ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica dal secolo della Scienza a quello dei Lumi 6-7-8 maggio 2020
SULLA VIA CHE PORTA DAL SECOLO DELLA SCIENZA A QUELLO DEI LUMI
COMPARE L’IMPRONTA DEL LEVIATANO ...
Un cordiale saluto a tutte e a tutti voi che mi state ascoltando, alle quali e ai quali non posso dire direttamente: ben venute e ben venuti a Scuola visto che sto registrando questa Lezione in modo che il nostro Percorso didattico possa continuare a tenere il passo perché: lo studio è cura.
Il diciannovesimo itinerario di questo viaggio sulla via che porta dal secolo della Scienza [il ‘600] a quello dei Lumi [il ‘700] corrisponde alla terzultima tappa di questo Percorso che dal mese di marzo compreso abbiamo dovuto compiere in quarantena a causa di un’epidemia che, paradossalmente, ci ha fatto sperimentare una situazione che si determina spesso sul territorio secentesco che stiamo attraversando. Ammetto [perché bisogna assumersi le proprie responsabilità intellettuali] di aver pensato [e voi lo sapete], al flagello della peste in chiave letteraria, consapevole, insieme ad Alessandro Manzoni e a voi, che il batterio della peste non fa più paura, mentre altri virus, oggi, mutano e si riproducono più agevolmente del solito a causa della rottura dell’ecosistema determinata dall’animale più aggressivo presente sul pianeta: e ci domandiamo, ha ragione Thomas Hobbes quando sostiene che “l’uomo è un essere malvagio e, in situazioni di emergenza, fa solo finta di essere più buono”?
Durante lo scorso itinerario abbiamo incontrato, prima a Londra e poi a Parigi dove ha soggiornato per qualche anno, Thomas Hobbes il quale continua ad accompagnarci. Come sapete, Hobbes afferma che tutta la realtà è dominata dal fenomeno del “meccanicismo”: tutto l’esistente corrisponde secondo lui a “una grande macchina” che per esprimersi [per esistere] ha bisogno del movimento. Il movimento, afferma Hobbes, è la causa efficiente che spiega tutto ciò che accade [Hobbes esclude Dio e l’evento della creazione]: senza il moto, senza il fenomeno vitale che Galileo ha studiato in tutte le sue forme, afferma Hobbes che di Galileo è un grande ammiratore, l’intero processo meccanicistico si arresterebbe e lo spazio, il tempo, il corpo e la causa senza “il moto vitale” non esisterebbero, e anche la volontà [afferma Hobbes] è una manifestazione del movimento e, quindi, lo è anche la morale.
Thomas Hobbes afferma che anche la volontà è una manifestazione del movimento perché le sensazioni, che il movimento genera e che il cervello trasmette al cuore, possono favorire o turbare il “moto vitale” della persona causando il piacere o il dolore, e producendo l’attrazione o la repulsione che la persona prova verso l’oggetto che ha prodotto il movimento stesso, ed è, quindi, dal piacere o dal dolore [provato dalla persona] che derivano, afferma Hobbes, tutte le facoltà che interessano la morale e che mettono in funzione la volontà. Quindi anche la morale è soggetta al meccanicismo, afferma Hobbes, e si basa sull’egoismo [sull’atteggiamento umano più rispondente ad una realtà completamente materiale], ma non su un egoismo soggetto alla brutalità bensì legato all’ipocrisia: un genere di egoismo che Hobbes chiama “ben inteso e calcolato”. La vita morale, nell’ambito di una realtà caratterizzata dal meccanicismo, è governata dal calcolo, dalla premeditazione, dal tornaconto: l’atto del ragionare, afferma Hobbes, corrisponde a “calcolare ciò che è utile” per la persona [secondo lui: ragionare è calcolare], e questo “computo delle convenienze” dovrebbe tendere a non essere condizionato né dall’impulso passionale né dalla regressione allo stato di natura in modo che l’individuo arrivi a capire che è necessario creare delle “convenzioni morali” in modo che la persona possa passare dallo stato di natura a quello della convivenza civile. Però, dichiara Hobbes, è difficile che la convivenza civile si possa realizzare per iniziativa del singolo individuo che è malvagio per natura e tendenzialmente portato ad agire in modo individualistico, ma la convivenza civile può solo trovare la sua applicazione con l’intervento severo ed inflessibile da parte dello Stato, l’Ente supremo depositario dell’azione politica. Quindi, il tema della politica costituisce l’elemento determinante del pensiero di Hobbes, un argomento che lui tratta in un’opera [la sua opera più famosa] che[in italiano s’intitola Leviatano.
Ma, prima di occuparci di quest’opera fondamentale per riflettere sul tema - di attualità - del primato della politica,] è doveroso indagare su un aspetto importante della formazione culturale di Hobbes, perché l’indagine sulla formazione culturale di chi, studiando, ha lasciato una traccia nella Storia del Pensiero Umano, ci aiuta a dare una direzione più funzionale al nostro cammino di formazione, visto che si frequenta la Scuola per acquisire strumenti che favoriscano l’apprendimento. Per quanto riguarda il tema della politica, la formazione culturale di Hobbes avviene a Parigi, frequentando il circolo Mersenne, con lo studio del dialogo Repubblica di Platone, del trattato Politica di Aristotele e, soprattutto, mediante la conoscenza del testo di un’importante opera medioevale intitolata Defensor pacis [Il difensore della pace]: la lettura di quest’ultima opera ha contribuito a dare forma al pensiero politico in chiave moderna di Hobbes, una forma che Hobbes ha riempito di contenuti autonomi alla luce della sua visione meccanicistica della realtà, molto diversa dalla visione medioevale della realtà incentrata sulla creazione dell’universo da parte di Dio.
Chi ha scritto Defensor pacis, di che opera si tratta, e che cosa impara Hobbes dal testo di un autore che è ideologicamente lontano dalla visione moderna[materialista e atea che Hobbes ha del mondo? Defensor pacis [il difensore della pace] viene considerato il trattato politico più significativo del Medioevo, pubblicato a Parigi nel 1324 è stato redatto da Marsilio Mainardini detto Marsilio da Padova. L’incontro con quest’opera e prima ancora con il suo autore ci permette, insieme a Hobbes [che ha fatto questa esperienza di studio prima di noi], di entrare in contatto anche con altre tre importanti figure: Albertino Mussato, Dante Alighieri e Giovanni da Parigi, i quali, contribuiscono in primo luogo alla formazione culturale di Marsilio, poi a quella di Hobbes e oggi alla nostra [in virtù del movimento intellettuale che un Percorso di Alfabetizzazione funzionale e culturale deve creare, e quando Hobbes sente la parola “movimento” è contento]. E allora insieme a Hobbes procediamo con ordine: chi è Marsilio Mainardini?
