ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica dal secolo della Scienza a quello dei Lumi 25-26-27 marzo 2020
SULLA VIA CHE PORTA DAL SECOLO DELLA SCIENZA A QUELLO DEI LUMI
IL GENERE LETTERARIO DELLA FIABA SOLLECITA RISO AMARO ...
Un cordiale saluto a tutte e a tutti voi che mi state ascoltando, alle quali e ai quali non posso dire: ben venute e ben venuti a Scuola visto che, nel rispetto delle norme dettate dal Decreto ministeriale del 10 marzo sto registrando, rigorosamente a porte chiuse questa Lezione in modo da dare continuità al nostro Percorso didattico che non si può fermare perché: lo studio è cura.
Questo è il sedicesimo itinerario del nostro viaggio sulla via che porta dal secolo della Scienza [il ‘600] a quello dei Lumi [il ‘700].
In queste settimane abbiamo incontrato e fatto conoscenza con il teatro di Molière, con le favole di La Fontaine e con il dramma in versi di Racine. Nelle opere, di genere diverso, composte da questi tre personaggi esemplari emerge un tema comune: “il tema della condizione umana” [sulla possibilità che la persona ha di riflettere sulla condizione umana], un argomento che viene affrontato con l’umorismo della commedia, con l’ironico sarcasmo della favola, con il forte pathos del dramma in versi, facendo risaltare la natura paradossale della condizione umana, perché la natura contraddittoria] della condizione umana si manifesta con uno scontro incessante, una continua lotta tra la crudeltà [perché l’uomo dimostra di essere la bestia più spietata che ci sia] e la misericordia [in quanto la persona sa anche essere generosa fino a offrire la propria vita].
Questo contrasto, esistente nel profondo dell’animo umano, si manifesta anche nel genere letterario della fiaba, da non confondersi con quello della favola. Il paesaggio intellettuale che contiene il genere letterario della fiaba è di vaste dimensioni e non possiamo certo scandagliarlo tutto, ma noi ora prendiamo il passo per osservarlo nei punti che risultano di maggior importanza sulla strada che stiamo percorrendo, la via che porta dal secolo della Scienza a quello dei Lumi.
Il Seicento è anche un secolo importante per il genere letterario della fiaba e come sappiamo è stato Charles Perrault [1628-1703] a comporre, riscrivendole, le fiabe in forma moderna, e facendole pubblicare nel 1697 nel famoso libro intitolato I racconti di mia madre l’Oca [Pollicino, La bella addormentata nel bosco, Cappuccetto Rosso, Barbablù, Il gatto con gli stivali, Cenerentola, Enrichetto dal ciuffo, Le fate, La pazienza di Griselda, I desideri inutili, Pelle d’Asino], un volume, tradotto per la prima volta in italiano nel 1876, per l’editore Paggi di Firenze, da Carlo Collodi col titolo di I racconti delle fate, alla fonte del quale, tutte e tutti noi, abbiamo direttamente e indirettamente attinto. Perrault [è stato bravo], con la sua scrittura, ha saputo dare al testo fiabesco una forma particolarmente evoluta che rispecchia i tempi moderni arricchendo il canovaccio antico con nuove intuizioni narrative, ma, nel fare questa operazione, ha smantellato quasi del tutto la struttura più tradizionalmente popolare di queste narrazioni: Perrault [dovremmo dire] ha rimodernate troppo le fiabe e, soprattutto, le ha dotate di un testo con caratteristiche più aristocratiche e borghesi che popolari, e ne ha moralizzato eccessivamente i racconti eliminando molti elementi irrazionali e tutte le parti oscene, sebbene molto gustose, ma lui scrive pensando ai suoi figli bambini.
Il primo autore europeo che, nel ‘600, ha messo per iscritto le fiabe - e che, con la sua opera, ha influenzato anche Perrault e tutte e tutti coloro che successivamente si sono dedicate e dedicati a questo genere letterario - è un personaggio che mantiene intatto il carattere popolare della fiaba ed è originario di un’area geografica che ha come centro una grande capitale europea del ‘600: Napoli, una città di mare che raccoglie influssi orientaleggianti.
Ma prima di incontrare questo personaggio dobbiamo riflettere [anche se in proposito sappiamo già tutto] sulle caratteristiche del genere letterario della fiaba [il nome “flaba” deriva, come quello di “fabula”, dal verbo latino “fari” che significa “parlare, parlare affabulando”]. Le fiabe sono state tramandate oralmente di generazione in generazione fin dalla notte dei tempi come si suol dire in linguaggio fiabesco, e chi narra le fiabe, quasi sempre, le modifica mentre le racconta, o mescola gli episodi di una fiaba con quelli di un’altra dando origine, a volte, a una nuova fiaba seppur simile a tutte le altre. I racconti che chiamiamo “fiabe” hanno, quindi, un’origine popolare: descrivono la vita della povera gente, le sue credenze, le sue paure, il suo modo di immaginarsi i re e i potenti, e vengono raccontate da contadini, da pescatori, da pastori e da montanari attorno al focolare, nelle aie e a veglia nelle stalle. Le fiabe, in origine, non sono considerate, come avviene dal ‘600 in avanti, dei racconti per bambini ma rappresentano una forma di comunicazione rivolta, in primo luogo, agli adulti perché questi racconti hanno una grande importanza sul piano delle relazioni umane in quanto sono uno strumento di aggregazione [introdotte da un invito accattivante proveniente da chi nel gruppo ha il ruolo di trasmettere un sapere: «Venite qui che vi racconto una fiaba!»]. Le fiabe raccontano alcuni aspetti del reale mediante una narrazione semplice, ben articolata nella sua disarticolazione [si passa spesso da una scena all’altra del racconto senza giustificarne il passaggio e senza perdere il filo del discorso], e terminano sempre con un infallibile lieto fine: il Pollicino abbandonato nella foresta, la Cenerentola segregata dalla matrigna e schiavizzata, la Biancaneve che scappa e si rifugia nel bosco, non fanno una brutta fine ma si riscattano.
