che abbiamo incontrato alla fine di gennaio.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia – e, ancor meglio, con la guida di “Parigi e dintorni [perché Chartres gravita pur sempre nell’area parigina]” – e anche navigando in rete fate un’escursione a Chartres e visitate, prima di tutto, la cattedrale di Notre-Dame, buon viaggio...    

 

   La cattedrale di Chartres diventa, all’inizio del XII secolo, la sede di una importante Scuola [ecco perché siamo a Chartres] che si trasforma in una vera e propria “comunità intellettuale” non diretta, in questo caso, da un monaco-abate ma da un magister-laico. La Scuola di Chartres riprende e coltiva lo spirito laico e dialettico di Abelardo e interpreta la provocazione pauperista-devozionale dei cistercensi, con uno spirito più gioioso, meno severo.

   Il primo importante magister della Scuola di Chartres, annessa alla cattedrale, si chiama Bernardo di Chartres, da non confondersi con Bernardo di Clairveaux, che ricopre il titolo di “cancelliere” della Scuola dal 1114 al 1119. Bernardo di Chartres è un “grammatico”, nel senso ricco di implicazioni che questa parola aveva nella tradizione della “humanitas” latina [un insegnate di Scienze umane].

   Nella Scuola di Chartres la lettura degli autori classici greci e soprattutto latini diventa l’esperienza di base per apprendere i “principi elementari” del discorso e per condurre l’analisi fino al punto in cui le regole grammaticali [a cominciare dalla connessione tra il soggetto e il predicato in relazione a tutti gli altri complementi] arrivano a coincidere con le leggi stesse della Logica, quelle che Aristotele aveva fissato nelle sue Categorie, tenendo conto del fatto che il linguaggio e il pensiero - entrambi corrispondenti alla parola Logos - sono in sinergia, in stretto rapporto tra loro.

   Bernardo di Chartres - prendendo spunto dai trattati del Dionigi Areopagita, che comincia ad essere chiamato “pseudo-Dionigi” e che continua ad essere uno dei principali testi di riferimento - legge Aristotele alla maniera platonica, per cui gli universali esistono [ante rem] come Idee preesistenti alle cose. Le Idee, sostiene Bernardo di Chartres, sono preesistenti ed eterne ma, specifica, non sono “coeterne” a Dio: coeterne sono soltanto le tre persone della Trinità in quanto sono “effetti che la causa prima ha prodotto all’interno di sé”, come dire che la persona del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sono l’Essenza divina [l’Uno?] capace [per Necessità] di passare dalla potenza all’atto e, in questo ragionamento c’è l’impronta del neoplatonismo dello pseudo-Dionigi corroborato dal sistema delle Categorie di Aristotele.

   Poi, per dare originalità al principio cristiano della creazione, Bernardo di Chartres introduce nella dottrina platonica, contenuta nel testo del dialogo Timeo, e nella dottrina biblica, contenuta nel testo del Libro della Genesi, una variante sulla nascita dell’Universo [tanto nel testo platonico del Timeo quanto in quello biblico della Genesi si sostiene che la materia esiste da sempre per Necessità, e tanto il demiurgo di Platone quanto il dio biblico Rūha elohīm creano mettendo “in ordine” una materia già esistente]: Bernardo di Chartres sostiene che anche la materia è stata creata da Dio e, quindi, la Natura, alla quale Bernardo attribuisce anche un’essenza oltre all’esistenza, porta in sé, con l’ordine divino, anche un afflato divino [una particolare e benevola capacità creativa]. Per non cadere nel panteismo [per non cascare nell’eresia di assimilare Dio alla Natura] Bernardo di Chartres traccia una netta linea di separazione tra “Dio trascendente ed eterno” e le “Idee [gli universali] e la materia creata da Lui”, e per fare questa affermazione [per rispettare l’ortodossia] Bernardo utilizza la teologia negativa derivata dallo pseudo-Dionigi affermando che delle “cose divine” possiamo dire soltanto “ciò che non è”, però, in realtà, Bernardo si prende la libertà di fare il contrario e, quindi, questa spregiudicatezza nell’usare le tradizioni filosofiche “ellenistiche” [il neoplatonismo che interpreta l’aristotelismo] è una caratteristica peculiare della Scuola di Chartres, che diventa un’istituzione consapevole del proprio ardimento, lo stesso ardimento riconducibile alla Scuola di Abelardo per cui non è la Filosofia che è soggetta alla dottrina ma viceversa.

   E per giustificare - ma soprattutto per avvalorare - questa posizione [l’importanza che hanno i Classici nella formazione della persona che intende interpretare la realtà] Bernardo di Chartres fa un’affermazione che è diventata emblematica, scrive: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista o per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti».

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Voi da chi siete state e siete stati portati sulle spalle e, a vostra volta, chi avete portato sulle spalle?...  E che cosa vi fa venire in mente questa immagine?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Prima di andare ad osservare quali sono gli effetti prodotti da questa emblematica affermazione di Bernardo di Chartres [ripresa via via dai suoi successori: “Siamo come nani sulle spalle di giganti” nel senso che “i giganti” sono gli autori classici greci e latini] - a questo proposito anticipiamo che, in primo luogo, questa espressione provoca la risposta sarcastica dei cistercensi dalla quale prende forma un’asserzione che fa nascere un ossimoro [l’accostamento di due termini di significato contraddittorio] che ha un suo sviluppo in campo letterario [se noi diciamo “siamo circondati da nani giganti”, pronunciamo un ossimoro che ha un suo significato, anche di attualità, come dire che “ci sono troppe persone che vogliono compensare la loro scarsa moralità con la presunzione”] -; prima però di occuparci di questo [degli intrecci filologici che questa situazione genera] dobbiamo dedicarci ad una riflessione che riguarda uno degli aspetti più significativi del pensiero di Bernardo di Chartres [perché da cosa nasce cosa].

   Abbiamo appena studiato che il magister Bernardo di Chartres introduce una variante nella dottrina platonica del Timeo e in quella biblica della Genesi sulla nascita dell’Universo: lui sostiene che anche la materia [etichettata da Platone come “non-essere”] è stata creata da Dio e, quindi, la Natura - alla quale Bernardo di Chartres attribuisce un’essenza oltre all’esistenza - porta in sé, insieme all’ordine, anche un afflato divino [una particolare e benevola capacità creativa]. Quali sono le ripercussioni di questo pensiero per cui la Natura diventa “una struttura  influenzata dall’ispirazione divina” e, di conseguenza, contenente, nei suoi elementi costitutivi, valori riconducibili alla bellezza, alla bontà, al giusto ordine delle cose?