Marsilio Mainardini è nato a Padova, intorno al 1275, in una famiglia di giudici e di notai. Studia nell’Università padovana sotto la guida di Albertino Mussato, l’esponente più importante del cosiddetto pre-umanesimo padovano. Marsilio studia medicina e si dedica alla filosofia naturale e sperimentale e la sua formazione culturale è d’impronta aristotelico-averroista perché l’Università di Padova, dopo quella di Parigi, è il secondo centro più importante dell’averroismo latino [dove si studiano le opere di Aristotele commentate dal filosofo arabo-andaluso Averroè (1126-1198)]. Difatti, il pensiero di Marsilio si sviluppa partendo dalla “teoria averroista della doppia verità”, quindi, il pensiero di Marsilio è incentrato sulla netta separazione tra la realtà spirituale [della Fede governata dalla Chiesa che proclama la Verità ultraterrena] e la realtà temporale [politica e laica, governata dallo Stato in nome della verità materiale]. La realtà spirituale e quella temporale, sostiene Marsilio, non sono in rapporto dialettico tra loro [e questo dualismo inconciliabile rafforza il pensiero di Hobbes che non crede all’esistenza di una realtà spirituale diversa da quella materiale]: tutto il campo della realtà fisica e politica è “temporale” e, di conseguenza, la pretesa della curia papale, che in questo momento si trova ad Avignone, di invadere questo campo [come sta succedendo, afferma Marsilio] non può che creare discordie e disastri tanto per la società civile quanto per la comunità dei credenti che non può, alla luce della Letteratura dei Vangeli, essere considerata uno Stato [«Il mio Regno non è di questo mondo», afferma Gesù di fronte a Pilato, e Hobbes accoglie questa affermazione evangelica per consolidare la sua convinzione materialista]. Se la curia papale [sostiene Marsilio] vuole guidare la Chiesa secondo i dettami del Vangelo deve curare esclusivamente il campo della realtà spirituale [e la convinzione che una realtà “spirituale” non esiste trova conferma nella mente di Hobbes e la desume dal fatto che i papi si sono occupati sempre e solo di cose materiali, perché sono le uniche reali!]. Marsilio si rifà inoltre al pensiero di Dante Alighieri [1265-1321] il quale, nelle sue due opere politiche, il Convivio e il De Monarchia, afferma che la persona deve aspirare alla felicità temporale e alla felicità eterna e, scrive Dante nel De Monarchia: «Per questo sono necessarie alla persona due guide, in relazione al suo duplice fine, e cioè il Sommo Pontefice che, secondo la verità rivelata, conduca gli esseri umani alla vita eterna e l’Imperatore che, secondo gli insegnamenti dei filosofi, indirizzi il genere umano alla felicità in questa vita»: anche per Dante, quindi, la divisione tra i due poteri è netta e distinta e l’imperatore è vincolato al rispetto formale dell’autorità spirituale ma è svincolato dal potere ecclesiastico nelle scelte politiche ed è responsabile della pace e della giustizia sociale secondo “l’insegnamento dei filosofi” [questo concetto - sulle responsabilità che, sul piano materiale, ha l’Ente sovrano - diventa centrale nel pensiero di Hobbes]. Dante fa propri i concetti di “soggettività e volontà” e, difatti, nella Divina Commedia, la grande protagonista è ancor prima di Dio “la singola persona” che, in solitudine, lotta contro il male e agisce per salvarsi: per salvare non solo la propria anima nell’altra vita, ma per salvarsi anche nella vita terrena, nella Storia, per salvarsi dall’indifferenza culturale e politica, per cui, il compito dell’essere umano, afferma Dante, è quello di “partecipare alla costruzione della città terrena, ed è importante l’emergere - all’inizio del Trecento - del concetto di “partecipazione” che è il fulcro dell’azione politica e culturale” [Hobbes riflette con scetticismo sul concetto della partecipazione dell’individuo alla costruzione della città terrena perché - come sappiamo - pensa che l’individuo agisca spinto principalmente dal proprio egoismo e, se partecipa, lo fa per convenienza]. Ma torniamo a Marsilio.
Marsilio da Padova all’inizio del Trecento si trasferisce a Parigi dove, alla facoltà delle Arti, incontra e studia con il magister domenicano aristotelico-averroista Giovanni da Parigi [1260-1306] il quale sostiene che Aristotele insegna che «il potere politico non è mai universale ma è sempre particolare »[e questo argomento interessa anche a Hobbes che identifica il particolare con ciò che è materiale], quindi, la Chiesa, che ha un afflato universale - in virtù del fatto che la Rivelazione ha un valore universale - non può occuparsi del particolare, quindi, alla luce della Letteratura dei Vangeli non deve avere un potere politico concreto perché la missione della Chiesa, afferma Giovanni da Parigi, è quella di occuparsi di amministrare il messaggio universale della Rivelazione “per illuminare il modo particolare di fare politica”: la Chiesa deve predicare i valori etici universali [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia] affinché i governi facciano le scelte politiche necessarie e particolari per concretizzarli. Il papa [non può avere un potere temporale, afferma Giovanni da Parigi] non ha diritto sui beni materiali degli individui: la Chiesa ha senz’altro bisogno di beni materiali, che deve usare per poter esistere nel Mondo, sapendo, però, che questi beni non le appartengono perché la Chiesa, [afferma Giovanni da Parigi, non è “un dominio” ma è “una comunità”, ed è “un corpo” [la prefigurazione del Corpo mistico di Cristo] e se un papa è avido di beni materiali diventa indegno del “corpo mistico di Cristo” e la comunità lo deve espellere [e per Hobbes - ateo e materialista - questa è una bella idea].
Marsilio da Padova, dopo essersi formato al pensiero di Albertino Mussato, Dante Alighieri e Giovanni da Parigi, e dopo aver svolto un’intensa attività di insegnamento [dal 1312 al 1314], riveste la carica di rettore alla facoltà delle Arti di Parigi e poi negli anni successivi si trova coinvolto in uno dei più famosi conflitti che siano mai avvenuti tra il papa e l’imperatore [un avvenimento che abbiamo studiato a suo tempo].