Tutte le fiabe del mondo - come ci ha insegnato il filologo russo Vladimir Propp che ne ha studiato la struttura [in biblioteca di Vladimir Propp trovate il saggio intitolato Morfologia della fiaba - Le radici storiche dei racconti di magia] - hanno caratteristiche analoghe, e una prima caratteristica è “l’indeterminatezza” perché i personaggi, l’epoca e i luoghi sono quasi sempre indefiniti e remoti, non sono quasi mai nominati e mai neppure vengono descritti: si dice «C’era una volta …», «In un paese lontano ...», «Nella notte dei tempi ...» ma non si dice né dove né quando.
Una seconda caratteristica è “l’inverosimiglianza” perché i fatti narrati nella fiaba sono spesso impossibili e i personaggi sono inverosimili o inesistenti nella realtà quotidiana, perché nel racconto fiabesco molte cose possono accadere solo per magia, e molti personaggi esistono solo nella fantasia popolare o mitica.
Una terza caratteristica è “il rigido dualismo morale” [manicheo] perché nella fiaba viene sempre rappresentato un mondo nettamente distinto in due: i personaggi sono o buoni o cattivi, o furbi o stupidi, e non esistono vie di mezzo, e la ragione sta sempre da una sola parte.
Una quarta caratteristica è “la ripetizione” [o la reiterazione] perché nella fiaba i motivi sono sempre ricorrenti e gli elementi e gli episodi sono spesso presenti anche in altre fiabe, ed esiste pure una ricorrenza narrativa di frasi e di formule magiche.
Una quinta caratteristica è “l’apoteosi finale” perché nella fiaba c’è sempre un lieto fine: le persone buone, determinate e sagge vengono premiate, le ragazze povere diventano principesse, i giovani umili ma coraggiosi salgono sul trono, la virtù viene premiata, e la bontà vince.
Una sesta caratteristica è “lo scopo didattico”: nella fiaba c’è sempre una morale, anche se non espressa chiaramente come nella favola, ed è una morale che insegna a rispettare gli anziani e la famiglia, a onorare le istituzioni [ma le persone che le incarnano sono degne di rispetto solo se buone], a essere generosi con i poveri e con gli umili, e coraggiosi con i prepotenti [fino a sfidare le autorità] per migliorare il proprio destino.
Una settima caratteristica è data da “l’elemento allegorico”: la narrazione fiabesca corrisponde a una metafora perché i personaggi fiabeschi sono quasi sempre delle personificazioni di concetti astratti: la paura, il bisogno, il male, il dolore e così via, concetti che rappresentano i vari aspetti della condizione umana con la sua natura paradossale che come abbiamo detto si manifesta con una continua lotta tra la crudeltà [perché l’uomo dimostra di essere la bestia più spietata che ci sia] e la misericordia [in quanto la persona sa anche essere generosa fino a offrire la propria vita].
Il linguaggio della fiaba è quello dei narratori popolari [i cantastorie] ed è, in genere, un linguaggio molto semplice e, a volte, un po’ sgrammaticato ma molto ricco di modi di dire pittoreschi e di formule proverbiali. Nel linguaggio fiabesco viene solitamente utilizzato il discorso diretto perché le battute del dialogo permettono al narratore di cambiare il tono di voce e di tener viva l’attenzione di chi ascolta. Sono frequenti e quasi obbligatorie le ripetizioni [«Cammina cammina...», «Cerca cerca...», «Tanto tanto tempo fa...»] e le triplicazioni, perché raccontare tre volte lo stesso fatto ha lo scopo di allungare la storia, di renderla più comprensibile e di prolungare la sensazione di mistero. Le formule d’inizio e di chiusura della fiaba sono sempre le stesse [«C’era una volta...», «In un paese lontano...», «...così vissero felici e contenti.»] e nel linguaggio fiabesco sono numerose le formule magiche e le filastrocche.
Il genere della fiaba è stato utilizzato dalle Scuole di scrittura delle origini per comporre molti dei grandi apparati letterari dell’Età assiale della Storia [dai Libri mesopotamici dell’epopea di Gilgamesh e dell’Enuma Elish, ai Papiri egizi, da molti Libri biblici, ai Libri indiani dei Veda, dagli Avesta di Zaratustra, al Tao te Ching cinese fino ai poemi teogoniaci e orfico-dionisiaci del greco Esiodo]. In età contemporanea il genere della fiaba ha influenzato il linguaggio della pubblicità perché la ripetizione e la ridondanza permettono una maggiore penetrazione dei contenuti e la loro memorizzazione; inoltre, le caratteristiche narrative della fiaba hanno sempre influenzato il genere letterario del romanzo [il romanzo scritto utilizzando il genere letterario della fiaba più tradotto al mondo è Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, un libro che va periodicamente riletto].
Nella narrazione fiabesca il tempo ha delle particolari caratteristiche proprie che presentano delle analogie con il sogno: il tempo della fiaba è astorico, cioè non si può posizionare in un periodo storico preciso, e il suo fluire è solitamente irregolare, non assimilabile al tempo scandito dall’orologio e, a volte, sono presenti dei flashback dove si parla di “cose o persone perdute” o, comunque, di avvenimenti spiacevoli avvenuti nel passato. Inoltre è tipico che le fiabe vengano ambientate nel Medioevo, un’epoca storica nella quale predomina la monarchia in modo da poter porre in risalto personaggi di stirpe reale [il principe, la principessa] da mettere a confronto con figure popolari. La struttura del racconto fiabesco poggia sulla base di antiche leggende [con draghi, animali parlanti, fate, streghe, maghi, gnomi, orchi, giganti] e questo elemento stimola la fantasia e la creatività tanto di chi racconta le fiabe quanto di chi le ascolta, provocando una temporanea fuga della persona dalla realtà.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete usufruito del racconto o della lettura di fiabe, da parte di chi?… E a chi avete raccontato o letto fiabe a vostra volta?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Avete inventato delle fiabe?… Se lo avete fatto trascrivetene il testo per la Biblioteca itinerante …
Il primo autore europeo che, nel ‘600, ha messo per iscritto le fiabe - influenzando anche Perrault e tutte e tutti coloro che successivamente si sono dedicate e dedicati a questo genere letterario - è un personaggio che mantiene intatto il carattere popolare del racconto fiabesco ed è originario di un’area geografica che ha come centro una grande capitale europea del ‘600: Napoli, una città di mare che raccoglie influssi culturali internazionali, non solo francesi e spagnoli [dal 1503 al 1707 c’è un viceré spagnolo a Napoli], ma risente, soprattutto, di influenze orientaleggianti del mondo arabo. Il personaggio che stiamo per incontrare si chiama Giambattista Basile.