   Questa idea - l’opinione che “la Natura porti in sé un afflato divino [una particolare e benevola capacità creativa]” - esce gradualmente dal perimetro della Scuola di Chartres e si diffonde sul territorio dell’Ecumene centro-occidentale mentre i cistercensi [di Bernardo di Clairveaux] ci tengono a ribadire la netta separazione tra la Natura e la trascendenza di Dio rispetto al Mondo creato [proprio perché la Natura non è sempre bella, non è sempre benigna, non è sempre in equilibrio con la giustizia divina, spesso in essa si annida il Demonio].

   L’opinione che “la Natura porti in sé un afflato divino [una particolare e benevola capacità creativa]” viene recepita soprattutto dai figli della borghesia delle città della Provenza - una terra ricca e particolarmente favorita dalla Natura che si trova come ben sapete nel sud della Francia - i quali sono stati mandati a studiare [la borghesia capisce che la cultura è un bene di cui appropriarsi] alla Scuola di Chartres e, quando tornano a casa con il diploma, portano con loro una serie di competenze intellettuali [tra cui la conoscenza del metodo dialettico] e una dirittura morale secondo la quale pensano che i beni elargiti dalla Natura siano un dono di Dio e, quindi, ritengono [hanno imparato] che chi riceve la grazia di raccogliere molti frutti derivanti dalle proprie attività imprenditoriali, soprattutto quando queste attività sono assecondate dalle favorevoli condizioni naturali [dalla grazia di Dio], debba anche [come rendimento di grazie, come eucaristia] ridistribuire, almeno in parte, i propri profitti con “evangelico” spirito solidale. Se poi qualche cosa va storto nell’andamento naturale [si domandano in Provenza proprio su influsso della Scuola di Chartres che coniuga la riflessione dialettica con il misticismo naturalistico], se qualcosa va storto - per cui a volte la Natura non sempre è bella, non sempre è benigna, non sempre è in equilibrio con la giustizia divina - non dipenderà, si domandano, dal fatto che in Dio come pensavano gli gnostici c’è qualcosa, o c’è qualcuno, che mette il bastone tra le ruote? Su questo interrogativo [per cui si ipotizza che in Dio ci sia il Bene ma anche il Male, secondo un dualismo proveniente dall’Età assiale - dal pensiero di Zaratustra - che, periodicamente, riappare sulla scena della Storia del Pensiero Umano e, in questo momento, dall’XI secolo, compare anche attraverso il Prologo del Vangelo secondo Giovanni] dobbiamo soprassedere perché riguarda un tema che studieremo prossimamente spostandoci direttamente in Provenza mentre adesso dobbiamo occuparci [ed è qui che volevamo arrivare] di un altro argomento creato dall’eco proveniente dalla Scuola di Chartres.

   L’idea - elaborata dalla Scuola di Chartres da Bernardo di Chartres - che “la Natura contenga in sé un afflato divino [una particolare e benevola capacità creativa]” porta ad affrontare un argomento, che per noi assume soprattutto un carattere letterario, incentrato su una figura universalmente conosciuta: quella di Francesco d’Assisi.

   Sulla figura di Francesco d’Assisi, data la sua notorietà [compresa quella cinematografica, ma è bene anche non fidarsi troppo della cinematografia in proposito, seppur accattivante], non ci soffermeremo a lungo secondo il concetto della quantità ma vogliamo far risaltare come si sono formati alcuni elementi caratteristici del suo pensiero, secondo il concetto della qualità. Le radici del pensiero di Francesco d’Assisi dipendono, prima di tutto, dall’insegnamento che lui ha ricevuto da sua madre [Pica o Giovanna] che è sicuramente originaria della Provenza ed è depositaria di una cultura di cui possiamo tracciare le linee e che ha trasmesso al figlio [non certo con l’idea di farne un santo].

   Pietro di Bernardone, giovane mercante di tessuti di Assisi, il padre di Francesco, deve aver conosciuto sua moglie [Pica o Giovanna] mentre era in viaggio d’affari ad Avignone e, con un bel gesto d’affetto, ha voluto ricordare il paese della moglie nel nome del figlio, Francesco: un nome, a quei tempi, ancora molto raro [«singolare e inconsueto», scrive Tommaso da Celano, il primo biografo di San Francesco]. Inoltre sappiamo che Francesco ama esprimersi in lingua provenzale [in Francese occitano, la lingua d’oc] perché questo era il linguaggio materno della sua infanzia e, a questo proposito, c’è da dire che in Europa la prima “lingua poetica”, che dà origine alla prima “Scuola poetica”, nasce proprio nel sud della Francia, nella regione della Provenza dove si è sviluppato - nelle città di Avignone, Arles, Nîmes, Albi, Carcassonne [tutti centri urbani di origine romana e notevolmente cresciuti dopo l’anno Mille] - un ricco capitalismo mercantile, un movimento di emancipazione femminile a livello culturale, un singolare fenomeno religioso, quello dei Catari [i puri], che vuole riformare il Cristianesimo in senso pauperista, e sul quale si abbatterà l’anatema della Chiesa di Roma [e di questo argomento ce ne occuperemo prossimamente]; e poi fiorisce la consorteria dei poeti provenzali, detti troubadours [i “trovatori” che cercano e sanno trovare le parole adatte, messe in musica, per descrivere il sentimento amoroso, la fede religiosa e l’ideale politico indipendentista], i quali diffondono in tutta Europa la loro lingua e la “forma [la canzone]” e i contenuti della loro poesia, una struttura poetica che diventa un modello e attraverso la quale viene divulgato anche il pensiero del “misticismo naturalistico” della Scuola di Chartres, dove molti di loro hanno studiato. Ebbene, ecco quali sono gli elementi attraverso i quali - tramite l’intervento materno - Francesco matura il suo pensiero.

   Francesco nasce ad Assisi nel 1182, e nel 1206 inizia una vita di penitenza rinunciando ai beni di famiglia e, dopo qualche anno di vita solitaria e ascetica, si dedica, con alcuni discepoli, ad un fervido apostolato in nome della povertà, della solidarietà e della comunione dei beni fino alla formulazione di una Regola [che ottiene l’interessata approvazione papale] che prevede una “letterale applicazione del dettato evangelico” con l’esaltazione dell’ideale pauperista della ridistribuzione: il carattere del pauperismo francescano però non è come quello serioso e prosastico dei cistercensi ma è giocondo e poetico secondo lo stile dei trovatori provenzali che riflettono il pensiero “naturalistico” della Scuola di Chartres. Francesco muore ad Assisi nel 1226 e cresce, da subito, intorno alla sua figura una tradizione orale che diventa Letteratura [scritta tra il 1370 e il 1390] fatta di “leggende” raccolte in un volume [formato da 53 brevi capitoli più uno su “Le sacre sante istimate di santo Francesco] intitolato I Fioretti di San Francesco.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Richiedete in biblioteca “I Fioretti di San Francesco”: leggetene e rileggetene il testo – scritto in una bellissima, e anche facile da capire, lingua italiana trecentesca - perché la conoscenza di quest’opera è propedeutica alla comprensione di tanti oggetti artistici [soprattutto in campo pittorico] e alla visita dei molti luoghi francescani...