La curia papale è dal 1309 al 1377 ad Avignone e il papa [il secondo dei sei pontefici della “cattività avignonese”] è Giovanni XXII [Hobbes si appassiona a studiare questi avvenimenti vecchi di trecento anni perché lo fanno riflettere]. Giovanni XXII [e molte e molti di voi lo ricordano sicuramente] è l’arcivescovo di Avignone Jacques Duèse, che è stato eletto papa nel 1316 a Lione dopo un burrascoso conclave durato ventisette mesi, ed è già[per l’epoca un vecchio di 72 anni [è nato a Cahors nel 1245, e governa per diciotto anni fino al 1334 quando muore novantenne!]; è di umili origini, piccolo e brutto [dicono le cronache] ma dotato di un’instancabile attività di mente e soprattutto - visto che è stato cancelliere e sovrintendente alle finanze nel Regno angioino di Napoli - è dotato di un prodigioso talento amministrativo: è il papa che ha fondato la banca vaticana [la “Camera apostolica”, con la quale intraprende abili operazioni finanziarie che fruttano più di venti milioni di fiorini d’oro, e Hobbes dichiara ironicamente di essere costretto ad ammirarlo] e, per coerenza bisogna dire, Giovanni XXII perseguita i francescani pauperisti dichiarando eretico il concetto di “povertà assoluta” che predicavano. Quando scoppia il conflitto tra il papa Giovanni XXII e l’imperatore Ludovico il Bavaro - che si fa incoronare senza aspettare la conferma papale ignorando il diritto ecclesiastico e, di conseguenza, Giovanni XXII [nel 1324] lo scomunica - in questa occasione anche Marsilio da Padova,[come Guglielmo di Ockham, Michele da Cesena, Giovanni da Parigi, Dante Alighieri, prende posizione [sebbene Ludovico non sia un monarca particolarmente illuminato] a favore dell’imperatore. In risposta, Giovanni XXII nel 1329 fa bruciare pubblicamente [dal suo legato Bertrando Dal Poggetto] il testo del De Monarchia di Dante [che negava al papa i poteri temporali] mentre due anni prima nel 1327 aveva mandato pubblicamente al rogo il testo del Defensor pacis che Marsilio da Padova come abbiamo detto aveva pubblicato a Parigi nel 1324: Marsilio, in questa occasione, sotto la minaccia della condanna ecclesiastica [per non finire al rogo], fugge da Parigi e si rifugia a Monaco di Baviera presso l’imperatore Ludovico il Bavaro e lì muore nel 1342 o nel 1343.
I personaggi che abbiamo incontrato [Albertino Mussato, Dante Alighieri, Giovanni da Parigi e Marsilio da Padova] hanno tutti definito la politica come “una disciplina autonoma e laica” e come “un atto di partecipazione” e Hobbes riflette su questo concetto come abbiamo detto con grande scetticismo perché continua a vedere, in Età moderna, la politica asservita alle guerre di religione, e inoltre non crede che il singolo individuo, a causa del suo egoismo, sia in grado di partecipare, con spirito altruistico, alla vita collettiva se non è indotto a farlo d’autorità.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole - adesione, complicità, condivisione, presenza - mettereste per prima accanto alla parola “partecipazione”?… Scrivetela perché è un tema di stringente attualità nel tempo del necessario distanziamento sociale... Scrivetela perché la scrittura è un fondamentale strumento di partecipazione…
A quali esperienze della vita pubblica avete deciso di partecipare?… Scrivete quattro righe in proposito …
Defensor pacis [Il difensore della pace] è considerata [abbiamo detto] l’opera di filosofia politica più importante del Medioevo [per questo Hobbes - anche se la sua mentalità moderna contrasta con quella medioevale di trecento anni prima - la studia con attenzione perché la conoscenza di quest’opera lo induce a riflettere] perché in essa Marsilio da Padova raccoglie in modo organico le idee che abbiamo sentito formulare da personaggi i quali hanno dato vita a una prestigiosa “coalizione intellettuale” che si è formata per difendere la laicità dello Stato [e qui Hobbes trova linfa per formulare il suo pensiero] e per proporre una Riforma della Chiesa in senso evangelico [e qui Hobbes trova linfa per polemizzare contro gli apparati religiosi che critica per la loro incoerenza].
Nel Defensor pacis Marsilio tratta dell’origine della Legge e del fatto che la Legge deve essere “uguale per tutti” affermando che tutte le Leggi devono esser fatte “per mantenere la pace” che è il valore indispensabile per la prosperità dello Stato [Hobbes condivide pienamente questa idea]. Che tipo di opera è Defensor pacis?
Defensor pacis, che Hobbes studia con attenzione perché la conoscenza di questo trattato di filosofia politica lo induce a riflettere, è un’opera permeata di spirito laico [di una disposizione libera da vincoli religiosi], scritta con chiarezza, priva di retorica e, per un certo numero di aspetti, da considerarsi moderna e ancora attuale nei contenuti.