Lo scrittore che per primo ha utilizzato la forma popolare della fiaba facendola diventare un particolare modello narrativo è Giambattista Basile, conosciuto anche con lo pseudonimo anagrammatico di Gian Alesio Abbattutis. Giambattista Basile è nato a Giugliano in Campania il 15 febbraio 1566.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida della Campania e navigando in rete accedete al popoloso comune di Giugliano [in provincia di Napoli] che ha due denominazioni particolari: “la città della mela annurca” [prodotto tipico dell’agro giuglianese] e “la città della fiaba” per aver dato i natali a Giambattista Basile il quale [in seguito alla sua morte avvenuta il 23 febbraio 1632] è sepolto nella chiesa di Santa Sofia in questa città alla quale si consiglia di far visita…
Dell'infanzia di Giambattista Basile si sa solamente che è stato battezzato a Giugliano in Campania nella parrocchia di San Nicola dove, nel registro del 1566, è riportata la sua data di nascita; poi dei suoi primi anni di vita non si hanno notizie: si presume che in famiglia [probabilmente benestante] abbia avuto una buona educazione classica fin da bambino e dobbiamo ritenere che i suoi genitori, dei quali non abbiamo notizie, abbiano curato l’educazione dei loro tre figli, Giambattista, Lelio e Adriana, i quali hanno, tutti e tre, lasciato traccia nella Storia della Letteratura e della Musica in età barocca.
Si sa che, raggiunta la giovinezza, Giambattista Basile si è spostato dal suo paese natale e ha viaggiato per l’Italia finché si è arruolato come soldato mercenario al servizio della Repubblica di Venezia, spostandosi tra Venezia e Candia, l’isola attualmente conosciuta col nome di Creta e che allora era occupata dai Veneziani. Nella colonia veneta di Candia - a contatto con un bacino culturale internazionale dato che quest’isola è un punto strategico per le relazioni tra il mondo europeo e il mondo arabo - Giambattista Basile viene a conoscenza di quella tradizione fiabesca raccolta [dopo essere stata tradotta in francese da Antoine Galland a cominciare dal 1704] nel volume intitolato Mille e una notte, e prende coscienza del fatto che anche nell’area geografica dove lui è nato e cresciuto esiste una lunga e consistente tradizione basata sul racconto orale [lo cunto] al quale bisognerebbe dare ordine. Giambattista Basile, nella comunità veneta di Candia, inizia a frequentare una molto attiva società letteraria, l’Accademia degli Stravaganti, fondata da Andrea Cornaro.
I primi documenti della produzione letteraria di Basile risalgono al 1604, anno in cui scrive alcune Lettere che fanno da prefazione a un poemetto eroicomico [pubblicato poi definitivamente nel 1612] in lingua napoletana scritto, con la collaborazione di Basile stesso, dal suo amico, poeta e letterato, Giulio Cesare Cortese intitolato Vaiasseide: il termine “vaiassa” in lingua napoletana indica “la serva di casa” e, quindi, il significato del titolo è “l’epopea delle serve”; questo poemetto narra le avventure amorose di tre giovani servette, ma in quest’opera, più che la trama in sé, è interessante la descrizione realistica della società napoletana, vivace e chiassosa, del ‘600.
Nel 1605 viene musicata la prima “villanella” [una composizione che anticipa il genere della canzone e del madrigale] di Giambattista Basile intitolata Smorza crudel amore e colui che la mette in musica è suo fratello, il compositore e poeta Lelio Basile. Nel 1608 Giambattista Basile rientra a Napoli e pubblica un poemetto di carattere religioso [siamo in piena Controriforma ed è bene non inimicarsi l’Inquisizione] intitolato Il pianto della Vergine. Nel 1611 Basile prende servizio alla corte di Luigi Carafa, principe di Stigliano, al quale dedica un testo teatrale intitolato Le avventurose disavventure e, dopo, segue la sorella Adriana alla corte di Vincenzo Gonzaga a Mantova.
Adriana Basile [1580-1642] è diventata una celebre cantante e compositrice del primo Seicento rinomata anche per “la sua eccezionale bellezza” oltre che per la sua bravura [le cronache del tempo ne parlano in questi termini] e molti letterati e poeti, tra i quali Francesco Redi e Giovan Battista Marino, oltre a molti nobili e governanti le hanno reso omaggio facendole dei regali importanti [a Firenze il granduca Cosimo II de’ Medici è un grande estimatore di Adriana Basile e la gratifica con un dono molto prezioso].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando l’enciclopedia e navigando in rete andate a conoscere meglio la celebre cantante e compositrice Adriana Basile: incuriositevi…
Alla corte di Vincenzo Gonzaga a Mantova [città che merita di essere visitata], Giambattista Basile entra a far parte dell’Accademia degli Oziosi e si dedica a curare e a divulgare le opere in versi di coloro che partecipano alle attività intellettuali di questa associazione di studiosi, e poi fa stampare i propri madrigali, le sue odi, le sue egloghe amorose e funebri, e un dramma in cinque atti intitolato La Venere addolorata. Quando Basile torna a Napoli, con le molte referenze acquisite viene nominato governatore di alcuni feudi per conto di tre signori meridionali: il feudo di Avellino, quello di Montemarano e di Lagolibero.
Nel 1618 compone Aretusa, un idillio [un componimento poetico di brevi dimensioni ricalcando lo stile di Petrarca] dedicato al principe Caracciolo di Avellino e l’anno seguente compone un testo teatrale in cinque atti intitolato Il guerriero amante. Se avesse prodotto esclusivamente queste composizioni Giambattista Basile sarebbe stato considerato un rispettabile intellettuale barocco di seconda fascia ma ha potuto fare un salto di qualità quando è diventato l’ideatore di un particolare modello narrativo: il racconto fiabesco, e questo è avvenuto con la produzione di un’opera pregevole intitolata Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de peccerille [Il racconto dei racconti, ovvero il passatempo per i più piccoli] redatta in lingua napoletana e pubblicata postuma a Napoli, tra il 1634 e il 1636, su iniziativa della sorella dell’autore, la celebre cantante Adriana Basile.