Inoltre per conoscere la figura di Francesco d’Assisi si può leggere - richiedendolo in biblioteca - il saggio di Chiara Frugoni intitolato “Vita di un uomo: Francesco d’Assisi” con la prefazione di Jacques Le Goff...

Andate a documentarvi su quanti “Franceschi” ha fatto nascere la tradizione...

 

   E adesso veniamo al dunque [sul terreno della didattica della lettura e della scrittura]: abbiamo capito quali sono le ragioni per cui Francesco d’Assisi è diventato un poeta [il giullare di Dio] che ha lasciato una significativa impronta nella Storia della Letteratura medioevale a livello internazionale; la duecentesca lingua umbra di Francesco ripercorre le forme del linguaggio poetico provenzale e, per quanto riguarda il contenuto, nei versi composti da Francesco c’è la cultura del “naturalismo mistico” della Scuola di Chartres. Francesco pensa che i beni elargiti dalla Natura siano un dono di Dio e, quindi, ritiene [ha imparato] che chi riceve la grazia di raccogliere molti frutti donati dalla Natura [dalla grazia di Dio] debba [come rendimento di grazie, come eucaristia] ridistribuire tutti i profitti con “evangelico” spirito solidale. Francesco coltiva l’idea - elaborata dalla Scuola di Chartres, da Bernardo di Chartres - che “la Natura contenga in sé un afflato divino [una particolare e benevola capacità creativa]” per cui la Natura è “una struttura  influenzata dall’ispirazione divina” e, di conseguenza, contiene, nei suoi elementi costitutivi, i valori riconducibili alla bellezza, alla bontà, al giusto ordine delle cose, e gli elementi naturali, pensa Francesco, sono l’immagine evidente del manifestarsi, sulla scena del Mondo creato, della Storia della salvezza, e questi concetti, come ben sapete, Francesco li raccoglie in un famoso cantico, il Cantico delle Creature, che è il manifesto esemplare composto nel 1224 del “misticismo naturalistico”, un pensiero che ha preso le mosse un secolo prima alla Scuola di Chartres. Leggiamo il Cantico delle Creature o di Frate Sole di Francesco d’Assisi, il testo del quale, a questo punto, si spiega da solo.

 

LEGERE MULTUM….

Francesco d’Assisi, Cantico delle Creature o di Frate Sole

Altissimu, onnipotente, bon Signore,

Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad Te solo, Altissimo, se konfano,

et nullu homo ène dignu Te mentovare.

Laudato si’, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature,

specialmente messer lo frate Sole,

lo qual è iorno, et allumini noi per lui.

Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:

de Te, Altissimo, porta significazione.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle:

in celu l’ài formate clarite et preziose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento

et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,

per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Aqua,

la quale è molto utile et umile et preziosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,

per lo quale ennallumini la nocte:

ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,

la quale ne sustenta et governa,

et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore

et sostengo infirmitate et tribolazione.

Beati quelli ke ’l sosteranno in pace,

ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,

da la quale nullu homo vivente po’ skappare:

guai a’cquelli ke morrano ne le peccata mortali;

beati quelli ke trovarà ne le Tue santissime voluntati,

ka la morte seconda no ’l farrà male.

 

   E ora torniamo a Chartres.

   Il più dotato di arditezza dialettica tra gli allievi di Bernardo di Chartres è sicuramente Gilberto de la Porrèe detto anche il Porrettano, amico di Abelardo e insieme a lui bersaglio dei cistercensi di Bernardo di Clairveaux. Anche Gilberto, però, aveva il sarcasmo facile soprattutto nei confronti di quegli studenti che avevano poca voglia di studiare: li invitava ad andare a zappare, o diceva: «Visto che amate passare la notte nelle taverne e poi al mattino, in aula, vi addormentate perché non andate a fare i fornai? Sarebbe per voi più produttivo». Era molto esigente anche con se stesso e, difatti, Gilberto ha lasciato poco di scritto [non si riteneva mai abbastanza soddisfatto del suo lavoro intellettuale] e ha lasciato una sola opera che, tuttavia, lo ha reso celebre. Lo stile di Gilberto è piuttosto “asciutto” e questo non ne facilita la lettura e difatti, probabilmente, qualcuno ha pensato bene di rendere più scorrevole la sua scrittura per rendere più comprensibile il suo pensiero: che cosa significa questa affermazione? Procediamo con ordine.

   Gilberto de la Porrèe detto il Porrettano [1080-1154] ha scritto un trattato intitolato Dei sei princìpi [Liber sex principiorum] il cui testo è stato studiato e commentato, con grande interesse, per tutto il Medioevo. A questo proposito dobbiamo dire che la critica contemporanea ha aperto una “questione” intorno a quest’opera e noi [è nostro dovere di studentesse e di studenti] dobbiamo prendere atto di questo fatto senza però scendere nei particolari perché la sostanza del tema in questione non cambia, è più che altro un problema di forma [che cosa è successo?]: si ritiene che il testo dell’opera Dei sei princìpi [Liber sex principiorum] che noi possediamo non sia quello scritto da Gilberto Porrettano ma sia stato riscritto e commentato da Alberto Magno, che incontreremo prossimamente, che ne avrebbe cambiato la forma senza tuttavia alterarne il contenuto [di quest’opera c’è anche un commento di Dante Alighieri]. Detto questo è doveroso continuare ad attribuire quest’opera a Gilberto Porrettano.