Secondo Marsilio la necessità dello Stato non discende più da finalità etico-religiose, ma dalla natura umana che va alla ricerca di una vita che lui definisce “satis superque” [sufficiente, soddisfacente, adeguata alle necessità materiali e spirituali della persona] e per rendere la vita commisurata alla necessità e ai bisogni della persona Marsilio enumera sei elementi [riguardanti: il lavoro, la fortuna, la salute, l’educazione, l’immagine di sé e l’affetto] che tra poco rielencheremo: è da questa esigenza prettamente umana che nascono le varie comunità, dalla più piccola alla più grande e complessa che è lo Stato per cui è necessario un Ordinamento [la Legge uguale per tutti] che assicuri la convivenza [entra in incubazione il concetto di “contratto sociale”]. Scrive Marsilio: «Il fatto che un individuo sia sacerdote, contadino o muratore non deve avere alcuna importanza agli occhi di chi lo sta giudicando, così come non deve avere importanza per il medico il mestiere del paziente. La pretesa, quindi, delle autorità di gestire la giustizia a seconda che la persona imputata sia o non sia un ecclesiastico è un vero e proprio sopruso. Una cosa sono gli obblighi civili che ognuno di noi ha verso lo Stato, e un’altra cosa i doveri spirituali che abbiamo nei confronti di chi ci ha messo al mondo: i primi hanno a che vedere con la Legge, i secondi con l’Anima. Guai a confondere gli uni con gli altri». Marsilio definisce le finalità dello Stato con tre parole-chiave rappresentative: [finalità] “civili, contingenti e storiche”, ma alla base dell’Ordinamento ci deve essere la volontà comune delle cittadine e dei cittadini che è superiore a qualsiasi volontà individuale. Secondo Marsilio la sovranità appartiene - o dovrebbe appartenere - al popolo, ma il popolo nel suo insieme risulta essere “una massa eterogenea e informe” e, quindi, dovrebbe governare quella parte di popolo, da lui chiamata “pars valentior” [il gruppo sociale dei più saggi, il ceto riflessivo] che, in quanto a saggezza, è meglio dotata rispetto alla moltitudine della plebe incolta; il compito dello Stato, scrive Marsilio, è, di conseguenza, quello di far sì che la plebe incolta si emancipi perché s’allarghi il più possibile la “pars valentior” [il gruppo sociale dei più saggi]. Marsilio, per descrivere la situazione, utilizza una metafora [che piace molto a Hobbes per la sua valenza materiale e anche meccanicistica visto che Marsilio cita il concetto del “movimento vitale”]: «Le persone [scrive Marsilio] che appartengono al gruppo sociale dei più saggi [la pars valentior] - di cui lo Stato deve far accrescere il numero - sono quelle che “sanno trovare la scarpa [sŏlea, la pantofola, la pianella] adatta al proprio piede” in modo che possano ben muoversi nel cammino verso una vita soddisfacente [satis superque] per tutti». Il fatto che le persone possano imparare “a trovare la scarpa [sŏlea, la pantofola, la pianella] adatta al proprio piede” comporta che lo Stato prenda un provvedimento fondamentale contro l’ignoranza estendendo a tutti, scrive Marsilio, l’obbligo di studiare le discipline del Trivio [grammatica, retorica, dialettica] e del Quadrivio [aritmetica, geometria, astronomia, musica] «per diminuire [scrive Marsilio] le possibilità che hanno certi poteri [e allude soprattutto al potere curiale e al sistema feudale in generale] di plagiare gli animi dei più ignoranti [argomento di stringente attualità]».
Marsilio ritiene che l’autorità politica non discende da Dio e tanto meno dal papa, ma sale dal popolo e, in quest’ottica, egli propone che i vescovi vengano eletti da assemblee popolari e che il potere del papa sia subordinato a quello del concilio [non sia un potere teocratico ma sia un servizio sinodale]. Il giudizio di Marsilio sulla curia papale avignonese è molto negativo e lo manifesta con grande crudezza di linguaggio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Per rendere “la vita sufficiente, satis superque” [scrive Marsilio da Padova] ci vuole: un adeguato salario, una buona fortuna, una soddisfacente salute, una valente educazione, una aggraziata immagine, un affetto condiviso … Come elenchereste in ordine di importanza questi elementi? … Componete per iscritto il catalogo dei “sufficienti” …
Con la guida della città di Siena e navigando in rete andate a osservare l’affresco dipinto da Ambrogio Lorenzetti tra il 1338 e il 1339 intitolato “Le allegorie del Buono e del Cattivo Governo e i loro effetti” che si trova su una delle pareti della Sala dei Nove del Palazzo pubblico senese … Questo dipinto è un manifesto che contiene le idee enunciate nel “Defensor pacis” di Marsilio da Padova, incuriositevi …
Utilizzando il bagaglio culturale acquisito attraverso i suoi studi parigini al circolo Mersenne, Thomas Hobbes comincia a scrivere il suo trattato di filosofia politica, ma prima di occuparci di quest’opera [la sua opera più famosa] dobbiamo tener conto del fatto che la significativa metafora di Marsilio su “il saper trovare la pantofola adatta al proprio piede per muoverci meglio” chiama in causa un personaggio molto atteso in ogni tappa del nostro viaggio, il signor Palomar, l’indimenticabile protagonista del romanzo omonimo di Italo Calvino [del 1983] che stiamo leggendo. Un’esperienza legata a “una pantofola spaiata” costringe il signor Palomar a riflettere con un piede nei Saggi di Montaigne e l’altro nei Pensieri di Pascal: due pantofole perfettamente calzanti per camminare comodamente sul grande paesaggio intellettuale della Storia del Pensiero Umano [potevamo, forse, lasciarci sfuggire questa allegoria?]. Leggiamo.
LEGERE MULTUM ...
Italo Calvino
Palomar
La pantofola spaiata
In viaggio in un paese dell’Oriente, il signor Palomar ha comprato in un bazar un paio di pantofole. Tornato a casa, prova a calzarle: s’accorge che una pantofola è più larga dell’altra e gli cade dal piede. Ricorda il vecchio venditore seduto sui calcagni in una nicchia del bazar davanti a un mucchio di pantofole di tutte le dimensioni, alla rinfusa; lo vede mentre fruga nel mucchio per trovare una pantofola adatta al suo piede e gliela fa provare, poi si rimette a frugare e gli consegna la presunta compagna, che lui accetta senza provarla.
... continua la lettura ...
Hobbes [così come il signor Palomar] riflette sull’allegoria che Marsilio da Padova nel Defensor pacis gli ha suggerito: la maggior parte delle persone invece di “camminare è costretta a muoversi ciabattando faticosamente” [la persona non sa far buon uso del pensiero], e su questa constatazione Hobbes consolida la sua pessimistica e fastidiosa visione del mondo [ma che, tuttavia, invita a riflettere]. Dal momento che, afferma Hobbes, attraverso il sistema di distrazione di massa [e si capisce che anche lui ha recepito l’insegnamento delle Provinciali di Pascal], è possibile plagiare gli animi delle persone, anche delle più istruite, per non parlare di come sia facile ingannare la gran massa degli ignoranti, come si fa a pensare che tutti possano partecipare alla “vita politica” senza che sia garantita “una necessaria educazione” che fornisca a ogni cittadina e a ogni cittadino gli strumenti per poter usufruire di una testa ben fatta? Se si raggiungesse questo obiettivo [un’efficace diffusione dell’istruzione, afferma Hobbes] ogni persona potrebbe essere corresponsabile del governo dello Stato. [Meglio non far sapere a Hobbes che l’87% delle cittadine e dei cittadini italiani che formano il corpo elettorale non ha mai letto la Costituzione. Si pensa che questo non sia necessario?].
Queste riflessioni hanno contribuito alla formazione, nella mente di Hobbes, di una visione politica [sul primato della politica] molto intransigente [inaccettabile per noi che ragioniamo in termini democratici e non assolutistici] se non fosse che Hobbes, in realtà, ci fa seriamente riflettere sul delicato tema sempre di grande attualità del rapporto tra la politica e l’educazione. E ora, in proposito, prendiamo in considerazione l’opera più famosa di Hobbes.