Quest’opera è diventata un modello perché è costruita con una raffinata architettura e contiene tutta una serie di personaggi e di intrecci narrativi [pensate per esempio a Cenerentola a La bella addormentata a Il gatto sapiente] che hanno avuto, in seguito, un larga diffusione nella moderna cultura europea tanto da costituire, nelle varie elaborazioni successive un patrimonio per tutta la Letteratura mondiale.
Lo cunto de li cunti è un’opera realizzata tanto per il divertimento delle corti [a cominciare dalle piccole corti italiane, specialmente del sud] quanto per le piazze ad uso delle compagnie o dei singoli cantastorie. Basile, nella complessa struttura della sua opera, è riuscito a fondere insieme il linguaggio teatrale - supportato dalla straordinaria coloritura della lingua napoletana - con la tradizione del racconto declinato nei vari generi letterari che lo supportano [lo stile fiabesco mescola insieme il poema, la favola, il dramma, il romanzo] e allestisce il prototipo della Letteratura seriale che, da questo momento, diventa un modello: il modello della moderna opera a puntate.
Per riassumere, Lo cunto de li cunti è un capolavoro [un’opera di eccellenza che fa scuola] perché è il prodotto di un intreccio ben riuscito tra le regole della commedia dell’arte, del racconto rituale e del formulario magico. Nella seconda edizione, quella del 1674, l’opera di Basile viene pubblicata con il suo nome anagrammato, Gian Alesio Abbattutis, e con il titolo di Il pentamerone del cavalier Giovan Battista Basile, overo Lo cunto de li cunti trattenemiento de li peccerille. L’opera inizia con “una apertura” che contiene “la novella madre” [che fa da cornice] e ha per oggetto il concetto dell’importanza del raccontare per stimolare il riso, così com’ è l’introduzione ai racconti arabi di Mille e una notte; inoltre il termine “pentamerone” si traduce con “cinque giornate”, e per ogni giornata ci sono dieci fiabe [chiamate “passatempi”] da raccontare [da leggere e da ascoltare]; ma il testo della decima narrazione della quinta giornata [il cinquantesimo passatempo] è “la chiusura” dell’opera che contiene la continuazione e il finale del testo “di apertura” e questo testo corrisponde a Lo cunto de li cunti perché li riassume tutti e, quindi, quest’opera non è solo una raccolta di fiabe ma genera una nuova moderna forma di composizione narrativa.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Dopo aver richiesto in biblioteca il volume de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, il primo esercizio che una lettrice e un lettore deve fare è di carattere formale: è utile sfogliare il libro per osservarne la struttura così come è stata descritta, e poi è opportuno leggere, su “l’Indice generale” che si trova in fondo al volume, i titoli delle fiabe in esso contenute per constatare [facendo tesoro del concetto de “la dotta ignoranza”] quanti sono i racconti fiabeschi [i passatempi] ancora sconosciuti…
Noi ci dobbiamo considerare persone fortunate perché, volendo [e non avendo dimestichezza, la maggior parte di noi, con la lingua napoletana del ‘600 anche se non è detto che non si possa provare a leggerla questa lingua con la dovuta pazienza che sempre la lettura richiede], possiamo usufruire della traduzione di Lo cunto de li cunti in lingua italiana, con testo originale a fronte. Questo lavoro di traduzione è stato realizzato, dal 1983 al 1986, da un gruppo di studiose e di studiosi interessati a dare visibilità all’opera di Giambattista Basile, e costoro, per portare a buon fine questa iniziativa, hanno potuto utilizzare le fonti - necessarie per decodificare un linguaggio così particolare - conservate in due biblioteche storiche: la Biblioteca Apostolica Vaticana e la Biblioteca Nazionale di Napoli.
E adesso, per conoscere meglio la forma e il contenuto de Lo cunto de li cunti [uno dei prodotti artistici più interessanti della Letteratura del ‘600], agendo sulle azioni dell’apprendimento, riflettiamo su alcuni aspetti fondamentali riguardanti quest’opera cominciando dal testo de “la novella madre di apertura e di chiusura” che è “lo cunto [il racconto]” che fa da cornice a tutti gli altri racconti fiabeschi [lo cunto de li cunti]”.
Giambattista Basile trascorre un certo tempo della sua vita ospite, “a servizio intellettuale [si doveva guadagnare il vitto e l’alloggio]”, nelle corti dei nobili del Regno di Napoli, e i racconti [li cunti] del suo Pentamerone sono ambientati nei boschi, nei paesi e nei castelli della Basilicata, e in particolare nella città di Acerenza, che vanta anch’essa la denominazione di “città della fiaba” [de “Lo cunto de li cunti”].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida della Basilicata e navigando in rete andate a far visita ad Acerenza in provincia di Potenza [in greco Acheruntia è una “Fortezza poderosa”, citata da Tito Livio, da Orazio, da Procopio], una cittadina che conta circa 2300 abitanti, posta a 850 metri di altitudine sui fianchi di un ripido altopiano nelle vicinanze del fiume Bràdano [che dà vita al lago di Acerenza]…
In questa cittadina - che ha visto passare Romani, Longobardi, Bizantini, Franchi, Normanni - ci sono interessanti monumenti da osservare come la pregevole Cattedrale romanica con influenze gotiche [risalente all’XI secolo] di Santa Maria Assunta e San Canio Vescovo...
Visitando Acerenza si capisce che la disposizione di questo sito storico ha – a suo tempo - anche ispirato Giambattista Basile nel dare forma al racconto fiabesco, buon viaggio...
Lo cunto di Basile è un’opera che vuole sollecitare il riso e questo fatto dovrebbe metterci di buon umore se non fosse che nel racconto fiabesco il riso è amaro perché, come osserva Basile, appartiene soltanto ai potenti [figli o figlie di re, orchi, fate] i quali, per giunta, sono figure melanconiche di carattere [possiedono tutto ma sono infelici, allude Basile] e stentano a ridere [si pretende che ridano per forza], e il loro riso, ironia della sorte, può essere provocato solo dalla goffaggine e dalle disavventure delle persone impotenti, alle quali, non avendo proprio alcun motivo per ridere, non resta altro, come unica forma di protesta sociale, che “maledire” [lanciare una maledizione]; nel racconto fiabesco “la maledizione” [il rito della maledizione con tutta la sua valenza esecrabile] viene gettata dalle persone subalterne sui potenti e, in prima istanza, produce il suo effetto finché, per opera di qualche magico sortilegio che gioca a favore dei potenti, l’artificio perde la sua efficacia, e quando il sortilegio gioca a favore delle persone sfruttate ed angariate agisce sempre in modo che costoro siano gratificate passando dalla parte dei potenti abbandonando al loro destino i loro consimili di prima.