   I “sei princìpi” sono le categorie aristoteliche cosiddette “minori” quelle che determinano la “forma [non la sostanza delle cose]” che Aristotele non aveva analizzato nel testo delle Categorie: l’azione, la passione, il quando, il dove, la posizione e l’avere. Gilberto Porrettano [come Porfirio, fa l’esegesi delle categorie di Aristotele perché Aristotele non ha fatto distinzioni sulla natura delle categorie] ragionevolmente sostiene che le categorie di Aristotele non hanno tutte la stessa natura: ci sono le categorie che lui chiama “inerenti o essenziali [formae inhaerentes]” le quali hanno un carattere sostanziale [servono per definire la sostanza delle cose] e sono la quantità, la qualità e la relazione [e Gilberto non le analizza], e poi, sostiene Gilberto, ci sono quelle che lui chiama le categorie “avventizie, relative o subordinate [formae assistentes]” che restano esteriori alla sostanza: sono formali e non sostanziali, soprattutto il tempo e il luogo. Sulla scia di questa constatazione, Gilberto Porrettano - in sintonia con la linea della Scuola di Chartres dettata dal suo maestro Bernardo - opera per la fondazione di una scienza della Natura dotata di princìpi e di regole autonome per cui Gilberto come Bernardo riconosce che le cose materiali sono state create da Dio secondo le Idee eterne che Dio ha in mente, ma non sono queste Idee divine, sostiene Gilberto, che si uniscono direttamente alla materia [per cui l’Universo non è soggetto al panteismo: Dio non è in tutte le cose]: le Idee [gli archetipi] presenti nella mente di Dio, afferma Gilberto, sono soltanto degli “esemplari eterni” ai quali si conformano le “forme native terrene [le idee universali]” che, unendosi alla materia, danno origine agli individui e alle cose. Quindi, afferma Gilberto, gli universali - che l’intelletto della persona coglie per via astrattiva - sono queste “forme creatrici terrene [“demiurgiche”, secondo il vocabolario di Platone]” e non i loro “esemplari eterni” a cui gli universali assomigliano secondo l’indecifrabile volontà divina. L’universale è, afferma Gilberto, “l’elemento per cui una cosa diventa quello che è” e va distinto da “ciò che una cosa è”: ad esempio, “l’humanitas” è l’universale [la forma creatrice terrena] che rende un individuo una persona particolare, mentre, per fare un altro esempio, “la corporeità” è l’universale [la forma creatrice terrena] per cui abbiamo un corpo particolare e così via. E, fin qui, la riflessione di Gilberto Porrettano conserva la struttura del Timeo di Platone: interpreta in senso cristiano il “mito del demiurgo”.

   La novità appare quando Gilberto Porrettano si domanda, applicando un sillogismo aristotelico: «Anche riguardo a Dio si deve procedere così e bisogna distinguere in Lui “la divinitas” per cui egli è Dio?». Come dire ch, secondo questo ragionamento, l’unico “elemento divino” a cui l’essere umano con l’intelletto può pensare è quello che corrisponde all’universale della “divinitas” che è una “forma creatrice terrena” utile a costruire un’immagine effimera di Dio seppur grandiosa.

   Su questa riflessione dobbiamo aprire una parentesi che riguarda l’Arte cristiana, in particolare l’Are cristiana medioevale che risente del pensiero della Scolastica, perché è attraverso l’universale della “divinitas”, in quanto “forma creatrice terrena”, che le artiste e gli artisti hanno prodotto e producono, ognuno con la propria sensibilità, i mirabili oggetti della Storia dell’Arte cristiana. Chi dipinge, chi scolpisce, chi progetta interpreta - secondo il pensiero di Gilberto Perrettano - l’universale della “divinitas” cioè la “forma creatrice terrena della divinità”, ed è per questo motivo che ogni tema divino viene reso in modo molteplice secondo l’elaborazione intellettuale [lo sviluppo dell’idea universale] delle artiste e degli artisti che non ardiscono [come sarebbe possibile?] riprodurre “l’Idea eterna di divinità” [Ed è per questo che non c’è nessun divieto nel rappresentare “immagini divine cristiane”] perché esiste la consapevolezza che l’imperscrutabile “Idea eterna di divinità” non è alla portata della ragione umana e, di conseguenza, in relazione a questa riflessione, sostiene Gilberto Perrettano, non è possibile affermare, come fa Bernardo di Clairveaux [e i cistercensi], che attraverso le celebrazioni liturgiche [con la mistica devozionale] si possa portare avanti un tirocinio di perfezione che conduca alla perfetta unione con Dio “come una goccia d’acqua nel vino”, perché questa, sostiene Gilberto Permettano, è una pia illusione provocata dalla passione mistica che spinge ad andare “dove porta il cuore” ma l’emozione,sostiene Gilberto, non procura “un’unione reale” con Dio ma è solo “un vagheggiamento di carattere sentimentale”.

   Questa puntuale riflessione di Gilberto Porrettano provoca la reazione di Bernardo di Clairveaux il quale vede e denuncia un errore teologico in questa affermazione e Gilberto si ritrova, accanto ad Abelardo, imputato al concilio di Sens dal quale però esce indenne dichiarando di non aver “fatto un’affermazione” ma di essersi solo “fatto una domanda [“Anche riguardo a Dio bisogna distinguere in Lui “la divinitas” per cui egli è Dio?”]”: «Mi sono solo fatto una domanda, dichiara Gilberto! E, prosegue Gilberto, se questo concilio si propone di condannare tutti coloro che si auto-interrogano allora questa autorevole assise avrebbe condannato anche Gesù Cristo perché nell’orto degli ulivi ha chiesto al Padre “perché non rispondi”?». E Gilberto Porrettano non solo evita la condanna ma viene promosso: viene nominato nel 1141 vescovo della sua città natale, di Poitiers e, quindi, non si può fare a meno di visitare questa bella città che oggi ha circa 90 mila abitanti.

   Poitiers è il capoluogo della regione del Poitou [individuatela sulla carta geografica], ed è situata, in posizione dominante, alla confluenza di due fiumi, il Clain e la Boivre [qui il 10 ottobre del 732 Carlo Martello ha fermato gli Arabi in espansione], ed è stata fondata dalla tribù dei Pictoni, da cui il nome Poitiers, ed è diventata dal I secolo molto importante sotto i Romani [con il nome di Limonum, da “lemo” che in lingua gallica significa “olmo”], e nell’Alto Medioevo [dal IV secolo è sede vescovile], per la sua posizione strategica [di qui passava la Grand-rue, una delle più importanti strade europee], accresce ancor di più la sua importanza. Poitiers è una città ricca di monumenti ed è come se avesse due cattedrali: quella di Notre-Dame-la Grande, chiesa-capolavoro dell’arte romanica [in particolare la sua facciata], e quella [la cattedrale propriamente detta] gotica di St-Pierre. Poitiers conta altre tre importanti e significative opere architettoniche: il Battistero di St-Jean, che forse è il più antico monumento cristiano di Francia, del IV secolo, la chiesa di Santa Redegonda, fondata nel 560 dalla santa regina Redegonda e la romanica chiesa di St-Hilaire-le-Grand, un edificio dalla complessa architettura [di ben sette navate], presso la quale si trova il vasto parco di Blossac dalle cui terrazze si può ammirare un bel panorama sulla valle del Clain.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete fate visita a Poitiers, buon viaggio...