Thomas Hobbes tratta il tema della politica in un’opera [la sua opera più famosa] nella quale riassume tutto il suo pensiero: quest’opera s’intitola Leviathan, o della materia, forma e potere dello Stato ecclesiastico e civile [quest’opera viene comunemente chiamata Leviatano] pubblicata in inglese a Londra nel 1651 e in latino ad Amsterdam nel 1668. A che cosa corrisponde il termine “Leviatano” che dà il nome al titolo di quest’opera? Leviathan è il nome di un mostro mitologico che compare nella Letteratura biblica [beritica] ma, prima ancora, lo si trova nei testi della Letteratura fenicia detta “ugaritica” perché composti nella città di Ugarit, l’odierna città siriana di Ras Shamra. Il mostro Leviathan ha l’aspetto di un animale primordiale dalla forma di rettile, ed è nemico del Còsmos [dell’ordine] e fautore del Kaos [dell’agitazione, del turbamento, del rimescolamento], ed è una figura sempre connessa con le acque primordiali [con l’abisso nel quale vive e dal quale emerge]. Tanto gli scrivani ugaritici quanto quelli ebraici utilizzano la figura di questo essere favoloso come una metafora che serve per rappresentare “qualcosa di opprimente” [e Hobbes usa questa metafora come segno di un’oppressione dovuta]. Il Leviathan [mettiamo all’opera le azioni cognitive!] compare due volte nel Libro di Giobbe [un testo di riferimento per Hobbes, ateo e materialista] e una volta rispettivamente nel Libro di Isaia, nel Salmo 74 e nel Libro di Ezechiele.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Tutte e tutti voi possedete un volume della Bibbia quindi potete andare a leggere il capitolo 3 del Libro di Giobbe dove, al versetto 8, compare il nome del Leviathan in un contesto drammatico [e molto famoso] in cui Giobbe maledice il giorno della sua nascita visto che la vita è “un coacervo di dolori”… Poi potete leggere, sempre nel Libro di Giobbe, i capitoli 40 e 41 che fanno parte, con il 38 e il 39, del celebre “Dialogo [che in realtà è un interrogatorio] tra il Signore e Giobbe”: il termine “Leviathan” viene tradotto con la parola “coccodrillo” ma, siccome sputa fuoco dalle narici, potrebbe essere anche un drago, comunque è «un rettile enorme e mostruoso che non ha eguale sulla terra e che è stato creato da Dio per suscitare timore, ma anche per ammonire che la presenza del male non deve far perdere la fiducia in Dio»… Inoltre potete leggere il primo versetto del capitolo 27 del Libro di Isaia dove Dio [il Dio dei profeti] decide di uccidere il Leviathan [si è pentito di averlo creato?] che viene raffigurato come un serpente guizzante, come un mostro marino [l’uccisione del Leviathan è, in questo caso, un atto di un Dio più comprensivo per rimediare ad un errore commesso da una divinità ugaritica meno indulgente?]... Se poi leggete il Salmo 74 scoprite che il Leviathan è un dragone con molte teste che vengono schiacciate da Dio e date in pasto [alle tribù del deserto] agli sciacalli [è un’immagine forte per affermare che Dio porta la salvezza sulla terra]... E se, infine, leggete i primi 16 versetti del capitolo 29 del Libro di Ezechiele potete constatare che il termine “Leviathan” viene utilizzato per apostrofare il faraone d’Egitto che viene definito come «un coccodrillo mostruoso che giace in mezzo al fiume Nilo» e che merita di essere punito perché va affermando: «il Nilo è mio, perché è opera mia» quando nessuno è padrone del Creato... Incuriositevi, e prendete all’amo il Leviathan, non è un’impresa da poco, però, non c’è pericolo: portatela a termine, si realizza leggendo! ...
Il trattato intitolato Leviathan è diviso in quattro parti dedicate rispettivamente all’Essere umano la prima, allo Stato la seconda, allo Stato cristiano la terza e al Regno delle tenebre la quarta.
Nella prima parte Hobbes riepiloga il suo pensiero “meccanicista” [di cui è il precursore] affermando che tutta la realtà è fatta di materia e che l’essere umano è dotato di un corpo naturale che ha la capacità di produrre corpi artificiali: le macchine atte a sfruttare il potere della Natura. Hobbes, nella prima parte della sua opera, ribadisce che tutte le conoscenze derivano dalle sensazioni e che tutte le azioni sono dirette a conseguire il piacere e a evitare il dolore.
Fra i corpi artificiali creati [partoriti] dall’Essere umano [dopo un lungo travaglio] va annoverato soprattutto lo Stato, e il tema dello Stato riguarda la seconda parte del Leviatano dove Hobbes scrive che, in origine, gli Esseri umani vivevano nel così detto “stato di natura”: una situazione in cui trionfava pienamente l’egoismo e i singoli individui, desiderosi di affermare il proprio dominio su tutto, non esitavano a farsi la guerra fra di loro, ignorando la distinzione fra il giusto e l’ingiusto, e decisi soltanto a salvaguardare i propri interessi ossia il proprio egoismo e, di conseguenza, vigevano due inderogabili principi: quello de “la guerra di tutti contro tutti” [bellum omnium contra omnes] e quello de “l’uomo che è un lupo per l’altro uomo” [homo homini lupus]. Ad un certo punto, però [dopo un lungo periodo che possiamo definire “preistoria”], gli Esseri umani si sono accorti di quanto fosse pericoloso e nefasto un simile atteggiamento di distruzione reciproca, e si sono affidati alla ragione per assicurare l’esistenza propria [e, quindi, quella di tutti] e per eliminare il terrore che li affliggeva perché costretti a vivere in uno stato di ansia permanente. Quindi, sotto l’influsso della ragione, “lo stato di natura” ha lasciato gradualmente il posto a “la legge di natura”, basata su tre principi fondamentali: [il primo] che si deve ricercare la pace [al posto della guerra di tutti contro tutti]; [il secondo] che si deve rinunciare al diritto di tutti su tutto [e, quindi, bisogna riconoscere il diritto di proprietà]; [il terzo] che bisogna osservare i patti [ossia si deve distinguere fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto perché chi viola i patti è ingiusto nei riguardi di chi subisce la violazione]. Però, scrive Hobbes, la natura umana contaminata dalla bestialità non riesce a seguire i suggerimenti della ragione, per cui è necessaria la presenza di un’autorità superiore che possa rendere obbligatorio ciò che la ragione umana raccomanda e l’autorità superiore è quella dello Stato, che assomma in sé tutti i poteri. Lo Stato, per Hobbes, nasce da un contratto stipulato tacitamente dai vari individui, per cui questi rinunciano al proprio diritto naturale, cioè alla propria libertà individuale, in favore di un Ente Sovrano, che s’incarna o nella figura del monarca [la persona del Re] o in una Magistratura collettiva [l’assemblea del Parlamento], a cui si impegnano a ubbidire e che assicurerà loro, prima di tutto, la pace: il bene necessario per eccellenza.