Basile, nel modo in cui conduce la sua narrazione, sembra voler rassicurare i nobili abitanti delle corti in cui svolge il suo servizio intellettuale, mettendo bene in evidenza nel suo racconto la scarsa efficacia della maledizione popolare e, quindi, i suoi potenti ascoltatori possono ridere allegramente pensando di non correre alcun pericolo: la loro risata scaturisce in virtù del linguaggio con cui l’autore conduce la narrazione del racconto, ma, nello stesso tempo, dall’opera di Basile emerge in modo esplicito una seppur inefficace denuncia sociale [il popolo maledice il riso dei potenti non avendo altro strumento per ribellarsi] e, come in certe favole di La Fontaine, nelle fiabe di Basile si manifesta “il malcontento popolare” e l’autore, senza esporsi, si presume condivida questo atteggiamento [siamo sulla via che conduce all’età dei Lumi].
La novella-madre [lo cunto de li cunti che fa da cornice all’opera] narra la storia di Zoza, una principessa reale di natura così melanconica che nulla riesce a farla ridere, ma un giorno, mentre è alla finestra, Zoza assiste a un violento diverbio tra una vecchia e un ragazzo [un paggio di corte dispettoso], e la vecchia compie un gesto così sconcio e così buffo che la principessa, per la prima volta in vita sua, scoppia in una gran risata. La principessa che, come Zoroastro ed Eraclito [Basile si esprime sempre con colte citazioni], non ha mai riso guarda dal balcone la fontana d’olio che il re, suo padre, ha fatto costruire perché, come d’uso nelle feste, lei possa finalmente ridere della calca plebea che passa [ungendosi, scivolando] davanti a questo oggetto subendone gli scherzi [ma si può tollerare questo spreco?]. La vecchia, appartenente alla massa degli indigenti, sta raccogliendo il prezioso olio con una spugna in un orciolo quando, per divertimento, il paggio malizioso, con una sassata rompe il recipiente, e la vecchia lo ricopre di insulti, e poi alza la sottana, secondo un antico gesto di scherno [non si portavano le mutande], mostrando la sua “scenografia boscareccia” e la principessa ride, e la vecchia le scaglia una maledizione: essa non avrà più pace finché non sposerà il principe di Camporotondo. Zoza allora si mette in viaggio, munita di tre oggetti incantati che le ha donato una fata, e trova il principe. Costui, per sortilegio, è in catalessi e sta in una tomba sulla quale è appesa un’anfora che, solo quando sarà riempita di lacrime, potrà svegliarlo e lui sposerà la fanciulla che riuscirà nell’impresa. Zoza comincia quest’opera ma, a mezzo, è vinta dal sonno, e allora una schiava malevola approfitta di ciò per riempire con le sue lacrime l’anfora e il principe si sveglia e la sposa. Zoza, disperata, ricorre allora a uno degli oggetti incantati che infonde nella moglie del principe il desiderio morboso di sentir raccontare novelle e, di conseguenza, il marito per soddisfarla invita delle raccontatrici che narrano dieci novelle al giorno, ma il quinto giorno, a una di esse, si sostituisce Zoza, che, narrando la propria storia, smaschera la ragazzaccia, che viene punita, e sposa il principe.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Leggete il testo di Apertura e quello di Chiusura [lo cunto de li cunti] dell’opera di Giambattista Basile nella traduzione italiana ma, con pazienza, potete leggerne anche qualche riga in lingua napoletana, una lingua di carattere comico fornita di forme inconsuete, stupefacenti, traboccanti di ornati e di acutezze: incuriositevi e arricchite il vostro glossario...
E adesso - per dare l’avvio a questo esercizio - leggiamo l’incipit de Lo cunto de li cunti nella traduzione italiana.
LEGERE MULTUM….
Giambattista Basile,
Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de peccerille
APERTURA
C’era un proverbio di quelli stagionati, di vecchio conio, che diceva: chi cerca quello che non deve trova quello che non vuole e inevitabilmente la scimmia che vuole infilarsi gli stivali rimane presa per il piede, come capitò a una stracciona di schiava che non aveva portato mai scarpe ai piedi e voleva portare una corona in testa. Ma, poiché la mola raschia via tutte le asperità e ne capita una che le fa pagare tutte, alla fine, per avere preso con l’inganno quello che toccava ad altri, finì in mezzo alla ruota dei calci e quanto più era salita in alto tanto maggiore fu la sua caduta, nel modo che segue. Raccontano che c’era una volta il re di Vallepelosa, che aveva una figlia chiamata Zoza, che, come un altro Zoroastro o un altro Eraclito, non rideva mai. Per questo il povero padre, che non aveva altro fiato se non quest’unica figlia, faceva di tutto per toglierle la malinconia, facendo venire a stuzzicarne l’appetito ora quelli che camminano sui trampoli, ora quelli che saltano nel cerchio, ora i giullari, ora Mastro Ruggiero, ora i giocolieri, ora le Forze d’Ercole, ora il cane che balla, ora Bracone che salta, ora l’asino che beve nel bicchiere, ora Lucia cagnaccia e ora questo e ora quello. Ma era tutto tempo perduto, perché neanche la medicina di mastro Grillo, neanche l’erba sardonica, neanche un colpo di spada nel diaframma le avrebbe fatto torcere un pochino la bocca. Al punto che il povero padre, per fare un’ultima prova, non sapendo che altro tentare ordinò che si costruisse una grande fontana d’olio davanti alla porta del palazzo, con l’idea che schizzasse durante il passaggio della gente, che andava facendo come le formiche il viavai per quella strada e che, per non ungersi i vestiti, avrebbe fatto saltelli da grillo, salti da capra e corse da lepre e, scivolando e urtandosi questo con quello, avrebbe potuto capitare qualcosa che sarebbe riuscita a