E, sempre navigando in rete, andate a conoscere la bella ed eloquente figura della santa regina Redegonda, la figlia di Bertario, il re dei Turingi, costretta suo malgrado [ridotta a bottino di guerra] a sposare il prepotente re franco Clotario I che lei ha il coraggio di abbandonare per prendere i voti e per assumere il ruolo di diaconessa...   Sulla scia di Santa Redegonda potete leggere la narrazione del “miracolo dell’avena” [di che prodigio si tratta?] e potete fare la conoscenza con un personaggio che si chiama Venanzio Fortunato [chi è costui?]: dedicare un po’ di tempo [mezz’ora, in questo caso] alla ricerca porta fortuna...

 

   Anche Gilberto Porrettano, al termine del concilio di Sens che lo vede assolto, dichiara, come già aveva fatto Bernardo di Chartres, che era necessario ringraziare il Signore per la grazia che aveva fatto agli intellettuali scolastici: quella di farli vivere in un’epoca in cui, sebbene fossero dei nani, avevano però la possibilità di poter salire sulle spalle di giganti. «Siamo sì dei nani [afferma Gilberto Porrettano mettendo l’accento sul fatto che questo termine non vuol essere offensivo nei confronti delle persone affette da microsomia, ma bensì rappresenta una metafora che definisce l’ispirazione a far aumentare la potenzialità intellettuale di una persona], quindi, riconosciamo, sostiene Gilberto Porrettano, di avere dei limiti ma, tuttavia, siamo molto fortunati perché le nostre biblioteche, afferma Gilberto, sono piene di Libri contenenti i testi delle Opere dei classici greci e latini [i giganti] e, arrampicandoci sulle loro spalle [studiando queste Opere], noi, se stiamo ben attenti, possiamo vedere più cose di loro e più lontane e non per l’acutezza della nostra vista o per l’altezza del nostro corpo ma perché siamo sostenuti e portati in alto dalla loro statura intellettuale».

   Potete immaginare come questa affermazione scateni il sarcasmo [l’irritazione] di Bernardo di Clairveaux [il quale era già piuttosto piccato per l’assoluzione di Gilberto che ha criticato e demolito puntigliosamente - come abbiamo studiato poco fa - il suo pensiero mistico ed era ancor più contrariato per il fatto che Abelardo, sebbene fosse stato condannato, era stato ben accolto a Cluny]; Bernardo di Clairveaux per rispondere alle critiche di Gilberto Porrettano e a nome di tutti i cistercensi, emette, trascinato dall’emozione piuttosto che dalla razionalità, una sorta di verdetto con il quale conia un sarcastico ossimoro, “i nani-giganti”, che è entrato nella Storia della Letteratura: «Ecco che [sentenzia Bernardo con durezza e con sarcasmo, rivolgendosi contro gli intellettuali della Scuola di Chartres] è nata la setta dei nani-giganti, abominevoli figure che dimostrano come il demonio sappia abbindolare chi non crede che, solo salendo sulle spalle di quel gigante onnipotente che è Dio, si possa vedere la Verità».

   Si rimane senza parole di fronte a questa lapidaria affermazione di Bernardo di Clairveaux [il quale è una gran brava persona ma non fa proprio nulla per rendersi simpatico]; si rimane senza parole perché Bernardo di Clairveaux non è voluto entrare nello spirito dell’affermazione degli scolastici di Chartres [“siamo nani sulle spalle di giganti”, vale a dire: se studiamo i classici possiamo dare più possibilità alla Ragione, capirne meglio i limiti in modo da progredire intellettualmente per poter anche rafforzare la Fede, che poi è quello che anche Bernardo ha fatto e fa]. Lo spirito dell’affermazione di Bernardo di Chartres [“siamo nani sulle spalle di giganti”] raccoglie come vedremo a suo tempo il favore degli umanisti tardo-medioevali e dei pensatori rinascimentali e moderni, mentre il sarcastico ossimoro “nani-giganti”, coniato da Bernardo di Clairveaux, cade nel vuoto finché [senza che ci si ricordi più di Bernardo di Clairveaux] in età contemporanea, a livello letterario, questo ossimoro viene utilizzato in chiave diversa, ma pur sempre con un intento sarcastico, per etichettare “l’uomo senza qualità”, il “borghese piccolo piccolo”, e queste due diciture [“l’uomo senza qualità”, il “borghese piccolo piccolo”] richiamano già titoli di opere letterarie.

   Per capire questo fatto ci avvaliamo [per entrare nell’ambito della didattica della lettura e della scrittura], ancora una volta, della collaborazione di Carlo Emilio Gadda [nostro compagno di viaggio da ottobre] perché, forse, è stato proprio il primo - come straordinario coniatore di un linguaggio allegorico come ben sappiamo - a rievocare e ad addomesticare la “memoria di un ossimoro cistercense [come lui scrive, e Gadda - essendo un praticante di sterminate letture - dell’ossimoro cistercense “nani-giganti” se ne ricorda e si ricorda anche naturalmente della dichiarazione programmatica chartriana “siamo nani sulle spalle di giganti”]”. Gadda utilizza il sarcastico ossimoro “nani-giganti” per satireggiare sul comportamento della «buona [tra virgolette “buona”] borghesia » e dei «pervenuti [quelli che riescono ad arrivare senza esserselo meritato, senza qualità]»: individui un po’ arroganti, spesso megalomani, o solo molto scialbi [insulsi, noiosi, privi di personalità]. Ma procediamo con ordine perché, per rendere praticabile questa riflessione, dobbiamo entrare nell’officina del racconto: che cosa ci offre Gadda in questo momento per imbastire e sviluppare il nostro ragionamento progressivo? Ci mette a disposizione la prima tra le sue opere che è stata pubblicata.