L’Ente Sovrano [sia esso un monarca o una magistratura collettiva] deve essere assolutamente autonomo di fronte alle persone che governa: conseguentemente, scrive Hobbes, non deve rispondere, di fronte al popolo, di nessuno dei suoi atteggiamenti, ma ciò che decide è Legge. Il contratto, che ha valore per i singoli individui, non ha valore per il Sovrano che [tanto monarca quanto magistratura collettiva] deve rimanere estraneo al contratto stesso [deve essere al di sopra del contratto stesso] e, quindi, non ha alcun obbligo verso le cittadine e i cittadini che sono destinati a diventare sudditi, però, l’elemento Sovrano non deve ottenere alcun vantaggio dalla sua azione di governo e, se mai, questo sistema fa sì che il vantaggio ricada sulla massa degli individui che, da moltitudine informe, diventano un popolo unito: uno Stato. Ed è necessario - per il buon funzionamento del sistema - che lo Stato Sovrano disponga del corpo e dell’anima dei sudditi e la sottomissione di questi non può essere che totale, però la disubbidienza è giustificata nel caso in cui lo Stato venga meno alla sua funzione di garante della pace interna e dell’integrità delle singole persone [in questo caso il popolo si deve ribellare contro chi incarna il potere dello Stato]. Per l’enormità dei poteri che gli competono, Hobbes, nel titolo e qua e là nel corso della sua opera, chiama lo Stato col nome del mostro Leviathan. La composizione di questo trattato, così assolutista, avviene in un’epoca di crisi profonda delle istituzioni politiche inglesi [prima di tutto] ma anche di quelle di tutte le nazioni europee, piccole o grandi che siano.
Nella terza parte della sua opera [intitolata “Dello Stato cristiano”] Hobbes, facendosi esegeta, cerca di far conciliare il suo pensiero - la sua concezione di un potere illimitato - con la Sacra Scrittura, con i Libri della Bibbia, e non è difficile per lui far conciliare lo Stato [il mostruoso Leviatano] con la figura di un Dio materiale [lo Stato è come se fosse un Dio spietato] gestore dell’autorità assoluta: per l’ateo Hobbes lo Stato è una macchina reale mentre Dio è il personaggio principale [un personaggio immaginario dai molti volti e dai molti nomi] di una straordinaria Letteratura sapienziale alla fonte della quale si abbevera.
Nella quarta parte della sua opera [intitolata “il Regno delle tenebre”] Hobbes critica quelle che per lui sono “le errate dottrine” tanto cattoliche quanto presbiteriane le quali affermano che il regno di Dio si identifica con la Chiesa terrena e respinge sarcasticamente la tesi che ci possa essere un vicario terreno di Dio. Queste dottrine [scrive Hobbes] alterano il carattere della Letteratura biblica e sono state create da papi e preti e pastori che propagano la falsa idea dell’esistenza di un Dio per trarne vantaggi personali facendo torto anche all’immagine del Dio in cui dicono di credere.
L’apologia che nel Leviatano Hobbes fa dell’assolutismo statale [la statolatria] non è facile per la persona che si ritiene democratica da digerire ed è facilmente criticabile; sta di fatto che l’analisi di Hobbes, tanto sulle egoistiche inclinazioni della natura umana quanto sulla necessità di gestire il potere in modo utile alla collettività, ha fatto sì che la filosofia politica, contenuta nel Leviatano, abbia contribuito ad aprire una riflessione sulla concezione moderna della gestione dello Stato, che dovrebbe sempre essere orientata a garantire il ben-essere di ogni cittadina e di ogni cittadino. Hobbes va certamente lodato in quanto considera la Politica [scritta con la P maiuscola] l’elemento determinante del suo pensiero [oggi la Politica è in crisi, e lo è soprattutto da quando si è creduto che si potesse sostituire la Politica con l’antipolitica e con la propaganda]. La Politica [come si legge nel Leviatano] deve promuovere il superamento de “lo stato di natura” [di tutti contro tutti], una condizione, quella della riproposizione dello stato di natura che, con l’affermarsi del capitalismo predatorio [con i suoi derivati: il sovranismo, il populismo, il clericalismo] è tornata in auge [e oggi Hobbes è soddisfatto che sia un papa a denunciare questo fatto]. Hobbes detesta il sovranismo che si sviluppa quando il monarca fa coincidere i propri tornaconti con gli affari di governo, e fa gonfiare il proprio egotismo fomentando l’egoismo dei sudditi che lo imitano nel dire “prima io”, “prima noi” in quanto “l’uomo è un lupo per l’altro uomo” e chi morde prima ha la meglio.
Hobbes esalta il concetto della “sovranità disinteressata” [per l’Ente sovrano non ci deve essere nessun tipo di tornaconto] per cui lo Stato deve e può pretendere che ogni singola persona accetti che la disciplina [il rispetto delle regole] le venga imposta per la realizzazione del ben-essere comune; e se la Politica non assolve al suo compito di programmazione per favorire ciò che è giusto e per emendare ciò che è ingiusto, trionfa l’egoismo indiscriminato [lo stato di natura] e le virtù cardinali del sistema [come le enuncia Hobbes nel Leviatano] sono: la violenza e l’inganno, e la situazione descritta dall’affermazione “homo homini lupus” [l’uomo è un lupo per l’altro uomo] non verrà mai rimossa, non diventerà mai un tabù.