farla ridere. Costruita allora questa fontana e mentre Zoza stava alla finestra tanto seria che sembrava un sottaceto, capitò per caso una vecchia, che inzuppando una spugna nell’olio ne riempiva un vasetto che aveva portato con sé e, mentre tutta affaccendata si dava da fare col suo lavoretto, un certo diavoletto paggio di corte lanciò un sasso con tanta precisione che, colpita l’oliera, la fece a pezzi. Per questo la vecchia, che non aveva peli sulla lingua e non permetteva a nessuno di montarle in groppa, si voltò verso il paggio e cominciò a dirgli: «Ah uomo di niente, bellone, merdoso, pisciasotto, taccone da cembalo, camicia sul culo, cappio d’impiccato, porco d’un mulo! guarda, ora anche le pulci hanno la tosse! vai, che ti venga una paralisi, che la mamma tua abbia la cattiva notizia, che tu non possa vedere il primo di maggio! vai, che ti colga un colpo di lancia catalana o che ti tocchi una strappata di fune, così il sangue non andrà perduto, che ti possano capitare mille malanni e qualcosa di più, a gonfie vele!, che si possa sprecare il tuo seme! ribaldo, guitto, figlio di una che fa quel bel mestiere, ladrone!». Il ragazzo, che aveva poca barba e ancora meno discrezione, sentendosi fare questa succosa sfuriata la pagò con la stessa moneta e le disse: «Non vuoi chiudere questa chiavica, nonna del diavolaccio, vomitabraccini, affogabambini, cacapezze, sceglipeti?». La vecchia, nel sentire queste novità di casa sua, si arrabbiò tanto che, perdendo la bussola della calma e scappando fuori dalla stalla della pazienza, alzato il sipario dell’apparato fece vedere la scena boscareccia, dove Silvio avrebbe potuto dire «Ite svegliando gli occhi col corno [Silvio è uno dei protagonisti del dramma-comico intitolato “Pastor fido”, opera del 1590 di Battista Guarini]». E quando Zoza vide questo spettacolo le venne tanto da ridere che stava per restarci secca. La vecchia, sentendosi beffata, diventò così rabbiosa che, voltata una faccia da far spavento verso Zoza, le disse: «Vai, che tu non possa mai vedere bocciolo di marito se non avrai il principe dì Camporotondo». Zoza sentì queste parole e fece chiamare la vecchia e volle sapere a tutti i costi se l’avesse soltanto insultata o le avesse lanciato una maledizione. E la vecchia rispose: «Allora sappi che questo principe, che ti ho nominato, è una splendida creatura chiamata Tadeo, che, per la maledizione di una fata, ha dato l’ultima pennellata al quadro della vita ed è stato deposto in un sepolcro fuori le mura della città, dove c’è un epitaffio inciso sulla pietra che dice che qualsiasi femmina riempia di pianto in tre giorni una brocca che è proprio là appesa ad un gancio lo farà risuscitare e lo avrà come marito. E poiché è impossibile che due occhi umani possano piscettare tanto da riempire una brocca così grande che contiene mezzo staio, a meno che non sia, come ho sentito dire, quell’Egeria che diventò a Roma una fontana di lacrime, io, sentendomi dileggiata e beffata da voi, vi ho lanciato questa maledizione e prego il cielo che ti prenda in pieno per vendicare l’ingiuria che mi è stata fatta». E così dicendo se la squagliò giù per le scale temendo qualche sbattuta. Ma Zoza in quello stesso momento cominciò a ruminare e rimasticare le parole della vecchia e un diavolicchio le entrò nella testolina e, dopo aver girato un bindolo di pensieri e un mulino di dubbi intorno a questa faccenda, alla fine, trascinata dall’argano di quella passione che acceca il giudizio e incanta il ragionamento, preso un pugno di scudi dagli scrigni del padre filò fuori dal palazzo e tanto camminò che giunse al castello di una fata. …
Continuate per conto vostro a leggere “l’Apertura e la Chiusura” che corrisponde a Lo cunto de li cunti, e poi, volendo potete passare a leggere i testi delle fiabe.
Nel Cunto non è la narrazione che fa ridere [i fatti narrati sono sempre piuttosto tragici] ma è la lingua che ha, e per Basile deve avere, un carattere comico e, difatti, s’ingegna ad arte per inventare e per costruire forme inconsuete, stupefacenti, traboccanti di ornati e di acutezze: forme che hanno fatto scuola. Il Libro di Basile ha avuto successo e ha esercitato, in tutta Europa, una notevole influenza sulla Letteratura moderna e contemporanea venuta dopo. La fortuna letteraria di certi personaggi la si deve proprio a Giambattista Basile, pensate, per esempio, a Cenerentola sulla quale stiamo per puntare l’attenzione come esempio: sono innumerevoli le versioni rielaborate [nei generi artistici più disparati] che sono state realizzate sulla scia della prima trascrizione di questa fiaba attuata da Basile e che era precedentemente legata, in area campana, al fragile filo dell’oralità. Tutte e tutti noi conosciamo Cenerentola ma siamo proprio sicure e sicuri di sapere tutto di questo personaggio che Basile chiama Zezzolla, la gatta Cenerentola?
La sesta fiaba [della giornata prima] del Pentamerone di Giambattista Basile s’intitola La gatta Cenerentola ed è la prima versione scritta che vede come protagonista questo personaggio, e da qui ha attinto per primo Perrault e poi tutti i favolisti successivi. Il tessuto narrativo del racconto fiabesco di Cenerentola deriva dalla cultura orale campana e contiene numerose varianti rispetto alla narrazione edulcorata che tutte e tutti conosciamo. Nella versione di Basile, per esempio, troviamo un episodio drammatico, sconosciuto alla oleografia favolistica successiva: Cenerentola [Zezzolla] ammazza la matrigna schiacciandole la testa sotto il pesante coperchio di un cassone da corredo, un evento drammatico che, in virtù della lingua con cui viene raccontato da Basile, assume un tono comico.