   Il primo libro di Carlo Emilio Gadda [1893-1973] apparso a stampa nel 1931, pubblicato a Firenze nelle edizioni delle rivista Solaria, s’intitola La Madonna dei Filosofi ed è un volume che raccoglie quattro racconti: Teatro, Manovre di artiglieria da campagna, Studi imperfetti e La Madonna dei Filosofi che dà il titolo all’opera. In questi scritti “l’ingegnare, il gran lombardo [questi, come sapete, sono i due tradizionali soprannomi di Gadda]” sperimenta la sua impareggiabile scrittura e mette a punto il suo stile [un argomento che abbiamo studiato recentemente: abbiamo letto un certo numero di pagine del romanzo “La cognizione del dolore” alla fine di ottobre e ai primi di novembre]; ebbene, Gadda negli scritti dell’opera La Madonna dei Filosofi perfeziona un metodo destinato a diventare un vero e proprio genere letterario con i suoi diversi piani linguistici, con il gusto del pastiche [dell’intreccio sofisticato], con la strabiliante ricchezza lessicale per mezzo della quale sviluppa i temi che gli sono più congeniali: per primo il tema della satira corrosiva della «buona borghesia» e dei «pervenuti [quelli che riescono ad arrivare senza tuttavia esserselo meritato]»: individui arroganti, spesso megalomani, o molto scialbi [insulsi, noiosi, insipidi, privi di personalità, destinati al fallimento], e poi tocca costantemente il tema dell’esperienza sconvolgente ed esaltante della guerra con i suoi squarci lirico-espressionisti, e il tema delle nevrosi autobiografiche che ne La Madonna dei Filosofi vengono incarnate dall’insofferente ingegner Baronfo con la sua rivolta filosofica contro il mondo «troppo sciatto e troppo volgare» del primo dopoguerra. Gadda, nella sua prima raccolta, si diverte a narrare, in modo caricaturale ed ironico, “una serata all’opera”, “un pomeriggio in un cinema popolare” e, come sempre, in modo incalzante ed esilarante, inventa neologismi, tratteggia ritratti, descrive paesaggi, partorisce riflessioni che diventano le occasioni anche «minime [gli otto racconti di “Studi imperfetti” sono lunghi poco più di una pagina l’uno]» che gli consentono di inscenare - spesso con furore - lo spettacolo sontuoso e imprevedibile del suo linguaggio [quello che si chiama ormai il “genere gaddiano”].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La raccolta di racconti intitolata “La Madonna dei Filosofi” potete richiederla in biblioteca e potete leggerne qualche pagina…

 

   E ora leggiamo - tratto dal testo de La Madonna dei Filosofi - un brano che fa da introduzione alla nostra riflessione [che dovrebbe continuare anche nelle settimane a venire] sull’eloquente presenza dell’ossimoro sarcastico “i nani-giganti” nella Storia della Letteratura europea contemporanea [abbiamo, in questo senso, a disposizione una serie significativa di intrecci filologici da dipanare]. A fine itinerario poi leggeremo un secondo brano tratto dal testo de La Madonna dei Filosofi per renderci conto di come Gadda non si sia di certo lasciato scappare una metafora così significativa e programmatica come quella coniata alla Scuola di Chartres, «siamo nani sulle spalle di giganti», per dare un senso alla scelta che compie il principale personaggio autobiografico de La Madonna dei Filosofi.

   Prima dobbiamo fare alcuni accenni al contenuto di quest’opera per capire il senso dei due brani che stiamo per leggere. La Madonna [dei Filosofi] di cui si parla nel racconto di Gadda è quella raffigurata in un affresco del “Castelletto”, l’antica dimora della famiglia Ripamonti, che Gadda immagina collocata nella Bassa milanese. Maria Ripamonti, la protagonista femminile del racconto, è una giovane delicata e sensibile che conduce un’esistenza schiva e dolorosa dopo la morte di Emilio, un biondo e bel ragazzo teneramente amato da lei, scomparso nel corso della prima guerra mondiale per la quale era partito volontario.

   Questo racconto, come tutte le opere di Gadda, è ricco di tratti autobiografici: la figura di Maria, per la quale la vita è ormai “una spettrale sopravvivenza”, rimanda all’esperienza dolorosa vissuta da Gadda dopo la notizia della morte del fratello Emilio [Emilio Gadda, aviatore, anche lui è caduto nel corso della grande guerra]. L’Emilio del racconto è il figlio di un commerciante fallito che si è ulteriormente rovinato con la costruzione di una casa di campagna inabitabile e rimanda al padre di Gadda che va in rovina [e manda in rovina tutta la famiglia] per avere avuto la stessa fissazione: quella di far edificare [presso Longone] un’enorme casa naufragando nei debiti [sono due “nani-giganti” questi padri megalomani!]. Inoltre il personaggio di Emilio condivide con lo scrittore anche la passione per Ludovico Ariosto.

   Ma il personaggio più autobiografico del racconto [il protagonista maschile] è l’ingegnere Baronfo [ingegnere come Gadda] che, dopo aver girato per lavoro varie parti del mondo, così come ha fatto Gadda, afflitto da nevrosi dilaganti, come Gadda in persona, decide di dedicarsi al solo studio della filosofia [anche Gadda si è dedicato a questo studio abbandonando l’ingegneria]. L’ingegnere Baronfo, per acquistare alcuni libri filosofici della collezione Ripamonti, incontra Maria - che sta subendo la corte dell’avvocato Pertusella [rappresentate della “ridicola borghesia lombarda”: un personaggio che stiamo per incontrare] - e tra i due [Maria Ripamonti e l’ingegner Baronfo] si stabilisce “una tenera comprensione”. L’idillio viene interrotto ma non distrutto da una serie di circostanze drammatiche che ora non si devono raccontare per non rovinare la sorpresa a chi volesse leggere questo racconto nella sua interezza [c’è, per esempio, la signora Emma Renzi che dà del filo da torcere all’ingegner Baronfo].

   E ora leggiamo il primo brano da La Madonna dei Filosofi per dipanare [in funzione della didattica delle lettura e della scrittura] l’intreccio filologico che a noi interessa.

 

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda,  La Madonna dei Filosofi

Maria Ripamonti, la figlia, aveva raggiunto e di poco superato i venticinque anni senza che i famigliari e i conoscenti se ne avvedessero: ma il papà e la mamma avevano fisso il pensiero sull’avvocato Pertusella, un distinto commercialista lombardo, il quale aveva già militato «non sine gloria» nel partito clericale e adesso, verso i trentotto, gli era venuto un naso un po’ rosso; per cui, a ogni primo rinverdire de’ colli, onorava di sua presenza le Regie Terme di Salsomaggiore.

Una figura distinta, per altro: un po’ miope, portava gli occhiali: intratteneva tuttora salubri contatti con associazioni culturali cattoliche, con solidissime banche cattoliche e con instituti di beneficenza parimente cattolici e parimente solidi.

... continua la lettura ...