Questa famosa espressione - «Homo homini lupus »[L’uomo è un lupo per l’altro uomo] - non nasce in Età moderna ma è in circolazione - per denunciare la natura egoistica dell’individuo - dall’antichità, e Hobbes la mutua da una commedia [una classica farsa popolaresca] dello scrittore latino Plauto [nato a Sarsina, in Umbria, prima del 250 a.C. e morto a Roma nel 184 a.C.] intitolata Asinaria. Nella commedia Asinaria [“La commedia degli asini”, ambientata ad Atene tanto perché Plauto si rifà al teatro greco quanto perché a Roma, secondo la censura, non poteva mai succedere nulla di equivoco e di illegale] si racconta [riassumendo a grandi linee] che il giovane Argirippo vorrebbe tutta per sé - in competizione con un facoltoso pretendente di nome Diàvolo - una giovane affascinante cortigiana che si chiama Filenio e, quindi, vorrebbe riscattarla dal bordello casalingo nel quale fornisce le sue prestazioni, ma ci vogliono molti soldi perché la fanciulla rende bene alla padrona di questa azienda che è sua madre, la mezzana Cleereta. Il padre di Argirippo, Demeneto, decide di aiutarlo e, con la complicità di due astuti servitori, Lìbano e Leònida, gli procura il denaro necessario, ricavato dalla vendita di un branco di asini, sottraendolo, con l’inganno, alla moglie Artèmona che gestisce puntigliosamente il patrimonio di famiglia [è una tipica “uxor dotata” romana], ma l’operazione truffaldina di Demeneto non è ispirata dalla solidarietà paterna perché la sua intenzione è quella di approfittare anche lui delle grazie della bella e giovane Filenio una volta riscattata e portata in casa, ma la moglie Artèmona sospetta, vigila e scopre la tresca, e punisce i servitori, rimprovera il figlio e prende a legnate il marito.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Richiedete in biblioteca [e cercate in rete] la commedia Asinaria di Plauto e leggete il testo della Scena quarta dell'Atto II in modo da osservare in quale contesto si trova l’affermazione pronunciata da un mercante diffidente «Homo homini lupus »[L'uomo è un lupo per l'altro uomo] ...
Potete anche richiedere in biblioteca il Leviatano di Hobbes: ci vuole pazienza per leggere il testo di questo trattato, e sfogliarlo per osservane la struttura [così come l’abbiamo descritta] è già un utile esercizio di stimolo per l’attività di apprendimento, incuriositevi e andate a osservarne le forme...
E ora leggiamo un celebre frammento significativo da Leviatano di Hobbes [sappiamo che “il frammento” non è solo una parte di un intero ma è anche un oggetto compiuto di per sé].
LEGERE MULTUM ...
Thomas Hobbes
Leviatano
Ad arte viene creato quel grande Leviatano che si chiama Cosa pubblica, o Stato, o Civitas, il quale è un Corpo artificiale, di statura e di forza assai maggiore di un corpo naturale, alla cui protezione è deputato. Nello Stato la sovranità è un’anima artificiale che conferisce vita e movimento al corpo intero; i magistrati e gli ufficiali, deputati a giudicare e ad eseguire, sono le sue articolazioni artificiali; il premio e la punizione, in forza dei quali ogni membro è spinto a compiere il proprio dovere, sono i suoi nervi; il ben-essere di tutti i membri particolari ne costituisce la forza; la [salus populi] sicurezza del popolo è la sua occupazione; i consiglieri, che suggeriscono ciò che è necessario conoscere, sono la sua memoria; l’equità e le leggi sono la sua ragione e il suo volere; la concordia è la sua salute, la sedizione è la sua malattia, la guerra civile è la sua morte. Per finire, i patti e le convenzioni che tengono insieme questo Corpo politico ricordano quel fiato “facciamo l’uomo” che pronuncia il personaggio di Dio nell’epico racconto della creazione. …
E ora, prima di concludere [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] dobbiamo dire che a Hobbes sarebbe piaciuta un’opera contemporanea nonostante l’autore - sebbene anche lui faccia professione di materialismo e di ateismo - stravolga l’impostazione di fondo del suo pensiero: nell’opera di Hobbes il Leviatano è un mostro necessario al quale bisogna sottomettersi e ubbidire mentre nell’opera che stiamo per incontrare il Leviatano è un mostro nei confronti del quale bisogna ribellarsi a cominciare dall’utilizzo di un linguaggio alternativo, sperimentale.
Stiamo parlando del “romanzo sperimentale” [come viene definito] intitolato Leviatano o il migliore dei mondi composto da uno scrittore che si chiama Arno Schmidt. Di chi e di che cosa stiamo parlando?
Arno Schmidt è nato ad Amburgo nel 1914 ed è morto a Celle [in Bassa Sassonia] nel 1979. Schmidt si è messo in luce come scrittore nel dopoguerra, nel 1949, con un racconto intitolato Leviatano o il migliore dei mondi nel quale rifiuta con inaudita violenza il nazismo. Schmidt, reduce da sei anni di guerra e di prigionia, dopo aver fatto diversi mestieri e aver vissuto con la moglie in assoluta povertà, riesce a dedicarsi completamente alla scrittura diventando il punto di riferimento principale per la Letteratura tedesca di avanguardia.
Il romanzo Leviatano o il migliore dei mondi - che è stato pubblicato in Italia per la prima volta, in sordina nel 1966, dalla rivista Il Menabò [fondata e diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino] e poi ripubblicato, con testo originale a fronte, nel 2013 - narra, in quaranta pagine, la fuga disperata verso Ovest di un gruppo di sbandati slesiani, ed è il primo romanzo tedesco in assoluto ad affrontare direttamente gli orrori e le colpe di un popolo intero che si è lasciato sedurre da un criminale affidandogli i pieni poteri. Per questa sua lucida denuncia Arno Schmidt non ha avuto vita facile [in una Germania che voleva rimuovere il passato] anche perché mette in discussione ogni forma di organizzazione sociale e di vita collettiva [il Leviatano] sovvertendo tutti i luoghi comuni sociali [a cominciare dalla presunta virtù di eseguire gli ordini senza discutere e senza valutarne le conseguenze] che hanno favorito la nascita, la crescita e lo sviluppo del virus della dittatura [della dittatura dell’ignoranza, in primis], e questa sua repulsione lui la esprime con un uso spregiudicato della lingua e con uno stile volutamente funambolico, smozzicato, sperimentale rifacendosi alle esperienze di James Joyce e di Carlo Emilio Gadda.