Ci sono alcune interessanti considerazioni da fare inerenti al tema di Cenerentola, e la prima è di carattere mitico-religioso perché a Napoli questa fiaba risulta associata al culto della Madonna di Piedigrotta: infatti, secondo una tradizione [che era quella dei pescatori di Mergellina], la Madonna avrebbe smarrito una pianella [una scarpetta] sulla spiaggia, che, ritrovata da un pescatore, avrebbe condotto alla scoperta di una statua della Vergine nella grotta di Posillipo. Da questo leggendario ritrovamento deriva il culto mariano locale e il significato apotropaico [che fa guarire] attribuito dalle donne del popolo a un oggetto avente la forma di una scarpetta [‘o scarpunciello d’‘a Madonna, conservato da Carmela Castaldo Minieri, morta nel 1974] e si capisce che la fiaba di Cenerentola è in relazione con la simbologia mitico-religiosa. Il racconto, nella molteplicità delle sue varianti, presenta infatti collegamenti col mondo dei morti [la cenere, la scopa, il focolare, l’atto del vestirsi con i fiori] e, inoltre, il racconto [che viene dalla notte dei tempi] è in relazione con l’atto della fecondazione e del parto [la perdita della scarpa corrisponde alla perdita della verginità, e amore e morte sono due temi sempre strettamente legati], e la figura della Cenerentola appare poi chiaramente associata a una frustrazione femminile che, nel racconto, corrisponde al desiderio negato di indossare l’abito bello per poter partecipare alla festa che presuppone un incontro erotico [a cui fa seguito la fuga e la perdita della scarpa], e il motivo dello smarrimento della scarpetta rimanda anche all’andamento delle tarantelle popolari [al rito della taranta], in cui le donne abbandonano le scarpe per danzare a piedi nudi, come gesto di disponibilità.
Perché a Cenerentola viene associato l’attributo di “gatta”? Prima di tutto perché la fiaba deriva da una delle storie animalesche di trasformazione e, a questo proposito, dobbiamo ricordare una favola di Esopo in cui una gatta, innamorata di un giovane di straordinaria bellezza, chiede e ottiene da Afrodite di essere trasformata in una donna e questa favola è stata riscritta da La Fontaine con il titolo di La gatta trasformata in donna, che voi potete andare a leggere. C’è anche una variante della fiaba in cui Cenerentola è una gallina, figlia magica di una lavandaia, che per tre notti si spoglia delle sue penne e si trasforma in una bellissima ragazza, e può recarsi alla festa, e danzare col Principe, ma durante la terza notte si attarda troppo e, quando tenta la fuga la sua metamorfosi diventa definitiva perché il Principe brucia le penne da lei nascoste e così la gallina Cenerentola diventa donna per sempre. L’ultima considerazione riguarda un testo biblico di soli quattro capitoli: il Libro di Rut perché la protagonista di quest’opera è considerata [nel gran numero di varianti di questo personaggio] la Cenerentola dell’Età assiale della Storia. Rut è una giovane donna di modesta origine che trova un marito ricco e potente [il facoltoso Booz, il principe azzurro]. Rut è povera, vedova, straniera e senza figli, cioè nella peggiore condizione per una donna del mondo antico, tuttavia, per la sua generosità e per la sua nobiltà di cuore acquisisce i titoli che le consentono di salire nella scala sociale e che le permettono di ottenere, anche se straniera, l’equivalente del diritto di cittadinanza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Si consiglia la lettura e la rilettura del brevissimo Libro di Rut che , nella sua apparente semplicità, rivela una grande ricchezza di significati…
Inoltre potete leggere il testo della fiaba La gatta Cenerentola da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile nella traduzione italiana e, con pazienza, potete anche leggerne qualche riga in lingua napoletana, e poi potete richiedere in biblioteca il Libro con allegato DVD contenente il testo e la registrazione della rappresentazione dell’opera teatrale in tre atti [un insieme di melodramma, di commedia, di teatro classico, di musica colta e musica di tradizione popolare: villanelle, moresche, tammurriate] intitolata La gatta Cenerentola, tratta [con delle varianti] da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile e composta nel 1976 dal musicista e regista napoletano Roberto De Simone... Quest’opera, al Festival dei due Mondi di Spoleto del 1976, messa in scena da La Nuova Compagnia di Canto Popolare, ha ottenuto un grande successo mondiale mostrando tutta la vivacità della Napoli barocca del ‘600: incuriositevi...
E ora per concludere è interessante leggere il testo della versione della fiaba raccolta da Roberto De Simone nel contado di Briario [in provincia di Caserta] da cui Basile ha preso spunto: è la trasposizione della versione orale più antica de La gatta Cenerentola, molto diversa dalle trascrizioni successive.
LEGERE MULTUM….
Roberto De Simone,
Fiabe campane di tradizione orale
La gatta Cenerentola
C’era un mercante, padre di sette figlie, sei belle e una brutta a detta di tutti, avuta dalla prima moglie, ma poi, rimasto vedovo, si era risposato con una donna che aveva sei figlie. Celebrate le nuove nozze il mercante partì per un viaggio d’affari, delle figlie, chi gli chiese un giubbetto, chi una camicia ricamata e chi un abito da festa. Alla sua vera figlia, quella chiamata gatta Cenerentola perché se ne stava sempre rincantucciata presso il focolare, il padre disse: «Cenerentola brutta, tu non mi chiedi nulla?». Lei rispose: «Io penso che se vi chiedessi qualcosa, non me la portereste». … «Perché no? Chiedi pure, che ti accontenterò». … «E allora io vorrei una pianta di dattero. Ma se voi durante il viaggio ve ne dimenticherete, quando sarete al ponte della Maddalena, non potrete andare né avanti e né indietro!». E il padre: «Ma guarda questa gatta Cenerentola brutta! Io voglio portarle un regalo e lei mi ricambia con una maledizione!». Ma poi veramente si dimenticò della figlia: alle altre portò ciò che avevano chiesto mentre alla Cenerentola, nulla. Per questo, giunto che fu al ponte della Maddalena non riuscì ad andare né avanti né indietro. Sul ponte egli spronava i cavalli: «Ha! Ha! Ha!». Ma i cavalli erano come impietriti. E che sarà? Poi gli sovvenne che la Cenerentola gli aveva chiesto una pianta di dattero e proruppe: «Accidenti a lei! Che possa essere impiccata quella gatta Cenerentola! La sua maledizione è andata a segno!». Allora si mise in giro fin quando non trovò una pianta di dattero ch’era fatata. E la portò alla figlia che, appena la ebbe, corse in campagna e la piantò nel suo orticello. La fanciulla l’innaffiava con cura, sera e mattina, e la pianta veniva su bella e rigogliosa. Poi il padre partì di nuovo per i suoi negozi. Quando venne la domenica, le sorelle e la matrigna che stavano per recarsi in chiesa, dissero: «Cenerentola, vuoi venire a Messa?». … «E che ci vengo a fare?». Ma appena quelle furono uscite la ragazza si alzò dal focolare e corse in campagna presso la pianta di dattero.