 

   Il sarcastico ossimoro “nani-giganti” è diventato anche il titolo di un romanzo che, per giunta, nasce in un contesto letterario in cui emerge pure “lo stile gaddiano” che, dalla fine degli anni ’50, con la pubblicazione di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, fa scuola sul territorio europeo nel campo della scrittura creativa, ma ce ne occuperemo la prossima settimana di questo argomento ora dobbiamo tornare a Chartres.

   Dobbiamo tornare a Chartres perché quando Gilberto Porrettano viene nominato vescovo di Poitiers nel 1141 gli succede, come cancelliere della Scuola, Teodorico [il fratello di Bernardo di Chartres], anche lui amico e all’occasione [nel concilio di Sens, per esempio] avvocato difensore di Abelardo.

   Teodorico di Chartres [morto intorno al 1155 è stato un eccellente matematico che ha dato lezioni anche ad Abelardo che però non riusciva a tenergli dietro] condivide pienamente l’affermazione di suo fratello Bernardo: «Siamo nani sulle spalle di giganti» che, come stiamo constatando, diventa una sorta di manifesto metodologico, il cui influsso va ben oltre la Scuola di Chartres, che suona come uno stimolo a sperimentare una contaminazione tra la dottrina cristiana e le più diverse culture classiche; la realizzazione di questo programma Teodorico la spiega in un’opera intitolata Eptateuco [letteralmente “I sette Libri”, mentre il sottotitolo è “Le sette Arti classiche del Trivio e del Quadrivio sono lo strumento vero e proprio della Filosofia”] che è un vero e proprio manuale di carattere didattico che contiene un piano di studi [un programma scolastico di formazione culturale attraverso il quale gli studenti (i nani) salgono sulle spalle dei classici (i giganti)] basato sulla Filosofia classica [e i giganti sono in primis: Platone, Aristotele, Plotino, Dionigi Areopagita, Severino Boezio], basato sulla Letteratura classica [e i giganti sono in primis: Varrone, Plinio, Cicerone, Marziano Capella] e basato sulle Scienze della Natura [e i giganti sono in primis: Tolomeo, Isidoro di Siviglia, Gerberto d’Aurillac]. Questo manuale [L’Eptateuco di Teodorico di Chartres] è stato un Libro costantemente adottato dalle Scuole per tutto il Medioevo e per buona parte dell’Età moderna. Teodorico di Chartres, fedele al suo programma, compone poi un’opera intitolata Tractatus de sex dierum operibus [Trattato dei sei giorni della creazione] in cui propone un’ardita armonizzazione tra il racconto biblico della creazione del mondo [tra il testo classico del Libro della Genesi] e le classiche dottrine “pagane” sulla cosmo-genesi, da quella del Timeo di Platone a quelle pitagoriche, arricchite dalle conoscenze dell’astronomia di Tolomeo e da quelle tecnico-matematiche della cultura araba. Teodorico, su questa base, sviluppa un’interpretazione del racconto della Genesi in cui pensa si debba sostenere che Dio, nei sei giorni della creazione, sia stato impegnato a mettere in moto il meccanismo atomistico [secondo le classiche teorie delle Scuole ellenistiche] e a creare i quattro elementi, aria acqua terra e fuoco, le cui combinazioni, regolate da leggi meccaniche, hanno dato luogo alle diverse fasi [i sei giorni] della formazione dell’Universo. Anche i miracoli, sostiene Teodorico di Chartres, sono eventi già contenuti, in modo seminale, nel primo impulso impresso da Dio agli elementi primi.

   Il metodo interpretativo di Teodorico è alternativo nei confronti delle letture allegoriche e misticheggianti del racconto biblico: la Fede nel dogma della creazione, secondo la Scuola di Chartres, si veste di panni “scientifici”, oppure, si potrebbe dire, che sia la scienza fisica, affidata alle proprie Leggi, a vestirsi di panni religiosi.

   Questo modo di pensare [“Se saliamo sulle spalle di quei giganti che sono i classici possiamo vedere più lontano”...] fa sì che, partendo dalla Scuola di Chartres, nasce una grande curiosità di carattere enciclopedico e aumenta l’interesse per i testi classici contenuti nelle biblioteche e quelle biblioteche nelle quali si trova, per esempio, l’intero Organon di Aristotele - rivalutato dai maestri di Chartres - cominciano ad essere molto frequentate dagli intellettuali e dagli studenti per cui diventa necessario duplicare le copie di molte opere.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete frequentato una biblioteca ultimamente per prendere in prestito o per consultare un’opera o più opere?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Le biblioteche [delle abbazie e delle cattedrali] cominciano ad essere molto frequentate dagli intellettuali e dagli studenti per cui diventa necessario duplicare le copie di molte opere, e comincia a nascere un mercato, se non del Libro, per lo meno delle parti [delle pagine] più significative di un’opera. C’è una certa richiesta, per esempio, delle pagine del Timeo di Platone dove si parla della formazione del mondo e, quindi, succede che la parte specifica di questo dialogo platonico finisce per diventare un opuscolo indipendente e assistiamo al fenomeno della parcellizzazione delle Opere dei classici, e si genera una situazione che ha una doppia valenza: da una parte, questo fenomeno contribuisce alla divulgazione delle idee, ma dall’altra determina la disgregazione di molti testi e ci penseranno poi nei secoli successivi i cosiddetti “umanisti” a ripristinare l’ordine filologico [ma questa è un’altra storia].

   Con Gilberto Porrettano e con Teodorico la Scuola di Chartres interpreta in modo nuovo il dogma della creazione del mondo rivestendolo di un abito di natura “scientifica”, e un altro maestro in attività a Chartres, contemporaneo e collega di Teodorico, fedele al monito [ormai di carattere programmatico] «Siamo nani sulle spalle di giganti», mette a punto ancor meglio questa interpretazione: si chiama Guglielmo di Conches.

   Guglielmo di Conches [1080-1154], maestro di fisica aristotelica in attività alla Scuola di Chartres, compone tra il 1125 e 1130 un’opera significativa [e di successo] che s’intitola Philosophia mundi [Filosofia del mondo] nella quale espone come intende riformulare la teologia della creazione descritta dal Libro della Genesi con i mezzi della Filosofia della Natura predisposti dagli autori classici [dai giganti]. Guglielmo di Conches si rifà, oltre che al Timeo di Platone, anche al De rerum natura [La natura] di Tito Lucrezio Caro contribuendo a mettere in circolazione sul territorio della Scolastica questo straordinario poema del I secolo a.C. in cui Lucrezio [un personaggio affascinante e misterioso che, come sappiamo, ha trascorso l’esistenza nell’isolamento degli studi: un vero gigante], mentre interpreta la Filosofia di Epicuro, esalta tre discipline fondamentali per la conoscenza del mondo: la Fisica, l’Antropologia e la Cosmologia, tre discipline che Guglielmo di Conches intende insegnare alla Scuola di Chartres. Lucrezio - con l’enorme potenza delle sue immagini poetiche [che abbiamo studiato a suo tempo] descrive la Natura che diventa protagonista di un grandioso dramma [e Guglielmo di Conches sale sulle spalle di questo gigante che è Lucrezio per guardare oltre] - vuole liberare l’essere umano dalla paura della morte, dalle superstizioni, dai pregiudizi, in modo che le persone possano vivere serenamente con il sostegno della Ragione e della Filosofia.