Arno Schmidt è una persona ben preparata intellettualmente, ed è in possesso di una vasta cultura classica e di una eccedente [è stato detto] erudizione enciclopedica che utilizza in modo provocatoriamente anticonformista. Schmidt è un letterato che nelle sue opere fonde insieme le metafore barocche [come fa Gadda quando definisce barocca la realtà perché è paragonabile ad un gomitolo aggrovigliato, imbrogliato, ad “uno gnommero”], con i modi di dire degli autori illuministi, con le allegorie dei simbolisti, con le parole in libertà dei futuristi e, quindi, compie un audace e inimitabile esercizio di sperimentazione linguistica diventando il punto di riferimento [in Germania, ma non solo] di un’avanguardia culturale producendo [dal 1949 in avanti] tutta una serie di opere tra cui: Dalla vita di un fauno, La repubblica dei dotti, Alessandro o della verità, Il sogno di Zettel, Ateo? - Altroché!, Paesaggio lacustre con Pocahontas.
In Leviatano o il migliore dei mondi l’autore narra la disperata fuga verso Ovest di un gruppo di slesiani sbandati, affamati, feriti, sporchi [soldati, vecchi, donne, bambini], stipati su di un treno rugginoso e sferragliante, continuamente costretto a fermarsi, bloccato dalla neve e dalle inesorabili mitragliate dell’aviazione inglese. Il protagonista, un sergente della Wehrmacht reduce dallo sbandamento dell’esercito, sale sul convoglio e scrive, nello stile che abbiamo descritto, una sorta di diario di questo viaggio infernale, compiuto in compagnia di un ipocrita pastore luterano con la sua numerosa famiglia, di un anziano meditativo e curioso, di soldati impauriti e inquieti, di una dolcissima ragazza, Anne, con il profilo da Marlene Dietrich, e di sua madre. Il sergente è l’alter ego dell’autore e porta soccorso come può a questo manipolo terrorizzato di scampati, ma soprattutto s’imbarca in animate discussioni filosofiche e scientifiche, sia con il pastore [«vile e bizantino, anima svergognata di lacchè», scrive Schmidt] che reagisce un modo fideistico anche davanti alla morte [per mitragliamento dell’aviazione] dei suoi bambini [«ma costui ha mai pensato che potrebbe essere Dio il colpevole, come lo è di sicuro quello che tutti hanno creduto un dio?», scrive Schmidt], sia con il vecchio agnostico che gli pone tutta una serie di quesiti sul destino finale del mondo. E lui risponde, didascalico, saccente e polemico, esemplifica ricorrendo all’astrofisica, alla biologia, alla filosofia, alla matematica, alla storia, cita Einstein e Platone, Budda e Schopenhauer, Cervantes e Mozart, Nietzsche e Spinoza, esibendo un rabbioso nichilismo, un convinto ateismo, un feroce spirito anarchico, e ironizza su una divinità crudele e indifferente, e descrive un cielo spaventosamente vuoto, e uno spazio-tempo [«illimitato ma non infinito»] in cui brancola violenta e cieca la stirpe degli uomini illusi e angosciati. Attacca furiosamente il criminale dittatore che con il suo terrorismo ideologico ha manovrato le persone come marionette. Eppure, quando il treno termina la sua corsa in bilico su un burrone, sospeso su un fiume dopo il crollo di un ponte, tra i cadaveri dei compagni di sventura, sogna la distruzione della Bestia, del famelico Leviatano, e auspica, in modo pudicamente utopico, “la rivolta dei buoni” mentre i fogli del suo quaderno volano via a brandelli nel vento.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Se non vi siete troppo spaventate e spaventati richiedete in biblioteca Leviatano o il migliore dei mondi di Arno Schmidt e leggetene qualche pagina perché serve da antidoto contro ogni forma di pestilenza in particolare contro il virus dell’ignoranza...
E ora, per concludere, leggiamo tre brandelli [è un testo a brandelli] di quest’opera.
LEGERE MULTUM….
Arno Schmidt,
Leviatano o il migliore dei mondi
Il gelo, il gelo. Scavammo con mani di marmo vicino all’acciaio corrusco. Mordente polvere di neve fluttuava intorno a naso e bocca. L’avrei guardata da palpebre d’argento. Il vecchio mi cadde sulla spalla; lo tirai con me nel vagone. I demoni d’acciaio gridavano e gridavano intorno a noi, sopra noi, sotto noi. Ancora numerosi esplosero i colpi dietro, e una volta tremò tutto, come crollasse un monte (e mugghiare di acque gorgoglianti). …
Saluterei con gioia la fine dell’umanità; ho fondata speranza che entro … beh … fra i 500 e gli 800 anni si saranno annientati del tutto; e sarà cosa buona. Questo mondo è qualcosa che sarebbe meglio non fosse, chi dice il contrario, mente! Pensi ai meccanismi universali: gola e stupro. Propagarsi e asfissione. …
Varcheremo la porta color cotto ricoperta di brina. Velato d’oro sarà in agguato il diabolico sole invernale, biancorosa e freddosfera. Lei sporgerà il mento e farà una smorfia villana, solleverà i fianchi per darsi slancio. Contratto la cingerò col braccio. Ecco agito nell’aria il quaderno: volate, brandelli nel vento! …
A volte le quarantene sono proficue: una quarantena proficua è stata quella di Isaac Newton [e forse lo avete sentito nominare], colui che, nel XVII secolo, ha fatto grandi scoperte sulla gravità e sulla natura della luce proprio durante un periodo di “isolamento volontario”, nel 1666, a causa della terribile epidemia di peste a Londra [ora non mi dite che la situazione in cui ci troviamo calza a pennello con il fatto che stiamo per incontrare Isaac Newton, perché se no mi sento in colpa! È puramente casuale il fatto che la peste di Londra sia in programma]. Sta di fatto che tra il 1665 e il 1666, in Inghilterra, la peste ha sterminato dalle 75.000 alle 100.000 persone: più di un quinto dell’intera popolazione. Newton si rifugia in campagna, riesce a scampare all’epidemia e a concentrarsi sulle proprie ricerche. L’episodio leggendario della mela caduta dall’albero e gli esperimenti in camera oscura, risalgono proprio a questo periodo di isolamento e ne parleremo la prossima settimana.
Auguro anche a voi “una proficua quarantena di studio” perché il desiderio di apprendere stimola il sistema immunitario e corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito e, di conseguenza, bisogna prenderla con Filosofia cioè rispettando puntigliosamente tutte le regole necessarie. Un ringraziamento a tutte e a tutti coloro che hanno risposto al tradizionale Questionario di fine anno e una raccomandazione a chi non ha ancora eseguito questo compito perché collabori alla formazione di un campione utile per dare una forma al territorio che abbiamo attraversato.
Ci risentiamo la prossima settimana per continuare a studiare insieme perché: lo studio è cura…