- Dattero mio fatato. Sera e mattina ti ho innaffiato.
Spoglia te. Vesti me. Fammi più bella della figlia del Re.
In un batter d’occhio fu vestita con un abito che non se n’era mai visto uno più bello. E si recò a Messa e andò a sedersi proprio davanti alle sorelle. Queste la guardavano a bocca aperta. «Ma che splendida figliola è venuta tra noi!» mormoravano stupite. E tutti lì a far tanto d’occhi. Però la Cenerentola, prima che la Messa terminasse, si alzò e via. Si spogliò davanti al dattero e tornò presso il focolare. Le sorelle, quando rincasarono, le dissero: «Uh Cenerentola brutta! Se fossi venuta in chiesa! Avresti visto una signorina di gran classe che si e seduta fra noi!». … «Bene! A voi è toccato ammirarla? L’importante non sia toccato a me». La domenica successiva le sorelle, messe tutte in ghingheri, le ripetettero: «Cenerentola, vuoi venire a Messa?» … «No, io non ne ho voglia». Ma quando le ragazze e la matrigna si furono allontanate, la Cenerentola corse di nuovo in campagna.
- Dattero mio fatato. Sera e mattina ti ho innaffiato.
Spoglia te. Vesti me. Fammi più bella della figlia del Re.
Il dattero la vestì di un abito di gran gala. E poi una carrozza di lusso! E come le sette bellezze si recò in chiesa, e tutto si svolse come la prima volta. La terza domenica, non appena le sorelle si avviarono per andare a Messa, lei di nuovo corse in campagna. E indossò un vestito splendente, con il sole davanti e con la luna di dietro. Ed ebbe una carrozza sontuosa! Ma questa volta, seduta tra le sorelle, si attardò. E si alzò di botto, si mise a correre e, nell’affrettarsi, le cadde una scarpina d’oro dal piede, e fu ritrovata dal figlio del Re che subito disse: «La donna che ha perso questa scarpina d’oro sarà mia sposa!». Ma la scarpina non entrava al piede di nessuna fanciulla della città, e allora il Principe si rivolse alla gente di campagna: «Ditemi, da queste parti ci sono ragazze nubili?». Gli risposero: «Altezza, c’è un padre che ha sette figlie». Ma quando il Principe giunse, la madre ne dichiarò sei perché la Cenerentola stava sempre nel focolare. Si fece la prova della scarpa e questa non entrò al piede di nessuna sorella. Il Principe disse: «Mi hanno detto che qui ce ne sono sette». E la madre: «Vedete, c’è una Cenerentola così brutta che ci si vergogna a mostrarla». … «Ebbene, voglio vederla» comandò il figlio del Re. E così la gatta Cenerentola venne fuori e il suo piede calzò a meraviglia nella scarpina. Ed il Principe dichiarò: «Questa ragazza deve essere mia sposa!». Allora la matrigna, mentre il figlio del Re andava a prendere la carrozza, tolse lo scarpino dal piede di Cenerentola e lo mise al piede della sua prima figlia che era la più bella. Per farglielo calzare, che le andava troppo stretto, le tagliò tre dita del piede. … «Perbacco!» esclamò il Principe quando tornò «Cenerentola, ti ho lasciata così brutta e ti ritrovo cosi bella! È venuto il sole e ti ha cambiato di colore? È venuto il vento e ti ha cambiato il parlamento?». E la fece salire in carrozza e se la portò via. Intanto la matrigna chiuse la Cenerentola in una botte pensando di gettarle l’acqua bollente addosso. Nello stesso tempo, mentre il Principe stava in carrozza con la sposa, una colomba, volando avanti alla vettura, prese a dire:
- E pupulla pececotta. Pececotta bruciacchiata. La tua bella sta annodata. Sotto la botte rinserrata.
Il cocchiere che conduceva la carrozza si rivolse al figlio del Re: «Altezza Reale, che diamine va dicendo questa colomba?». Il Principe comprese, fece fermare la carrozza, tornò indietro, andò dov’era la botte, si prese la brutta e vi pose la bella. Di lì a poco, ecco tornare la matrigna con un paiolo d’acqua bollente che voleva versare addosso alla Cenerentola. Ma l’altra la supplicava dalla botte: «O mamma, cosa fai? Io ti sono figlia carnale!». … «Schiatta e crepa! Mia figlia sta col Re!». Intanto la brutta, la Cenerentola, era corsa ancora una volta in campagna.
- Dattero mio fatato. Sera e mattina ti ho innaffiato.
Spoglia te. Vesti me. Fammi più bella della figlia del Re.
Sradicò il dattero dalla campagna e se lo portò sulla carrozza, con il figlio del Re. Era la più bella di tutte!
Essi felici e contenti. E noi a bocca aperta e senza niente.
Lloro felice e contente. E nnuie cu a’ vocca aperta e senza niente …
Si capisce quanto Perrault e gli altri favolisti abbiano in seguito modificato [edulcorato] la storia delle origini, con il suo autentico smaliziato finale: la fiaba è un sogno e le gatte Cenerentole, solitamente, restano a bocca aperta nel camino e senza niente.
Non abbiamo incontrato il signor Palomar questa sera! Ebbene, al signor Palomar [che in questi giorni rimane rigorosamente a casa] non è sfuggito l’aggettivo “fiabesco” e le sue riflessioni ce le rivelerà [telefonicamente la prossima settimana] quando percorreremo l’itinerario prepasquale, e che cosa ci riserva [oltre la quarantena] la Lezione prepasquale?
Per rispondere a questa domanda bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che come direbbe Basile: «Le persone che non studiano potranno pur essere felici e contente | ma finiscono per rimanere a bocca aperta e senza niente» e, quindi, consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, la Scuola mantiene il suo impegno.
Auguro a tutte e a tutti voi “una buona quarantena di studio” perché il desiderio di apprendere stimola il sistema immunitario e corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito e, di conseguenza, bisogna prenderla con Filosofia cioè rispettando puntigliosamente tutte le regole necessarie: rimaniamo a casa restando uniti.
Ci risentiamo la prossima settimana per continuare a studiare insieme che: lo studio è cura…