   Guglielmo di Conches in Philosophia mundi [Filosofia del mondo], senza negare naturalmente i rapporti del mondo sensibile [della Natura] con gli archetipi eterni che sono nella mente di Dio, colloca tra le cose e Dio un “ordine naturale” che è strumento autonomo dell’azione divina, dotato di proprie Leggi e di una propria efficacia specifica. Naturalmente l’ambiente cistercense, agli ordini di Bernardo di Clairveaux che non tollera il pensiero di Lucrezio perché lo considera un diabolico materialista, interviene a contrastare la riflessione di Guglielmo di Conches e lui in risposta scrive: «Io non tolgo niente a Dio, ma una volta che Egli ha voluto creare un mondo proprio come questo, è del tutto legittimo che noi tentiamo di comprendere le regole con cui Lui ha proceduto; se Dio volesse, afferma Guglielmo di Conches, potrebbe di un tronco d’albero fare un vitello: ma l’ha mai fatto? No, non l’ha mai fatto così come non può disapprovare che noi, con l’uso della Ragione, riflettiamo sul procedere della sua attività creatrice».

   Con la Scuola di Chartres avviene una svolta nel mondo della Scolastica, ed è un cambiamento di direzione in senso laico che si riassume in due interrogativi: il mondo - si domandano i maestri della Scuola di Chartres [Bernardo, Gilberto, Teodorico, Guglielmo] - è solo una trama di simboli da decifrare rapportandoli alla realtà soprannaturale oppure è un insieme di fenomeni dotati di significato proprio e governati da Leggi che nel loro insieme formano l’ordine di Natura?  E l’essere umano, si domandano i maestri della Scuola di Chartres, ha come suo vero unico fine la contemplazione delle Idee eterne, fuori della storia, o ha anche, come suo fine immediato, la conoscenza della Natura e la realizzazione del Bene comune della società temporale?  Il tema teologico de “la creazione del mondo” diventa - mediante la speculazione dei maestri della Scuola di Chartres - soprattutto una questione umanistica: sotto le formulazioni dottrinali inconciliabili [si domandano i maestri della Scuola di Chartres], in realtà, qual è la posizione dell’essere umano nel mondo? L’essere umano nel mondo: è solo soggetto alla volontà di Dio, è partecipe della creazione in collaborazione con Dio, agisce nel mondo in modo autonomo rispetto a Dio?

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quando vi domandate: «Ma che cosa ci sto a fare io al mondo?»... Ebbene, quale risposta vi date?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   E ora, per concludere, sul testo de La Madonna dei Filosofi andiamo ad incontrare l’ingegner Baronfo che tanto assomiglia all’ingegner Gadda solo per dipanare un intreccio filologico.

 

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda,  La Madonna dei Filosofi

Il tono acido dell’ingegner Baronfo gli aveva procurato una legnata in testa da un robusto diciannovenne; un processo in pretura, che lo perdé; e infine una ricetta del prof. Settanta, docente clinica delle malattie mentali e nervose presso la Regia Università di Roma.

La stangata la prese perché a quel giovane, che lo aveva urtato malamente sul già marciapiede nella terremotata via della Scrofa, apostrofatolo con certo suo tono di signorile dispregio, aveva conchiuso col dargli del «calabrese»; mentre dobbiamo ricordarci che siamo tutti e soltanto italiani; il processo in pretura lo perdé sia perché aveva torto, sia perché il pretore, avvegnaché si spacciasse per romano, in cuor suo sapeva benissimo di esser nato a Paola, la ridente cittadina tirrenica che diede i natali al secondo Francesco [San Francesco di Paola].

... continua la lettura ...

 

   Gadda, a questo punto, avrebbe potuto anche apostrofare gli “spaccamonti falliti proprietari di fanfaronesche automobili” con il sarcastico ossimoro “nani-giganti” ma lo ha già utilizzato e non ama ripetersi.

   Sul territorio della Scolastica si vanno delineando due linee di tendenza che disegnano due vie diverse.

   C’è la “via mistico-devozionale” che privilegia la Fede e considera diaboliche le Opere di Aristotele ed è una via battuta soprattutto dai cistercensi, i quali si sentono “nani” e vorrebbero arrampicarsi sulle spalle di quel gigante onnipotente che è Dio. Poi c’è la via “scientifico-naturalistica” che dà spazio alla Ragione e considera provvidenziali le Opere di Aristotele e questa via è stata tracciata dai maestri della Scuola di Chartres, i quali si sentono “nani” e, per avvicinarsi alla Verità, ritengono utile arrampicarsi sulle spalle di quei giganti che sono i classici latini e greci.

   Ebbene, quattro maestri della Scuola di Chartres li abbiamo incontrati e la prossima settimana ne incontreremo un quinto che si chiama Giovanni ed è nato in Inghilterra. E poi prenderemo atto che anche nel mondo della Scolastica arabo-islamica emergono e si sviluppano due simili linee di tendenza: il mondo della Scolastica arabo-islamica era dominato dal sistema di Avicenna [un personaggio che abbiamo incontrato nella seconda metà di gennaio e del quale abbiamo studiato le opere e il pensiero] ma questo sistema è destinato dopo un secolo ad essere messo in discussione tanto dal lato religioso quanto da quello storico-filosofico.

   Ebbene, la polemica nei confronti del sistema di Avicenna viene condotta sul piano dell’ortodossia religiosa da un certo al-Ghazali [o Algazel, come si diceva nell’occidente latino]: chi è questo intellettuale che insegna a Bagdad e poi diventa pellegrino in territorio arabo-sirano?

   Per rispondere e per coltivare lo spirito utopico che lo studio porta con sé bisogna camminare sulla via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale [da Chartres a Bagdad fino a sbarcare a Cadice], consapevoli del fatto che non si deve mai perdere la volontà d’imparare. Perché dobbiamo sbarcare a Cadice?

   Per rispondere a questa domanda bisogna imbastire un ragionamento progressivo: ora è tardi ma il viaggio continua, e la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 10, 2015